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La Chiesa, i sacerdoti e la politica

Ultimo Aggiornamento: 16/02/2012 16:42
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«I sacerdoti, quando affrontano troppo spregiudicatamente i temi della politica quotidiana, finiscono spesso per diventare i "cappellani" di un partito, di un movimento, di una corrente politica o sociale. Con il risultato che vengono corteggiati da coloro che sperano di servirsi delle loro parole e avversati da coloro che appartengono al campo opposto. Così è già accaduto nel caso dei sacerdoti che scelsero di stare dalla parte della Repubblica Sociale. Così è accaduto nel caso di padre Lombardi, "microfono di Dio", durante la campagna per le elezioni del 18 aprile 1948, e in quello di don Gianni Baget Bozzo, consigliere di Bettino Craxi e più tardi di Silvio Berlusconi. Credo che questo interventismo ecclesiastico non giovi né alla Chiesa, né ai suoi rapporti con lo Stato, né al profilo spirituale degli interessati». Sergio Romano conclude così, sul Corriere della Sera del 14 marzo 2008, la sua risposta a un lettore che, invitandoci a tornare a «fare il pastore del gregge», lo interrogava circa alcune nostre dichiarazioni a Famiglia Cristiana, poi sviluppate sulla nostra Rivista (cfr «Il "voto cattolico"», in Aggiornamenti Sociali, 4 [2008] 245-250).
Passato il periodo caldo delle elezioni, accogliamo volentieri l'invito a riflettere, rivoltoci da Sergio Romano. Può qualsiasi considerazione dei Pastori riguardante la politica essere presa come «interventismo ecclesiastico»? Certo, sconfinamenti sono sempre possibili e gli uomini di Chiesa dovranno guardarsi dal compierli; non per questo, però, possono rinunciare a offrire criteri etici e culturali che aiutino le coscienze a prendere posizione anche in ambito sociale e politico. Cerchiamo, dunque, alla luce del Magistero ecclesiale più recente, di spiegare: 1) anzitutto i «termini» del problema e i «criteri» da tenere presenti per comprendere l'atteggiamento della Chiesa nei confronti della politica; 2) e poi come valutare, in particolare, il rapporto dei sacerdoti con la politica.

1. Il rapporto tra Chiesa e politica

a) I termini del problema - Quando si parla di «Chiesa» bisogna distinguere il duplice significato nel quale il termine viene usato. Nel linguaggio corrente, ci si riferisce anzitutto alla «Chiesa istituzione», costituita dal Papa, dai vescovi e dai sacerdoti, indicata anche con il termine di «Gerarchia» o di «Pastori». C'è però una seconda accezione, con la quale più esattamente si indica l'intera comunità dei battezzati (Pastori e fedeli laici insieme), unita nell'unico «Popolo di Dio». Pertanto, una cosa è il rapporto dell'istituzione ecclesiastica con la politica e un'altra, ben diversa, l'impegno politico dei fedeli laici, i quali, non meno dei Pastori, sono parte viva ed essenziale della Chiesa «Popolo di Dio».
Analogamente il termine «politica» può essere preso in un senso più ampio, come promozione socioculturale alla luce di una determinata visione dell'uomo e della società, oppure, in una accezione più ristretta, come «prassi» riferita all'attività dei partiti, del Governo, della Pubblica Amministrazione, ecc. In questo secondo caso ci si riferisce al programma delle cose da fare, alle opzioni concrete, che si pongono in termini più strettamente operativi, sulla base del mandato ricevuto o della carica ricoperta, che in una maniera o in un'altra si ispirano a una «cultura» o «filosofia» politica. I due modi di «fare politica» sono chiaramente articolati e intrecciati, ma, come vedremo, è importante non confonderli.

