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"Viaggiando nella Bibbia" Riassunto Generale

Ultimo Aggiornamento: 06/07/2014 10:41
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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XVI [SM=g6198] [SM=g6198]

la libertà del cristiano:
prassi pluralista della stessa fede in Gesù Cristo





1. Una situazione di conflitto nella Chiesa, sintomo di un male occulto


Paolo non se la intendeva molto con la comunità di Gerusalemme.

Non era colpa sua.

Alcuni cristiani di là non confidavano in lui.

Oltre a conservare il ricordo doloroso della persecuzione che Paolo aveva
fatto contro di loro (Atti 9, 13-26), lo giudicavano troppo avanzato.

Correva voce che avesse fatto piazza pulita di tutte le tradizioni e che incitasse i giudei del mondo intero a mettere da parte l'osservanza della legge di Mosè (Atti 18, 13; 21, 28) .

Avrebbe detto che la circoncisione non valeva più niente (Atti 21, 21).

Più o meno come se oggi qualcuno dicesse che il precetto domenicale, il celibato, il digiuno eucaristico, i nastri, la corona alla Madonna ecc. non valgono più niente.

Paolo sentiva fino in fondo la mancanza di fiducia dei suoi fratelli nella fede.

Proprio contro di lui, che aveva dato tutto se stesso per amore di Cristo nel quale anche loro credevano (Gal. 2, 20; II Cor. 10, 1; 11, 22-23; Fil. 3, 5-8).

Oltre ad essere falsa, l'accusa contro di lui era sintomo di un male occulto.

Rivelava una divergenza molto profonda tra Paolo e i suoi colleghi di Gerusalemme.

Le loro idee sul Vangelo e sulla funzione e il posto di Gesù nella vita degli uomini erano radicalmente opposte.

Paolo giudicava del tutto compatibile con l'unità della fede un certo pluralismo nella maniera di viverla.

I Giudei convertiti vivevano la fede nella sincerità e nel dono di sé, seguendo le prescrizioni di Mosè: (Atti 21,20; cf. 10, 14-28; 11, 3; 1,46). Paolo non era contrario a questo.

Anche lui, quando lo credeva opportuno, osservava la legge (I Cor. 9,20).

Non per questo potevano accusarlo di opportunismo, giacché non cercava il suo interesse.

Non poteva sopportare la pretesa di certi colleghi di Gerusalemme, che volevano addurre la maniera giudaica di vivere il vangelo come l'unica valida e autentica, imponendola a tutti come passaggio obbligatorio per entrare a far parte della salvezza di Cristo. (Atti 15, 1.5.24).

Paolo diceva che un pagano convertito al cristianesimo doveva poter vivere la stessa fede a modo suo, differente dai giudei ma con la stessa sincerità e con lo stesso dono totale di sé.

Ed era proprio qui il punto di divergenza.

Gli altri non avevano la stessa apertura di spirito e contestavano la tesi di Paolo.

Forse non agivano neppure con malizia, ma spinti da una coscienza
deformata.

Paolo però aveva i suoi dubbi sulla sincerità di costoro (cf. Gal. 2,45; 4, 17; 6,12; Fil. 3, 2).

Comunque fosse, essi si davano molto da fare e si organizzavano per raggiungere il loro fine.





2. Dubbi e dissidi interni generati dal conflitto


Ne venne una grande confusione all'interno della Chiesa (Atti 15, 2).

Nessuno sapeva più dov'era la Verità.

Chi aveva ragione?

Paolo o il gruppo di Gerusalemme, che si nascondeva dietro il nome dell'Apostolo Giacomo? (GaI. 2, 12).

Perfino Pietro, capo della Chiesa, stava in dubbio, non riuscendo a distinguere il cammino giusto, a causa del carattere eminentemente pratico del problema, e subì l'influenza del gruppo di Gerusalemme
(Gal. 2, 11-14).

La Chiesa si trovava al bivio e nessuno sapeva quale fosse il cammino giusto che bisognava prendere.

Non era stato previsto.

Cristo non aveva lasciato niente di scritto:
le norme precedenti non erano capaci di equilibrare il problema totalmente nuovo, che richiedeva creatività, La scelta era difficile: continuando sulla strada dei più moderati non sarebbero caduti nel pericolo della persecuzione, però nessun pagano sarebbe più entrato nella Chiesa per non sottomettersi al rito della circoncisione;
la Chiesa si sarebbe ridotta ad una setta giudaica che il tempo avrebbe inghiottito.

Continuando sul cammino di Paolo, il mondo giudeo e romano si sarebbero abbattuti sul cristianesimo, (cf. Atti 13, 45; 13, 50; 14, 2.5; 16, 20) ma la fede si sarebbe aperta a tutti gli uomini indistintamente.

Che fare?

Attirare su di sé l'ira di tutti e mettere in pericolo la sopravvivenza della fede per eccesso di velocità, o procedere con più calma e mettere in pericolo la sopravvivenza della fede per morte prematura?

Paolo era della prima idea e si batté per sostenerla.

Soffrì molto a causa della sua convinzione.

I suoi avversari fecero di tutto per screditarlo.

Tentarono di contestare la sua autorità:
il Vangelo che predicava era roba sua, non era il Vangelo degli Apostoli Pietro e Giacomo (cf. Gal. 2, 6-9; 1, 19-23).

Una volta distrutta la sua autorità, tutta la base del suo lavoro sarebbe stata minata.

Paolo fu costretto a difendersi dimostrando che non c'era nessuna divergenza fra lui e i due grandi apostoli (Gal. 2, 1-10).

Fece di tutto per sfatare l'impressione che lui fosse un demolitore della legge e della tradizione (cf. II Cor. 11, 21-23; 12, 11; Atti 25,8; 24.14-16; I Cor. 9,20; Rom. 3,31;10, 4).

È ben possibile che la reazione degli altri contro Paolo fosse causata solo dalla paura della persecuzione.

È difficile dare un giudizio a distanza di tanto tempo.

Paolo almeno la pensava così:
«lo fanno solo per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo!» (Gal. 6, 12). E li chiamava «falsi frate11i,> (Gal. 2, 4;
II Cor. 11, 26.12-13).






3. La convinzione di Paolo tradotta in gesti concreti


Poco importava a Paolo che uno fosse circonciso o no, che fosse un cristiano venuto dal giudaismo o dal paganesimo
(Gal.6, 15; 5, 6; I Cor. 9, 20).

A nessuno era proibito di osservare la legge di Mosè.

Ma allo stesso tempo non sopportava la pretesa addotta da altri, che la legge fosse indispensabile per essere cristiani.

La salvezza portata da Gesù era aperta a tutti, perché Paolo diceva che bastava la fede in Gesù Cristo, intesa come adesione totale a lui
(Gal. 3, 22; 2, 15-19.21).

Di fronte a Cristo tutti siamo uguali.

Le osservanze, le prescrizioni e quella enormità di norme, tutto passa in secondo piano come mezzo e strumento.

Perciò quando lo riteneva utile, per farsi cioè giudeo con i giudei, Paolo osservava la legge di Mosè (I Cor. 9, 20).

Arrivò perfino a circoncidere Timoteo per facilitare il rapporto con i Giudei (Atti 16, 3).

Ma si oppose energicamente a fare lo stesso con Tito, quando gli altri ne volevano fare una questione di principio (Gal. 2, 3-5; 5, 2).

Lo stesso si dica delle osservanze giudaiche rispetto al bere e al mangiare.

Paolo credeva che in tutte queste cose quello che vale è la coscienza (Rom. 14, 1-5).

