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"Viaggiando nella Bibbia" Riassunto Generale

Ultimo Aggiornamento: 06/07/2014 10:41
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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. V (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

I Profeti: Dov’è quel dio in cui crediamo?




Popolo eletto:
l'origine del popolo eletto risale a quando Dio lo fece uscire dall'Egitto e strinse con lui un'alleanza.

Era come un titolo nobiliare, fonte di ogni dinamismo e di tutta la forza necessaria per andare avanti.

Ma poco a poco coloro che ne facevano parte se ne valsero per considerarsi privilegiati e confidarono più nel privilegio che nella fedeltà derivante dalla scelta di Dio.

Allora Amos dice:
«così parla il Signore: per me voi siete come il popolo della terra dì Kusc. Vi ho tratto dall'Egitto come feci con i Filistei da Caftor e con gli Aramei/Siri da Kir» (Am. 9, 7).

Nel nostro linguaggio sarebbe come dire:
«mio figlio Gesù Cristo è morto sia per voi cattolici che per i comunisti e per i castristi.
Per me voi non siete migliori di loro».

Gli Aramei/Siri e i Filistei erano i maggiori nemici del popolo di Dio. Dio ha cura di loro come di quelli che credono in lui.

Il solo fatto di appartenere al popolo eletto non conferisce nessuna speranza, nessuna sicurezza.

Figli di Abramo:
Abramo fu il grande amico di Dio e la sua intercessione poteva salvare intere città (cf. Gen. 18, 16-33).

Poter dire:
«siamo della stirpe di Abramo!» (Gv. 8,33) era titolo di gloria.
Ma molti si fermarono al titolo senza fare le opere che fece Abramo.

Giovanni Battista, l'ultimo profeta dell'Antico Testamento, fece sapere a tutti che davanti a Dio i figli di Abramo valgono quanto le pietre:
«non venite a dirmi:
abbiamo Abramo per padre!
Perché Dio può far nascere dei figli di Abramo anche da queste pietre qui» (Lc. 3, 8).
Un altro appoggio cadeva.

La legge di Dio:
Dio ha dato la legge e chi l'osserva sarà salvo (cf. Ger. 8, 8).
Perciò fu necessario spiegare bene la legge per sapere con esattezza che cosa ordinava e garantirsi così la salvezza.

La legge diventò il pretesto per obbligare Iddio.
Paolo dice che sia il pagano (greco), senza la legge, come il giudeo, con la legge, tutti sono schiavi del peccato (Rom. 3, 9).
«Nessuno mai sarà salvo per avere osservato la legge» (Rom. 3, 20).

I profeti abbattono tutti gli appoggi, smante1lano tutti i nascondigli e proiettano la luce della verità in tutti gli angoli oscuri.
Tagliano tutti i fili del telefono che mettono in comunicazione con Dio, fanno saltare tutti i ponti che legano a Dio.

Fanno piazza pulita, aprono una voragine e lasciano tutti nella insicurezza quasi assoluta.
Tutto è abbattuto e criticato come falso, non per se stesso ma in quanto non è più appe1lo di Dio che spinge a camminare verso il futuro della promessa;
anzi è diventato mezzo di comodismo e perfino di oppressione proprio in nome di Dio.

Anche oggi, chissà, il profeta direbbe le stesse cose e farebbe la stessa critica a molte forme che consideriamo ancora sante ed intoccabili.
E come allora neppure oggi il profeta sarebbe riconosciuto come tale ma sarebbe rigettato proprio in nome di Dio.

Lo stesso Gesù fu rigettato in nome di Dio e della tradizione: «Quest'uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato» (Gv. 9, 16).
Né messa alla domenica né rosario né rosa di oro né cattedrale maestosa né Pasqua né acqua benedetta né candela né ex voto niente può «per se stesso» costringere Dio.

Chi si aggrappa a queste cose si aggrappa alla proiezione di se stesso, che certamente non è Dio ma un mito inesistente.
Non è certo il Dio vivo e vero quello che i profeti conoscono da vicino e adorano. Non esiste su questa terra una leva capace di muovere il cielo.
Il profeta si limita a criticare perché l'uomo capisca che insistere su tutte queste formalità, come se avessero in se stesse la forza di costringere Iddio, sarebbe come dialogare con l'eco della propria voce.

Si capisce allora perché il profeta dovette affrontare forti resistenze; egli stava demolendo gli appoggi più radicali della sicurezza umana; basta leggere, per esempio, le considerazioni dell'epistola agli Ebrei sulla sofferenza dei profeti perseguitati (Ebr. 1l, 32-38).

Tutta la critica fatta dai profeti, apparentemente così negativa, essi la facevano spinti dall'idea che avevano di Dio, profondamente in contrasto con il comportamento e le strutture della vita che il popolo conduceva.

Non potevano permettere che l'uomo si alienasse dalla realtà della vita né che la religione fuggisse verso le forme mondane del rito, della cerimonia, del culto.
Significava svuotare il rito, la cerimonia, il culto.

Se vivessero oggi sarebbero essi stessi i primi a dire che una religione del genere diventa davvero «l'oppio del popolo».
Per convincersene basta leggere e meditare i loro scritti.
Ci resta da esaminare quale fu il lato positivo della critica così radicale fatta dai profeti.



5. Il Dio vivo e vero dei profeti

In conclusione, secondo il modo di vedere dei profeti, tutto era sbagliato?
Benché distruggessero tutti i ponti, uno ne costruivano, capace di stabilire un contatto reale fra Dio e gli uomini, che dava agli uomini la garanzia della presenza di Dio: la fede.
Che significa tutto questo?

I profeti vivono profondamente la presenza di Dio.
Sono uomini di Dio. Dio va al di là di tutte le cose.
Dio non può essere preso al laccio, incanalato;
soggiogato come bestia da traino al carico dei desideri degli uomini.

Dio non si addomestica. L'uomo non si può permettere di invertire le parti, e invece di essere lui a servire Dio, costringere Dio a servirlo, strumentalizzando il rito e il culto che in questo caso si ridurrebbero a una stregoneria battezzata.

Per i profeti Dio è una presenza totalmente gratuita che offre la sua amicizia a chi voglia accettarla.
Ma egli vuole che la sua amicizia sia rispettata.
L'amico che offre amicizia vuole che l'altro abbia fiducia in lui e non che cerchi di garantirsi i beni dell'amicizia con astuzie e raggiri.

Sarebbe come mancare di fiducia e sarebbe motivo sufficiente per negargli l'amicizia per il futuro.
Con il tuo amico non puoi mai riferirti ai regali che gli hai fatto, ai benefici che gli hai elargito per ricevere in cambio l'appoggio dell'amicizia;

basta il fatto di essere amici:
«Senti, caro, tu dici di essere mio amico.
Sta bene.
Se così è, mi arrischio a questa o a quella impresa che interessa pure a te e sono certo che tu mi aiuterai».

Ci si appella all'amicizia in sé e per sé e all'impegno che l'altro ha preso con se stesso in forza dell'amicizia.