b) I criteri da tenere presenti - Per quanto concerne il rapporto tra Chiesa istituzione e politica, il Concilio Vaticano II stabilisce un criterio fondamentale: «La missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di ordine politico, economico e sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è di ordine religioso» (Gaudium et spes, n. 42). Tuttavia - spiega - missione «religiosa» non significa affatto disinteresse per la realtà sociale, e in particolare per l'ambito politico; indica piuttosto la prospettiva specifica che la Chiesa ha nei confronti della politica, rimanendo sul piano di un'etica ispirata dalla fede e, nello stesso tempo, razionalmente argomentabile non solo per i credenti. In altre parole, poiché la fede illumina il discorso sull'uomo, la Chiesa istituzione, evangelizzando, compie un servizio che tocca la vita politica intesa come promozione di un modo di presenza nella società (fatto di atteggiamenti interiori, di elaborazioni concettuali e di comportamenti), che sta a monte di ogni ricerca di soluzioni operative. Non perché il modo della presenza possa sostituire le competenze necessarie, ma perché esso costruisce i rapporti reciproci tra i soggetti della convivenza sociale, riguarda la loro umanità, qualifica e orienta da una parte la strutturazione delle relazioni e dall'altra lo stile con cui si opera all'interno delle istituzioni. La Chiesa istituzione, quindi, esercita un influsso mediato e indiretto sull'attività politica, in quanto il Vangelo ispira i comportamenti personali e sociali, privati e pubblici, di chi liberamente lo accoglie: «Proprio da questa missione religiosa - esplicita il Concilio - scaturiscono dei compiti, una luce e delle forze che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina» (ivi).
Un secondo criterio è strettamente collegato al primo: la Chiesa in quanto istituzione si autoesclude dall'intervenire direttamente nella prassi politica in senso stretto, partitico. Non perché questa sia qualcosa di sconveniente o di «sporco», ma perché, nella sua universalità, la missione religiosa non può divenire «di parte» come è proprio di ogni scelta politica. Precisa Benedetto XVI: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare» (Deus caritas est, n. 28).
Un terzo criterio, infine, riguarda i rapporti specifici tra la Chiesa e lo Stato: entrambe le istituzioni, nella chiara distinzione degli ambiti e nel rigoroso rispetto della reciproca autonomia, sono chiamate a collaborare in vista del bene comune. La Chiesa non può servirsi della politica a scopo religioso, né lo Stato può servirsi della religione a scopo politico; ciononostante, vi sono campi nei quali, in certa misura, le due realtà si compenetrano: per esempio, in quelli riguardanti i diversi aspetti della vita umana, la famiglia, il diritto dei genitori di scegliere liberamente la scuola e l'educazione per i figli. Perciò, la Chiesa - come del resto le altre confessioni religiose - e lo Stato, nel pieno rispetto della reciproca autonomia, sono chiamati a incontrarsi e a interagire in leale collaborazione: distinti, ma non distanti, come richiede una concezione più matura di laicità. È lo spirito dell'Accordo di revisione del Concordato lateranense (1984): «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti e alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese» (art. 1).
Se invece si prende la Chiesa nel suo significato di «Popolo di Dio», allora il criterio fondamentale da tenere presente è la distinzione, all'interno dell'unica missione evangelizzatrice, tra il ruolo dei Pastori e quello dei fedeli laici. Questi, a differenza della Gerarchia, sono chiamati a fare politica in tutte le sue accezioni, con l'«esclusiva» nei casi della «prassi» partitica e amministrativa. Detto in altre parole: nei confronti dell'attività politica militante la Gerarchia si autoesclude da ogni intervento diretto, tuttavia «mediante» l'annuncio e l'educazione alla fede contribuisce a «purificare la ragione» e a risvegliare le forze morali di quanti vi sono impegnati; invece il compito dei fedeli laici in politica è «immediato», essendo loro missione animare le realtà temporali. «Non spetta ai pastori della Chiesa - dice il Catechismo della Chiesa Cattolica - intervenire direttamente nell'azione politica e nell'organizzazione della vita sociale. Questo compito fa parte della vocazione dei fedeli laici, i quali operano di propria iniziativa insieme con i loro concittadini» (n. 2442). «Come cittadini dello Stato - sottolinea Benedetto XVI -, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica. [...] Missione dei fedeli laici è pertanto di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità» (Deus caritas est, n. 29).