Facesse pure ciascuno quello che gli pareva meglio, purché seguisse sempre la sua coscienza e facesse tutto per il Signore (Rom. 14, 6-9), perché alla fine «il regno di Dio non è una questione di mangiare e di bere» (Rom.14, 17).

Che fossero liberi davvero! (Gal. 5, 1).

Quando però gli altri pretendevano fare di cose secondarie una questione di principio, allora Paolo reagiva con forza perfino contro lo stesso Pietro (Gal. 2, 11-14) e protestava che le pretese di lui erano contrarie alla volontà di Dio, adatte solo a «fomentare l'orgoglio» (Col. 2, 23).

Niente di più che semplici prescrizioni umane (Col. 2, 12).

Paolo aveva orrore dell'uniformità dell'agire imposta in nome della fede.

Non gli piacevano coloro che non capivano niente di quello che è essenziale e assumevano il ruolo di difensori delle cose secondarie, pretendendo di definire con la loro misura l'ortodossia di un altro.

Come egli diceva:
«il regno di Dio non è una questione di mangiare o di bere»;

noi oggi potremmo dire:
«il regno di Dio non è questione di comunione data in mano o in bocca, di prete sposato o no, di colore dei paramenti, di veste bianca o marrone, di confessione una volta al mese o una volta all'anno, di Messa con una lettura o tre, di digiuno eucaristico di 50 o 60 minuti, di «e con il tuo spirito» o «egli sta in mezzo a noi», e di una infinità di altre quisquiglie che offuscano la chiarezza della visione.

Il Regno di Dio è «giustizia e pace allegria nello Spirito Santo» (Rom. 14, 17).

Quello che vale davvero è «la fede che opera e si manifesta nell'amore» (Gal. 5, 6).

Tutto il resto è buono valido ed utile in quanto ha la capacità di portarmi a questo e di questo è l'espressione.

Altrimenti non vale niente; «certamente non viene da Colui che vi chiamò» (Gal. 5, 8).

In un'altra occasione Paolo arrivò a prendere un atteggiamento che gli deve essere costato molto.

Tornando a Gerusalemme dopo il III viaggio missionario nel mondo pagano, accettò di portare alcuni uomini al tempio per sciogliere una promessa fatta secondo la legge di Mosè.

Si trattava di una manovra tattica messa su da alcuni suoi colleghi di Gerusalemme, per dare agli altri l'impressione che Paolo non era contrario alla legge.(Atti 21, 20-24).

Ma in altri casi, quando era solo problema di convenienze a tavola, Paolo arrivò a scontrarsi con Pietro in pubblico (Gal. 2, 11-14).

Per motivi di tradizioni e convenienze giudaiche, Pietro si lasciò coinvolgere dal gruppo di Gerusalemme e abbandonò la convivenza con i pagani convertiti mangiando solo con i giudei convertiti.

Per questa ragione i pagani si sentirono ridotti ad una categoria di cristiani inferiori e si sentirono costretti dalla situazione ad osservare le stesse convenzioni.

Di fronte a ciò Paolo reagì fortemente:
«Se tu, pur essendo giudeo, vivi come uno che non è giudeo, come puoi costringere i non-giudei a vivere come i giudei?»
«Disse questo alla presenza di tutti». (Gal. 2, 14).

Si vede bene che nonostante fossero in gioco interessi così importanti, la lotta ieri come oggi nasce sempre dalle cose più comuni della vita, cose irritanti, di nessuna importanza; eppure la battaglia si decide proprio là.

Si avanza di un chilometro conquistandoselo centimetro per centimetro.






4. La libertà in Cristo


Quello che stava a cuore a Paolo era soprattutto la sua libertà.

Libero dalla legge (Gal. 3, 13) libero da tutto per poter in tutto seguire la sua coscienza nuova, nata in lui dal giorno della sua adesione a Cristo (Gal. 5, 1; 2, 4).

L'obbligatorietà non si impone dal di fuori, nasce dal di dentro.

Per niente avrebbe cambiato la sua libertà (Fil. 3, 7-9) e non avrebbe permesso che altri impedissero ai pagani di vivere la sua stessa libertà (Gal. 2, 4-5).

Neppure Pietro, il capo supremo della Chiesa, aveva l'autorità per farlo (Gal. 2, 14).

Neppure quei «capoccioni»' o «superapostoli» di Gerusalemme (II Cor. 11, 5; 12, 11).

Li affrontava coraggiosamente perché scriveva:
«non mi sento affatto inferiore a loro» (II Cor. 12, 11) perché «lo Spirito di Dio sta in me come in loro» (I Cor. 7, 40).

Partendo da questo punto di vista, Paolo prendeva le sue decisioni non senza consultare gli altri apostoli (Gal. 2, 1-2), che anzi non trovavano niente da ridire di lui, per lo meno in linea di massima (Gal. 2, 6-9).

Forse nella pratica non riuscivano a capire del tutto perché Paolo agisse così.

Molta gente infatti non riusciva a seguire l'apertura di Paolo, perché non era passata per la stessa lotta e per la stessa esperienza per cui era passato lui... Paolo, da parte sua, non esigeva che tutti la pensassero come lui.

Sapeva rispettare la coscienza degli altri.
Proprio perché era davvero libero, si rendeva schiavo degli altri
(I Cor. 9, 19).

Era capace di vedere nell'altro, per quanto debole e tradizionalista egli fosse, un «fratello per cui Gesù è morto» (I Cor. 8, Il).

E se per caso il suo libero modo di agire fosse una pietra d'inciampo per l'altro, era disposto a non mangiare carne per tutta la vita pur di aiutare il fratello (I Cor. 8, 13).

Mise in pratica quello che aveva scritto ai Galati:
«Fratelli, siete stati chiamati alla libertà, non a una libertà che scatena la carne;
anzi siate schiavi gli uni degli altri per amore» (Gal. 5,13);
l'amore lo portava a rispettare la coscienza degli altri.

Chiedeva solo che non gli rendessero più difficile il compito, imponendo restrizioni che non avevano niente a che vedere con la fede in Cristo, e che non nascondessero sotto il manto della fede, e del buon ordine la loro mancanza di coraggio ad affrontare la realtà e le persecuzioni (Gal. 6, 12).

È importante notare che tutto ciò per Paolo non restava nel campo della teoria o sulla pagina scritta.

Aveva il coraggio di insegnarlo agli altri mettendolo lui stesso in pratica e assumendo il rischio delle conseguenze.

Aveva il coraggio di dire ai Galati, popolo semplice e senza molta cultura:
«Lasciatevi guidare dallo Spirito Santo e non servirete più ai desideri della carne» (GaI. 5, 16).

I «desideri della carne» erano tutte quelle preoccupazioni circa le osservanze materiali sul mangiare e sul bere, sulle feste e sulle norme e soprattutto sulla circoncisione che doveva farsi nella carne.

Ma Paolo non si fermava qui.

Dopo avere indicato agli altri la strada, non si risparmiava quando sorgevano difficoltà con le altre autorità.

L'impegno di Paolo con Cristo si traduceva concretamente nel suo impegno con gli altri.

Non stava a fare tante distinzioni teologiche.

Non faceva tante distinzioni tra teoria e pratica.

Si appellava alla prassi del suo impegno reale:
«Da oggi in poi non mi date più gioia, perché io porto nel mio corpo le impronte di Gesù» (Gal. 6, 17).

Alludeva alla sofferenza e alle torture sopportate per amore degli altri.







5. Soluzione del problema: accettazione del pluralismo


Il tempo passava e nella Chiesa aumentava la confusione.

