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"Viaggiando nella Bibbia" Riassunto Generale

Ultimo Aggiornamento: 06/07/2014 10:41
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[SM=x2515800] [SM=x2515800] "Viaggiando nella Bibbia" Riassunto Generale [SM=x2515800] [SM=x2515800]




b.lettura


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CAP. I
[SM=g6198] [SM=g6198] paradiso: mito o realtà [SM=g6198] [SM=g6198]

1. Qualche difficoltà sul Paradiso

La scienza oggi dice che l'evoluzione è un'ipotesi molto probabile.
La Bibbia dice che l'uomo è stato creato direttamente da Dio (Gen. 2, 7) «Fece l'uomo col fango della terra». Chi dei due ha ragione?

Nel primo racconto della creazione (cf. Gen. 1, 26), l'uomo è creato per ultimo.
Nel secondo, invece, (cf. Gen. 2, 7) l'uomo è creato per, primo.
Come si spiega una simile contraddizione?

Molti miti e leggende dei tempi antichi parlano «dell'albero di vita» (Gen. 2,9), del serpente (Gen. 3, 1), di un'epoca paradisiaca all'inizio dei tempi.

Il linguaggio della Bibbia può essere interpretato in senso mitico e leggendario?

Nel Paradiso terrestre sgorga una fonte che alimenta quattro fiumi:
il Tigri, l'Eufrate, il Nilo, il Gange (Gen. 2, 10-14).
Dove trovare il luogo geografico di una simile sorgente?

Come è possibile che Dio faccia dipendere tutta la miseria umana dal peccato di una sola coppia?
Come è possibile che la donna sia stata formata dalla costola dell'uomo?
E la formazione dell'uomo dal fango della terra?

Domande del genere derivano dal fatto che forse incoscientemente attribuiamo al racconto del Paradiso un valore storicoinformativo. Cioè supponiamo che l'autore abbia scritto quelle pagine per farci sapere come andarono concretamente le cose, all'inizio della storia dell'umanità.

Lo schema mentale col quale leggiamo e giudichiamo il racconto del Paradiso non corrisponde all'intenzione dell'autore che ha scritto quelle notizie.

2. II punto di vista di chi ha scritto il racconto del Paradiso

L'autore vive centinaia di migliaia di anni dopo i fatti avvenuti, non gli importa nulla del passato in quanto tale;
ciò che gli interessa è la situazione che lui sta vivendo.
C'è qualcosa che non funziona.
Il futuro è in pericolo.
Bisogna correre ai ripari.
Il problema lo tormenta e lo spinge a scrivere.
Si tratta di un uomo profondamente realista.

Potremmo riassumere così l'intenzione dell'autore:
1/ Sente la situazione disastrosa del suo popolo e si propone di denunciare il male, apertamente.

2/ Non si ferma solo alla denuncia generica, ma tira le conseguenze delle responsabilità in gioco.
Vuole che il lettore arrivi ad individuare «l'origine» del disagio, del male che è causa di tutto il resto: «il peccato originale».

3 / Dal momento che la responsabilità è vaga e quasi incosciente, descrive i fatti in modo tale da coscientizzare i suoi fratelli circa una loro possibile colpa.

4/ Si 'propone di svegliarli ad un agire completo, che stronchi il male dalla radice, in modo da trasformare la situazione di malessere in una di benessere.
In altre parole, è ciò che la Bibbia chiama: «conversione».

5/ In fine, garantisce che la trasformazione è possibile, perché la forza che la realizza, che è la volontà di Dio, è più potente della forza che mantiene la situazione di malessere, in questo modo risveglia la volontà di lottare e di resistere al male, e genera speranza e coraggio.



3. Situazione concreta che l'autore si propone di denunciare

La capacità di percepire il male dipende, in gran parte, dal grado di cultura.
La mancanza di acqua, per esempio, è un male per noi, ma non altrettanto per un beduino del deserto.
L'autore denuncia il male d'accordo con la sua cultura, col suo tipo di coscienza e secondo la sua sensibilità.

Anzitutto egli denuncia una ambivalenza generale nella vita.

1/ L'amore umano, così bello in sé, è diventato strumento di dominazione (Gen. 3, 16). Perché?

2/ La generazione di nuovi figli, destinata ad aumentare la felicità tra gli uomini, avviene tra i dolori del parto (Gen. 3, 16) Perché?

3/ La vita stessa è ambivalente: voglio vivere, ma la morte sta in agguato (Gen.3, 19). Perché?

4/ La terra, destinata a produrre alimento per l'uomo, produce solo «triboli e spine» (Gen. 3, 18). Perché?

5/ Il lavoro, che dovrebbe essere mezzo di sussistenza, nasconde alcunché di incomprensibile:. molto sforzo e poco rendimento (Gen. 3, 19). Perché?

6/ Esiste inimicizia tra uomini ed animali. La vita non corre sicura. Il pericolo dei serpenti è reale.
Perché la vita combatte la vita? (Gen. 3, 15).

7/ Dio, creatore e amico degli uomini, di fatto, però, genera la paura (Gen. 3, 10\ Perché?

Inoltre, l'autore constata una violenza estrema: Caino uccide Abele, un uomo litiga con un altro uomo e si vendica fino a 77 volte (Gen. 4, 24).
Verifica che la vita di fede è - di fatto decrescente e si riduce ad un rito, ad una mescolanza di magia e superstizione, in cui il divino e l'umano si confondono (Gen. 6, 1-2).

Nota, infine, una totale disintegrazione dell'umanità:
non ci intendiamo più, tutti litigano gli uni con gli altri, tutti vogliono dominare.
L'uomo vive sulla difensiva (Torre di Babele, Gen. 11, 1-9).

Intorno a lui si verifica una situazione di caos completo.
La maggior parte non ne ha coscienza e contribuisce ad aumentarla sempre di più.
L'autore vuole che gli altri si accorgano del pericolo che corrono, andando di questo passo.
Egli è un autentico «non-conformista». Perché?

È convinto che non si può dare la colpa a Dio.
E neppure si può dire:
«Pazienza! Prendiamola come viene! È Dio che vuole così!»
Non gli passa neppure per la testa di cercare in Dio o nella religione il rimedio per una falsa pazienza che viene a patti con la situazione.
La sua fede gli dice:
«Dio non vuole tutto questo!».

Ne derivano due domande fondamentali:

1/ Come Dio vorrebbe, allora, che fosse il mondo?

2/ Se il mondo non è come Dio vuole, chi ne è il responsabile?
La sua fede in Dio ha fatto di Lui un uomo cosciente che non si adatta alla situazione.
Questa, anzi, lo spinge a resistervi, a cercare una soluzione e a stimolare gli altri perché raggiungano il suo stesso livello di coscienza:
«Se Dio non vuole che il mondo sia così com'è, io non posso contribuire perché continui così come sta! ».


SEGUE…





"Viaggiando" nella BIBBIA...

[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. I [SM=g6198] [SM=g6198] (seguito)

4. Dio come vorrebbe il mondo? Situazione ideale.

Neppure l'autore sa come dovrebbe essere il mondo.
Sa soltanto che Dio è buono, giusto, verace.
Per cui si immagina una situazione diametralmente opposta a quella che egli conosce.

