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"Viaggiando nella Bibbia" Riassunto Generale

Ultimo Aggiornamento: 06/07/2014 10:41
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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VII (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

Geremia: la fuga non è mai soluzione





Benché sia vissuto in un tempo totalmente differente dal nostro, qualcosa tuttavia ci unisce a quest'uomo.

Ci risveglia a certi aspetti della nostra realtà, nei quali non eravamo soliti vedere o percepire gli appelli di Dio.
Ci si presenta come un uomo concreto, non più un uomo solo del passato, ma del tutto inserito nel nostro presente.

Potremmo trovarcelo davanti in qualunque angolo della strada.

Attenzione!



1. La realtà: la condizione umana del popolo al tempo di Geremia

Situazione internazionale:
È il tempo che va dalla morte del re Giosia (609) fino alla distruzione di Gerusalemme e alla deportazione del popolo verso l'esilio di Babilonia (587).

Il quadro della politica internazionale è completamente cambiato:
le due grandi potenze mondiali, Assiria e Egitto, hanno perduto l'egemonia coloniale.

Si profila all'orizzonte una terza potenza, terribile e che incute spavento: Babilonia.

Nell'anno 612, Babilonia distrusse la capitale dell'Assiria, Ninive.
Fu uno choc internazionale, simile a quello della bomba atomica cinese a Washington.

Il piccolo popolo di Giuda vedeva di buon occhio il cambiamento e cercava di dare il suo contributo (a suo proprio vantaggio).
Il re Giosia, nell'anno 609, inviò il suo esercito per impedire il passaggio del Faraone di Egitto, Nekao, che si recava a dare aiuto agli ultimi resti delle forze dell’Assiria (un tempo nemica, ma adesso amica, a causa della minaccia di Babilonia), rifugiate nel nord della Siria.

Giosia fu sconfitto e perse la vita in battaglia (lutto nazionaIe).
Le forze alleate dell'Egitto e dell' Assiria furono sgominate e annientate a partire dall'anno 609;
il cammino dell'avanzata dI Babilonia era aperto.

Ripercussione della situazione internazionale sul piano nazionale:
Due erano le correnti politiche del governo di Giuda:
alcuni erano a favore di Babilonia, altri a favore dell'Egitto.
Per cui, tre mesi dopo la morte di Giosia (che era a favore di Babilonia), il Faraone d'Egitto riuscì a deporre dal trono il successore Gioacaz, anch'esso favorevole a Babilonia, e a mettere al suo posto un nuovo re, Gioacchino (609-598), favorevole all'Egitto.

Adesso, era Babilonia il grande pericolo!

Con la vittoria di Babilonia su Nekao, nell'anno 605, Giuda diventò vassalla di Babilonia.
Intrighi dei filoegiziani suscitarono una rivolta che fu schiacciata.

Dal tempo di questa rivolta (602) fino alla distruzione (587) si ebbe una situazione confusa.

Lentamente si andava creando una vera psicosi contro Babilonia, chiamata «il pericolo del nord». (cf. Ger. 1, 14-15).
Intrighi, politica sporca, sabotaggi.

Nessuno più pensava onestamente.
Per limitare il pericolo, si suggerivano soluzioni assurde.

Situazione nazionale:
La morte inattesa e prematura del giovane re Giosia, condottiero amato dal popolo, fu un duro colpo che soffocò le speranze nel cuore di molti.

La riforma incominciata (vedi capp. 4 e 6) non andò avanti.
Ebbe inizio la decadenza.

Il trono era occupato da re inetti.

Nella generale incertezza, ciascuno si difendeva come meglio poteva e dilagava la più nefasta ingiustizia.

Si cercava sicurezza nelle alleanze militari con l'Egitto;
era la politica dello struzzo, che nascondeva o ignorava il pericolo dicendo: «Va tutto bene!

Va tutto bene!» Mentre tutto andava male. (Ger. 6, 14).
Si parlava solo di felicità per nascondere le piaghe del terrore (cf. 8, 11). E si tentava rifugiarsi in una politica fiacca e falsa, sotto il manto protettore della religione ufficiale.

Si pensava di trovare la fonte della sicurezza nel fedele adempimento della liturgia, con tutte le sue feste e cerimonie:
«Siamo salvi!» (7, 10). E non era difficile trovare profeti e sacerdoti che legittimassero un processo del genere e che rassicurassero i capi circa le soluzioni da loro suggerite per superare la crisi (8, 10).

La religione diventò cosi, un «vero oppio del popolo» che credeva in questi falsi profeti quando dicevano:
«Vi sarà dato tutto il bene! Non vi succederà alcun male!» (23, 17).

Ma non si combatte un esercito con riti vuoti, con cerimonie senza vita e con promesse senza garanzia.

La disgrazia si avvicina inesorabilmente.

La religione era strumentalizzata per difendere gli interessi dei gruppi.





2. Riflessione critica sulla situazione: nasce la vocazione del profeta


Nel villaggio di Anatot, circa sei km. a nord di Gerusalemme, abitava un ragazzetto, Geremia, di stirpe sacerdotale (Ger; 1, 1), forse discendente di Ebiatar, sommo sacerdote al tempo di David, destituito dei suoi diritti da Salomone (cf. 1 Re 2, 26-27).

Era, dunque, un ragazzo che aveva nelle vene la tradizione del popolo, che viveva molto intensamente il dramma della sua nazione e si accorgeva dell'inutilità delle soluzioni ufficiali, che non coglievano il fondo del problema.

Da quello che si può dedurre dagli scritti posteriori del profeta, egli vedeva la situazione con occhio critico, illuminato dalle esigenze della sua fede in Dio.

Era una visione molto semplice e quasi semplicista, ma di grande portata.

La situazione attuale provava ad oltranza che il popolo aveva abbandonato il cammino di Dio.
L'ingiustizia si era installata nel potere, a cominciare dallo stesso Re (cf. Ger. 22, 13, 19).

Geremia arrivò perfino a dubitare che in Gerusalemme ci fosse ancora un solo uomo capace di praticare la giustizia (5, 1).
«Passano di delitto in delitto e non mi riconoscono più, dice il Signore» (9, 2).

Causa di tutto era l'abbandono di Dio (2, 13).
Invece di servire Dio, che esigeva la pratica della giustizia (7, 5-6), ciascuno seguiva il suo Dio.

Tanti dèi quante erano le città di Giuda, e tanti altari quante erano le strade di Gerusalemme (11, 13 ).
Per questo, la nazione camminava verso la sua totale disintegrazione.
In una situazione del genere, era inutile la politica dello struzzo, che si sottraeva alla responsabilità e cercava protezione e sicurezza in una religione vuota di senso o in alleanze militari equivoche.