2. I sacerdoti e la politica
I criteri esposti, riguardanti la Chiesa istituzione, si riferiscono, ovviamente, anche al rapporto dei sacerdoti con la politica. Il Sinodo mondiale dei Vescovi del 1971, dopo aver ribadito nel suo documento su Il sacerdozio ministeriale (Parte prima, n. 7, e Parte seconda, n. 2) quanto già aveva detto il Concilio - cioè, che i sacerdoti, essendo «Pastori» e testimoni dell'Assoluto, si astengono da ogni coinvolgimento diretto nella prassi politica -, spiega, nel secondo documento da esso approvato su La giustizia nel mondo (Introduzione, n. 7), in che senso il loro ministero religioso può contribuire alla soluzione dei problemi umani e sociali. La ragione è - dice il documento - che la promozione umana è parte integrante dell'evangelizzazione: «L'agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come una dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo». Senza sconfinare dal proprio ambito religioso, i presbiteri evangelizzando contribuiscono a dare un'anima etica alla politica.
Detto questo, si danno però situazioni particolari che possono esigere un rapporto diverso tra Pastori e politica. Giovanni Paolo II, rifacendosi al Sinodo dei Vescovi del 1971, ha dedicato a questo delicato problema un importante discorso che non ha riscosso l'attenzione che avrebbe meritata (cfr «Il presbitero e la società civile», in L'Osservatore Romano, 29 luglio 1993). È interessante ricordarlo per avere una visione più completa delle diverse sfaccettature del problema, anche se alcune indicazioni si addicono più ad altri Paesi che all'Italia. Il Papa, dopo aver riaffermato «la necessità per il presbitero di astenersi da ogni impegno di militante nella politica», stabilisce una chiara differenza tra la sfera privata e il comportamento pubblico. Per quanto riguarda la sfera privata - dice -, è ovvio che ogni sacerdote «conserva certamente il diritto di avere un'opinione politica personale e di esercitare secondo coscienza il suo diritto di voto». Per quanto riguarda, invece, l'atteggiamento pubblico, «il diritto del presbitero a manifestare le proprie scelte personali è limitato dalle esigenze del suo ministero sacerdotale»; anzi, egli «può talvolta essere obbligato ad astenersi dall'esercizio del proprio diritto per poter essere segno valido di unità e quindi annunziare il Vangelo nella sua pienezza. Ancor più dovrà evitare di presentare la propria scelta come la sola legittima e [...] di crearsi dei nemici con prese di posizione in campo politico che gli alienino la fiducia e provochino l'allontanamento dei fedeli affidati alla sua missione pastorale». Appartenendo alla Chiesa istituzione, che nella sua universalità non può essere «di parte», un presbitero «di parte» sarebbe una contraddizione in termini.
Per la stessa ragione, va respinta qualsiasi forma di «collateralismo» tra il sacerdote (e, più in generale, la Chiesa istituzione) e un partito, anche se questo fosse cristianamente ispirato. Infatti, da un lato, «a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l'autorità della Chiesa» (Gaudium et spes, n. 43) e, dall'altro, «il cristiano non può trovare un partito pienamente rispondente alle esigenze etiche che nascono dalla fede e dall'appartenenza alla Chiesa» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 573). Di conseguenza, il rapporto dei Pastori e dei fedeli laici con i partiti sarà sempre critico, mai ideologico.
A questo punto, Giovanni Paolo II ammette la possibilità, in via straordinaria, di un impegno diretto del sacerdote anche nella prassi politica. Non si esclude - dice - che, in gravi situazioni di emergenza, qualora lo richiedesse il bene della comunità, il presbitero possa essere tenuto a un'azione di «supplenza politica». «Si possono dare - spiega il Papa - casi eccezionali di persone, gruppi e situazioni in cui può apparire opportuno o addirittura necessario svolgere una funzione di aiuto e di supplenza in rapporto alle istituzioni carenti e disorientate, per sostenere la causa della giustizia e della pace. Le stesse istituzioni ecclesiastiche, anche di vertice, hanno svolto nella storia questa funzione, con tutti i vantaggi, ma anche con tutti gli oneri che ne derivano».
In tal caso, però, il sacerdote non può decidere di sua iniziativa se e come impegnarsi, ma dovrà ottenere la missio per questa azione di «supplenza»; in concreto - come stabilisce il Sinodo del 1971 - egli dovrà agire «col consenso del vescovo, dopo aver consultato il Consiglio presbiterale e - se necessario - la Conferenza episcopale». Deve trattarsi, cioè, di casi veramente rari, di emergenze gravi e limitate nel tempo, cosicché, appena ristabilita la normalità, il presbitero torni a dedicarsi interamente al «compito che è propriamente suo: annunciare il Vangelo, limitandosi a offrire la propria collaborazione in tutto ciò che porta al bene comune, senza ambire né accettare di assumere funzioni di ordine politico».