Lo stesso succede con Dio.
Si è impegnato con gli uomini offrendo loro la sua amicizia.

Vuole che sia rispettata.
Esige fede e fiducia come condizioni elementari e iniziali per qualunque altro accordo. La sua presenza in mezzo agli uomini è garantita e sicura perché lo ha detto lui.

Ma lui è così forte che può benissimo sottrarsi a qualsiasi incontro indebito (quando cioè mancano fede e fiducia):
vitello d'oro, luogo alto, re, tempio, culto, Gerusalemme, terra, legge, popolo eletto, figli di Abramo, giorno di Jahvé, rosario, candela, ex-voto, processione, precetto domenicale, Pasqua, primi venerdì del mese, preghiera a Santa Rita, cattedrale, tutto è relativo.

Questi elementi non hanno per se stessi nessun potere di garanzia e il giorno in cui diventano mezzi per «comprare il cielo» e per garantirmi la salvezza a mio uso e consumo meritano la critica e la condanna dei profeti anche al giorno d'oggi.

Non che siano cattivi in sé. Possono anche essere cose utili buone e perfino necessarie, quando usate come espressioni di quella fede e di quella fiducia che sono condizione fondamentale per qualsiasi incontro con Dio.

Sono appena frecce indicative che orientano a Dio.
Ma Dio sta sempre al di là di tutto quello che possiamo pensare di lui ed è sempre più vicino a noi di quanto direbbero tutte le possibili espressioni di amicizia, proprio perché è amico.

Queste forme sono valide come i fili del telefono, ma non sono la persona con cui parlo né possono costringerla a parlarmi.
Essa può benissimo attaccare il ricevitore e lasciarmi brontolare con l'eco dei miei desideri.
Se però le mie parole sono espressioni di fede, certamente arrivano a Dio e Dio non fa il sordo.

Proprio perché è fedele, Dio rimane in comunicazione con l'uomo dandogli appoggio e aiuto.

Solo apparentemente i profeti lanciano gli uomini nella più completa incertezza, perché in realtà sono proprio loro a gettare le basi della più incrollabile certezza possibile ad un uomo:
la certezza assoluta che Dio è presente.

Non è lontano da noi; è con noi.
Il suo nome è Emanuele, che vuol dire Dio con noi, forte fedele amico.
Ma egli ci supera, egli è sempre l'’Altro'. Non possiamo addomesticarlo. Il suo rapporto con l'uomo è così libero e sovrano che può sottrarsi al dominio dell'uomo.

L'uomo invece è debole e non riesce a sottrarsi al dominio che un altro uomo gli impone. L'atteggiamento di Dio, allo stesso tempo così vicino e così lontano, è una sfida e una accusa.

Ricorda all'uomo i suoi limiti:
Uno almeno riesce sempre a fuggire alle sue brame di dominio.
Il comportamento di Dio critica il rapporto di dominio che un uomo esercita su un altro uomo e risveglia in coloro che sono dominati la volontà di fare rispettare la loro dignità.

Dio assume rispetto agli uomini lo stesso atteggiamento che gli uomini devono assumere rispetto agli altri:
l'unico mezzo capace di rendere una persona coerente con se stessa è la fede, la fiducia, l'amore disinteressato.

Quando l'uomo sa mettersi al suo posto davanti a Dio, Dio si sente in dovere di aiutarlo.
Dice il salmo:
«Lo proteggerò perché ha riconosciuto il mio Nome» (Sal.
90, 14).

In altre parole:
«Sono costretto ad aiutarlo perché lui fa sul serio ».
Ma per far questo l'uomo deve buttarsi nel buio, dargli fiducia, assumere un atteggiamento di fede che crede nella parola dell'altro.
Ossia lasciare che l'altro sia se stesso;
lasciare che nella sua vita Dio sia Dio.

Questo ci insegnano i profeti a rispetto di Dio.
La sintesi è contenuta nel nome che Dio stesso si scelse:
«Jahweh» che vuol dire: «io sarò presente».

È pure l'abbreviazione dell'altro:
«io sono colui che sono» (Es. 3, 14) e vuol dire: «certissimamente io sarò sempre presente e ti aiuterò;
ma 'come' e 'quando' ti aiuterò lo decido io.
Conta su di me».

Il nome è un appello alla fede.
Dio dette prova della sua presenza liberatrice:
la prima grande prova fu l'Esodo;
l'ultima prova ancora in corso è la venuta di Gesù Cristo, Emanuele, Dio con noi (Mt. 1, 23).

Questo Dio riconosciuto e vissuto così nella vita concreta è il nucleo da cui parte tutta l'azione profetica.
Ed è allo stesso tempo una nuova maniera di vedere l'uomo.

Ecco perché i profeti, anche in mezzo alle più grandi disgrazie molte volte da loro stessi preannunziate, non perdono mai la speranza.
Per quanto critico possa sembrare il loro intervento nella vita del popolo, il loro messaggio in fondo è sempre di speranza.

La critica entra quando la forma concreta del vivere minaccia di rendere la vita così meschina da soffocare la speranza nel cuore del popolo e soprattutto nel cuore dei poveri.



6. Al giorno d'oggi ci sono ancora i profeti?

I profeti generalmente non 'si servono di un'etichetta né scrivono il loro nome di profeti sul biglietto da visita.


Oggi il movimento profetico nella Chiesa e nel mondo è molto forte.
La critica delle strutture e degli atteggiamenti anacronistici, che ormai non dicono più nulla, è in corso e chi le aprì le porte fu proprio il Concilio Vaticano II.

Come al tempo della Bibbia, il movimento profetico oltre ad essere un movimento di fede all'interno del popolo eletto, era allo stesso tempo una corrente culturale che assunse dentro la Chiesa una dimensione di fede tutta particolare.

Non sono soltanto i cristiani che criticano i comportamenti e le strutture oggigiorno incapaci di esprimere la vita che scaturisce e che incomincia.

I cristiani stanno dentro a tutto questo e ne fanno parte orientandosi con la fede in Dio.

Nella Chiesa di oggi troviamo gente che cerca di neutralizzare l'alienazione in cui si adagiano tanti cristiani, smarriti tra pratiche e osservanze che non sono più espressione di amicizia con Dio ma soltanto espressione di una ricerca ansiosa di sicurezza umana.

Se si mantiene rigidamente la situazione di compromesso sia nella Chiesa che nella società, la colpa non è soltanto del popolo ma anche di quelli che esercitano l'autorità.
Perciò la critica dei profeti ieri come oggi raggiunge chi ha nelle mani il potere.

Anche Gesù fece lo stesso:
criticò i farisei e i capi religiosi.
Del popolo ebbe compassione come di pecore senza pastore.

Per questo la missione profetica è una missione pericolosa, affatto piacevole per chi ne prende coscienza, come il profeta Amos ed Osea. Prima di parlare ci penserà due volte.

Come Mosè (Es. 11-4, 13) e Geremia (Ger. 1, 6) cercherà ragioni e pretesti per sottrarsi a un compito così arduo.