Bisognava attaccare il male alla radice:
«Praticate la giustizia fin dall'aurora, liberate l'oppresso dalle mani dell'oppressore, affinché la mia ira non divampi, come le fiamme di un braciere ardente che non si spegne mai» (21, 12).

Qualsiasi altra soluzione sarebbe stata solo un innesto su un ramo morto. Invece di allontanare il «pericolo del nord», queste soluzioni l'avrebbero avvicinato sempre più.

Si scavavano la fossa con le loro stesse mani.

Sembrava che nessuno avesse coscienza delle sbaglio:
mentre si sforzavano per risolvere la crisi, affrettavano l'epilogo della disgrazia.

La visione critica della realtà segnava la responsabilità di Geremia. Bisognava fare qualche cosa.

Dio lo voleva.

Era diventata un'ossessione.


Un giorno, in cucina, vede la pentola rovesciarsi dalla parte del sud:
« Vedo una pentola che bolle;
il suo contenuto trasborda da nord a sud» (1, 13).

E il fatto comincia a parlare, a partire dal momento in cui si lega al problema che lo interessa:
«La malizia ferve a nord, e ricade su tutti gli abitanti di questo paese» (1, 15).

Così nacque la sua vocazione.

Con una coscienza chiara, si accorge che Dio lo chiama per parlare al popolo.
Si accorge che questa è la sua missione, per la quale fu destinato fin dal seno di sua madre (1, 5).

E ha paura:
«Oh, Signore, vedi, io non ho forze per portare il peso della tua parola; sono appena un ragazzo» (1, 6).
Ma la paura non ha senso, perché la forza di Dio sarà con lui:
«non aver paura davanti al popolo, perché io starò con te e ti proteggerò» (1, 8).

Diventerà «come una città fortificata, una colonna di ferro, una muraglia di bronzo» (1, 18), cioè, nessuno lo potrà vincere, perché la verità e la ragione staranno con lui.

È invincibile.

«Si proveranno a lottare contro di te, per vincerti e sgominarti, ma non ci riusciranno, perché io sto con te per liberarti» (1, 19).

Geremia partì.

Si investì della missione che si era maturata lentamente in lui, diventando convinzione personale, inalienabile e sicura, venuta da Dio, Signore del suo popolo.



SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VII (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Geremia: la fuga non è mai soluzione



3. Prassi del profeta Geremia


In mezzo all'angustia generale.
Geremia ragionava a mente fredda.

Denunciava con chiarezza la falsità della politica ufficiale, non si preoccupava delle dicerie dei profeti opportunisti (28, 117; 23,9-40), ma seguiva la sua strada, smascherando uno per uno i punti essenziali di quella falsa sicurezza, generata dalla paura del popolo e dalla presunzione dei condottieri.

Il culto:
non piace a Dio, anche se profuma di incenso comprato All’estero (6, 20); è un culto falso e disonesto (7, 2126); non offre nessuna protezione.

Il tempio:
è un inganno tragico volersi appoggiare all'esistenza del tempio.

Dio non abita più là dentro, ma è diventato straniero nella sua propria terra (14, 8), e il tempio sarà distrutto come una casa qualunque (7, 12-14).

Dio non ne vuol più sapere degli Israeliti (7,15).
La circoncisione (9,24), i sacrifici (14, 12), il digiuno (14, 12), la preghiera (11, 14), in cui riponevano la loro fiducia, non servono più a niente;
neppure i grandi uomini del passato, Mosè e Samuele, potranno far sì che Dio abbia pietà del popolo (15, 1).

La legge non li protegge più, perché hanno fatto della legge uno strumento di oppressione e di inganno (8, 8-9).

Il re, che era la pupilla degli occhi di Dio, è diventato inefficiente: «Anche se il re fosse un anello della mia mano destra, me lo strapperei, dice il Signore» (22, 24).

Non avrà discendenza (22, 30).

Conclusione logica: «Dio non abita più a Gerusalemme (8,19 )>>.

È inutile gridare: «Va tutto bene! Perché tutto va di male in peggio» (8, 11).
È inutile pensare che l'Egitto si interessi di soccorrerti (37, 7).

«Sarai ingannata dall'Egitto come lo fosti dall'Assiria.
Anche di là uscirai con la testa fra le mani» (2, 36, 37), (cioè, prigioniero).

Qualunque soluzione tu prenda, sarà solo una fuga, e la fuga non è mai soluzione! Sarebbe come invocare il pericolo, invece di allontanarlo.

Ma insomma, Geremia, tu che critichi tutto, quale soluzione suggerisci?

Non c'è soluzione!
Tutto è marcio; questa istituzione qui deve sparire:
«Sono così abituati a fare il male che non riescono più a fare il bene>~ (13, 23).

La conversione del popolo è impossibile, come è impossibile che un negro diventi bianco (13,23).
Il peccato ha pervaso ogni cosa (17,1-2).

Neppure se volessimo, potremmo cambiare stile di vita (18, 11-12).
La fedeltà è sparita in mezzo a loro (7, 27-28); perciò:
«Spezzerò questo popolo e questa città come si frantuma un vaso di argilla, che non si può più mettere insieme» (19, Il).

«Allora, dove andremo?».

«Alla peste, quelli che sono destinati a morire di peste!
Alla spada, quelli che sono destinati a morire di spada!
Alla fame, quelli che sono destinati a morire di fame!
Alla schiavitù, quelli che sono destinati alla schiavitù» (15, 2).

Resta una sola possibilità di uscire vivo dalla terribile minaccia:
consegnarsi al nemico che avanza (27, 12; 58, 17-18).

Era i1 consiglio di Geremia a chi volesse ascoltarlo.

Gli altri consigli, che spronavano alla pratica del bene e della giustizia, sembravano cadere nel vuoto.
Un uomo che parlava così era pericoloso e sovversivo.

I suoi discorsi provocavano rivolta, demoralizzavano il popolo e toglievano il coraggio ai soldati, che non avevano più animo per combattere contro Babilonia (38, 4).

Un uomo di questo tipo doveva essere eliminato (28, 4).
Sapeva solo parlare di terrore (20, lO).

Combinarono d'imprigionarlo e, in un pomeriggio relativamente çalmo, dopo un prolungato assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, Geremia fu catturato, mentre usciva dalla città (37, 1116).

«Tu stai passando dalla parte dei Caldei cioè dei Babilonesi».
«Bugiardi! lo non sto passando dalla parte dei Caldei» (37, 14).

Le sue proteste non valsero a niente.
Fu preso, malmenato, e gettato in prigione (37, 15).
Un sotterraneo, che lo soffocava e gli faceva sentire la paura della morte (37, 20).

Ma la prigione non valse a nulla.
Un uomo come Geremia è sempre scomodo, sia in carcere, sia a piede libero.