La convivenza tra i cristiani venuti dal paganesimo e i cristiani venuti dal giudaismo diventava sempre più difficile (Atti 15, 1-5).

Era urgente risolvere il problema e raggiungere una visione più chiara del Vangelo.

Convocarono una riunione a Gerusalemme, registrata nella storia come il primo Concilio ecumenico (Atti 15, 6).

Si discusse a lungo (Atti 15, 7).

Alla fine parlò Pietro e chiuse il dibattito:
ciò che salva davvero e libera l'uomo è la sua fede in Gesù Cristo (Atti 15, 11).

Disse questo non per fare cosa gradita a Paolo, ma perché lui stesso aveva visto e capito per esperienza personale e per luce divina che questo era il cammino giusto (Atti 15, 7-9; 10,44-48).

Si schiarì l'orizzonte.

Non fu proibita l'osservanza della legge di Mosè.

Fu solo condannato il carattere obbligatorio dell'osservanza per i pagani convertiti (Atti 15, 10).

Giacomo appoggiò la decisione di Pietro (Atti 15, 13-19) e tutti e due si allontanarono definitivamente da quelli che andavano dicendo il contrario (Atti 15, 24).

Si preoccuparono di lasciare ben chiaro nel comunicato finale della riunione che:
«Essendo stati informati che alcuni dei nostri, senza nessuna autorizzazione, sono venuti a mettervi sottosopra con certe affermazioni, lanciando la confusione nei vostri cuori, abbiamo deciso all'unanimità di designare alcuni uomini e mandarli a voi insieme ai carissimi Barnaba e Paolo, che hanno messo a repentaglio la loro vita per il nome di nostro Signore Gesù Cristo». (Atti 15, 24-26).

Accettata la tesi del pluralismo nel modo di vivere la fede in Gesù Cristo, si cercò di concretarla nella pratica, dando le una certa struttura. La tesi è una cosa, la pratica è un altro paio di maniche.

Nell'applicare la norma generica, gli apostoli seguirono il buon senso.

Non si poteva esigere, per esempio, da un giudeo convinto, come nel caso di Pietro e Giacomo, che andasse a vivere con i cristiani venuti dal paganesimo.

Non era neppure necessario.

Non si poteva esigere da Paolo che si adattasse alle norme della convivenza giudaica.

Per questo lasciarono a Paolo e Barnaba la cura delle comunità esistenti nel mondo pagano.

Pietro e Giacomo si sarebbero incaricati delle comunità del mondo giudaico. (Gal. 2, 7-9).

Tutti però avevano il diritto di vivere la fede in Cristo nella santa libertà della loro coscienza.

Tuttavia, in vista della reciproca convivenza, i pagani convertiti dovevano osservare quattro norme proposte da Giacomo (Atti 15, 20; 21, 25).

Tornò la pace (almeno come possibilità reale), fondata sul rispetto e
sull'accettazione mutua delle divergenze.

I cristiani riuscirono a scoprire e ad accettare la volontà di Dio in mezzo alla confusione generale.

Per quanto possa sembrare assurdo, la accettazione realista delle reciproche divergenze lanciò le basi di un riavvicinamento e di una comunione molto più intima e reale di quella che gli altri avrebbero preteso di raggiungere, imponendo a tutti gli stessi legalismi nel modo di vivere la fede in Gesù Cristo.

Nel Concilio i cristiani conservatori di Gerusalemme, rinunciando alle loro esigenze, tagliarono per così dire il cordone ombelicale e permisero che Cristo nascesse davvero per il mondo intero.

Proprio a causa della loro magnanimità, che certamente non fu facile, raccolsero la gratitudine e il riconoscimento dei cristiani venuti dal paganesimo.

Da questa gratitudine nacque alcun tempo dopo una delle più belle iniziative di unità:
la grande colletta nelle chiese del mondo pagano a favore dei poveri della comunità di Gerusalemme.








6. Dal pluralismo nasce l'iniziativa dell'unità


I cristiani di Gerusalemme, con quella concessione piuttosto sofferta, sbarazzarono la strada del messaggio cristiano al mondo pagano.

Dal mondo pagano, forse a Corinto (II Cor. 8, l0), partì l'iniziativa di retribuire il bene ricevuto (Rom. 15, 27).

Organizzarono una campagna di fraternità che guadagnò la simpatia e la collaborazione di tutte le comunità della Galazia nell' Asia Minore (I Cor. 16, 1); della Macedonia a nord della Grecia (II Coro 8, 1) e dall'Acaia a sud della Grecia (II Cor. 9, 2).

Si verificò perfino una certa concorrenza tra di loro per vedere chi dava più denaro (II Cor. 9, 2).

Furono generosi, nonostante la loro povertà (II Cor. 8, 2-3), perché si parla di una «somma importante» (II Cor. 8, 20).

Fu una mobilitazione generale delle chiese pagane a favore dei fratelli bisognosi di Gerusalemme.

Paolo si fece in quattro per questo lavoro.

Diventò abile mendicante per poter convincere gli altri a dare con generosità (cf.II Cor. cap. 8-9).

Non dobbiamo confondere questa campagna di fraternità con una delle solite collette.

Era segno eloquente che lo Spirito Santo non si lascia mai sconfiggere dai fatti nuovi.

Mai resta prigioniero delle idee degli uomini.

È Creatore e sa suscitare cose nuove quando gli uomini si arrendono per mancanza di idee, sopraffatti dalla realtà.

Divenuta ufficiale la divergenza tra i pagani e i giudei, accettati i fatti, riconosciuta la realtà nel primo concilio, questa stessa realtà nuova appena nata (come succede sempre) suscitò subito un altro problema: come mantenere l'unità nelle condizioni nuove?

Ma c'era di più:
dal momento in cui i cristiani di Gerusalemme riconoscevano e accettavano gli appelli di Dio negli avvenimenti, furono costretti ad assistere al lento spostamento dell'asse della Chiesa verso il mondo pagano.

Sapevano oramai che loro sarebbero diventati una piccola minoranza.

Qual era il loro posto e il loro futuro nella Chiesa?


Avevano tutti lo stesso Cristo, la stessa fede, lo stesso Padre, lo stesso battesimo, lo stesso Spirito Santo (Ef. 4, 4-6), ma la vita era pluriforme.

Da uno stesso tronco stavano spuntando i rami più disparati, sempre più differenti gli uni dagli altri a misura che crescevano.

Però nei rami, per quanto svariati e differenti, scorreva la stessa linfa, che faceva nascere in tutti le stesse foglie e gli stessi frutti:
frutti di carità divenuta concreta nella vasta campagna di fraternità.

L'iniziativa, al dire di tutti:
fu spontanea e non imposta (II Cor. 8, 3.10) e unì le comunità pagane più
di prima e dette ai fratelli di Gerusalemme una coscienza ben più grande di appartenere alla Chiesa più di prima.

La campagna faceva perfino parte del movimento per rendere ufficiale il pluralismo esistente nella Chiesa (Gal. 2, lO).

Era una forma come un'altra di rendere concrete le decisioni del Concilio.

La campagna non serviva tanto per dare agli altri l'impressione di unità, perché non c'era il pubblico del mondo che battesse le mani all'iniziativa dei cristiani.

Non si trattava di una facciata per nascondere la più profonda disunione.

Anzi nacque proprio dall'accettazione realista delle divergenze;
crebbe proprio in seno al pluralismo.

Fu la risposta grata dei cristiani pagani alla magnanimità dei colleghi di Gerusalemme, cui dovevano la libertà di vivere la loro fede secondo la loro ispirazione e la loro realtà (cf. Rom. 15, 26-27).