Una situazione di radicale benessere:il Paradiso.
Nel Paradiso' descritto dal Gen. 2, 4-25:

l/la donna non è più dominata dal marito ma è la sua compagna, in tutto uguale all'uomo (Gen. 2, 22-24);

2/ la vita non finisce mai, perché c'è «l'albero della vita» (Gen. 2, 9);

3/ la terra produce alberi e frutti abbondanti e non è deserta (Gen.2, 8-9);

4/ il lavoro non opprime, anzi è leggero e rende molto, perché aver cura di un giardino alberato non richiede troppa fatica (Gen. 2, 15);

5/ la fertilità della terra è garantita da un'abbondanza d'acqua che nessun'altra parte del mondo possiede (Gen. 2, 10-14);

6/ gli animali, invece di essere nemici dell'uomo, gli obbediscono e lo servono (Gen. 2, 18-20);

Dio è amico degli uomini ed ha familiarità con loro perché passeggia, chiacchiera con Adamo (Gen. 3, 8); 8/ non esiste violenza, né abuso (in senso magico) delle cose divine e neppure dominio arbitrario sugli altri.

È la perfetta armonia:
armonia tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e gli altri uomini, tra l'uomo e gli animali, tra l'uomo e la natura.
È l'ordine radicale; tutto l'opposto del caos che egli conosce e soffre nella vita quotidiana.

Non esiste più ambivalenza.
È ciò che Dio vuole.
Il Paradiso è - per così dire - il bozzetto del mondo.

Una tale pianta della costruzione del mondo Dio la consegnò all'uomo, suo impresario, affinché egli, con le proprie mani costruisse la sua felicità.

L'uomo possedeva la possibilità reale:
1/ di vivere sempre ed essere immortale;

2/ di essere felice senza mai soffrire;

3/ di vivere in armonia con Dio senza mai peccare.
Non solo ce l'aveva, ma ce l'ha, perché Dio non ha cambiato idea.
Dio vuole ancora quel Paradiso.
Tale Paradiso dovrebbe esistere.
Con la sua descrizione l'autore denuncia il mondo di cui ha esperienza.

E il lettore, illuminato dalla sua denuncia, si pone la domanda, che è il primo passo verso la 'conversione':
«Ma perché, allora, il mondo è tutto il contrario di quello che dovrebbe essere?
Chi è il responsabile?».

Posto il problema, la risposta sarà data dalla descrizione del «peccato originale».

5. Chi è il responsabile? Qual è l'origine del male che esiste nel mondo?

L'autore parla un linguaggio strano per le nostre orecchie, ma molto chiaro e realista per quell'epoca.
La proibizione:
«Non mangerai dell'albero del bene e del male» suona arbitraria per noi.
Ma per loro, l'immagine dell'albero rappresentava la sapienza che guida l'uomo nel corso della vita. (Prov. 3, 18).
La Sapienza determinava il bene e il male, cioè quello che portava o no alla pienezza della vita, presso Dio.

Dio stesso aveva dato all'uomo una simile capacità di conoscenza, per mezzo della legge.
Per cui l'uomo che volesse definire da solo ciò che lo avrebbe portato o no alla vita (bene e male), poteva trovare qualunque cosa, eccetto la vita. Avrebbe trovato la morte.

La proibizione di mangiare i frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male significa la denuncia di un'umanità che non si cura della legge di Dio e decide di essere lei stessa il criterio unico e assoluto del proprio comportamento morale;
la vita non è più per l'uomo né dono né impegno, è sua proprietà esclusiva, al di fuori di qualsiasi rapporto di valori.
Per l'autore, la legge di Dio è strumento di ordine e di progresso.
La osservanza porta alla conquista della Pace e alla costruzione del Paradiso.

La radice del disordine stava nel fatto che i suoi contemporanei cominciavano ad abbandonare la legge, che sarebbe come dire la
«dichiarazione dei diritti e dei doveri degli uomini».

Il frutto proibito significa l'abuso della libertà contro Dio e perciò contro lo stesso uomo.

Per quale ragione gli uomini abbandonavano quel progetto di vita?
Il serpente li attraeva.
Il serpente simbolizza la religione cananea:
religione piacevole, con il culto rituale del sesso, libera da qualsiasi impegno etico, esigente soltanto rispetto al rito.
Costituiva la grande tentazione che lusingava il popolo a rifugiarsi in un rito facile, lontano dalle dure esigenze della legge.
Era questa, concretamente, al tempo dell'autore, la radice del peccato del popolo.

Con una simile precisazione l'autore spinge i suoi contemporanei ad una seria revisione di vita.
Il loro mondo potrebbe essere differente se non andassero dietro al 'serpente'.
L'autore non pensa tanto a quello che è successo in passato, quanto a ciò che accade intorno a lui e, forse in lui stesso.
È una confessione pubblica di colpa.

Adamo e Eva potrebbero chiamarsi: «Un Uomo e una Donna», per dire:
tutti noi.
Essi sono lo specchio critico della realtà che aiuta a scoprire in noi l'errore localizzato in Adamo ed Eva.

È proprio inutile chiedersi:
«perché dobbiamo soffrire noi per causa di un Uomo e di una' Donna?».
Non si tratta di scaricare la colpa sugli altri, ma di arrivare a riconoscere:
«Sono io che faccio questo! lo sono corresponsabile del male che esiste».

L'Autore non è nostalgico:
«Anticamente, tutto era così buono! ».

Egli vuole che tutti si scuotano, si sentano responsabili e aggrediscano il male alla radice, dentro di loro.
Vincere è sempre possibile, perché Dio lo vuole.
La descrizione dell' «origine del male» non si conclude con la catastrofe del «peccato originale».
La deviazione iniziale è appena il primo passo della disgrazia.

1/ Slegato da Dio, abusando della propria libertà contro Dio stesso, l'uomo si slega anche dal fratello: Caino uccide Abele; Caino rappresenta chiunque maltratta e uccide il fratello.

2/ La violenza si moltiplica spaventosamente fino a settantasette volte (Gen. 4, 24).

3/ Separatosi da Dio e dal fratello, l'uomo si mette sulla difensiva e cerca salvezza nella fuga, usando il rito e la magia (Gen. 6, 1-2).

4/ Finalmente, continuando di questo passo, l'umanità si impenna e si disintegra perché la convivenza e l'agire insieme diventano impossibili. (Torre di Babele).

Nonostante tutto, però, l'autore spera e predice la vittoria dell'uomo sul male, che viene dal serpente.


SEGUE..



[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. I [SM=g6198] [SM=g6198] (seguito)





6. Soluzione proposta dall'autore

Responsabile di tutto è l'uomo. Per questo non gli è permessa la ribellione contro il male (qualunque esso sia) bensì la lotta per sconfiggerlo.
Ha la missione e la capacità di farlo, perché Dio lo vuole. Il Paradiso esiste e continua a esistere come possibilità reale, dal momento che Dio non l'ha distrutto.
Ha solo messo un angelo sulla sua porta, perché l'uomo non se ne impadronisca senza averne il diritto (Gen. 3, 24)., Il futuro resta aperto.