Ma ieri, come oggi, nonostante le proibizioni, i profeti continuano a parlare:
«Dio lo vuole: chi potrà non parlare in nome di Lui? » (Am. 3, 8).



SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VI (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]





dal re Ezechia al re Giosia: storia di una riforma


«Ho trovato il libro della legge nel tempio di Jahvé» (II Re 22, 8).
Il grido cadde come una pietra in un lago tranquillo:
in pochi momenti tutta la superficie è in movimento.

Come il colpo di cannone nel silenzio della valle:
in pochi secondi l'eco riempie la valle come il tuono di mille cannoni.

Nel corso della storia si verificano situazioni del genere, in cui tutto converge verso uno stesso punto ma nessuno può sapere quale sia, perché sta al di là dell'orizzonte.

L'aria è pregna.
Qualcosa sta per succedere.

Nessuno sa che cosa, ma tutti ne hanno il presentimento;
qualcosa succederà inevitabilmente.

E quando succede è come l'energia elettrica che finalmente arriva e nel buio della notte illumina d'improvviso tutti i lampioni della città perché l'impianto era già pronto e si aspettava solo l'arrivo della corrente.
Tutto cambia.

Successe così quando il sacerdote Kilkia scoperse il libro della legge nel tempio di Jahvé e lanciò quel grido fatidico.
Era l'anno XVIII del regno del re Giosia (II Re 22, 3) l'anno 622 a.C.

Non si conoscono con esattezza le circostanze storiche della scoperta della legge e neppure si sa perché andò a finire proprio nel tempio. Sappiamo però la ripercussione che ebbe il fatto.
È questo che ci interessa.

I movimenti storici sono come i grandi alberi dalle radici umili e nascoste nei secoli anteriori.
Per questo sono irreversibili. Nessuno riesce a sbarrarne il passo.

Sono più forti degli uomini, i quali però possono influirvi sia in bene che in male. Possono far sì che il voltaggio della corrente che arriva dalla centrale elettrica superi quello dell'impianto, che scoppia e va in aria.

Allora accadde proprio così. Tutto andò in malora.



1. Le radici da cui nacque l'albero

Esattamente cento anni prima, nel 721 a.C., accadde la grande catastrofe del regno di Israele situato a Nord della Palestina.
Salmaneser, re della Siria, la grande potenza mondiale dell'epoca, invase il territorio (II Re 17, 3-5), distrusse la capitale Samaria (II Re 17, 6), rase al suolo l'interno del paese, deportò il popolo (II Re 17,6.20.23; 18, 11) e trapiantò al suo posto altre popolazioni (II Re 17, 24). Mise fine definitivamente a qualunque focolare di rivolta e di sovversione.

Si chiuse la storia del regno del Nord.
Ma la guerra continuò.
Gli eserciti dell’Assiria continuarono a marciare verso il Sud circondando le montagne del regno di Giuda e andarono a combattere contro gli Egiziani nel territorio di Gaza.

La distruzione di Samaria fu un avviso molto serio per il piccolo regno di Giuda, che nella guerra tra le due grandi potenze (Assiria ed Egitto) si trovò completamente isolato, imbottigliato in alta montagna.

Il popolo del Nord si disintegrò e cessò di esistere, perché aveva abbandonato il centro che unificava la vita nazionale.

Aveva smesso di essere fedele all' Alleanza e aveva lasciato da parte la costituzione del popolo che era la legge di Dio (II Re 17, 7-18; 18, 12).

Però in Giuda non era differente l'infedeltà e il cancro della decomposizione era identico (II Re 17, 19). Il territorio non fu invaso, ma più per un caso che per essersi meritato di scampare.
Si salvò perché poco prima il re Acaz si era fatto amico dei potenti.

Non volle entrare nell'alleanza di Israele contro l'Assiria (II Re 16, 5-6) e andò lui stesso a cercare il re Salmaneser pagando un pesante tributo affinché questi venisse ad aiutarlo contro la minaccia di Israele (II Re 16, 7-18).

E adesso che fare?
Quale posizione prendere?
Farsi amico della Siria?

No di certo! Sarebbe come sconfessare tutto un passato di fede e di lotta.
Anzi la stessa Assiria, anche quando aiutava gli altri, aveva di mira solo il suo interesse, il suo potere e la sua sicurezza.

Al di fuori la minaccia dell' Assiria cresceva, e al di dentro, senza incontrare alcuna resistenza, si formava un vuoto dilagante.
Acaz era un condottiero impotente.
Non sapeva come affrontare la situazione divenuta drammatica.

Il profeta Isaia aveva già tentato di rianimarlo con la fede nel futuro che Dio riservava al suo popolo (Is. 7, 1-25), ma non aveva trovato eco in quest'uomo mediocre che in un momento di disperazione era arrivato al punto di sacrificare il suo stesso figlio per propiziarsi altre divinità (II Re 16, 3).

Non c'era più spirito combattivo; la speranza veniva meno insieme alla capacità di resistere.
Avevano perduto il senso dell'esistenza.

Il vuoto interiore cresceva a dismisura. Aveva ragione Isaia:
«Se non avete fede non potete resistere» (Is. 7, 9).
Come risvegliare la fede?

Acaz morì. Il governo fu assunto dal giovane Ezechia, abile politico che aveva 25 anni di età.
Regnò quasi 30 anni (II Re 18,2).

Era un uomo di fede che «collocava in Dio la sua speranza» (II Re 18, 5). Aveva fede nel futuro di Dio e seppe comunicarla agli altri.
Suscitò un desiderio generale di riforme di cui lui stesso si fece portavoce e strumento.

Un soffio di vita nuova pervase l'intera nazione e tutti si sentirono rianimare.
L'apatia era vinta, il vuoto colmato.
Cominciò a nascere una nuova mentalità:
idee nuove su Dio, sul culto, sul passato, sul destino della nazione.

Erano solo idee, ma idee forti e ardenti che misero subito le ali e cominciarono a circolare nella testa del popolo.

Proprio qui, in questo movimento di rinnovazione provocato da Ezechia, in queste idee nuove, nasce la radice di quella legge che fu scoperta nel tempio quasi cento anni dopo dal sacerdote Kilkia.



2. I primi passi della riforma

La riforma prese corpo e entrò in tutti i settori della vita nazionale. La fede ne uscì purificata e i fuochi di magia e superstizione furono estinti (II Re 18, 3-4; II Cron. 29, 3-11);
le ingiustizie furono eliminate e la legge di Dio adottata come costituzione del popolo nella solenne celebrazione della Pasqua (II Cron. 30, 1-27);

si ricercarono e si raccolsero le tradizioni antiche (Prov. 25-1); Gerusalemme fu restaurata e le sue mura furono fortificate per qualunque eventualità (II Cron. 32, 1-5);

Ezechia si incaricò del rifornimento di acqua in caso di assedio o di assalto alla città e scavò un acquedotto nella roccia viva che tutt'oggi desta meraviglia (II Re 20, 20); combatté e sconfisse i Filistei nemici tradizionali dei Giudei (II Re 18,8);
purificò il tempio, (II Cron. 29, 12-17) riformò il culto e il sacerdozio (II Cron. 31.1-21).