La disunione era stata vinta perché avevano saputo trovare il senso dell'unità al livello più profondo e più solido del pluralismo, in cui l'amore è libero di dar prova della sua creatività.

Sarebbe stata impossibile una campagna del genere prima del Concilio di Gerusalemme, quando si litigava ancora sulle idee e ognuno voleva imporre all'altro la propria opinione.

A quel tempo la campagna sarebbe stata nelle mani di un gruppo uno strumento di più per dominare l'altro gruppo.

Accettate le diversità e partendo da esse, fiorì l'unità e ogni fiore sbocciò nel suo ambiente con il suo concime e fece bella mostra delle sue qualità e dei suoi colori nella vetrina della Chiesa per rallegrare lo sguardo di tutti i fratelli.

La campagna provò fino a dove arrivasse l'impegno di ciascuno con Cristo e con i frate11i;
era il termometro della sua fede, della sua speranza e della sua carità.

Non era una forma di elemosina da quattro soldi, fatta per mettere a tacere la propria coscienza.







7. Conclusione


Non tutti i giudei convertiti riuscirono a vedere le cose in questo modo.

Non capirono l'immensa apertura del Concilio e continuarono anche dopo a difendere la loro posizione, dando noia a Paolo il più possibile.

Ma chi vince una guerra non si cura di una piccola scaramuccia.

Le discussioni, per quanto dolorose, non arrivarono a togliere a Paolo un profondo sentimento di gratitudine.

Sapeva discernere chiaramente tra l'iniziativa di pochi, anche se pericolosissima e molto sgradevole, e l'iniziativa della Chiesa.

Tutti questi fatti successero nel passato e non tornano più.

Oggi però esiste nella Chiesa una situazione di conflitto, che a quanto sembra è sintomo di una profonda divergenza circa il significato del Vangelo.

Non saremo proprio noi (oggi come allora) ad impedire la venuta al mondo di Cristo, mantenendoci attaccati a schemi e a modi di
pensare e di vivere che poco o niente hanno a che fare con la fede?

Non ci è richiesta forse una prova di magnanimità come ai primi cristiani?

Non dovremmo forse essere realisti e accettare il pluralismo nel modo di vivere la stessa fede in Gesù Cristo?

O abbiamo paura di affrontare la realtà e le persecuzioni?



SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XVII [SM=g6198] [SM=g6198] (ULTIMO)




fede nella resurrezione:
«se dio è con noi chi sarà contro di noi?»

Abbiamo parlato tanto di resurrezione fin dalla prima pagina.
Ci è venuta una curiosità:
«che cosa significa per noi la fede nella resurrezione?»

Tante cose si possono dire, e in tante maniere, a rispetto della resurrezione.
Non diremo tutto e neppure ne saremmo capaci.

Diremo solo quanto basta per rispondere alla domanda che è sorta:
«che cosa significa per noi oggi fede nella resurrezione?»




1. Posizioni che ci rendono difficile capire la resurrezione.


Oggigiorno si parla molto di resurrezione.

Molte sono le domande:
che farà Dio nel giorno della resurrezione?

Il corpo sarà lo stesso di ora?

Grande così?

Chi è brutto, brutto rimane?

E i bambini che muoiono?

Restano sempre bambini?

Se tutti risorgeranno in età matura, chissà che monotonia sarà la vita eterna senza la grazia dei bambini!

E quell'uomo che è morto bruciato e del suo corpo non è rimasto neppure un pezzettino?
Come se la caverà Dio con lui?

Tante domande sorgono e provocano discussioni inutili e insolubili.

Una domanda ne suscita un'altra.

Come il bimbo che va dietro ad un fiore dopo l'altro, e intanto si allontana sempre più da casa.

Quando finalmente si ferma, già si è perduto e non sa più da dove è venuto né dove sta andando.

Scoppia in un pianto dirotto.

Le domande sulla resurrezione sono simili al pianto di quel bambino.

Ci dicono che ci siamo perduti lontano da casa nostra, lontani dal vero senso della verità.

Ci siamo perduti non lungo i difficili sentieri della fede ma nella tela di ragno dei nostri pensieri che
hanno travisato del tutto il senso della resurrezione.

Non sappiamo più che farcene per vivere.

Il buon senso ha fatto capire a tanta gente che certe difficoltà non possono venire da Dio.

Non servono ad altro che a complicare sempre di più la vita già di per sé tanto difficile.

Altri non credono nella resurrezione perché non trovano prove sufficienti, capaci di convincerli.

Dicono che è impossibile provare con la scienza storica il fatto della resurrezione di Cristo, essendo troppi
i problemi implicati nella questione.

Altri ancora si mettono a studiare la resurrezione e vogliono sapere per filo e per segno cosa accadde
in quella domenica di Pasqua, come era il corpo glorioso di Gesù, come si dettero le apparizioni e come si spiegano le contraddizioni registrate nei Vangeli a questo proposito.

Altri infine studiano la resurrezione cercando di difenderla dalle difficoltà.

Cercano insomma di rendere la verità della resurrezione un po' più accettabile per l'uomo di oggi.






2. Come abbordare lo studio sulla fede nella resurrezione?


Credo che con un cristiano, che afferma di aver fede non si debba incominciare da un'esposizione sulla
resurrezione, tentando di documentare il fatto della resurrezione di Gesù con argomenti scientifici e cercando di sfatare gli argomenti contrari.

La resurrezione è una realtà che incide così profondamente nella vita ed ha ripercussioni così profonde su tutto
quello che facciamo che non è possibile farla dipendere da alcuni argomenti incerti, neppure tutti accettabili.

Bisogna partire da una base più solida.

Inoltre chi si mette in questa posizione già va al di sopra della resurrezione, almeno dal punto di vista psicologico,
perché essa viene a dipendere dalla spiegazione che lui darà.



Quando la verità della resurrezione viene a dipendere dalla mia spiegazione io per un momento divento padrone della verità.

La verità esiste e continua ad esistere in forza dei miei argomenti. Difficilmente permetterò allora che la resurrezione,
che è stata sotto il mio dominio e dipende da me, passi al di sopra di me con le esigenze radicali che comporta nella mia vita.

Anzi la Bibbia non colloca affatto la difesa della resurrezione come punto di partenza della sua dimostrazione.

Cominciare lo studio della resurrezione dall'analisi di quello che successe nella domenica di Pasqua ci sembra che
sarebbe come entrare per la porta che non ci introduce in casa.

Così facendo ridurremmo a priori la resurrezione ad un fatto isolato del passato, di un tempo completamente finito.

Ci allontaneremmo sempre di più dalla resurrezione.

Difficilmente si potrebbe in seguito capire che cosa essa significhi nella nostra vita.

I primi cristiani non fecero così.

Nelle lettere di Paolo, che sono anteriori ai Vangeli, si parla quasi ad ogni pagina della resurrezione.. ma quasi mai si parla,
ad eccezione di una sola volta(I Cor. 15, 1-4) delle circostanze storiche in cui si realizzarono le apparizioni e gli avvenimenti della domenica di Pasqua.

Quanto alle domande che siamo soliti fare oggi sulla resurrezione, Paolo risponderebbe così:
«Idiota! Quando mai si è visto un albero o una pianta uguale ad un seme?

Hai visto mai seminare piante ed alberi?

Si semina il seme da cui nasceranno piante ed alberi!
Così tu, che vivi oggi con la tua vita, sei come un seme dal quale, quando muore, nascerà un corpo nuovo, differente,
spirituale per virtù di Dio.