Invece di migliorare, la situazione peggiorò sempre di più, perché la prigione causò divisioni fra gli stessi capi del popolo (leggere i capp. 37, 38).

Tanto chi era a favore come chi era contro, tutti avevano paura di lui, come risultò dall'intervista segreta del re con Geremia.
Il re non voleva che si sapesse che era stato lui a chiamarlo per parlare (38, 24-26).

Geremia era un uomo per il quale «fede in Dio» non era alienazione; consisteva nel vivere bene la sua vita umana.

Scopriva gli appelli di Dio negli avvenimenti, sia nazionali che internazionali.
Lui faceva parlare i fatti, «interpretava la vita».

Visto che tutti dicevano di aver fede in Dio, Geremia esigeva l'adempimento dell'impegno e metteva in evidenza le incongruenze della fede con la vita.
Proprio per questo la sua parola feriva.

Non si voleva vedere la luce della verità, che Geremia metteva in evidenza con le parole e i gesti chiari, scultorei.
Tentarono con ogni mezzo di soffocare la sua voce.





4. Conseguenze di un impegno: sofferenza e persecuzione

A guardarla da lontano, la figura di Geremia è ammirevole.
Vista da vicino, impressiona e fa paura per la violenza del dolore e per la imperturbabile fedeltà a una missione che non aveva mai desiderato, ma che nacque e crebbe in lui come appello di Dio (cf. 20, 7-9).

Bisogna aver sofferto tanto per arrivare a dire:
«Maledetto il giorno in cui sono nato, non può essere benedetto il giorno in cui sono nato, non può essere benedetto il giorno in cui fui dato alla luce... Perché non sono morto ancora prima di nascere?

Che bellezza se il ventre di mia madre fosse stato la mia tomba!
Perché sono uscito vivo dal seno materno?» (20, 14-17).

Fu vittima di cospirazioni e attentati (15, 10).
Lottò e lavorò per 30 anni continui senza ottenere il minimo risultato (25, 3).

Il suo lamento è tragico: «Ho lasciato la famiglia, ho abbandonato l'eredità e ho consegnato alle mani dei nemici ciò che di più caro aveva il mio cuore (sua madre).
Il mio popolo mi è venuto contro come un leone che rugge nella foresta» (12, 7-8).

Restò solo col suo dolore.
Li aveva tutti contro:
il fratello e i suoi stessi familiari lo tradirono (12, 6), gli abitanti di Anatot, suoi conterranei, cercarono di ucciderlo (11, 18-21), i sacerdoti e gli altri profeti e il popolo intero si lanciarono contro di lui gridando: «a morte!» (26, 8).

Alla fine, fu gettato in un pozzo in rovina e fetido, da cui fu tolto per intercessione di alcuni amici, tra i pochi che gli restavano (38, 1-13).

E tutto ciò gli sembrò una sofferenza assurda e inutile.
Infatti, 23 anni di lavoro senza alcun risultato, farebbero perdere il coraggio a chiunque!

E, tuttavia, in mezzo a tante sofferenze, lo sosteneva una forza che nessuno avrebbe potuto vincere, e faceva di lui «una città fortificata, una colonna di ferro, un muro di bronzo» (1, 18).

Era la certezza:
«Il Signore mi accompagna, come un guerriero invincibile» (20, 11).
Per quanto dura fosse la sua sorte e per quanto tentasse di rivoltarsi contro di essa, in fondo voleva essere così e ne era contento.

Sapeva che questo era il suo cammino.
E anche se la sua missione lo faceva soffrire tanto, ricordava con gioia il momento della sua vocazione, quando dice:
«Tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre.

Mi hai vinto e hai trionfato su di me» (20, 7).
Per lasciarsi sedurre bisogna pur trovare qualcosa che piaccia davvero!

Sempre disprezzato in vita, quest'uomo, dopo la morte, diventa l'immagine del futuro Messia «Uomo dei dolori che portò su di sé le nostre colpe» (Mt. 8, 17; Is. 53, 3-4).
Succede sempre così;
chi in vita sembrava soffocare la speranza di tutti, dopo la morte diventa simbolo di speranza universale.





5. Geremia contribuì alla realizzazione del progetto di Dio

Geremia non aveva nessuno con cui sfogarsi, si sfogava con Dio.
Contribuì così ad interiorizzare la religione e ne fece la religione «del cuore» cioè, qualcosa di molto personale che entra nell'intimo dell'uomo e non si limita ad alcuni gesti esteriori.

Geremia riuscì a farlo, non solo col suo insegnamento, molto più con la sua vita.
Per riuscire nella vita, per superare e combattere le difficoltà della sua missione, dovette soffrire: vinse, perché nella sofferenza riuscì ad incarnare, nella sua vita personale, tutti i valori collettivi della fede del popolo.

La sofferenza lo portò ad interiorizzare la religione e fece crescere in lui l'uomo.

Quando pregava, ed è frequente nel suo libro, non era artificiale, ma diceva tutto quello che gli veniva dalla mente e dal cuore:
vendetta, disperazione.

Vivendo il suo dramma personale, la sua solitudine (non si sposò per essere fedele alla sua vocazione) maturò in lui l'esperienza della fede.


Riuscì ad assimilare tutti i valori del passato, personalizzandoli nella sua vita.
Sarebbe utile leggere. i passi più significativi delle così dette «Confessioni di Geremia»:, (cap. 11, 18-12,6; 15, 10-21; 17, 14-18; 18, 18-23; 20,7-18; 12, 7-13) Dalla sofferenza emerge la coscienza personale dell'uomo di fronte alla coscienza collettiva.

L'uomo si incontra con se stesso;
perché si è incontrato coll'Io assoluto di Dio.
In Geremia, la religione diventa più matura, più adulta.

Incomincia con lui il movimento di rinnovazione dei così detti «Hassidim» e dei «poveri di Jahvé», dei quali facevano parte la Madonna e Elisabetta.

Un altro punto alto, negli scritti e nella vita di Geremia è l'aspetto concreto della religione, il coraggio che aveva questo uomo di indicare gli appelli di Dio nella vita.

La religione, per lui, non era un sistema, erano uomini che camminano animati dalla fede, in direzione del futuro.

È evidente che ci vuole coraggio per indicare gli appelli di Dio, perfino negli avvenimenti internazionali;
segno della fede che Dio ha in mano il mondo e il suo destino.

Si intravede anche la convinzione che il mondo sarà quello che gli uomini lo faranno con la loro libertà:
è inutile riferirsi a Dio, come pretesto per giustificare il malessere.

Da questo aspetto concreto della sua missione, si capisce che Geremia non intendeva davvero rinchiudersi nella 'sacrestia', come oggi si finisce col fare.