Dalle ceneri rinasceva un popolo nuovo.
Ezechia scoprì il punto nevralgico attraverso cui far breccia per dare nuova speranza a un popolo avvilito e disperso.

Il perno della riforma consisteva nella rinnovazione spirituale e religiosa del popolo.

Una vera conversione del popolo al fulcro da cui partiva la rigenerazione della vita nazionale;
una conversione cioè alla sua vita con Dio" perché il ricordo del passato era ancora vivo in lui (cf. II Cron. 30, 5-9.13-20).

Tornarono a fiorire la speranza e la volontà. di lottare e di vivere in forza di questa nuova fede.

Ezechia riuscì a sfondare la porta del futuro che minacciava di chiudersi per sempre. Ci riuscì soprattutto perché la riforma liturgica, espressione autentica della vita del popolo, aprì uno sbocco alle forze vive che in esso esistevano, aiutandolo così a riscoprire la sua identità di «popolo di Dio».

Fu il grande merito di Ezechia che resterà immortale:
«Tra tutti i re di Giuda nessuno fu come lui né prima né dopo» (II Re 18, 5).

L'opera sua però non si restrinse alle frontiere della sua nazione.
Da buon politico illuminò l'orizzonte della situazione internazionale, tanto più che sarebbe stato impossibile che una nazione piccola come la sua, in una situazione come quella, si rinchiudesse in un nazionalismo ostinato e cieco.

In Egitto il Faraone Sabaka si rifaceva dalla sconfitta subita.
Aveva riunito tutte le forze della nazione ristabilendo così l'equilibrio internazionale rotto prima di lui dall'invasione degli Assiri.

Subito da tutte le parti sorse il tentativo di un fronte internazionale anti Assiria appoggiato all'Egitto, che anzi lo fomentava.
In seno al governo di Ezechia crebbe la corrente a favore dell'Egitto che tentava di avere anche il re dalla sua parte.

Il profeta Isaia, consigliere del re in materia religiosa e politica, che aveva già in precedenza sconsigliato Acaz di appoggiarsi all'Egitto, conservava ancora la stessa linea politica.

L'Egitto non dava affidamento (v. Is. 30, 1-7; 31, 1-3).
Ma Ezechia non ascoltò il] consiglio.
Entrò in campo e partecipò attivamente al gioco (II Re 18, 21).

L'Assiria non si fece aspettare.
Piombò sulla resistenza e la sconfisse.
Giuda fu invasa, le città capitolarono una ad una (II Re 18, 13).
Restò solo Gerusalemme che Ezechia aveva attentamente preparato alla difesa lavorando in silenzio per anni ed anni.

Non si sa perché, ma il fatto è che Gerusalemme non fu presa.
Non fu neppure assalita.
Ezechia ne usciva vittorioso.

Come succede sempre in battaglia, le due parti in campo danno due differenti versioni dei fatti e ciascuna li interpreta a modo suo.

La Bibbia dice che le cose andarono così:
Sennacherib, generale assiro, arrivò con quattrocento mila uomini;
il popolo ne fu atterrito, ma intervenne l'angelo del Signore e decimò l'esercito nemico; il generale fu costretto alla ritirata. (II Re 18, 13-19.37; II Cron. 32,9-23).

L'altra versione dei fatti scoperta dagli archeologi nella città di Ninive dice una cosa del tutto differente.
Comunque siano andate le vicende, la ritirata di Sennacherib fu motivo di grande euforia che contaminò lo stesso re Ezechia:
si ingolfò nel gioco politico della cospirazione internazionale contro l'Assiria (II Re 20, 12-19).

Il popolo sentì crescere la fiducia in sé e nei suoi sforzi e non stava in sé dalla gratitudine (II Cron. 32,23). Il fatto contribuì alla rinnovazione interna del paese.



3. Sorgono forze contrarie e paralizzano il movimento

Ma il vento della sorte può cambiare direzione, ed infatti le cambiò.
Il successore di Ezechia, suo figlio Manasse, fu una delusione per il popolo e una nullità per il governo.
Era un inetto e perciò non dette nessun impulso alla riforma iniziata con tanta buona volontà e speranza.

Era un politicante e non si interessò né della religione né della giustizia (II Re 21,1-16).
Si ritornò al punto di partenza.

E tutto questo durò la bellezza di 50 anni e più.

Manasse cominciò a governare a 12 anni di età e morì al governo già vecchio di 60 anni (II Re 21, 1).

Nonostante tutto però, nel popolo rimase una certa nostalgia e la certezza che quando tutti lo vogliono davvero qualcosa si può e si deve fare, come attestano i fatti che seguono.

I politicanti s'impadronirono del governo.
Non si curavano affatto né della legge di Dio né del popolo (II Re 21, 16). Accadde quello che si temeva.

Amon, successore di Manasse, fu assassinato (II Re 31, 33).
Bisognava togliere di mezzo il re e mettere al governo chi difendesse meglio gli interessi di un gruppo di militari, ufficiali dello stesso Amon (II Re 21, 23).

Ma l'assassinio fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Il popolo si ribellò, perché nonostante le disgrazie e le delusioni sofferte a causa del re, si identificava ancora con la monarchia della famiglia di David.

Se qualcuno avesse osato toccarla avrebbe offeso il popolo e poteva aspettarsi immediata vendetta.

Il popolo fece giustizia:
prese e condannò i militari che avevano cospirato contro il re impossessandosi ingiustamente del governo (II Re 21, 24).
Il regime fu salvo.

Andò al governo il legittimo discendente di David ancora bambino di otto anni, Giosia (II Re 22, 1).
A quanto sembra il sacerdote Elkia assunse la reggenza fino a che il ragazzo avesse raggiunto un'età sufficiente per prendere in mano le redini del governo.
Era l'anno 640 a.C.



4. L'ansia di riforme si raddoppia

La violenza degli avvenimenti scosse il popolo e gli dette una nuova coscienza del suo potere.
Fu come ricominciare tutto da capo. Ricuperarono il ritardo sofferto per colpa di Manasse.

La voglia di fare riforme, e riforme di base, tornò raddoppiata.
Tutto contribuiva a questo clima dentro e fuori della nazione.

Fuori: l'Assiria era governata da Assurbanipal da oltre 28 anni.
Il tiranno aveva dato pace al mondo ma la pace del cimitero.

Fece azzittire i popoli davanti alla sua violenza assassina:
un'infinità di massacri, di deportazioni, di torture, di sangue.
Perciò a metà del suo governo poté diminuire la censura e la repressione e dedicarsi tranquillamente allo studio e alla caccia.

Lasciò ai posteri una biblioteca colossale ritrovata recentemente, ed altorilievi rappresentanti scene di caccia di rara bellezza. Il suo apogeo fu anche il principio della sconfitta finale.