Tu incaricati del seme e al resto ci penserà Dio» (citazione sintetica e libera della I Cor. 15, 35-50).

Resta ancora una domanda:
«Ma allora che significava per Paolo fede nella resurrezione?».






3. Differenza tra noi e i primi cristiani


Molto grande è la differenza tra la nostra maniera di situarci oggi davanti alla resurrezione e la maniera dei primi cristiani
che incarnavano nella vita la stessa verità.


Per la maggior parte di coloro che credono nella resurrezione la fede nella resurrezione si riferisce tanto al passato
come al futuro.

Al passato:
perché diciamo nel «Credo»:
«credo che Gesù Cristo fu crocefisso morì e fu sepolto;

scese nella regione dei morti e risuscitò il terzo giorno».

In forza della fede nella resurrezione accettiamo che quasi 2.000 anni fa un sepolcro fu trovato vuoto e che Gesù risuscitò
apparendo molte volte agli apostoli.

Al futuro:
perché recitiamo nel «Credo»:
«credo nella resurrezione della carne».

In forza della fede nella resurrezione ammettiamo che un giorno, non si sa quando, i morti risusciteranno tutti.

La fede nella resurrezione tiene i piedi ben saldi su questi due pilastri, uno nel passato e uno nel futuro.

E il presente?

C'è qualche filo che leghi un palo all'altro passando sul nostro presente, che illumini la lampada della vita,
che ci faccia vedere la strada dove mettiamo i piedi e metta in marcia il motore dell'esistenza?

Chi vive oggi, che se ne fa della sua fede nella resurrezione?

Esiste qualche resurrezione nella sua vita?

Per la maggior parte di noi cristiani di oggi, sembra che la resurrezione abbia poco a che vedere col presente che viviamo.

È uno di quei misteri della fede difficili e nascosti nella voragine del passato e del futuro, del quale non sappiamo
bene che uso fare nella vita di ogni giorno.

Il modo di esprimere questa stessa verità nel Nuovo Testamento è molto differente.

La prospettiva è un'altra.

Perché io possa parlare della vita devo pur averla questa vita, devo pur essere vivo!
Un marziano, ammesso che esista, potrebbe benissimo studiare la nostra vita terrestre, ma la sua sarebbe sempre
una conoscenza di chi sta al di fuori di quello che studia.

Per quanto intelligente fosse quel marziano, un qualsiasi contadino della più abbandonata regione saprebbe parlare della
vita umana sul globo terrestre con più autorità di lui.

Un cieco che non ha mai visto la luce può ben immaginar si che cosa sia la luce, fare calcoli esatti e complicati,
ma il bambino che ha gli occhi per vedere la luce del giorno ne sa più del cieco, anche se non riesce a dire tutto quello che vive e sente a rispetto della luce.

La stessa cosa succede nel Nuovo Testamento quando si parla di resurrezione.

La fede nella resurrezione era la condizione necessaria per parlare della vita che ne deriva.

I primi cristiani non si mettevano al di sopra della resurrezione per arrivare a dimostrarla né se ne distanziavano
per meglio apprezzarla.

Non si preoccupavano, almeno nei primi tempi, di sapere esattamente quello che successe la domenica di Pasqua
e neppure cominciavano a studiare la resurrezione difendendola.

Chi vive non ha bisogno di dimostrare che è nato.

E neppure ha bisogno di dimostrare che i suoi genitori sono esistiti.

La resurrezione non ha bisogno di difesa.

Era la luce che faceva vedere e leggere la vita.

La fede nella resurrezione era l'ambiente della vita nel quale si viveva e si parlava.

Era come l'aria che respiravano.

Tanto chi parlava di resurrezione come chi ne sentiva parlare, tutti vivevano immersi nella stessa atmosfera nuova.

La fede nella resurrezione era la radice di tutto, come la vita che abbiamo è la radice di tutto quello che si fa nella vita.

Un ramo non può staccarsi dall'albero per vederlo meglio da lontano.

Sarebbe lo stesso che morire.

E neppure gli è necessario dimostrare agli altri che è unito al tronco.

Basta che dia frutti.

Sono questi la prova della sua unione col tronco e con la radice.

Quando il sole è alto nel cielo, nessuno si preoccupa di dimostrare e di difendere l'esistenza del sole.

Si preoccuperà piuttosto, questo si, di godere della sua luce e del suo calore, per migliorare la sua salute.

Da questa seconda preoccupazione è nato il Nuovo Testamento.

Sono due modi molto differenti di affrontare e di vivere la stessa verità.

Noi oggi collochiamo l'oggetto della nostra fede nella resurrezione nel passato e nel futuro.

I primi cristiani lo mettevano nel presente.



Se riflettiamo come il Nuovo Testamento parla della resurrezione, troviamo molti argomenti che possono aiutarci a fare
una revisione della nostra maniera di vedere e vivere la resurrezione.

L'irrompere della fede nella resurrezione è qualcosa di cosi nuovo che non entra nelle nostre teste.

Per cui, prima di studiare questa verità, prima di criticarla e di porle interrogativi, prima ancora di volerla difendere con i
nostri argomenti, conviene dare la parola al Nuovo Testamento ed ascoltare da esso che cosa intenda per fede nella resurrezione e come si incarni nella vita.

Altrimenti potremmo creare difficoltà dove non esistono e potremmo difendere cose che non hanno bisogno di difesa,
perché non hanno niente a che fare con la fede nella resurrezione.






4. Punto di partenza della fede nella resurrezione:

percepire i limiti dell'esistenza, barriere che uccidono la vita e la speranza dell'uomo


Per cogliere tutta la portata della novità di una cosa che irrompe nella vita, bisogna anzitutto esaminare la situazione precedente.

Proprio nel confronto tra il «prima» e il «dopo» si fa evidente il valore della cosa nuova che si è fatta presente.

Perciò ci proponiamo di esaminare prima la terra dove fu piantato e crebbe il seme della fede nella resurrezione, per vedere poi
se questa terra esiste ancora oggi in mezzo a noi.

Quei due tali discepoli di Gesù, Cleofa e il suo collega, che camminavano per la strada di Emmaus (Lc. 24, 13 seg.),
erano l'espressione di quello che accadde nella vita degli apostoli dopo la morte di Gesù.

Essi erano anche espressione di quello che si verificava nella vita dei cristiani che camminavano lungo la strada della storia nel tempo in cui
Luca registrò questo episodio nel suo vangelo, gente perseguitata che non riusciva più ad integrare nella sua vita la fede nella resurrezione,
perché la morte uccideva in loro la speranza e non incontravano più quel Cristo vivo in cui credevano.

Espressione di quello che accade anche oggi nella vita di molta gente.

«Speravamo che fosse il liberatore ma oggi è già il terzo giorno...»
(Lc. 24, 21).

Questo l'amaro lamento dei due.

Con la morte di Gesù qualcosa morì nella vita degli apostoli, qualcosa che aveva importanza fondamentale.

La vita per loro era ormai senza senso.


Prima di allora era cresciuta tanto la loro unione con Gesù che non avrebbero potuto concepire l'esistenza senza di Lui (cf. Gv. 6, 68-69).

Erano disposti a morire con Lui (cf. Mc. 14, 31), a soffrire per Lui, a morire per Lui, perché senza di Lui nulla avrebbe avuto più senso.

Per amore di Lui avevano abbandonato tutto quanto possedevano
(cf. Mt. 10, 28).

Gesù era l'asse della ruota nella loro vita.

La morte di,Gesù spezzò l'asse.

Si impose tragicamente come una barriera intrasponibile tra la situazione presente e l'ideale futuro che avevano alimentato.