Ora, la difficoltà sta proprio qui. Infatti, nonostante le indicazioni del Sinodo del 1971, l'esperienza mostra che non è facile giudicare nelle circostanze concrete chi e in base a quali criteri possa con chiarezza valutare se si è in presenza o meno di una situazione di emergenza e quando decretarne la fine. Anzi, proprio a causa di questa difficoltà, si sono verificati - e tuttora si verificano - casi di indebita supplenza politica, che poi finiscono con il portare acqua al mulino di chi accusa la Chiesa di «interventismo». Non si può negare, infatti, la tendenza di autorevoli esponenti della Gerarchia a trattare direttamente con esponenti politici e con istituzioni statali per fare valere le proprie ragioni. Ciò li induce talvolta a prendere posizione anche su questioni tecniche, che di per sé sono opinabili, appartengono all'ambito della «prassi politica» e sono motivo di divisione degli animi e di conflitto tra opposte fazioni. Simili casi di «supplenza» il più delle volte non sono giustificati da situazioni di grave emergenza; risultano, perciò, dannosi e controproducenti e finiscono con alimentare incomprensioni e conflitti non solo tra «cattolici» e «laici», ma anche all'interno della stessa comunità ecclesiale. Il rischio maggiore è che queste forme indebite di supplenza politica facciano apparire «confessionali» questioni che invece sono di natura squisitamente laica e civile. Come evitare questo grave equivoco?
I Pastori, certo, non possono tacere, ma devono parlare, insegnare ed esprimere giudizi anche su questioni sociali e politiche, offrendo il loro contributo per illuminare le intelligenze e formare le coscienze. Non si tratta, in questo caso, di «supplenza politica», ma di adempimento del proprio dovere pastorale. Accusarli, in simili casi, di «indebita ingerenza» è un deplorevole equivoco; esso nasce, per lo più, da mancanza di chiarezza di idee, ma spesso può essere favorito anche dall'assenza di un'azione politica competente e responsabile da parte dei fedeli laici. Se di fronte a scelte difficili i laici non intervengono e i Pastori sono gli unici a pronunciarsi, la loro presa di posizione, per quanto legittima e doverosa, rischia di apparire una forma di «interventismo». Tuttavia, dobbiamo dire che altrettanto grave e ambiguo sarebbe se i Pastori non respingessero con fermezza i tentativi insidiosi di quei fedeli laici che cercano (e facilmente millantano) l'appoggio della Chiesa a proprio vantaggio.
Una volta denunciati ed evitati questi pericoli, è doveroso però riconoscere che la missione religiosa spinge i Pastori a intraprendere tutta una serie di iniziative legittime, anche coraggiose e nuove, soprattutto a livello formativo ed educativo. Dal momento che la promozione umana è parte integrante dell'evangelizzazione, perché i sacerdoti dovrebbero rinunciare a incoraggiare la «buona politica», a formare una classe dirigente onesta e professionalmente capace di mediare in scelte operative condivisibili i criteri che la fede ispira? Perché dovrebbero tacere di fronte a comportamenti politici moralmente inaccettabili? Perché, essendo tenuti a orientare le coscienze, dovrebbero rinunciare a giudicare della corrispondenza o meno di una legge con i valori cristiani e con l'insegnamento del Magistero? Che altro fa la Dottrina sociale della Chiesa? La fede non può non avere un impatto sulla società e sulla sfera politica.
Concludendo. Certo, gli uomini di Chiesa possono sbagliare e scegliere forme di intervento non convenienti o cedere alla tentazione di indebiti «collateralismi» politici; e ciò va assolutamente evitato. Tuttavia, la natura religiosa della missione della Chiesa non comporta affatto che i sacerdoti «si chiudano in sacrestia», come vorrebbe una residua vecchia cultura liberale, dura a morire, sebbene superata dalla concezione moderna di laicità. È compito dei sacerdoti, invece, «uscire dal tempio» e portare il Vangelo là dove l'uomo vive, si forma, lavora, soffre e s'interroga, condividendone «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» (Gaudium et spes, n. 1). Questo non è «interventismo ecclesiastico». Non nuoce alla Chiesa, né al «profilo spirituale» dei sacerdoti.

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