A poco a poco l'Assiria languiva per eccesso di potere.
L'Egitto a sua volta, pur minacciando un'altra ribellione, non costituiva ancora un vero pericolo.
Babilonia, la terza potenza mondiale di allora, non era ancora cresciuta abbastanza per significare una minaccia, ed era vista con simpatia dai popoli oppressi.

Ezechia al tempo suo aveva già scambiato idee segretamente con un emissario della Babilonia (II Re 20, 12-15).

Nacque così all'interno del paese un movimento nazionalista.
Con la violenta eliminazione dei cospiratori e degli assassini del re Amon tutti passarono in blocco dalla parte del nuovo re ancora bambino, creatura del popolo.

In questo frattempo apparvero due grandi profeti, Geremia e Sofonia, che predicavano al popolo la riforma e il cambiamento.

Il movimento rinnovatore s'impose e dilagò. Invase tutto il paese.
Era appoggiato da tutti e anche in campo internazionale sembrava realizzabile.

Cominciò l'avanzata:
il re in testa e tutti dietro a lui.
Ma cominciò senza sapere bene da che parte orientarsi.
Tutto era pronto e tuttavia mancava ancora qualche cosa.

Secondo il libro dei Re passarono altri 18 anni prima che fosse dato il passo definitivo (II Re 22, 3).

Il libro delle Cronache ricorda alcuni tentativi anteriori (II Cron. 34, 37).

L'impianto elettrico era pronto ma dalla centrale non arrivava ancora l'energia.
C'era un intoppo.
Come quando si aspetta che l'acqua raggiunga i cento gradi per bollire.

Ma se sotto la pentola c'è il fuoco, non c'è pericolo:
l'acqua bollirà.E il fuoco c'era.

L'attesa durò fino al momento in cui echeggiò il grido:
«Ho trovato il libro della Legge nel tempio di Jahvé!»• (II Re 22, 8).

Tutta la città s'illuminò perché era arrivata la luce.
Il cannone tuonò nel silenzio della valle.
Si era trovato quello che mancava.
Echeggiò il grido e cominciò l'avanzata.

D'improvviso si aprì nitidamente una strada e tutti (re, profeti, sacerdoti, funzionari e popolo) vi entrarono dentro.
Avevano davanti a sé un futuro pieno di ottimismo.
Era l'anno 622 a.C., esattamente 100 anni dopo la caduta di Samaria.



5. La «Magna Charta» della riforma trovata nel tempio: la sua storia

La legge trovata nel tempio era l'antica legge di Dio, ma riveduta e corretta in una edizione nuova adatta ai tempi nuovi.

Le idee lanciate da Ezechia e soffocate durante il lungo governo di Manasse vi incontravano una formulazione concreta e operativa.
Quelle idee non erano scomparse, ma erano state ruminate da alcuni idealisti che le conservarono, le formularono e le misero per scritto (idealisti che pensavano al futuro e non si lasciarono vincere dal marasma politico e religioso provocato dall'incapacità di Manasse).

Non si sa come né perché il loro scritto andò a finire nel tempio.
Là fu trovato da Elkia in occasione delle riforme che si stavano facendo nella costruzione (II Re 22, 3-10).

Portato al re e letto alla presenza di lui, il libro provocò una reazione inaspettata di paura e di confusione:
«Grande deve essere la collera del Signore contro di noi, perché i nostri padri non hanno obbedito alle parole di questo libro e non hanno messo in pratica tutto ciò che vi è scritto» (Il Re 22, 13).

Ebbero l'impressione che all'improvviso la nebbia si dileguasse e lo orizzonte si delineasse limpido ai loro occhi.

Il libro era lì ad indicare il cammino da tutti desiderato ma che nessuno riusciva a definire.

La legge trovata nel tempio diceva come fare.
Veniva a formulare con esattezza ciò che era confuso nelle aspirazioni di tutti.
Offriva loro una strategia dell'azione.

Tutti presero coscienza della crisi che stavano vivendo (cf. II Re 22, 14-17). All'istante il popolo fu convocato, la legge fu letta in assemblea plenaria e tutti s'impegnarono a metterla in pratica (II Re 23, 1-3).
La riforma aveva adesso la sua «Magna Charta».

Si poteva mettere mano all'opera.
Il popolo aderiva in pieno (II Re 23, 3).
Lo scopo consisteva nell'applicare integralmente le esigenze di Dio nella situazione nuova in cui si trovavano.

A dire il vero, una riforma drastica della vita nazionale era più che necessaria. Tutti se ne rendevano conto.
La religione, così come era praticata, era piena di superstizioni.

Una delle cause era l'infiltrazione e la mescolanza di elementi pagani nel culto di Jahvé e l'abbondanza di piccoli santuari sparsi per tutto il territorio, dove si praticava un culto affatto differente dal culto magico dei Cananei.

I profeti non si stancavano di denunciarlo.
Ma non serviva quasi a niente.

Bastò per esempio che morisse Ezechia perché Manasse ripristinasse tutto l'apparato pagano del culto (II Re 21, 3-7).
Segno che nella vita del popolo c'era tutta una ricerca e un vuoto nascosto, che trovavano risposta concreta solo in questi elementi magici.

C'era il pericolo di una perversione lenta e progressiva dell'idea di Dio, seguita dalla perversione del senso della vita della nazione.

Proprio così 100 anni prima era incominciata la caduta della Samaria.
Se lo ricordavano tutti e avevano paura che la cosa si ripetesse.
Il popolo del Nord si disintegrò e cessò di esistere per non sapere più chi era né perché esisteva.

Era meglio prevenire che rimediare.

Ma non c'era re né profeta capace di strappare il male con la radice e tutto.
La coscienza del popolo non era chiara.
Il problema si presentava assai complesso.

Fin dal 722, quando la Samaria fu distrutta, i teorici del governo avevano incominciato ad analizzare il problema più da vicino, arrivando a conclusioni pratiche radicali di grande importanza per la vita del popolo. Redarono un documento o manifesto in cui si diceva come applicare la legge di Dio.

Stesero anche un piano d'azione. Elkia lo trovò molto tempo dopo nel tempio.



6. La «Magna Charta» della riforma trovata nel tempio:
il suo contenuto

Esaminiamo i punti principali del manifesto o legge contenuti nel Deuteronomio.

Il documento presenta Mosè che parla al popolo poco prima di prendere possesso) della terra.
A dire il vero il popolo cui Mosè parlava non era quello che visse al suo tempo verso l'anno 1200 a.C. ma era il popolo che camminava per le strade di Gerusalemme' e nell'interno della Palestina, un popolo dedito alla superstizione al tempo di Manasse e Giosia.

Mosè espone la legge in modo molto diretto e personale sotto forma di un discorso.
Si propone di arrivare alla coscienza del popolo e fargli sentire la sua responsabilità in quel particolare momento storico della sua vita.

Attraverso la lettura del manifesto il popolo avrebbe dovuto riscoprire la sua identità di «popolo di Dio», il suo impegno urgente con questo Dio e le esigenze di vita' che ne derivavano.
Col re il manifesto raggiunse'il suo scopo.