Era meglio uscire da Gerusalemme (cf. Lc. 14, 13) e tornarsene ciascuno al suo lavoro ed al suo buco.

Niente più da fare.

Era stata un'illusione, un'utopia, una alienazione credere a questo Gesù e al messaggio che Lui predicava.
È finito tutto;. «... era già il terzo giorno...».

La Sua morte li riportò alla dura terra della realtà.

D'altra parte, poiché il velo del futuro era stato alzato ed essi avevano potuto intravedere le immense possibilità della vita umana
durante i tre anni di convivenza con Gesù, il desiderio non si spegneva.

Da quando si era chiuso il futuro con la morte di Gesù, la realtà si era fatta ancora più buia di prima.

Un altro futuro non li attraeva.

La morte aveva distrutto tutti i desideri uccidendo radicalmente qualunque aspirazione verso l'avvenire.

La morte di cui si parla non era solo la morte della croce.

Era tutta una situazione che culminava nella croce e che portava alla croce chi volesse fare lo stesso cammino di Gesù.

Le forze della morte erano più vive di sempre:
l'imperialismo romano, che con una sola parola ratificò la condanna a morte;

i soldati, che misero in atto la sentenza del governatore Pilato senza che vi fosse nessuna possibilità di impedirlo;

gli scribi, che se ne rallegrarono;

i farisei e il farisaismo, che la provocarono manipolando l'opinione pubblica;

la mentalità fluttuante del popolo e tanti altri fattori.

Tutto questo si unì in un 'unica forza contro Gesù (cf. Atti 4, 24-28) e riuscì a vincerlo.

Uccidendo Cristo, uccisero il futuro nel cuore degli apostoli.

La morte era personificata in questa situazione come una forza orribile che minacciava qualsiasi eventuale tentativo degli apostoli
di continuare a fare quello che faceva Gesù.

Tutto era finito.

Le ombre della morte erano sulla vita, soffocando qualsiasi speranza e minacciando e opprimendo' tutto e tutti.

Gli apostoli ebbero paura di fronte a questa forza, e fuggirono.
(Mc. 14, 50-52).

Sprangarono perfino le porte di casa. (Gv.20, 19).

Contro uomini atterriti nessuno poteva pensare di far nulla.

Erano stati sconfitti dalla realtà che li schiacciava.

La morte di Gesù uccise qualcosa negli apostoli, come la morte del marito uccide qualcosa nella moglie.

Come la morte dell'amico uccide qualcosa nell'amico che sopravvive.

Gli apostoli erano morti più dello stesso Cristo.

Si era inaridita la fonte e l'acqua era finita.

Avevano distrutto la turbina e si era spenta la luce.

Questa era anche la situazione dei cristiani che camminavano lungo la strada della vita verso l'anno 75, quando Luca scrisse il suo vangelo.

Avevano in cuore una grande frustrazione.

Avevano creduto per molto tempo a Gesù Cristo.

Si diceva che era vivo, che stava in mezzo alla comunità.

Avrebbe riportato vittoria sulla morte, e chi credesse in lui avrebbe partecipato della forza che vince la morte.

Ma dove era Gesù?

Dove questa vittoria?

L'impero romano continuava a perseguitare coloro che credevano in Cristo.

Non permetteva che i cristiani aprissero una nuova strada verso il futuro, dando un nuovo senso alla vita umana.

I cristiani stavano morendo come criminali comuni nelle prigioni e nell'arena.

Dov'era il Cristo?


«Pensavamo che lui fosse il Liberatore, ma oramai...».
Tra la realtà e il futuro si alzava una barriera insuperabile.

La morte, personificata nelle strutture dell'impero romano, uccideva la speranza nel cuore dei cristiani.

Perché continuare a credere?

Anche oggi molta gente se ne va per le strade della vita:
gente senza speranza, sconfitta dalla realtà che soffoca e uccide la speranza e distrugge il futuro.

Forze davanti alle quali l'individuo si sente impotente, che non riesce a dominare che lo superano di molto e mantengono la vita
in catene senza possibilità di espandersi.

Sembrano trascinare tutta l'umanità verso una totale schiavitù.

Qual è l'individuo che può fare qualcosa contro il potere economico, contro il potere della propaganda e dell'opinione pubblica,
contro il potere dell'ideologia e dello stato totalitario?

contro il potere della mentalità fluttuante del popolo, contro il potere della moda e delle convenzioni sociali,
contro il potere dell'ironia e del sarcasmo, contro il potere dell'organizzazione che ad alcuni accorda privilegi ed emargina altri, contro il potere della mistica dello
sviluppo molte volte contraddittoria?

Si fa tutto per l'uomo'.

«L'uomo è la meta» si va dicendo, mentre nel cuore dell'uomo muore la speranza:
innumerevoli sono le barriere ed i limiti contro i quali sbarra la vita sia personale che familiare, sociale ed internazionale.

Cresce la coscienza ma allo stesso tempo cresce il torpore.

Cresce la gente, ma aumenta il vuoto, la disperazione, la solitudine.

Quanto più aumenta il potere delle acque, tanto più aumenta la resistenza della diga che cerca di dominarle.

Queste ed altre sono oggi le sentinelle avanzate della morte che stende le sue braccia sulla vita, tutto coprendo
col suo velo di lutto e tutto minacciando di oppressione.

Non abbiamo forze per affrontare una simile realtà.

La morte, questa morte personificata nella situazione concreta, ci supera.

Si spegne all'orizzonte l'ultima lampada che ancora brillava.

Ognuno si arrangia come meglio può per non essere inghiottito dal niente e dalla totale frustrazione.

Ciascuno si cerca un posticino al sole.

Tanta gente non crede più a niente e a nessuno.

Giudicano ridicole ed infantili le timide iniziative che si fanno per spezzare il cerchio di ferro dentro il quale la vita muore asfissiata.

Si accomodano e diventano schiavi soddisfatti, contenti, tranquilli, chiusi in una gabbia d'oro, ma senza coscienza.

Si ripete oggi, benché a livello più elevato e più civilizzato l'antica «lotta per la vita».

Sopravvivere a qualunque costo... Ha ancora senso credere a qualcosa?

In mezzo a tutto ciò cammina il cristiano con la sua fede nella resurrezione, legata a un fatto del passato e ad uno del futuro.

Che se ne fa della sua fede per suscitare la speranza nel cuore degli uomini?

La nostra situazione attuale non è poi tanto differente da quella degli apostoli dopo la morte di Cristo.

Come al tempo di Luca, ce ne andiamo con la fede sotto il braccio, senza sapere bene che farcene.

Non troviamo una breccia per innestarla nella vita per cui... una muda tanto preziosa finisce col morire anche lei senza dare frutti.

Il fatto è che non abbiamo coscienza dei limiti e dell'oppressione in cui viviamo.

C'è chi risolve il problema così:
la resurrezione si riferisce solo alla situazione che verrà dopo la morte.

Cercando di lavorare in questa vita per garantirsi la resurrezione in cielo dopo la morte.

Vedono il mondo solo come una grande officina, dove si aggiustano le macchine della vita perché possano entrare in cielo.

Ma in un'officina non si può vivere, non è nata per questo!
Neppure passa loro per la testa che la fede possa influire su qualche aspetto della vita che viviamo oggi qui.






5. Il nuovo che nasce tra gli uomini per la fede nella resurrezione


Ma, e qui sta la novità assoluta della resurrezione, il terzo giorno dopo la morte di Gesù, quegli 11 uomini fecero l'esperienza sicura ed
inconfondibile che Gesù era vivo (Lc. 24, 5.34).