Insomma, come abbiamo visto, la figura di Geremia, così discussa in vita, diventò simbolo di speranza. Quando, più tardi, Isaia descrive la figura del futuro Messia (Is. 53), ha davanti agli occhi l'immagine di Geremia.





SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..




Con il presente capitolo entriamo in un settore nuovo dell'Antico Testamento.
Abbiamo già parlato, in parte, dei libri storici nei capp. 1-4, e dei libri profetici nei capp. da 5 a 7.

Vediamo, adesso, qual è il significato dei così detti libri sapienziali.

Il titolo «ansia di vivere - necessità di morire» serve solo a polarizzare la nostra riflessione intorno ad un tema che ha preoccupato gli autori dei libri sapienziali, dal principio alla fine.

Un altro tema assillante era la sofferenza e la cattiveria che esistono nel mondo.
Ne parleremo nel cap. 9, a riguardo di Giobbe.

Prima, però, di entrare nell'argomento specifico, è necessario fare alcune riflessioni sull'origine dei libri sapienziali.




1. Origine, natura e senso dei libri sapienziali

Una parte della Bibbia è dedicata ai libri così detti sapienziali.
Essi sono:
Proverbi.
Ecclesiastico.
Ecclesiaste.
Cantico dei Cantici.
Giobbe e Sapienza.

C'è chi include nella lista anche il libro dei Salmi.
Però, parleremo dei Salmi in un capitolo a parte, nel cap. X.

Grande è la differenza fra i libri storici e profetici, da un lato, e i libri sapienziali dall'altro.

I primi sono espressione di un pensiero nuovo che i capi religiosi si preoccupavano di trasmettere al popolo e di innestare nella vita, per trasformare, attraverso di essi, l'esistenza umana.

I secondi esprimono il pensiero del popolo, già in atto, che attraverso di essi diventa parola e si organizza allo scopo di migliorare la vita.

Sono due differenti modi di pensare:
uno che ragiona dal di fuori verso il dentro, dall'alto in basso;
l'altro che ragiona dal di dentro verso il fuori, dal basso in alto.

Queste due maniere di pensare esistono anche oggi.


Ai libri profetici corrisponde la dottrina della Chiesa, esposta e formulata nei catechismi e nei documenti conciliari e pontifici;
quella che ci hanno insegnato e che ci serve per orientarci nella vita.

Ai libri sapienziali corrisponde la ricerca dell'uomo di oggi che, partendo dai dati concreti della vita, vuol trovare un cammino per migliorare la sua esistenza:
antropologia, psicologia, sociologia, economia, filosofia, medicina ecc. o, in parole povere, la sapienza popolare e l'esperienza della vita.

Fino ad oggi, i libri sapienziali sono quelli che più piacciono al popolo e i meno studiati dal clero.

Forse un incosciente preconcetto di classe ha portato il clero, di cui fanno parte gli esegeti e i teologi, a preferire i libri storici e profetici (quasi tutti scritti dai colleghi della stessa casta privilegiata) ai libri sapienziali, nati dalla bocca del popolo.

E non è possibile farlo senza nuocere alla rivelazione divina, che si esprime anche nel pensiero del popolo e nelle sentenze dei libri sapienziali.

Oggi, però, si nota un ritardo nello studio dei libri della sapienza.

La Sapienza non dà la priorità ad una virtù intellettuale, ad una conoscenza, ma alla capacità di orientarsi bene nella vita e di agire con buon senso.

Sarebbe quello che oggi si chiama «filosofia della vita».

Si tratta di una certa maniera di affrontare la vita, comune a quei popoli, che, per se stessa, ha poco a che vedere con la religione, così come, al tempo d'oggi, le radici del pensiero dell'antropologo o dell'economista poco hanno a che vedere con le loro convinzioni religiose.

Non per il fatto di essere protestante o cattolico, il ragioniere sarà più bravo nella contabilità, o il contadino saprà meglio coltivare i campi.

La convinzione religiosa non ha nessuna influenza sulle radici del pensiero di questa gente.
Però, può influire sul ‘come' mettere un sostegno alla pianta, perché cresca dritta.

In questo senso anche la fede influisce, sia sul nostro mondo che sul mondo della Bibbia.
Si spiega così la direzione nuova che la Sapienza prese nella Bibbia, e la differente applicazione che un capitalista o un comunista fanno dei risultati della scienza.

In questo caso il popolo della Bibbia è uguale agli altri popoli e riflette sulla vita con gli stessi loro criteri.

Arriva perfino a prendere in prestito alcuni passi dalla Sapienza dell'Egitto (Prov. 22, 17-23, 11).

Anche al giorno d'oggi:
la sociologia in Brasile (esempio) soffre molto l'influenza dei sociologhi dell'America del Nord.

All'origine della Sapienza troviamo il popolo che riflette sulla vita e cerca una risposta alla domanda:
come vivere?
Come fare per riuscire bene nella vita?
Come comportarsi?

Sono domande che rivelano la preoccupazione di chi cerca il segreto per orientarsi concretamente nella vita, per non essere vinto dalla vita.

La ricerca della Sapienza è la ricerca dei valori e delle leggi che regolano la vita umana;
ci si propone di scoprire questi valori e queste leggi per integrarli nella vita e così progredire e stare meglio.

La ricerca incomincia umilmente, insieme al popolo semplice, attraverso i Proverbi, che anche oggi si leggono sui camion che corrono per le nostre strade.

Diventa complicata e scientifica, tanto nei libri di Giobbe e della Sapienza come nei progetti e nelle conclusioni complesse della scienza moderna.

La più importante conclusione della Sapienza è quella di affrontare i mali della vita, di formare la nuova generazione che cresce, contribuendo così al governo della vita.

La Sapienza si caratterizza per il metodo induttivo.
Accetta solo quelle soluzioni la cui efficacia è stata verificata nella pratica della vita.

Un esempio tipico lo troviamo nel libro dell'Ecclesiastico, che ci dà un vero ritratto di come procede il sapiente nelle sue ricerche.

L'ambiente da cui trae origine la Sapienza è quello dell'educazione familiare:
i genitori cercano con ogni mezzo che i figli aprano gli occhi sulla realtà e vedano con oggettività le cose della vita.

È tutto un capitale di esperienza accumulato attraverso il susseguirsi delle generazioni, trasmesso di padre in figlio, con un metodo pedagogico molto interessante.

Sapiente, anticamente, era colui che sapeva formulare meglio una determinata esperienza di vita, compendiandola in un proverbio incisivo.
Sorsero così i proverbi o detti popolari, simili a pezzi di vita, che esprimono i valori scoperti dal popolo.