L'autore afferma che Dio non ha abbandonato l'uomo, perché:
«Dio fece loro un vestito» (Gen. 3,21), protesse Caino (Gen. 4, 15), salvò Noè dal diluvio, causato dal male dell'uomo (Gen. 6, 9-9.17). Infine, quando la disintegrazione dell'umanità rese impossibile l'agire insieme, chiamò Abramo per raggiungere in lui tutti gli altri (Gen. 12, 1-2).

Comincia allora la cosiddetta «Storia della Salvezza».
Il gruppo di uomini che cominciò con Abramo è - per così dire ~ il «partito di Dio» nel mondo, per cui è possibile credere di eliminare il male con la forza di Dio, portare a termine la trasformazione e costruire il paradiso, la pace totale.

Questo gruppo nasce da una radice autentica:
vive con Dio (Gen. 17 , 1-2), la fa finita con la discordia e forma un popolo, il «popolo di Dio» (Es. 6, 7); condanna ogni forma di magia e di ritualismo (Es. 20, 1-7), non vuole dominare e non si difende per dominare, ma serve (Es. 19, 6) sul significato di regno, di sacerdote e di nazione consacrata).
I lettori cui si rivolge l'autore fanno parte di questo 'popolo'.
Egli vuole che sappiano che significa appartenere al «popolo di Dio».
Devono formare un gruppo attivo in mezzo al mondo, un gruppo che ha preso coscienza della situazione, che conosce il senso della vita e lo porta avanti, resistendo e trasformando.
Tiene viva la speranza, garantita dalla volontà di Dio che vuole il bene.

Con la venuta di Gesù Cristo il progetto di Dio ha preso corpo e il Paradiso è diventato realtà, nella Sua risurrezione. Per questo Paolo dice che Gesù è un «Nuovo Adamo» (Rom. 5, 12-19) e Giovanni
nell'Apocalisse descrive il futuro che ci attende con immagini prese dal Paradiso Terrestre (Apoc. 21, 4; 22, 2-3).

7. Risposte alle difficoltà fatte in principio

Mito o realtà?

È realtà perché si tratta del destino dell'umanità. L'armonia descritta è una possibilità reale garantita dalla potenza di Dio, che si manifestò nella risurrezione di Gesù Cristo.

È mito in quanto l'autore si è servito del linguaggio e delle figure mitiche del suo tempo per esprimere e trasmettere questa realtà.

È storico o soltanto immaginario?

Non possiamo pensare che il Paradiso sia esistito davvero, così com'è descritto nel Gen. 2, 4-25.
È esistita ed esiste tuttora la possibilità reale per l'uomo di realizzare la perfetta armonia e pace, quando si lascia guidare dalla luce e dalla forza di Dio.

È inutile dire:
«perché Dio non ha dato una seconda possibilità ad Adamo ed Eva?».
La sta dando tutti i giorni a noi, fino ad oggi. Il problema non è di Dio e neppure di Adamo ed Eva, è nostro. Il Paradiso esisterà e diventerà storico' se noi lo vorremo e lavoreremo per costruirlo. L'unica spedizione che arriverà a scoprire il Paradiso è quella che cammina sempre verso il futuro.

Sull'evoluzione la Bibbia non fa parola, né a favore, né contro. Tratta solo il problema umano.
Ci dà la visione di Dio sulla vita. Non c'è né contraddizione né concordanza tra Gen. 1, 26 (l'uomo creato per ultimo) e Gen. 2, 7 (l'uomo creato per primo).
Sono due racconti differenti.
Ciascuno ha il suo obbiettivo proprio.
Quanto all'unica fonte che alimenta i quattro più grandi fiumi di quel tempo (Gen. 2, 10-14) si tratta di una figura letteraria per idealizzare la fertilità della terra.

L'uomo fatto col fango è un'immagine per dire che l'uomo nella mano di Dio è come un vaso di terra nella mano del vasaio: dipende totalmente da lui e, per se stesso, è molto fragile (Ger. 18-6).
La formazione della donna dalla costola dell'uomo è la rappresentazione drammatica e concreta del detto popolare:
«osso degli ossi miei» (Gen. 2,23) che spiega al tempo stesso l'origine divina della misteriosa attrazione dei sessi.
L'uomo non ne abusi.

Il serpente è il diavolo in concreto: ne parla il libro della Sap. 2, 24. La deviazione originale dell'uomo significa l'abuso della libertà o la disobbedienza alla legge di Dio espressa nei 10 comandamenti. Questi, a loro volta, esprimono ciò che ogni uomo sente essere il suo diritto e il suo dovere, quando vive con autenticità.

Come successe e quale fu la forma concreta del primo peccato?
Nessuno lo sa, né la Bibbia lo dice. La Bibbia dice solo che al tempo in cui l'autore scriveva la radice del male risiedeva concretamente nella deviazione verso la religione falsa dei Cananei.

Tocca a noi, oggi, esaminare la nostra realtà, così come l'autore ha fatto per quella del suo tempo, per scoprire qual sia, oggi, la forma concreta del «peccato originale» e qual sia, oggi, il 'serpente' che ci spinge ad essere infedeli a Dio e all'uomo.

Se l'autore vivesse oggi, descriverebbe le cose in un altro modo:
avrebbe esaminato attentamente la nostra situazione, avrebbe cercato l'origine del male, forse avrebbe descritto il mondo ideale così: un popolo sviluppato, tutti hanno un salario più che sufficiente, tutti sanno leggere e scrivere, la settimana lavorativa è di 40 ore, la casa è in proprio e c'è la partecipazione al lucro; lo scopo non sarebbe il guadagno ma il benessere individuale e sociale dell'uomo; non ci sarebbe né sfruttamento né violenza, né dominazione straniera; strade larghe, senza incroci; nessun incidente stradale né eccesso di vèlocità; sicurezza garantita per tutti, di modo che non ci sarebbe bisogno né di polizia né di esercito; niente baracche né miseria, nessun conflitto di generazioni, né difficoltà nell'educazione, ecc.
in una parola, la perfetta armonia, completamente l'opposto 'di quello che viviamo nel mondo.
Un Paradiso simile dovrebbe diventare realtà. È possibile costruire un simile futuro?

Ci ripetiamo allora la stessa domanda, molto più difficile di tutte quelle che ci siamo fatte all'inizio:
«Perché il mondo non è così?
Che cos'è che gli impedisce di marciare verso il futuro?
Chi ne è responsabile?
Dove sta la causa?
Che cosa fare per trasformare il mondo, dal momento che non è come dovrebbe essere?».
La Bibbia, cioè l'autore del racconto del Paradiso vuole portarci a formulare domande del genere, molto più serie e impegnative di tutte le domande della storia.

8. Conclusione

La descrizione del Paradiso terrestre è una confessione pubblica, un manifesto di resistenza, un grido di speranza, un invito alla trasformazione del mondo.

L'autore non dà «le prove» dell'esistenza di un «peccato originale». Verifica soltanto e cerca di determinare quale forma prese la deviazione al tempo suo.
Non gli importa di elaborare una teoria del come entrò il male nel mondo, ma cerca una strategia per cacciarlo dal mondo.