Era proprio Lui, Lui in persona, quel Gesù col quale avevano convissuto durante tre anni (Atti l0, 40-41).

Le apparizioni lo confermavano (Lc. 16, 9-14; I Cor. 15, 1-4).

Era Lui!

Gesù superò una barriera che nessun uomo mai aveva superato.

Il Cristo vittorioso sulla morte stava adesso con loro, come un amico!

L'evidenza era lampante, anche se avevano incontrato qualche difficoltà nel credere subito all'avvenimento nuovo e inatteso
(Lc. 24, 10-11.37-43; Gv. 20, 25).

Non c'era più nessun motivo per sentirsi sconfitti dalla realtà.

Anche loro erano risuscitati.

Il velo del futuro si squarciò di nuovo per non chiudersi mai più.

Nacque una speranza nuova.

Nella loro vita entrò una forza nuova, la forza di Dio, una forza così grande che riuscì a far nascere la vita dalla morte (Ef. 1, 19-20).

Forza legata alla persona viva di Gesù Cristo, invisibile in sé ma visibile nei suoi effetti.

Forza più forte di tutto quello che prima era capace di uccidere in loro la speranza.

Tutte le barriere che impedivano la vita e soffocavano la speranza, tutte erano vinte per sempre:
la forza dell'imperialismo romano; del farisaismo, dell'opinione pubblica, della mentalità fluttuante del popolo.

Le forze della morte furono sconfitte.

La guerra era debellata, anche se la battaglia continuava ancora.

Era solo questione di tempo.

Niente più avrebbe oramai potuto spaventarli:
affrontavano il popolo, i giudei, il sinedrio, i romani, i farisei, la tortura, la prigione. (cf. Atti 2, 14; 4, 8.19.23-31; 5, 29.41; ecc.).

La vita che era nata in loro già aveva passato le frontiere della morte, era una vita nuova e vittoriosa. (cf. Ef. 2, 6).

Anche se fossero caduti sotto i colpi della morte, la vita non poteva oramai più morire (cf. I Cor. 15, 54-58).

Ora sì aveva senso resistere, non conformarsi alla situazione e far qualcosa per trasformarla!

I cristiani, camminando lungo la strada della vita, perseguitati dall'impero romano, lanciavano la domanda:
«Dove incontrare questo Cristo vivo?

Dove scoprire la forza che Lui ci comunica?»

Risponde Luca col racconto dei due Tizi che se ne andavano lungo la strada di Emmaus.

Scoprirono il Cristo e lo «riconobbero allo spezzar del pane»
(Lc. 24.35).

Nell'ora in cui i cristiani si riuniscono intorno all'eucarestia, quando il pane è spezzato e distribuito, quando celebrano
e fanno memoria della morte e resurrezione del Signore (I Cor. 11, 26), proprio lì sta la fonte da dove sgorga o dovrebbe sgorgare l'acqua nuova che irriga l'albero della vita
e lo rende capace di dare frutti.

Questa convivenza intorno alla mensa apre gli occhi (Lc. 24, 31) e fa sentire la voce di Cristo sia nella parola della Bibbia
(Lc. 24, 32) sia in quella del compagno anonimo che cammina con me lungo la strada della vita (Lc. 24; 15-16.35).

Luca indica questi tre canali di comunicazione con Cristo e con la forza che emana di Lui:
il fratello che cammina con noi, la parola di Dio e il convivio degli amici intorno alla stessa fede e allo stesso ideale, nell'Eucarestia.

Si capisce allora quanto cammino manchi ancora prima che la rinnovazione liturgica in corso possa realmente raggiungere il suo fine.

Servendosi di questi tre canali, i cristiani troveranno il modo di vincere la crisi e scoprire nella loro vita il senso della loro
fede nella resurrezione, ossia del1a loro fede in Cristo vivo in mezzo a loro. Credere nella resurrezione non è solo accettare un fatto del passato ed un altro del futuro, ma è anzitutto
un modo di vivere che nasce dalla scoperta di un amico vivo nella mia vita per la forza di Dio.







6. La resurrezione non è solo avvenuta ma avviene ed avverrà


La resurrezione di Gesù Cristo non è un fatto che circa 2000 anni fa dette corda ad un motore che funziona fino ad oggi.

La resurrezione non è un fatto che è successo e poi è finito.

Potremmo dire che Gesù ad ogni istante ascolta la voce di Dio che lo chiama alla vita (cf. Gv. 19-21; 6, 57).

Dio lo risuscita e gli dà una vita nuova con un agire incessante.

È come la luce:
funziona mentre la turbina del generatore continua a girare.

Nel momento in cui la turbina si ferma, la luce si spegne nelle case del popolo.

Nel momento in cui Dio, per ipotesi assurda e impossibile, cessasse di chiamare alla vita Gesù Cristo, luce del mondo,
(cf. Gv. 9, 5) si spegnerebbe la Chiesa, il popolo di Dio, i Sacramenti, la Fede; tutto cesserebbe di esistere.


L'azione di Dio che risuscita Gesù Cristo si può paragonare alla sua azione creatrice:
il giorno in cui cessasse di pronunciare la parola creatrice, noi tutti cadremmo nel nulla, sapendolo o no.

Il giorno in cui Dio cessasse di pronunciare la sua parola di salvezza che culmina nella resurrezione, la nostra fede non avrebbe più senso.
(cf. I Cor. 15, 14-15.17-19).

L'azione di Dio che risuscita Gesù Cristo non è come l'azione che dà corda all'orologio o accende il motore.

L'orologio o il motore, una volta messi in moto, camminano da soli, indipendenti dal loro padrone.

Ma è come il campanello, che suona se io premo il dito sul pulsante.
È come l'antenna trascontinentale via satellite, che capta le onde di altri continenti.

Se la trasmittente tace, l'antenna non capta più niente non trasmette più, e il video della televisione diventa nero.

Nel momento in cui Dio smettesse di dire la parola che risuscita Gesù Cristo, Cristo finirebbe.

Non sarebbe più niente, non rivelerebbe più niente e lo schermo della nostra fede si oscurerebbe, la nostra parola e la nostra
testimonianza di fede sarebbero vuote ed atone.

Una menzogna, uno chèque a vuoto (cf. I Cor. 15, 15).

In questo caso meglio sarebbe «mangiare e bere perché domani moriremo». (I Cor. 15, 32).

Ma Dio non leva il dito dal pulsante del campanello, non interrompe la trasmissione, non cesserà mai di chiamare alla vita Gesù.

Dio non inganna, non frustra.

Dio è fedele ed è abbastanza forte per continuare a fare quello che ha incominciato.

Non c'è forza che glielo impedisca.
Lui sempre vince.

È la nostra convinzione di fede.
Su che cosa si basa?






7. L'ultimo fondamento della fede nella resurrezione


L'ultimo fondamento, la radice stessa della nostra fede nella resurrezione è la buona volontà di Dio, la buona volontà di
Qualcuno che si è impegnato con noi in modo irrevocabile.

La fede nella resurrezione non dipende da una legge cieca e impersonale, non ha niente a che vedere con gli argomenti
filosofici che difendono l'immortalità dèll'anima, non si basa sul dinamismo irresistibile dell'evoluzione dell'universo che tende
al bene, e neppure si fonda su un calcolo nostro, basato in ricerche storiche che riescano a provare la storicità della resurrezione
di Gesù, e neppure dipende dalle prove che confutano gli argomenti contrari.

La fede nella resurrezione nasce dalla parola amica che Qualcuno pronuncia in nostro favore.