Ecco alcuni esempi, scritti nella Bibbia:

«L'animo allegro fa buon sangue e lo spirito triste secca le ossa» (Prov. 17, 22)

«Chi risponde prima di avere ascoltato si mostra sciocco e degno di biasimo» (Prov. 18, 13)

«Il povero supplicando parlerà . e il ricco risponderà arrogantemente» (Prov. 18, 23)

«Le ricchezze attirano amici in abbondanza e dal povero, anche gli amici che aveva, si scostano» (Prov. 19, 4)

«Tutti i giorni del povero sono brutti, però, un animo tranquillo è come un banchetto perpetuo» (Prov. 15, 15)

«Anche lo stolto, se tacerà, sarà creduto saggio e intelligente se chiuderà le labbra» (Prov. 17, 28)

«Il pigro tuffa le mani nel piatto e neppure per portarsele alla bocca le tira fuori»(Prov. 19, 24)

«Un monile d'oro al naso di un porco è la bellezza di una donna sciocca» (Prov. 11, 22)

Ed altri ancora.

Il proverbio esprime un'esperienza elementare di vita, tramandata sotto forma di mashal (cioè di paragone).

Esprimono tutti buon senso e scaturiscono là dove pulsa il cuore della vita, nell'ambiente familiare, nell'educazione dei figli, nel circolo degli amici.

Sono familiari e servono come indicazioni lungo il cammino dei figli, non già come ricette pronte e come precetti tassativi, ma in quanto mettono in evidenza i valori.

Si preoccupano delle cose della vita, del comportamento e del rapporto con gli altri, insomma degli interessi immediati.

La Sapienza popolare, qualunque ne sia la fonte, è caratterizzata da poca speculazione filosofica ma da molta profondità.

Ecco, per esempio, alcuni argomenti trovati nel libro dell'Ecclesiastico, a rispetto dei quali l'esperienza ci è tramandata sotto forma di proverbio:
pazienza,
elemosina,
falsa sicurezza,
lingua e suo controllo,
amicizia,
lutto,
libertà,
relazioni sociali,
rispetto della donna,
timore di Dio,
galateo a tavola,
saper dubitare,
prudenza con i potenti,
uso delle ricchezze,
vino e donne,
lussuria e adulterio,
malizia della donna,
dovere del segreto tra amici,
prestiti,
educazione dei figli ecc.






2. Istituzionalizzazione della Sapienza e formazione dei libri sapienziali


A poco a poco, però, la Sapienza che era stata accumulata dilaga e penetra in tutti i settori della vita umana.

Esce dallo stretto ambito della famiglia, diventa oggetto di ricerca, perde un po' di spontaneità e di familiarità e diventa una istituzione, al fianco delle istituzioni del sacerdozio e del profetismo, in vista dell'organizzazione della società.

Nella mano del re, l'istituzione della Sapienza diventa ora uno strumento di governo e comincia ad essere associata alla figura del re Salomone, il sapiente per antonomasia (cf. I Re 4, 27-54).

Come prima la Sapienza contribuiva ad organizzare e dirigere la vita personale e familiare, adesso contribuisce all'organizzazione e al governo del popolo.

Così trasformata, uscita dall'ambiente familiare e entrata nell'ambiente ufficiale del governo, la Sapienza comincia ad essere oggetto di approfondimento e di studio.

Al posto dei proverbi brevi e popolari, sorgono trattati e studi profondi sullo stesso argomento.
L'aspetto concreto cede il posto alle ricerche e si incomincia a investigare intorno alla filosofia e alla concezione della vita, che si nascondevano dietro il movimento della Sapienza.

Come al giorno d'oggi:
da secoli gli uomini esercitano la politica:
solo oggi, però, si comincia a studiare la politica in sé e per sé e cominciano a sorgere scuole di scienze politiche.

La pratica della Sapienza subì, dunque, una evoluzione, come si può constatare nei vari libri sapienziali contenuti nella Bibbia, che registrano le epoche e i diversi aspetti di questa evoluzione.

Proverbi.
Questo libretto contiene un complesso di proverbi antichi e molto popolari.
Gli autori compilarono una specie di prefazione che va dal cap. I al cap. IX, in cui spiegano che cos'è la sapienza e quale ne sia l'origine.
I primi nove capp. sono molto posteriori e, perciò stesso, molto più teorici e molto più profondi che il resto del libro (derivato da incontri familiari, cioè da genitori preoccupati per l'educazione dei figli e per i problemi della vita).

Cantico dei cantici.
A quanto sembra, si tratta qui di una compilazione di canti popolari che parlano di amore.
Un saggio pensò che questi canti potevano molto bene essere espressione concreta dell'amore di Dio verso gli uomini e dell'amore degli uomini verso Dio.
Mise insieme 12 di questi canti popolari e compose il libro che adesso si trova nella Bibbia e che fu sempre uno dei più commentati.

Ecclesiastico.
Rappresenta la pratica della Sapienza, nel momento in cui uscì fuori dall'ambiente familiare. Contiene tanti piccoli trattati sui più svariati argomenti.
Si nota una sistematizzazione dei proverbi, in diverse categorie.
Ma, con questo libro, non si arriva ancora alla riflessione filosofica sull'origine della sapienza.
La concretezza predomina in tutti i settori.

Ecclesiaste.
Fu scritto da uno dei saggi ufficiali del governo, che esprime così la sua profonda frustrazione di fronte ai differenti atteggiamenti degli uomini nella vita.
Nessuno lo soddisfa.
Li esamina, uno per uno, e arriva alla conclusione che tutto è assurdo. Introduce qua e là proverbi sull'intervento di Dio nella vita degli uomini, per dire che non avevano perso del tutto la fede nella vita e nell'autore della vita: Dio.

Giobbe.
È la più alta espressione letteraria della Sapienza e tratta di argomento che sempre ha preoccupato, più di ogni altro, i sapienti:
il problema della sofferenza del giusto.
Sembra un copione di teatro.
Non ha più nulla dell'antico proverbio, ma è quasi la forma classica del dramma.
Rappresenta l'esperienza viva di un uomo che soffre.

Sapienza.
È l'ultimo dei libri sapienziali, scritto verso il 60 a.c.
È il più profondo trattato sull'origine della Sapienza che viene da Dio. Risente molto l'influenza della filosofia greca, almeno nel modo di esprimersi.
È stato scritto in Egitto.





SEGUE..






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..




3. Messaggio dei libri sapienziali

A chi legge i libri della sapienza, soprattutto quelli che contengono materiale più antico (Proverbi ed Ecclesiastico) viene spontaneo un'osservazione:
parlano poco di Dio e quasi soltanto parlano della vita.

E ancora:
la maggior parte di quello che vi è scritto poteva molto bene essere scoperto da chiunque si fosse messo a pensare un po' sulla vita.