La dottrina del peccato originale è stata spiegata ulteriormente, a partire da Paolo (Rom. 5, 12-19; I Cor. 15, 21-22). Il peccato attacca l'uomo alla radice, ma non annulla la sua capacità di fare il bene. Nella misura in cui il peccato personale cresce, facciamo esperienze del 'peccato' originale: «mordiamo la mela», facendo crescere in tutti coloro che vengono dopo di noi i mali di cui l'umanità è 'colpevole'.

Il Battesimo dà all'uomo la capacità di misurarsi col male. Lo impegna col gruppo che crede nel progetto di Dio e che cerca di realizzarlo nella storia, sperandone aiuto da Dio, per mezzo di Gesù Cristo.




SEGUE...



[SM=g1916242] "Viaggiando" nella BIBBIA...






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. II [SM=g6198] [SM=g6198]

Abramo: un uomo in cerca di assoluto.


1. Difficoltà sorte circa la figura di Abramo

Di Abramo si parla nel Gen. 12-25.
La sua vita non era facile ma lui godeva il vantaggio di avere Dio vicino a sé. Dio interviene, parla con lui ed orienta la sua vita.

E oggi?
Dove sta questo Dio?
Dio è cambiato, o noi siamo diventati più cattivi?
Se la storia di Abramo serve appena come esempio su cui riflettere per tirare qualche conclusione sulla mia vita, oggi, francamente preferisco pensare a Giovanni XXIII, a Luther King o a Gandhi. Uomini che hanno vissuto più da vicino la nostra vita di oggi.

Abramo ha vissuto una situazione del tutto differente.
Insomma, Cristo è già venuto, Abramo ha preparato la sua venuta.
A che serve esaminare ciò che è vecchio, dal momento che il nuovo sta sotto i nostri occhi?

Quando la casa è pronta, le impalcature si tirano via.
Continuare a discutere per sapere come era la vita di Abramo potrebbe essere una buona scusa:
«mi interesso di religione, quindi sono a posto e compio il mio dovere». Di fatto, però, non fa quello che dovrebbe per aiutare il mondo a diventare migliore.

Problemi del genere sono seri e mettono in dubbio la figura di Abramo rispetto a noi, oggi. Stando così le cose, come possono aiutarci testi antichi a risolvere i nostri problemi e a scoprire Dio nella nostra realtà?
Vale anche in questo caso quello che abbiamo già detto rispetto al Paradiso:
la nostra maniera di interpretare la figura di Abramo non corrisponde allo scopo dell'autore.



2. Il punto di vista della Bibbia rispetto alla figura di Abramo

Un esempio: celebriamo la presa di Roma commemorando il grido di Garibaldi: «O Roma, o morte».
Ci sono tante maniere di commemorare questo fatto:
1/i libri di storia adottati nelle scuole;
2/ il monumento di Garibaldi sul Gianicolo;
3/ la festa del XX Settembre;
4/ il proclama di Pio IX che nel 1870 si rinchiuse in Vaticano.
Maniere differenti di commemorare lo stesso fatto.
E se le analizziamo tutte attentamente, nessuna delle quattro è capace di darci una versione esatta del fatto in sé.

La storia è molto complessa; le interpretazioni sono spesso contraddittorie.
I libri di storia danno una versione del fatto in sé, e neppure la più oggettiva.

Il monumento di porta Pia, a Roma, ostenta l'importanza dell'avvenimento, così come lo sentirono coloro che l'hanno costruito.
La celebrazione del XX Settembre rivela un modo di interpretare il fatto; il proclama del Papa prigioniero ne rivela un altro.
Con la presa di Roma, ebbe inizio un processo, ancora in germe nel 1870, oggi molto importante per tutti noi;
la fine del potere temporale dei Papi.

I ricordi e le commemorazioni non si preoccupano del fatto in sé, quanto del significato che esso riveste per la vita.
Figuriamoci come sarebbe un monumento costruito a pezzi e bocconi: 1870.... 1970: Crispi - Mussolini - Saragat.
Ne risulterebbe un monumento sconnesso ed eterogeneo.
Ogni statista vi scolpirebbe un tratto corrispondente alla sua ideologia sulla libertà e sulla indipendenza.

I racconti della Bibbia rispetto ad Abramo compongono un monumento del genere.
Abramo visse verso l'anno 1800-1700 prima di Cristo.
In quel tempo lontano cominciò a nascere qualcosa, di per sé insignificante, ma molto amato dal popolo.

I discendenti di Abramo celebravano il fatto in sé, dandogli però il significato che assumeva per la loro vita.

In epoche successive (sec. X, sec. IX, sec. VI) si elaborarono nuove descrizioni corrispondenti alla mentalità del tempo;
finché, nel V sec., qualcuno stese la redazione definitiva, che è quella della nostra Bibbia.

È una mescolanza delle quattro descrizioni precedenti. Lo ha scoperto la ricerca scientifica degli ultimi 50 anni.
I racconti di Abramo somigliano a un monumento sconnesso ed eterogeneo.
Per cui è molto difficile sapere esattamente come andarono le cose, tanto più che la Bibbia non si preoccupa di dircelo.

L'interesse della Bibbia consiste nel presentare al popolo del suo tempo la figura di Abramo in modo tale che i contemporanei possano impararvi come scoprire la presenza di Dio e come camminare con lui nella vita. Camminare è indispensabile.

Ma tutto questo non è falsificare la storia?
Di un Tizio posso fare una fotografia o una radiografia.
Una è completamente differente dall'altra.
I libri di storia fanno la fotografia dei fatti.
La Bibbia li vede ai raggi X.

In tutt'e due i casi, i risultati sono reali, ma molto differenti. Inoltre, è quasi impossibile percepire tutta l'importanza e il senso di un fatto, nel momento in cui si svolge.
Ci riusciamo soltanto guardandolo da lontano.

Quando imbocchiamo una curva molto larga non ce ne accorgiamo neppure.
Ma chi guarda la strada da lontano è in grado di distinguere nitidamente l'inizio della curva.

Quando Abramo entrò nella «curva» che modificò il corso della sua vita, lui stesso, forse, non se ne rese conto.
Ma guardando il fatto a grande distanza, il popolo dice:
«la nostra vita con Dio cominciò lì, con Abramo».

La Bibbia racconta il fatto non già come lo visse Abramo, ma come lo vide il popolo a distanza di anni, attraverso il prisma dei problemi avvicendatisi nelle epoche successive della sua storia.

3. Com'era la vita di Abramo?

Da tutto quanto è stato detto, nasce una curiosità:
ma insomma, com'era la vita di Abramo?
Come avvenne quell'ingresso storico di Dio nella vita degli uomini?
Quale fu il fatto concreto in cui riconobbero l'inizio dell'azione di Dio?

Saperlo, ci aiuterà a vedere la nostra vita ai raggi X e a scoprire, là dentro, i segni della venuta e della presenza di Dio.
Abramo visse nei secoli XIX - XVII prima di Cristo.
Uscì dalla terra di Ur dei Caldei (oggi Irak, sul golfo persico), risalì l'Assiria (oggi Siria) fino alla città di Haran.
Di là, scese nella Palestina, entrò in Egitto, ritornò nella Palestina, dove morì nella città di Hebron.