Basta vedere la reazione appena finì di ascoltarne la lettura (II Re 22, 13).
Il Deuteronomio ragiona così:
il popolo non può avere altra divinità all'infuori di Jahvé, unico Dio e Signore del popolo (cf.Dt. 6, 4-25).

Tutto il resto che porta il nome di Dio non ha alcun valore.
Deve essere sradicato (Dt. 6, 14-15; 7, 25-26).
L'impegno del popolo con Jahvé non deriva da quello che il popolo ha fatto per Jahvé, ma da quello che Jahvé ha fatto per il popolo (Dt. 6, 20-7, 6): è un dovere di riconoscenza e di amore (Dt.
7, 7-11).

Per il fatto di essere stati scelti da Jahvé, hanno il dovere di osservare i suoi comandamenti per potere un giorno godere delle sue promesse.
È l'idea fondamentale e occupa tutta la prima parte del libro del Deuteronomio (capp. I-II).
Segue l'applicazione pratica della nuova maniera di concepire la vita nazionale.

L'unico santuario sarà espressione della fede nell'unico Dio.
Tutti gli altri luoghi di culto saranno distrutti.
Jahvé, il Dio del popolo, può essere adorato solo nel luogo da lui scelto per il culto (Dt. 12, 5).

Si capisce che questo unico luogo sarà Gerusalemme.
Solo li andranno a fare offerte ed olocausti (Dt. 12;
6-7). Ogni pratica di culto è prescritta fino nei più insignificanti particolari.

Tutto è centralizzato. Niente resta al caso o all'iniziativa personale. Bisogna farla finita con la situazione in cui «ciascuno si regola come meglio crede» (Dt. 12, 3). La grande preoccupazione consiste nel circuire la liturgia in modo da escludere una volta per tutte la pratica della magia (cf. Dt. capp. 12, 18).

Una delle più importanti. norme concrete era l'obbligo di fare tre pellegrinaggi all' anno al tempio di Gerusalemme in occasione delle tre grandi feste nazionali (Dt. 16, 16).

Sarebbe bastato a promuovere la coscienza di unità nazionale e sarebbe stata un’occasione propizia per istruire e aggiornare il popolo su Dio e sulle esigenze della Legge.

Conviene leggere il libro del Deuteronomio per farsi un'idea dell'appello vibrante rivolto alla coscienza del popolo, in quello stile diretto e suggestivo che gli è proprio, e per capire la rigidità della riforma liturgica che non lasciava niente di indefinito.




SEGUE..






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VI (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]








dal re Ezechia al re Giosia: storia di una riforma




7. Il problema della manutenzione del clero:
pietra d'inciampo alla rinnovazione


Al problema della riforma del culto si legava quello della manutenzione del clero dell'interno.
Tutti quei santuari, sia degli dèi falsi che del vero Dio, avevano i loro sacerdoti.

I poveretti trovavano nei santuari l'unico mezzo di sussistenza. Decretando l'abolizione dei santuari il clero di Gerusalemme decretava la fame e la miseria dei colleghi dell'interno. Problema insolubile circolo vizioso; Ezechia aveva tentato già una riforma del clero senza nessun risultato (II Cron. 31, 2).

Col governo di Manasse tutto era tornato al punto di partenza.
Senza prima dare una soluzione ragionevole al problema concreto del clero, qualunque altra soluzione per promuovere la riforma sarebbe stata come un innesto su un ramo secco.

Per quanto possano essere belli gli ideali, nessuno vuol morire di fame per loro amore.

Gli autori del libro del Deuteronomio si proposero di risolvere il problema del clero e trovarono la soluzione di cui si parla nel libro di Giosia:
una parte del clero dell'interno fu trasferito a Gerusalemme, dove ottenne un impiego di seconda categoria nel tempio (Il Re 23, 8; cf. Dt. 18, 6-8);

un'altra parte ricevette la proibizione di stabilirsi a Gerusalemme (II Re 23, 9) e fu affidata alla carità del popolo (cf. Dt. 14, 27-29).

Affiora la rivalità tra i due cleri e la lotta che si facevano da tempo per conquistare una maggiore influenza sul popolo.

Il clero della capitale voleva guadagnarsi una influenza maggiore nella nazione e voleva centralizzare il culto nelle sue mani.
E ne aveva il mezzo dal momento che il pericolo della magia era grande.

D'altra parte il trasferimento di tutto il clero nella capitale poteva marginalizzare lo stesso clero della capitale.

Il clero dell'interno si vide privato delle sue normali fonti di guadagno. Abbandonato alla carità del popolo o ridotto a un impiego di seconda categoria nel tempio, non vedeva di buon occhio l'azione centralizzatrice dei suoi colleghi di Gerusalemme che godevano condizioni di vantaggio.

Non è poi molto piacevole essere messo di punto in bianco alla stregua dello «straniero, dell'orfano e della vedova» (Dt. 14, 29)!
La previdenza sociale del clero fin da quel tempo costituì un problema e un problema cruciale per l'esito della riforma che si doveva fare.

Sembra proprio che tutta la legislazione corrispondesse soltanto al modo come gli agenti centrali di coordinamento a Gerusalemme sentivano ed affrontavano il problema, in quanto erano persone che da molto tempo pensavano a queste cose e avevano una coscienza illuminata.

Non era certo espressione del problema così come lo sentiva e lo viveva la base, il popolo e il clero dell'interno. Qui si situa la causa del fallimento della riforma.



8. L'esecuzione della riforma e la sua tragica fine

Il re Giosia assunse la riforma come sua missione personale.
Fece di tutto per metterla in pratica.
Corse tutta la nazione da nord a sud (II Re 23, 4-14).
Entrò perfino nel territorio di Israele (II Re 15-20).

Voleva farla finita con tutti i santuari, sia di Jahvé sia degli altri dèi, per purificare la religione dal cancro della superstizione e della magia.

Usò la violenza e arrivò ad uccidere i sacerdoti degli dèi falsi bruciandoli vivi insieme ai loro altari (II Re 23, 20).

Attuò la riforma del clero (II Re 23, 8-9).
Fu molto elogiato:
«Ha fatto ciò che piace a Dio e in tutto ha imitato la condotta di David suo padre senza deviare né a destra né a sinistra» (II Re 22, 2).

È difficile dare un giudizio sul movimento di riforma messo in opera da Giosia.
La morte inattesa e immatura gli impedì di portarla a termine.

Dopo di lui andarono al governo uomini incapaci.
Tutto restò a metà.

Giosia abbatté la vecchia casa e non fece in tempo a costruirne una nuova.

Ancora una volta sarà la situazione internazionale ad influire sull'andamento dei fatti interni del paese dando loro una direzione imprevista.

Nabopolassar, re di Babilonia, la terza potenza mondiale dell'epoca, ereditò dai suoi antenati lo spirito di lotta e di indipendenza e dette inizio alla rivolta contro il potere secolare degli Assiri.

Con battaglie fulminee riuscì a frantumare in pochi anni un potere immenso costruito durante secoli.
L'Assiria agonizzava.