Sembra proprio che non dicano niente di straordinario.
Trattano solo delle cose comuni e della vita quotidiana.

Perché si trovano nella Bibbia?
Perché Dio si dette pena di ispirare tali cose?

Nei libri sapienziali dell'Egitto e della Babilonia si leggono molte cose del genere, spesso anche più belle di quelle raccontate nella Bibbia.

Che senso ha tutto questo?

Il clima sapienziale determinava la mentalità e il modo di pensare del popolo, come ogni giorno accade alla mentalità scientifica.

Proprio in questa terra lavorata dalla sapienza, fu piantato il seme della Parola di Dio e germogliò l'albero della Rivelazione.

Passò molto tempo prima che i sapienti si accorgessero del valore della rivelazione, rispetto alla stessa sapienza.
E non per questo cessarono di essere uomini di fede.

Ma la fede non influiva affatto sulle fonti e sugli schemi della ricerca che la sapienza faceva circa il senso della vita.

Oggi un antropologo può essere un uomo di molta fede, ma la sua convinzione religiosa non influisce affatto sui principi della sua scienza.

A poco a poco però, a misura che la Sapienza prendeva coscienza dei limiti delle soluzioni da lei proposte ai problemi umani, si apriva sempre più alla Parola della Rivelazione, trasmessa dai profeti e dai sacerdoti e contenuta nei libri profetici e storici.

I sapienti incominciavano, così, ad accorgersi del valore della Rivelazione per la loro ricerca sulla vita e cominciavano a prendere la Parola di Dio come fattore e strumento per la scoperta della Sapienza.

Senza sacrificare i suoi principi logici, la Sapienza recepì una influenza molto profonda per opera dei profeti e dei sacerdoti che la aiutò ad orientare la riflessione sulla sua origine e sulla direzione da prendere.

Arrivò a scoprire in Dio l'origine e il fine ultimo di tutta la sapienza che governa la vita umana.

Non si trattava di un Dio qualunque, ma del Dio di Abramo, del Dio dei suoi padri che fin dall'inizio, aveva orientato la storia del popolo.

Lo stesso Dio che stava alla origine delle leggi e dei valori che regolano la vita.
Allora, tutto diventò trasparente.

La legge si identificava con la Sapienza.
Lo dice il salmo 118.
Il campo delle ricerche si allarga.

Non solo la vita presente, con i suoi problemi, merita di essere analizzata, ma anche la storia del passato, dove questo Dio ha lasciato le impronte della sua Sapienza.

Nei libri dell'Ecclesiastico (cap. 44-50) e della Sapienza (cap. 10-19) affiorano considerazioni sulla storia.

La storia, vista non già con gli occhi del profeta e del sacerdote, ma con gli occhi propri del popolo, che sono gli occhi segnati dalla mentalità della Sapienza.

Giovanni ne fa la sintesi nel prologo del suo Vangelo, dove dimostra che la Parola creatrice, all'origine della vita, è la stessa parola salvatrice, che guida la storia.
Tutte due hanno la stessa radice in Dio e trovano la loro espressione concreta in Gesù Cristo «parola incarnata» (Gv. 1, 1-14).

La scoperta di Dio origine e fine della Sapienza, illuminò di luce nuova gli antichi proverbi.
Ci appaiono come il primo gradino umile e semplice della lunga scala che dalla vita sale fino a Dio.

Perciò i libri sapienziali, contenuti nella Bibbia, testimoniano una visione ottimistica della vita:
per chi ha occhi per vedere, la vita e tutta la realtà possono diventare specchio di Dio.

Questi libri sono la testimonianza eterna che il luogo di incontro dell'uomo con Dio è nella vita, nel povero quotidiano, nelle cose che scaturiscono dalla più profonda esperienza umana.

Rivelano che il più grande valore di ogni uomo è possedere la vita che vive.

Sono un invito a non cercare Dio fuori della vita:
né nella candela,
né nella promessa,
né nel pellegrinaggio,
né nel rito o nella cerimonia,
ma anzitutto nella vita.

A partire dalla vita vissuta così, il rito, la cerimonia, la promessa e il pellegrinaggio possono acquistare un senso reale.
Sono sempre un appello a non lasciarsi mai vincere dalle contraddizioni della vita;
sono gli incroci lungo il cammino, che può portare fino a Dio.

Il senso è sempre lo stesso:
quel popolo crebbe, riflettendo sul significato della vita, e ne scoprì valori e non valori.

Li sintetizzò in proverbi e li comunicò agli altri, i quali, a loro volta, approfondirono le origini di questa esperienza e così, poco a poco, arrivarono fino a Dio, autore di tutto quello 'che avevano e che vivevano.

Per questo i libri posteriori sono più profondi e parlano di Dio più dei primi.
In tutti, però, si sente la stessa aderenza costante alla vita.

Come i libri storici e profetici registrano la marcia verso Dio, attraverso la storia, così i libri sapienziali registrano la marcia verso Dio, attraverso un progressivo approfondimento della vita.

Un cammino non si fa senza l'altro, si completano a vicenda.

Insomma, benché la sapienza degli Ebrei fosse sotto molti aspetti uguale a quella degli altri popoli, nella misura in cui cresceva la riflessione sulle loro origini, sorgevano le distanze.

La Parola, venuta dal di fuori, orientava la ricerca della Parola, nata dal di dentro.
Si spiega così l'originalità della Sapienza di questo popolo.
Non degenerò nel fatalismo e nel dualismo caratteristico dei sapienti degli altri popoli.

In breve, possiamo dire così:
nei libri della Sapienza parla la voce del popolo.
Il popolo che riflette sulla sua esperienza di vita.
Il popolo esprime il suo gusto di sapere e di vivere e rifiuta di essere sconfitto dalla vita.
Il popolo rivela tutta la sua smisurata ricchezza, la sua ricerca di Dio, il suo incontro con la verità.

Nel cammino della Sapienza, la Rivelazione divina non si realizza, per' così dire, dall'alto in basso, ma dal basso in alto.

Partendo dalle radici della vita, gli uomini sono risaliti, hanno scoperto il loro creatore e lo hanno adorato.

Lo stesso cammino potrebbe essere ripetuto, oggi, perché già una volta ha avuto successo far pensare il popolo, farlo riflettere, farlo parlare e dire quello che sente;

far partecipare il popolo in modo che trovi il suo cammino verso la Verità, verso Dio;
non imporre, ma orientare e «educare», lasciandolo scoprire da sé, la sua ricchezza, e la sua esperienza di vita.

Mettere il motore in moto e non trascinarlo a rimorchio, come si fa con chi non ha arbitrio né opinione propria.
Ricordare sempre che la sintesi finale nella storia della salvezza, contenuta nei libri dell'Ecclesiastico e in quello della Sapienza, fu fatta non con i criteri del clero, ma della Sapienza, cioè del popolo.