Fece tutto per ordine di Dio, stava in contatto con lui.
Basta leggere la Bibbia (Gen. 12-25).
A questo punto bisogna notare' due elementi che illuminano il fatto dal punto di vista storico.

1/ In quel tempo esisteva un movimento emigratorio che, dalla regione del Golfo persico, attraversava la Siria e scendeva giù, lungo la Palestina, fino all'Egitto.
Abramo era uno dei tanti.
Non si distingueva dagli altri.

2/ Tutte le tribù che lasciavano le proprie terre in cerca di terre migliori, avevano i loro dèi. Erano gli «dèi della famiglia». Qualunque cosa facessero, era per ordine degli dei.

Conclusione:
ma allora Abramo era come tutti gli altri?
Non aveva niente di differente che lo distinguesse, neppure la sua fede?
Era uno dei tanti che si perdevano nella massa anonima?
Cosi sembra, guardando i fatti dall'esterno.

Che volevano significare quei popoli antichi quando parlavano di «Dio»? Che tipo di Dio era il loro?
il Dio della Bibbia o un altro, del tutto differente?

La religione comune a tutti i popoli che vivevano nel deserto, nacque, in parte, nella maniera seguente.
Succede sempre che la vita è il risultato di un'armonia fra la natura e l'universo:
piogge di primavera, greggi che svernano a valle, avvicendarsi delle stagioni, inondazioni che irrigano i campi, il sole che sorge ogni mattina, il giorno, la notte, i mesi e gli anni che si succedono.
Finché durerà tale armonia, la vita sarà al sicuro, perché la terra avrà di che germinare e l'uomo di che vivere.

Ma sappiamo che la vita è costantemente minacciata da forze imprevedibili:
terremoti, bufere, malattie, inondazioni disastrose ecc.
Ci sentiamo impotenti ad intervenire nelle forze dell'armonia e del disordine.
Sono più grandi di noi e non riusciamo neppure a spiegarle.
Si pensa che siano forze ultraterrene o divine. Per poter continuare a vivere, l'uomo deve farsele amiche.

Perciò comincia ad adorarle e così nasce la religione.

E, così, ogni popolo o gruppo umano si crea il suo dio protettore (patrono).

In quel lontano tempo, per vivere bene, in modo degno di un uomo, per garantirsi e preservarsi la vita, bisognava adorare gli dèi.
Guai a chi non lo avesse fatto!
Avrebbe messo e repentaglio la vita sua e quella degli altri, perché il Dio poteva irritarsi e non curarsi più di mantenere in equilibrio le forze della natura.

«Dèi» del genere non erano affatto Dio.
Erano espressione dei desideri e della paura degli uomini, della loro volontà di vivere.

Il culto dato agli dèi esprimeva la volontà dell'uomo di vivere con sicurezza.

In questo senso Abramo, al tempo suo, fu un uomo sincero, cercava di vivere bene, adorando quel Dio che aveva ereditato da suo padre.

Al giorno d'oggi la scienza ha demolito l'antica teoria dell'armonia e del disordine dell'universo.
Non provengono da forze divine. Per esempio:
il sole non sorge perché Dio lo spinge.
Le scoperte scientifiche hanno cambiato tutto.

Non è cambiata soltanto la volontà eterna dell'uomo di vivere una vita sicura, di riuscire ad essere fedele, di poter conservare la vita, di fare liberamente quello che gli dice la sua coscienza.

Al tempo di Abramo gli uomini riuscivano a farlo adorando le divinità e esercitando culti di magia.
Anche oggi c'è tanta gente che fa lo stesso, cercando di dare senso e valore alla vita.

Abramo cercava l'ideale della vita, il valore assoluto, cioè il valore più alto che, per se stesso, dà valore a tutto il resto.
Anche oggi c'è tanta gente che cerca il valore della vita e il valore assoluto, con una religiosità simile a quella di Abramo.
Alcuni lo fanno senza pensare alla religiosità, né a Dio né alla divinità, come per esempio nel lavoro per la famiglia, nello sforzo di costruire un mondo più giusto, più umano, più fraterno, nella professione di medico, di avvocato ecc.

Tutti pensiamo di realizzare la nostra vita umana e di cogliere nel segno.

In fondo, la preoccupazione di tutti è la stessa, benché le forme concrete di viverla siano molto diverse.
In quel tempo tutti vivevano il senso verticale della 'divinità'!
Oggi molti preferiscono il senso orizzontale dell"umanità' (lavorare per gli altri dare il mio contributo per il bene di tutti).



SEGUE..





[SM=g1916242] "Viaggiando" nella BIBBIA...

[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. II [SM=g6198] [SM=g6198] (seguito)



4. Dio come entrò nella vita di Abramo e come entra nella nostra?


La Bibbia, narrando come Dio entrò nella vita di Abramo, lancia un raggio X molto potente sulla nostra esistenza e ci rivela per quale breccia Dio entra nella vita dell'uomo facendosi incontrare da lui nel momento esatto in cui l'uomo si sforza di essere uomo, cioè quando lotta per realizzare l'ideale che si è proposto.

È questa la porta per cui Dio entrò nella vita di Abramo.
È un'entrata quasi impercettibile, all'inizio.

Sconosciuto, Dio entra nell'autobus dell'umanità, compra il biglietto, si mette a parlare con i passeggeri, si siede accanto ad Abramo, e quando questo si decide a dargli confidenza, Dio è già al volante.

Dio non entra presentandosi con un biglietto da visita:
«Io sono il Creatore, Signore di tutte le cose! Tu mi devi ubbidienza».

Dio entra alla chetichella, come un amico, per la porta di servizio, sempre aperta, prendendo posto nella vita dell'uomo e lasciando che l'uomo scopra da sé chi Lui sia.

Infatti quelle divinità erano proiezioni dell'uomo, espressioni delle sue più profonde aspirazioni.
In tutte queste maniere concrete di vivere la vita umana, si scoprono, poco a poco, i lineamenti del volto di 'qualcuno'.
Abramo e il suo popolo sentono una «Presenza attiva» (al di là delle apparenze con cui essa non si identifica) che si impone per l'evidenza.

Non si tratta più di quella divinità che, in fondo in fondo, dipendeva dall'uomo, ma di qualcuno da cui l'uomo dipende, capace di trasformare lentamente tutta la sua vita.

Incomincia, qui, quella curva larga e definitiva di cui il popolo percepirà pienamente il valore solo molto tempo dopo.
Nell'antica maniera di adorare le forze impersonali della divinità si vanno delineando, poco a poco, i tratti del volto del vero Dio.
Come il fiore che rompe il boccio, facendone cadere le prime foglie.

Il grande messaggio che ne deriva è la risposta sicura alla domanda:
«dove è Dio?»
«Dove lo posso incontrare?»
Dio si fa incontrare ed entra nella vita, là dove l’uomo cerca di essere sincero con se stesso e con gli altri, là dove scopre e vive l'assoluto.

Là dobbiamo cercare, tutt’oggi, i tratti del volto di ‘qualcuno’ in cui crediamo.
Non dobbiamo cercarli anzitutto nel culto.
Il nostro culto ha senso soltanto se esprime ciò che viviamo, giorno per giorno.