Nel 612, cioè dieci anni dopo la scoperta del libro della Legge nel tempio, quando Giosia correva il paese distruggendo i santuari e trasferendo il clero, Ninive, la grande capitale degli Assiri, fu presa dai Babilonesi e rasa al suolo.


Questo fatto è simile all'esplosione della prima bomba atomica di Hiroshima:
finisce un'epoca e ne incomincia un'altra.

L'Assiria si ritirò con le truppe che le restavano verso il nord nell'attuale Siria e là si barricò in un ultimo tentativo di difesa disperata.

E come può accadere, quando la Cina diventa troppo forte, l'America e la Russia diventano amiche;

così l'Egitto, eterno nemico dell' Assiria, si mise a fianco di questa per l'equilibrio del Medio Oriente.

Inviò un esercito di rinforzo per raccogliere i resti dell'esercito assiro barricato nel nord dell'Assiria.
Per arrivare fino là doveva passare per la terra di Giosia.

Giosia, forse spinto dalla presunzione, pensò di cogliere il momento buono per contribuire in qualche modo alla politica internazionale.
Riunì i soldati e andò 'ad aspettare gli Egiziani dietro la gola di Megiddo sul monte Carmelo.
Voleva impedirne il passaggio affrettando così la sconfitta sia degli assiri che degli egiziani.

Aprì il fuoco contro il Faraone per vincerlo in battaglia.
Fece male i calcoli e fu sconfitto nel primo scontro (II Re 23, 29).
Ferito a morte, fu raccolto e portato a Gerusalemme dove morì e fu sepolto tra il compianto generale del popolo che lo considerava un grande amico (II Cron. 35, 23-24).

Si dice che lo stesso profeta Geremia fece l'elogio funebre del re la cui morte uccise l'ultima speranza del popolo (II Cron. 35, 25).
Giosia aveva solo 39 anni.
Morì giovane (cf. II Re 22, 1).

Siamo nell'anno 609. Dodici anni di lavoro intenso per la riforma si chiudevano con una morte stupida ed inattesa.

Il Faraone, di ritorno dalla missione militare a nord della Siria, passò da Gerusalemme e sottomise il regno di Giuda mettendovi a capo l'uomo di sua fiducia (II Cron. 36, 1-4).

Da quel momento tutto andò male;
22 anni più tardi, nel 587, la città fu presa da Nabucodonosor, successore di quel re a cui Giosia aveva dato appoggio pagando con la vita.

Nabucodonosor re di Babilonia, prese la città, la rase al suolo e fece piazza pulita per sempre dell'indipendenza del popolo, che la riconquistò solo nel 1947 d.C., quando si formò lo stato di Israele che oggi deve sostenere le stesse lotte, facendo lo stesso gioco di politica internazionale delle grandi potenze.



9. Bilancio della riforma

La riforma morì con la morte di chi l'aveva promossa.
Come si spiega?
Dove stava lo sbaglio?
A chi attribuirne la causa?

Alla politica interna?
Alla incompetenza dei successori di Giosia?
Allo stesso Giosia?
Alla «Magna Charta» della Riforma?

Se la riforma era stata promossa proprio per evitare il disastro che si realizzò, perché allora non riuscì ad evitare la china che la portò fin là?

Fu troppo debole o troppo forte?
Fu uno sforzo vano senza prospettive di futuro?

C'è un fatto curioso in tutta questa storia.
Geremia, la grande figura religiosa di quel tempo, che fin dal principio ne accompagnò tutti i passi, che predicò la conversione, che pianse amaramente la morte del giovane re, non sembra con le sue profezie aver dato tutto l'appoggio a quanto si faceva in nome della riforma.

Non si identificò col movimento di riforma che il re Giosia portò alle ultime conseguenze.
Perché?

La riforma affrettò o ritardò la catastrofe che sopravvenne così rapidamente nel giro di soli 20 anni, quando i cambiamenti solevano realizzarsi, molto più lentamente che al tempo d'oggi?

È difficile dare un giudizio, perché ce ne mancano gli elementi.
Cercheremo solo di formulare una ipotesi, dal momento che i fatti ci stanno davanti ed esigono risposta e la questione ci interessa perché
anche oggi la Chiesa è coinvolta in un gigantesco sforzo di riforma segnato da avvenimenti di ogni tipo, sia interni che esterni, nazionali e internazionali.

Davanti ad un'opera d'arte si possono fare studi di diverso tipo per cogliere tutta la portata del messaggio che vuole comunicarci:
tuttavia il messaggio colto dal critico d'arte può non essere quello dell'artista.

Ma lo sforzo fatto dal critico di arte rientra nella prospettiva dell'artista:
l'artista vuole che la sua opera susciti la riflessione degli uomini e li metta davanti alla loro coscienza.

Allo stesso modo, nella spiegazione della Bibbia e dei fatti raccontati dalla Bibbia, la parola dell'esegeta non è importante.

Anzi è molto relativa.
L’importante è che l'esegeta, secondo le sue capacità d'interprete, riesca a sprigionare la forza e la luce della parola di Dio perché operi sulle coscienze degli uomini.

Le conclusioni saranno forse differenti da quelle proposte dall'esegeta.
Non ha molta importanza.

È importante che gli uomini si siano fermati, abbiano riflettuto, abbiano confrontato la vita e l'attività con la parola di Dio, abbiano scelto e si siano resi conto alla luce di Dio del perché delle loro posizioni.




lO. L'errore di calcolo che ha fatto crollare la casa in costruzione

Il nuovo modo di vedere la fede sintetizzato nel Deuteronomio sotto forma di progetto concreto di azione era una risposta nata dalle esigenze della realtà, ma in quel momento era pure l'espressione di una piccola minoranza che improvvisamente volle imporsi a tutti.

Si mise in marcia col segnale rosso e contribuì ad accelerare il disastro che aveva intenzione di evitare.
Bisogna aspettare che il semaforo dia il segnale verde, anche se ci mette un po' di tempo, soprattutto quando si tratta di portare il popolo a riformare la mentalità e le pratiche religiose.
Altrimenti si causano disastri.

La riforma drastica che bruciò le tappe del progetto dei teologi di Gerusalemme, anche se era in profonda sintonia con la vita del popolo, fu soltanto teorica, e in pratica rimase senza effetti fino a molto tempo dopo, fino all'epoca che seguì l'esilio.

Si trattò di una riforma imposta dall'alto su schema prestabilito.
Il popolo non riconosceva le sue aspirazioni nella riforma promossa con tanto zelo.

Per questo non la fece sua.

Per questo la riforma morì con l'uomo che la promosse senza lasciare traccia.

Il popolo ha difficoltà a ragionare, né si lascia convincere dalle idee, per quanto chiare e nobili possano essere.

Quando un problema di fede si colloca in termini troppo pratici, come fu nel caso della riforma di Giosia, la teoria applicata drasticamente non approda a nessuna soluzione.
Dà i suoi frutti a distanza di tempo come elemento di coscientizzazione.