Così come la parola dell'amico può confermare una persona, restituirle la coscienza di sé e rianimarla ad una nuova speranza,
la parola amica di Dio raggiunge la persona umana alla radice, le ridà la coscienza di sé, la risuscita ad una nuova vita e la fa vivere per sempre.

Risuscitando Gesù dai morti, Dio dimostrò concretamente la sua buona volontà con gli uomini, espresse il potere irresistibile
della sua volontà di salvezza e di liberazione, ne affermò la fedeltà e ci fece sapere fino a che punto nel nostro agire possiamo confidare nella sua buona volontà verso di noi:

fino al punto di diventare capaci di fare l'impossibile, ossia fino al punto di sperare che dalla morte possa nascere la vita.

Dio ha cominciato a dimostrare la sua buona volontà fin da quando cominciò a lavorare con gli uomini, chiamando Abramo e liberando il popolo dall'Egitto.

Ci ha dimostrato, lungo il corso della storia, che l'uomo, quando ha il coraggio di impegnarsi con lui, trova quello che cerca, trova la felicità.

Il contenuto pieno della parola che cominciò a risuonare alle orecchie di Abramo e la forza totale che essa possiede apparvero nella resurrezione di Cristo.

In Cristo, un uomo come noi, che visse nella totale apertura e obbedienza al Padre e raggiunse la meta finale nella sua resurrezione;

Dio non solo lo risuscitò ma lo mise a parte della sua vita, dandogli tutto il potere, e gli consegnò il destino dell'umanità
(cf. Fil. 2, 8-11).

D'ora in poi, per sempre, un nostro fratello si trova presso Dio,
come prova capitale e definitiva che Dio prende sul serio la parola che ci ha dato un giorno (cf. Is. 40, 7-8) e che si può davvero contare su ciò che Lui dice e promette (cf. Ebr. 4, 14-16; 5, 5-10).

La risurrezione di Cristo è l'espressione permanente dell'impegno irrevocabile di Dio con noi.

È la prova permanente e suprema della garanzia che segue la promessa.

È la «nuova e eterna alleanza» di Dio con gli uomini.

Pertanto credere alla resurrezione non è credere a una cosa, non è credere ad argomenti, ma credere a Qualcuno che opera
in noi e per noi con potere immenso, capace di far uscire la vita dalla morte, di far diventare nuovo quello che è vecchio, orientandoci verso un futuro di dimensioni smisurate.

Credere nella resurrezione vuol dire:
oltrepassare fin d'ora con la speranza che anticipa il futuro i limiti già superati e abbattuti dalla resurrezione di Gesù crocefisso.

Nessun limite, nessuna barriera, nessuna difficoltà, nessuna cosa di questo mondo sarà capace di uccidere la vita e la
speranza che è nata nel cuore dell'uomo.

Credere nella resurrezione non ha niente a che vedere con fuga o alienazione dal mondo verso l'aldilà, o con un cristallizzarsi
intorno ad un fatto del passato già chiuso del tutto.

L'oggetto della fede nella resurrezione non sta né nell'eternità del cielo né nell'impenetrabilità del passato, ma nel futuro
della terra su cui fu piantata ed è piantata fino ad oggi la croce di Cristo.

Il fatto del passato testimoniato dagli apostoli ne è il fondamento.

Ma su queste fondamenta si alza l'immensa costruzione della vita che non muore e che rinasce dalle ceneri della morte,
anticipando il nuovo che sboccia sotto le mani di chi crede in lei.

Credere nella resurrezione è ciò che Paolo sintetizza con le parole.
«Se Dio è a nostro favore, chi sarà contro di noi?..

Chi potrà separarci dall'amore di Cristo?

Tribolazione?

Angustia?

Persecuzione?

Fame?

Nudità?

Pericolo?

Spada? ...

In tutte queste cose noi siamo più che vincitori, a causa della forza di Colui che ci amò.

Sono convinto davvero che né la morte né la vita né gli angeli né i principati né le cose presenti né le future, né le potestà
né le altezze né gli abissi né qualsiasi altra creatura potrà separarci dall'amore di Dio che sta in Cristo Gesù» (Rom. 8, 31.35-39).

L'enumerazione è completa:
niente può separare l'uomo da Dio e dal suo futuro, perché Cristo, che per la resurrezione vinse tutte le forze, sta a fianco di Dio
e intercede per l'uomo che crede in Lui (Rom. 8, 32-34; Ebr. 5, 7-9).






8. Conclusione: una sfida


La visione che i primi cristiani avevano della resurrezione dimostra che il problema fondamentale della fede nella resurrezione
non si trova fuori di noi, in possibili difficoltà di ordine scientifico.

È proprio dentro di noi:
siamo o non siamo capaci di aver coraggio di credere che Dio libera e salva con un potere superiore alle forze della morte?

La forza della resurrezione si caratterizza per il fatto che opera e si manifesta soltanto nella misura della fede che si ha in lei.

Non esiste un tasto automatico per mettere in moto il potere di Dio, potere gratuito a nostra disposizione.

È come il potere dell'amicizia:
funziona solo in forza della fiducia reciproca e della fede che l'uno ha nell'altro.

Paolo, volendo che i cristiani ne prendano coscienza, prega per loro e chiede al Padre che tutti arrivino a comprendere
«qual’è la suprema grandezza del suo potere che agisce in noi uomini di fede, l'efficacia della sua forza che Egli dimostrò in Cristo, risuscitandolo
dai morti e facendolo sedere alla sua destra in cielo, al di sopra di ogni principato, virtù, dominazione e di ogni altro nome, sia di questo che di quell'altro mondo» (Ef. 1, 19-21).

Quando nell'uomo nasce una coscienza simile, si mette in moto un potere irresistibile che non cesserà di agire, finché le forze
della morte non saranno sconfitte dalle forze della vita.

Il momento alto della fede nella resurrezione non è nel passato, né nel futuro, ma nel presente.

È l'albero che è nato dal seme piantato nel passato che oggi promette un raccolto copioso per il futuro.

Radica la vita dell'uomo in una pace profonda, ma agita i suoi rami in un non-conformismo intransigente a rispetto della situazione
del mondo attuale, non-conformismo che non riesce a far pace col mondo dove si è installato il potere della morte che opprime.

La chiave di volta della fede nella resurrezione sta nell'uomo, che scopre nella sua vita la forza attuante e permanente di Dio, che è il Dio dei viventi.

Solo così l'uomo, proprio lui in persona, risuscita e risuscitando si accorge della portata della sua fede nella resurrezione.

Non saranno certo gli argomenti scientifici che daranno valore alla fede nella resurrezione, ma sarà l'esperienza concreta della resurrezione
che darà valore agli argomenti che possono difenderla.

L'unica prova reale della resurrezione, quella che convince, è la vita che oggi risuscita e si rinnova, che oggi vince le forze della morte,
facendo sì che le forze represse e oppresse della vita siano scoperte e liberate per la gioia e la speranza di tutti.

Ciò prova che nell'uomo agisce una forza più forte della morte, la forza di Cristo risuscitato.

Dove sono i segni di resurrezione nella nostra vita, per cui la nostra parola sulla resurrezione di Cristo possa esserne confermata?

Molte altre cose potrebbero e dovrebbero dirsi per una esposizione completa sulla resurrezione.

Basta per tutte la finestra che abbiamo aperto, anche se piccola, per farci un'idea della tremenda portata della fede
nella resurrezione che trasforma la vita degli uomini.



FINE.


Seguirà un’introduzione “iniziale”, appena possibile.

Ringrazio tutti per l’attenzione.




Una stretta di [SM=g1902224]


Piero



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