Abramo accettò questa presenza e si lasciò trasformare.
Guardando dal di fuori, niente sembra cambiato ma, di dentro, comincia a brillare una luce che lanciò i suoi raggi all'intorno, fino agli ultimi confini dell'universo e portò gli uomini a scoprire che questo ‘qualcuno' è Dio, creatore del cielo e della terra.

Per questo la figura di Abramo era così importante ed aveva tanto valore per quelli che vennero dopo di lui.

Ma se tutto passò così inosservato, come si spiega allora il dialogo costante fra Dio ed Abramo che la Bibbia racconta?
Dialogo vuol dire comunicazione fra due persone.
Ci sono mille maniere di dialogare.

Quando il marito parte per un viaggio, le mille e una cosa che porta con sé, gli ricordano la moglie.
È un dialogo, è una 'presenza' della sposa nella sua vita.
Presenza che lui solo sa, ama, e scopre continuamente, perché vive insieme a lei l'amicizia e l'amore.
Chi ama una persona, in ogni cosa la rivede e la sente presente.

I dialoghi formulati con parole umane rendono concreto ciò che il popolo ha scoperto di Dio, perché vive in amicizia con lui.
Quando una persona accoglie la presenza di Dio nella sua vita e crede in Lui, si stabilisce un dialogo tutto particolare, incomprensibile per chi ne sta al di fuori, ma perfettamente comprensibile per chi vive la 'presenza'.

Leggendo la storia di Abramo, ci incontriamo con un uomo come noi, che cerca di cogliere nel segno della vita e, in questo sforzo, arriva a incontrarsi col vero Dio.
Dio non stava né più vicino né più lontano da Abramo di quanto non lo sia oggi da noi.

Perché, dunque, oggi, non ci incontriamo con Dio?
Forse perché la nostra vista non è buona.
Siamo così preoccupati con una determinata immagine di Dio, che finiamo col pensare che 'quello' non è Dio!

Il nostro apparecchio ricevente non entra in sintonia con la frequenza di onda degli appelli di Dio.
Quel Dio che si rivelò ad Abramo ed è il nostro Dio, è il «Dio degli uomini>>, che non teme di restare nascosto.

Non si accorge della farfalla chi va a caccia di aquile.
Non vede il fiore chi cerca alberi.
Dio è veramente presente e si rivela, per esempio, nell'abnegazione della mamma per la sua famiglia, nel lavoro dell'operaio per mantenere i figli, nella lotta dei giovani per, un mondo più umano, nella gioia sincera d'incontrare un amico, nella comprensione che ci viene dall'altro e ci consola.
Qui sta il volto di Dio, e lo scopriamo poco a poco, un tratto alla volta.


5. Alcune conclusioni importanti

L'entrata di Dio nella vita degli uomini è silenziosa.
Egli si rivela via via e s'impone non nel chiasso ma nel silenzio e nella calma, a chi ha occhi per vedere.
Quando l'uomo arriva ad interessarsi della sua presenza, Dio già stava lì da tanto tempo.

Perché allora la Bibbia ci dice che Dio entrò nella vita di Abramo in modo brusco e quasi violento? (Gen. 12, 1-4).
Solo da lontano si vede meglio dove comincia la 'curva', dove comincia la trasformazione.

Anche se entra inosservato, Dio esige una 'conversione' totale, una vera rottura, una trasformazione della vita.
Dio si presenta come il futuro di Abramo:
«lo sarò il tuo Dio» (gen. 17, 7).
In altre parole:
«Affida a me tutto quel mondo di cose che vai mendicando agli dèi. lo sono il tuo Dio! te lo giuro!».

Così, l'entrata di Dio mette l'uomo di fronte ad una scelta radicale:
o scegliere questo Dio o ritornare alle divinità del passato.

Il Dio che entra è esigente:
« Voglio essere 'lo' il tuo Dio!» Non permette, quindi, che Abramo vada dietro ad altri dèi (monoteismo).
Se Abramo accetta di seguirlo, deve tenere il passo che lui vuole (aspetto etico della religione rivelata) e il suo futuro sarà garantito dalla fedeltà e dalla potenza di questo Dio (speranza nel futuro-messianismo).

Il difficile sta nell'accettare le condizioni che Dio gli pone e camminare nella fede:
Abramo è il prototipo dell'uomo che cammina nella fede, cioè che ha accettato le esigenze di Dio nella sua vita.

Deve uscire dalla sua terra per avere una terra, ma quando muore possiede solo un lotto dove seppellire le sue ossa.

Deve abbandonare la famiglia e il popolo per diventare padre di un popolo ma, al momento della sua morte, ha solo un figlio.

Quando Dio gli parlò e gli promise una numerosa posterità, Abramo non aveva figli e neppure poteva averne.
Era duro credere nella parola, perché non dava garanzie.
Nacque Isacco, e Dio gli ordinò di sacrificarlo.

Era lo stesso che uccidere l'unica speranza di essere il padre di un popolo.

Eppure Abramo fu pronto a distruggere l'unica garanzia e ad appoggiarsi unicamente sulla parola di Dio (Gen. 22, 1-18; Ebr. 2, 18).

Dio, a volte, è contraddizione.
Promette numerosa discendenza e ordina di uccidere il figlio.

Promette una terra e vuole che abbandoni la terra e, durante tutta la vita, Abramo non ebbe nessuna terra.

Eppure, per la sua fede, per la sua fiducia in Dio, Abramo fu così amico di Dio da diventare il suo confidente (Gen. 18, 17-19).

Un simile Abramo non corrisponde alla storia concreta della vita di Abramo, ma all'ideale di fede, proprio del tempo dell'autore.
Così avrebbero dovuto vivere i suoi contemporanei per essere degni di far parte del popolo, nato con Abramo.


6. Risposte alle difficoltà sorte in principio

La prima domanda o difficoltà ha già trovato la sua risposta nell'esposizione precedente.
La storia di Abramo risponde esattamente alla domanda:
«dove sei Dio?».

La storia non serve solo per trarne conclusioni sulla nostra vita di oggi (anche per questo).
Suo scopo è invitare il lettore ad essere lui stesso un Abramo nella sua vita:
uno che cerca di fare il punto sulla vita, che è sincero con se stesso e con gli altri, per scoprire, così, la presenza di Dio nella sua vita.

Cristo è già venuto.
È vero.
Ma per molti è come se non fosse venuto.
Forse, anche per noi.

Nessuno riesce a vivere perfettamente integrato con Cristo.
L'importante è che anche oggi lo uomo arrivi a scoprire come deve camminare per incontrare la sua piena realizzazione in Cristo.

La storia di Abramo ci dice proprio questo:
il primo passo della marcia verso Cristo è la sincerità della vita, l'amore della verità, la ricerca sincera dell'assoluto.

«Chi ama la verità, ascolta la mia voce». (Gv. 18, 37; 3, 17-21; 8, 44-45). Chi si mette su questa strada, scoprirà il volto di Dio nella vita.

Analizzare la vita di Abramo soltanto per sapere come visse e fermarsi lì, non rispecchia l'intenzione della Bibbia.