Con questa visione della storia della salvezza fu varcata la soglia del Nuovo Testamento.

Oggi diremmo:
fondere la verità rivelata con le categorie usate dal popolo e con le quali il popolo orienta e governa la sua vita, e non con le categorie del clero.
Sarebbe questa la più alta funzione del clero in mezzo al popolo.





4. Ansia di vivere - necessità di morire

Da quanto abbiamo potuto verificare fin qui, la caratteristica degli autori dei libri della Sapienza è data dalla loro riflessione sulla vita.

L'accento cade sul buon senso e sul realismo.
Per cui si capisce bene come il problema della morte (che mette fine alla vita) e della sofferenza (che rende difficile la vita) occupassero gran parte della riflessione dei sapienti.

Affrontano la morte con una mentalità realista.

Da principio l'ideale di vita era:
vivere tanti anni, avere tanti figli, vedere i nipoti.
La morte tranquilla del vecchio realizzato era il coronamento della esistenza.

Non c'era nessun altro problema.
La morte era accettata tranquillamente, come un dato che faceva parte della vita.
Diveniva interrogativo angoscioso quando appariva prematura e violenta, e stroncava la vita e lasciava incompiuta l'esistenza.
Questo accadeva spesso.

I Caino uccidevano gli Abele.
Perché?

Nel capitolo sul Paradiso terrestre abbiamo visto come l'autore, che faceva parte dei circoli dei sapienti, risolse il problema:
la morte violenta è entrata nel mondo, l'uomo uccide il fratello perché, prima di farlo, si era già separato da Dio.

Ma poco a poco, il problema riguarda la morte in se stessa, la morte che esige una spiegazione.
Perché l'uomo deve morire se in lui arde la volontà indomita di vivere e di vivere sempre?

Il motivo di questa nuova problematica deriva dal fatto che, coscientizzato dalla lunga e secolare riflessione sulla vita, ìl sapiente comincia ad assumere un atteggiamento critico di fronte alla realtà, e non è più disposto ad accettare le cose con la facilità di prima.

Inoltre, la riflessione sulla realtà della vita ha dimostrato che neppure una morte tranquilla, dopo una vita lunga e felice, può essere considerata naturale e non è la suprema realizzazione dell'uomo.

Il libro dell'Ecclesiaste} soprattutto, dette un passo enorme nella storia di questa riflessione.

Davanti allo spettacolo del presente, l'autore finì col non credere più a tutto ciò che si diceva nel passato (più o meno come oggi).
Niente più valeva la pena.
Tutto era «vanità», e vanità della vanità «cioè, in termini popolari la vita è una grande sciocchezza che non vale la pena di essere vissuta» ( Eccle. 1, 2).

Per lui la vita era un tormento, proprio a causa della morte.
A che serve lavorare tanto e ammazzarsi di stanchezza, se poi un giorno si deve morire e lasciare agli altri quello che avevi messo insieme; senza sapere che cosa faranno di quello che tu hai conquistato con tanta fatica? (Eccle. 2, 18-19).

«È uscito nudo dal ventre di sua madre, nudo, come è venuto, uscirà pure da questa vita e non porterà con sé nessuna ricompensa del suo lavoro» (Eccle. 5, 14).

Tutte le possibili soluzioni date al problema della vita vengono sottoposte ad una critica serrata.

In questo modo niente vale la pena, e, dopo la morte, non t'importa più di niente, «perché il destino degli uomini è come quello degli animali; li aspetta uno stesso fine.

La morte di uno è la morte dell'altro.
Tutti e due ricevettero lo stesso soffio di vita e il vantaggio dell'uomo sull'animale è nullo, perché tutto è vanità (sciocchezza).

Tutti camminano verso uno stesso destino; tutti escono dalla polvere e ritornano alla polvere.

Chi sa dire se il soffio della vita degli uomini sale verso l'alto e il soffio della vita dei bruti scende verso la terra? (Eccle.3, 19,21).

Nessuno sa quello che succederà dopo la vita, al momento della morte.
Con questa riflessione l'autore del libro Ecclesiaste si risvegliò all'ipotesi di un futuro dopo la morte.

Oh se esistesse davvero! Ma con la sua scettica ironia egli stesso uccise, subito dopo, la speranza di incontrare qualche cosa nell'Aldilà.
L'ansia di vivere è messa a faccia a faccia con la barriera di una vita senza senso e di una morte che le ruba ogni speranza.

A questo punto la Sapienza scopre i suoi limiti, sbarra in un problema senza soluzione.
Guidata solo dai risultati delle sue conclusioni empiriche, arriva necessariamente alla costatazione dell'assurdo.

Ma la disperazione dell'assurdo, provocata dall'Ecclesiaste, svegliò nell'uomo il bisogno di sapere di più sulla morte e sulla vita.

L'Ecclesiaste ha creato problemi, là dove, prima di lui, nessuno li incontrava (più o meno come i nostri contadini del Sud e delle isole; una volta coscientizzati sui problemi della loro vita, incominciano a vedere la realtà della loro situazione con altri occhi, e non l'accettano più come prima).





SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (terza parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..





5. La fede in Dio squarcia il velo che nasconde il futuro

La coscienza critica della realtà cresce e il problema diventa sempre più grave:
qual è il futuro che ci aspetta?
La morte o la vita?

Le promesse del passato, dirette ad Abramo, si concretizzavano in proposte di felicità terrena:
popolo, terra, benedizione (Gen. 12, 1-3).

Dio lo aveva promesso e nessuno dubitava della sua fedeltà nel compiere le promesse.

Ma la realtà era proprio l'opposto;
invece di raggiungere il futuro promesso da Dio, i giusti soffrivano sempre più l'oppressione (Eccle. 4, 1-2), mentre quelli che non si curavano di Dio se la passavano bene (Eccle. 8, 10).

La situazione concreta di ogni giorno sembrava negare la giustizia di Dio e contraddire la sua fedeltà.

L'Ecclesiaste aveva dunque ragione.
Perché allora continuare a credere in questo Dio?

Il conflitto fra fede e realtà, che ne derivava, li minacciava di disperazione totale.

Metteva in dubbio la vita, la morte, Dio, e ogni altra cosa.

Il problema si presentava in questi termini:
il bene presente non totalizza né colma il desiderio di vita e di felicità suscitato dalla promessa.

Invece di vita e di felicità, la promessa aveva portato la frustrazione e la delusione.

L'espressione della crisi è vivamente descritta nel libro dell'Ecclesiastico.

Ma la situazione di conflitto tra fede e realtà, espressa e accresciuta dalle riflessioni dell'Ecclesiaste) sboccò in una nuova conquista.