Le soluzioni drastiche che tutto ad un tratto applicano un progetto teorico, senza tenere conto della realtà, non funzionano, perché nessun popolo le capisce. Presto o tardi finiscono col fallire.

Il re Giosia non agì con molta comprensione nei riguardi della situazione concreta del clero rurale e del popolo.

Seguiva le norme stabilite da un progetto già pronto, senza chiedersi se era possibile attuarlo in quella forma.
Un carro pesante, quando è tirato d'improvviso con uno strattone, anche se da molto tempo stava aspettando la sua ora, non cammina perché il timone si spezza.

Quando il re volle risolvere il problema non si dette molta pena di consultare il popolo, mentre il buon esito della riforma dipendeva proprio dalla collaborazione del popolo.


Era il popolo che doveva mantenere il clero, che doveva pagare le decime per il tempio, che doveva fare i tre viaggi a Gerusalemme, che doveva osservare tutte le prescrizioni.

Ogni forma di culto pubblico a Dio fu centralizzata in Gerusalemme.
Tutto il resto fu proibito e controllato.
Le prescrizioni prevedevano anche i più piccoli dettagli.

Anche se con retta intenzione, una simile riforma improvvisa privò il popolo da un momento all'altro dell'unico appoggio che aveva per la sua vita in tempi tumultuosi;
appoggio tradizionale che lo aiutava a incontrarsi con se stesso e con Dio, anche se fosse falso.

Da quel giorno in poi chiunque continuasse a praticare qualsiasi altra forma di culto si sentiva come un fuorilegge, su una falsa strada. Privato della sua maniera concreta di adorare Dio, col quale si era identificato durante secoli di vita, e ignorando il raziocinio delle nuove forme di adorazione, il popolo non si ritrova più né con se stesso né con Dio.

In pratica non era sempre possibile andare a Gerusalemme e le tre visite per anno non bastavano a saziare l'intenso desiderio religioso del popolo.
Molto più tardi l'istituzione della sinagoga supplì a questa grave mancanza e rese possibile l'esecuzione della riforma contenuta nel libro del Deuteronomio.

In conclusione il popolo si vedeva collocato al margine del culto ufficiale. Si fece un gran vuoto, senza nulla che potesse riempirlo:
solo forse un'idea.

La vita del popolo diventò una vita senza Dio, almeno di fronte alla legge ufficiale.

Eccolo li, senza più nessun orientamento, in mezzo alla confusione religiosa e politica di quei tempi disastrosi.
Lo choc generato dalla riforma fu troppo forte e il popolo non aveva né criteri né sostegno per sopportare l'applicazione rigorosa delle nuove regole traendone profitto.

Il popolo fu privato del suo diritto.


La morte prematura del re ruppe le dighe e le pratiche pagane dilagarono più numerose di prima per colmare il vuoto scavato dalla riforma.

È significativo che Geremia, uomo del popolo e grande condottiero religioso di quel tempo, per quello che si sa,non abbia dato completo appoggio al movimento.

Eppure se c'era uno che aveva avuto coraggio di criticare gli abusi della religione, questi era proprio Geremia.

Ma quando tutto è confuso non è facile prendere una posizione netta e chiara per dire con certezza che cosa si debba fare.

Sarebbe come un paese che basasse tutta la sua economia sopra un unico prodotto.
Per quanto ricco possa essere, quando arriva l'ora della crisi di quell'unico prodotto, il paese cade in miseria.

Di chi è allora la colpa?

In tempi simili è sempre più facile e più sicuro dire come non dovrebbe essere piuttosto che come deve essere, escludendo ufficialmente altri cammini, altri tentativi, altre esperienze.

Non si tratta di essere fedeli solo a Dio.
La fedeltà a Dio vuole che siamo fedeli anche al popolo.

Il che vuol dire:
la preoccupazione più importante di Dio è il benessere e la felicità degli uomini, il loro sviluppo e la loro piena realizzazione.
Ridurla ad una preoccupazione legalista normativa in nome della purezza della fede, per quanto meravigliosa e giusta possa essere, non è sempre quello che Dio vuole.

Ad un babbo importa anzitutto non tanto che il figlio possegga idee esatte sopra suo padre, ma che riesca nella vita e sia felice.

Quando sarà felice grazie alla bontà di suo padre, avrà pure idee giuste su di lui.

La gloria di Dio non si distingue dalla felicità degli uomini.
Non basta domandarsi soltanto che cosa Dio vuole che io faccia.

Bisogna domandarsi come Dio vuole che io realizzi le cose che aspetta da me. I più grandi sbagli generalmente si fanno non contro la prima esigenza ma contro la seconda.
Siamo fedeli ad una dottrina astratta ma non seguiamo il modo di Dio nel viverla e nel metterla in pratica.

La legge del Deuteronomio conteneva e contiene la giusta dottrina perché la Bibbia ne è depositaria e i cristiani continuano a leggerla fino ad oggi.

Ma il modo con cui gli uomini mettono in pratica e applicano la legge impedisce la sua stessa esecuzione e applicazione.
Tutti hanno agito con la migliore delle intenzioni, nella perfetta obbedienza, ma questo non basta.




11. Conclusione

La Bibbia, portando fino a noi questa storia complicata di riforma, suscita una luce molto grande per orientare la critica.

Ci fa intuire che la Parola di Dio si inserisce nella storia degli uomini in modo tale da rimanere sottoposta alle libere decisioni umane, fino a correre il rischio di non raggiungere il suo fine.

È tutto qui il grande mistero della storia che la Bibbia registra, ma non spiega.

Troviamo nella Bibbia la fede incrollabile che la storia, sostanziata, dinamizzata, orientata dalla Parola di Dio, è sempre una storia vittoriosa.

Tale certezza porta il popolo a prendere decisioni, ad agire.
D'altra parte però queste stesse decisioni e questo agire umano arrivano ad oscurare a volte la presenza della Parola e ad annullarne l'effetto; così almeno sembra, entro i limiti delle nostre possibilità di osservazione e di giudizio.

Quanto successe al tempo di Giosia è preludio di quello che succederà quando «la Parola fatta carne» sarà eliminata dal consorzio umano, uccisa su di una croce, manifestando nella sconfitta la sua forza invincibile.

Tutto ciò serve ad aumentare in coloro che credono in Dio il senso della loro responsabilità.

La complicata storia di una riforma cominciata bene e finita male, perché non rispettò il popolo, dimostra che quel popolo ebbe una storia uguale a quella di qualunque altro popolo.

In mezzo alla confusione generale camminarono i profeti con le loro angustie e le loro speranze, a tastoni, scrutando gli orizzonti per scoprire gli appelli di Dio.

Non sempre indovinarono, non sempre riuscirono a vederci chiaro.
Ma nell'insieme il popolo ha camminato fra alti e bassi ed è arrivato là dove Dio lo voleva.

Il popolo non aveva la linea telefonica che lo mettesse in diretta comunicazione con Dio.
Ma aveva la coscienza che in tutto quello che succede Dio è presente.

La sua storia tormentosa un'impressionante ricerca di Dio.



SEGUE..





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