La risposta alle difficoltà di ordine storico ha suscitato nuove domande e nuove difficoltà, ancora più gravi e compromettenti delle prime:
«Cerco Dio dove lui si fa incontrare, o preferisco cercarlo là dove molto difficilmente si incontra?
Cerco Dio dentro o fuori della vita?
Se gli altri non sanno niente di Dio, la colpa non sarà proprio di noi cristiani, perché la nostra vita non rivela il volto di Dio?».



SEGUE..




[Modificato da mlp-plp 06/07/2014 10:41]
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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. III [SM=g6198] [SM=g6198]

esodo: Dio nella storia di liberazione degli uomini

1. Alcune difficoltà relative alla storia dell'Esodo

La storia dell'Esodo è tutta un miracolo dal principio (vocazione di Mosè) alla fine (passaggio del Giordano dopo quaranta anni di cammino nel deserto).

Non possiamo negare il miracolo, ma è strano che oggi non si ripeta per tanti popoli che anelano ad una liberazione identica.
Dio è cambiato?
oppure noi siamo diventati più cattivi?
Dov'è il miracolo?
Crediamo in un Dio liberatore. Ma dov'è oggi questo Dio?

La libertà sta morendo nel cuore degli uomini, siano essi ricchi o poveri, per colpa di tanti fattori che noi stessi abbiamo creato.
Dov'è il nostro Dio e la libertà che ci porta?

Molti si sono stancati di aspettare la libertà e sono passati all'azione liberatrice: Cecoslovacchia, Vietnam, Negri dell'America del Nord ecc.
In tutto il mondo si formano i cosiddetti «Fronti di Liberazione Nazionale», operai ed emarginati prendono coscienza e passano all'azione.

Che rapporto c'è fra tutto questo e il nostro Dio?
In genere questa gente che lotta prescinde da Dio.
Neppure ci pensano e non ne sentono il bisogno.
È frequente l'accusa ai cristiani:
«Vi dite liberi, ma vivete incatenati dalle leggi e dai precetti che vi impone il Dio-Liberatore.

Parlano di libertà ma nella loro vita la libertà non si vede.
Sono come il mendicante che si vantava di essere discendente dell'imperatore di Roma!

Liberi davvero siamo noi, che ci siamo sbarazzati di questo Dio!
A che serve in pratica per la nostra vita credere nel Dio-Liberatore?
Sono difficoltà serie che mettono in crisi tutto quanto la Bibbia ci dice sulla liberazione dell'Esodo.
Sembra che il nostro modo di vedere la Bibbia e la religione ci porti a una interpretazione del tutto sbagliata.


2. L'ottica della Bibbia nella descrizione dell'Esodo

Molte sono le descrizioni dell'Esodo contenute nella Bibbia:
nei libri dell'Esodo e dei Numeri;
nel Deuteronomio;
nel libro della Sapienza (capp. 10-19);
nei Salmi 77, 104, 105, 133;
nei libri profetici, specialmente Isaia (40-55).

L'avvenimento dell'Esodo quindi è raccontato da persone differenti in libri elaborati durante epoche differenti e le descrizioni corrispondono alle più disparate forme letterarie:
prosa e poesia, storia e profezia, inno e narrazione, liturgia e detti sapienziali.
Si tratta evidentemente di un fatto importantissimo per la vita del popolo:
tutti ne parlano e i commenti durano per tutto un secolo.
Qual è la causa di un così grande interesse del popolo per l'Esodo?

Lo scopriamo esaminando il loro modo di parlarne.
Nella descrizione dell'avvenimento ci imbattiamo in alcuni particolari che esigono spiegazioni:

1/ frequenti ripetizioni nel libro dell'Esodo (due volte la storia della manna, delle quaglie, dell'acqua che sgorga dalla roccia, della vocazione di Mosè, della consegna del decalogo ecc.);

2/ evidenti esagerazioni, come per esempio nella poesia dell'Es. 15 e nel libro della Sap.) là dove si descrivono le piaghe d'Egitto;

3/ sconcertanti incertezze:
il Sal. 77 enumera 7 piaghe, il Sal. 104 parla di 8 mentre il libro dell'Es. ne conta lO;
ma è noto che il libro dell'Es. si compone di tre tradizioni precedenti: la 'jahvista' del sec. X con 7 piaghe,
l' 'eloista' del sec. IX-VIII con 5 piaghe,
e la «sacerdotale» del secolo V o VI con cinque piaghe differenti dalle 5 della tradizione «eloista»;

4/ la progressiva accentuazione del miracoloso:
la tradizione 'jahvista' dice che soltanto l'acqua presa dal Nilo diventò sangue (Es. 4, 9);

quella 'eloista' dice che tutta l'acqua del Nilo si trasformò in sangue (Es. 7, 20) ;

quella 'sacerdotale' dice che tutta l'acqua dell'Egitto si trasformò in sangue (Es. 7, 19);

nel libro della Sap. del sec. I a.c. si raccontano cose"'addirittura fantastiche a rispetto delle piaghe.
Insomma quante sono state le piaghe?
Si ha l'impressione che l'ultimo autore dell'Esodo ne formulò 1O pensando che era un buon numero.

Cosa accadde in realtà?
Come avvenne la piaga dell'acqua cambiata in sangue?
Si può sapere come andarono davvero le cose?
Le caratteristiche letterarie di cui abbiamo parlato, messe in evidenza dall'esegesi moderna, rivelano la preoccupazione e l'ottica di chi scrive.

1/ L'autore non si preoccupa di raccontare soltanto una storia, né di fare una «cronaca giornalistica» degli avvenimenti dell'Esodo;
vuole anzitutto tramandare che senso abbia la storia della vita in continua evoluzione.
Non descrive, ma interpreta il fatto storico.
Pertanto non lo possiamo prendere alla lettera.
La Bibbia ci farebbe cadere in contraddizione.
Essa stessa non si lega al fatto materiale, né prende tutto alla lettera: ripete, esagera, travisa, suscita incertezze.

2/ L'interesse fondamentale della Bibbia, ovvero il senso che la Bibbia scopre nei fatti dell'Esodo, mette in evidenza che là Dio si rivelò al popolo imponendosi come il «suo Dio».
Dallo incontro con Dio il popolo prese coscienza di un impegno che doveva essere osservato:
l'alleanza.
Nel modo di raccontare il fatto la Bibbia si propone di mettere in evidenza l'iniziativa di Dio presente e attuante negli avvenimenti.

Si spiega allora perché il numero delle piaghe e il loro aspetto miracoloso siano in continuo aumento:
era l'unica risorsa perché il lettore di quel tempo si accorgesse che i fatti avevano una dimensione divina.

Un paragone può aiutarci a capire:
la fotografia e i raggi X.
I libri di storia sono fotografie:
descrivono quello che si vede a occhio nudo.
Perciò è impossibile toccare e vedere la presenza di Dio (cf. Gv. 1, 18).

Ma il raggio X della fede denuncia e rivela la sua presenza.
C'è differenza tra il modo di vedere le cose dello storico comune e il modo di vedere le cose della Bibbia.

Non usano lo stesso metro.
Non hanno gli stessi occhi. Per cui i risultati dell'analisi dell'uno non possono essere uguali ai risultati dell'analisi dell'altro, anche se non si contraddicono: sono aspetti diversi di un'unica realtà.