La crisi fu causa del loro bene, perché li spinse a cercare nuove soluzioni.

La nostalgia di Dio e la fede nella sua fedeltà e giustizia furono più forti dell'apparente contraddizione della realtà.

Se Dio ha promesso, deve pure esistere un mezzo per vedere la promessa realizzata.

Se la vita presente nega la promessa, a causa delle contraddizioni e della morte, Dio deve pure essere più forte della morte, deve pure avere una potenza tale da conservare la vita degli uomini anche dentro la morte.

L'audacia della fede portò a spezzare la barriera della morte che stava soffocando la speranza.

A causa della loro fede nel Dio forte e fedele, riuscirono a rompere il circolo chiuso delle riflessioni e si aprirono alla realtà più vasta di una vita con Dio, per sempre, garantita dalla potenza e dalla fedeltà di Dio.

Nasce la fede nella resurrezione dei morti e nella vita con Dio dopo la morte.

Non fu un decreto a rivelare questa verità, ma la dolorosa riflessione dell'uomo, dal tempo di Abramo fino agli ultimi secoli prima di Gesù Cristo.

Le prime timide espressioni di speranza in una vita senza fine appaiono nei Salmi lO, 7; 16, 15; 22, 6; 26, 4.

Soprattutto il Salmo72 offre una formulazione più nitida di quello che cominciava a delinearsi nella mente dei sapienti:
veramente in mezzo alla mia amara rivolta, io mi comportavo come un animale, senza la coscienza di stare vicino a Te:
la tua mano mi difende, la tua provvidenza mi guida, e mi introduce nella felicità.

Perché, di fatto, che cosa può bastarmi sia in cielo come in terra, se io sto lontano da te, Signore?
Possono assalire il mio corpo e spezzarmi il cuore.

Ben altro è il fondamento della mia vita!
Il futuro che mi aspetta è Dio eterno.

Lontano da te non mi riesce vivere.
L'infedeltà verso di te è l'inizio della morte.
La felicità s'incontra camminando verso il Signore.

La certezza della mia vita è Dio per sempre» (Sal. 72, 21-28).

La fede infonde il coraggio di affrontare la realtà presente, e la pretesa sembra a prima vista assurda, ma alla fine, s'illumina:
è giusto sperare, perché Dio risuscita l'uomo.

L'espressione chiara di questa verità la incontriamo nel libro della Sapienza (capp. 1-5), là dove parla del destino degli uomini:
Le anime dei giusti (che sono morti) stanno nelle mani di Dio e nessun tormento le raggiungerà.

Sembra che siano morti agli occhi degli insensati; il loro passaggio è giudicato una disgrazia e la loro morte una distruzione, ma essi stanno veramente nella pace... Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé (Sap. 3, 1-3.5).
Si tratta di una importantissima conquista, lungo la strada della vita.


Più tardi nel Nuovo Testamento, Cristo verrà a completare ciò che i sapienti avevano insegnato della vita dopo la morte, sulla vita che non muore, ma vince con la forza della fede e con la speranza.

A causa della fede, la vita che non muore e che vince la morte è già una realtà.

Il futuro è già in atto, già si trasforma, fa risorgere il mondo e l'umanità dai disastri del male e della morte.

Credere nella vita che non muore è credere alla possibilità di rinnovamento del mondo:
da vecchio diventerà nuovo.




6. Considerazioni finali

Da tutto quanto abbiamo detto, traspare un'esperienza umana molto profonda e molto nostra.
Nessuno riesce a vivere solo.

Ogni uomo ha bisogno di far dipendere il suo Io da qualcuno che lo sostiene e che gli dà coscienza del suo valore e gli fa sentire la soddisfazione di fare qualcosa di utile.

Le sue forze ne sono motivate.

Molti fanno dipendere il loro lo dalla forza dell'amicizia che «e-duca» e dalla forza dell'amore umano.
Ma, pensandoci bene, ogni uomo sa che un giorno l'altro uomo morirà.

Se cade il sostegno, cade pure chi a lui si appoggiava.
L'amicizia e l'amore umano non sono così forti da poter vincere la morte.

Chi prende coscienza dei suoi limiti cerca di far dipendere il suo lo da qualcosa che oltrepassi la morte e lo faccia 'sopravvivere:

1/ dal lavoro e dal contributo al bene comune, perché il suo contributo continua ad esistere ed anche dopo la morte può essere una maniera di sopravvivere, ma l'Io sparisce nella collettività del gruppo e non esiste più.
Così pensavano anticamente i vecchi egizi ani e fu proprio la forza della speranza in una sopravvivenza nell'opera realizzata in vita che li portò a costruire le piramidi, ancora oggi in piedi.
Senza dubbio è un modo di sopravvivere.

2/ Dalla razionalità, che fa della vita un assurdo e chiede all'uomo di accettarla così; sarebbe davvero uomo colui che riuscisse a conformarsi all'assurdo della vita, accettando di vivere per poi sparire, tranquillamente nell'ora della morte.

3/ Dai figli, che continuano la vita e prolungano il nome del padre;
è un'occasione di sopravvivenza, in cui però l'Io sparisce.
La conquista della vita attraverso la procreazione è arrivata a degenerare nel culto della fertilità, praticato dai popoli della Palestina nei tempi antichi.


Tutte queste forme di sostenere l'Io e dargli continuità, perché la vita abbia un senso, con l'andare del tempo non soddisfano più, perché l'Io, la persona che interroga e vuol vivere, sparisce.

Nella Bibbia, questo circolo chiuso, dentro il quale l'uomo non trova via d'uscita per sopravvivere, si spezza.

Una Voce gratuita raggiunge l'uomo, voce che viene da una sfera di vita che non è più soggetta alla morte.
Una voce di amore, che stabilisce un dialogo.

La voce di Dio, che chiama ciascuno per nome, sveglia l'uomo e gli fa intuire una forza che lo fa vivere e che è capace di restituirgli la viti nell'ora della morte.

È la forza dell'amore e dell'amicizia, che chiama l'altro per nome e lo valorizza; questa forza sarà sempre vitale, perché l'amore, intuito e vissuto, è un amore eterno.

L'uomo si e messo a parlare con Dio e Dio ha svegliato in lui la volontà di vivere, e adesso che è aperto e mosso dall'amore di Dio, vuole andare oltre la morte e vivere sempre.

Desiderio giusto e normale, confermato più tardi dalla risurrezione di Cristo.

Solo questa amicizia e questo amore sono capaci di dare valore di eternità ad ogni amore e ad ogni amicizia umana.

Niente si perde.
Tutto diventa espressione della fede e della speranza, che fanno vivere per sempre.




SEGUE..



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