La descrizione biblica vuol presentarci i fatti in modo tale che il lettore possa cogliere la dimensione divina del passato, per imparare a cogliere la stessa dimensione divina in ciò che succede a lui e intorno a lui mentre legge la Bibbia.
Condizione indispensabile per cogliere il messaggio della Bibbia è cercare di avere gli stessi occhi dell'autore che la scrisse.


3. L'ottica della scienza moderna contrasta con l'ottica della Bibbia?

Niente ci impedisce di adottare lo stesso punto di vista dello storico né di applicare alla Bibbia i criteri della scienza moderna per arrivare a una più esatta comprensione storica degli avvenimenti.
Così si è fatto. I risultati sono stati i seguenti:
le piaghe erano fenomeni naturali, soliti a realizzarsi nella regione del Nilo;
il passaggio del Mar Rosso era ben possibile durante la bassa marea;
il vento impetuoso (cf. Es. 14, 21) fece ritirare le acque di un guado (dove pertanto era già possibile passare);
la manna era una sostanza resinosa commestibile.
Si tratta di conclusioni irrefutabili.
Anche oggi tutto questo succede in Egitto.

La scienza è arrivata a spiegare gli avvenimenti dell'Esodo in maniera naturale e può concludere:
non accadde nulla di straordinario.
Fu soltanto un felice tentativo umano di liberazione come molti altri, prima e dopo Mosè.

A prima vista una conclusione del genere disorienta.
Ma il risultato di questa ricerca storica è come una fotografia che la Bibbia non smentisce, ma suppone, per poi mostrare l'altro lato della medaglia ai raggi X: in tutto ciò Dio era presente.

La scienza a sua volta non può negare le conclusioni della Bibbia, perché andrebbe al di là delle sue premesse e della capacità dei suoi strumenti di analisi.
Gli strumenti di cui la scienza dispone non potranno mai registrare l'azione di Dio.
La sua presenza la scopre solo chi a Dio si apre con fede.
Dio sta al di qua e al di là della ricerca scientifica.

Per questo si nota nella Bibbia una certa indifferenza per l'aspetto storico concreto, dal momento che gli autori cadono in inutili ripetizioni, in esagerazioni e perfino in contraddizioni:
ingrandiscono e minimizzano, interpretano e travisano la prospettiva dei fatti. Tutto ciò non ha importanza.

Importa comunicare il messaggio profondo dell'avvenimento:
Dio era presente e agiva dentro il tentativo felice degli uomini di liberarsi.
La Bibbia vuole aprirci gli occhi su quello che succede oggi, intorno a noi. Si moltiplicano dappertutto i tentativi di liberazione.
Attenzione a non pensare che tutto ciò succeda indipendentemente da Dio e che a Dio non importi.

Ad occhio nudo non vedo il microbo, ma ne costato gli effetti (le malattie);
con lo strumento adatto riesco a vedere anche i microbi.
Soltanto con la ragione, non vedo la presenza di Dio né nell'Esodo né nel mondo di oggi;
ne registro soltanto i risultati:
un popolo più libero, più umano, più responsabile, più cosciente; ma con lo strumento appropriato - che è la fede mi accorgo che sono proprio questi i segni della presenza di Dio.

Successe in quel tempo quello che succede oggi e succederà sempre.
In tutti gli avvenimenti esiste una terza dimensione che non si distingue a occhio nudo.
E chi si lascia prendere troppo da un solo punto di vista perde la sensibilità per gli altri aspetti della realtà.
Chi vuol solo vedere il lato 'scientifico' delle cose diventa incapace di scoprirne il senso recondito a cui si ispirano l'arte, la poesia, il canto, la filosofia e la pittura.

Quando l'uomo si rinchiude dentro il suo 'io' e si limita alle sue scoperte scientifiche atrofizza la sua capacità di aprirsi a Dio e arriva a non dare più nessuna importanza alla dimensione divina che la fede scopre nelle cose.
Quante volte però la colpa non è della scienza, ma di coloro che professano la fede:
la loro vita quotidiana dimostra che la fede, di fatto, non contribuisce al progresso né allo sviluppo dell'uomo.

Sotto questo aspetto la Bibbia può essere una luce che ci aiuta a scoprire una dimensione nuova e occulta della vita. In particolare il racconto dell'Esodo può rivelarci la presenza attiva di Dio in certi campi della vita umana proprio là dove di solito non la cerchiamo.



4. Il fatto storico dell'Esodo e la sua dimensione divina scoperta alla luce della fede.

Tutto sommato chi osserva e studia il fatto dell'Esodo con criteri puramente umani lo riconosce come felice tentativo di liberazione dal giogo oppressore imposto da un uomo: il Faraone.
Cercarono la libertà e l'indipendenza.
Molti gruppi prima e dopo Mosè avevano tentato la stessa cosa.

Gli uomini continuano a tentare fino al giorno d'oggi perché il bisogno di libertà è sempre il più forte.
Illuminando tutta questa realtà con la luce della fede, la Bibbia lancia un messaggio che suona così:
quando si raccontano i fatti storici dell'Esodo e si insiste non tanto sull'aspetto materiale degli avvenimenti stessi ma soprattutto sull'esperienza viva e concreta fatta dagli uomini e sulla loro convinzione chiara e irremovibile che Dio è presente in ogni tentativo umano di liberazione, la Bibbia interpreta tale sforzo di liberazione come manifestazione della presenza di Dio tra gli uomini, inaugurando la strada che porta a Cristo e alla Risurrezione.

Con i suoi racconti la Bibbia ci trasmette il messaggio che ci aiuta ad accorgerci della (dimensione divina racchiusa nei fatti della nostra storia:
dovunque c'è uno sforzo sincero di liberazione, sia individuale che collettivo, là possiamo sempre riconoscere la voce amica del nostro Dio liberatore che chiama e interpella;
proprio di lì passa anche oggi la strada che porta gli uomini a Cristo e alla Risurrezione.

A questo punto ci troviamo di fronte a una difficoltà.
Può darsi che la maniera con cui la Bibbia vede la liberazione del popolo ebreo dall'Egitto sia stata il risultato di un'autosuggestione collettiva?
Certamente è possibile, ma allora come spiegarne gli effetti?

Sono libero di negare la presenza dei microbi, purché però trovi il modo di spiegarne le conseguenze (malattie).
I risultati documentati dalla storia sono tali che non possono avere nessun'altra spiegazione valida all'infuori di quella data loro dalla Bibbia.
Per cui l'impotenza della scienza storica a trovare una causa specifica adeguata alle conseguenze depone a favore dell'autenticità
dell'interpretazione data dal popolo circa i fatti accaduti proprio a lui, durante la fuga di liberazione dall'Egitto.

La storia arriva a questa conclusione attraverso la constatazione dei fatti che non riesce a spiegare.
Mano a mano che il popolo camminava, diventava più libero, più responsabile, più sensibile ai problemi umani, più cosciente più fraterno più forte e più coraggioso di fronte alle difficoltà della vita, capace di rialzarsi dalle cadute che segnarono la fine di tanti altri.

Tutto ciò è documentato dalla Bibbia e la ricerca storica lo conferma.
La vita del popolo lo mette in evidenza e lo stesso popolo attribuisce i risultati liberatori dell'Esodo all'azione di Dio.
La progressiva umanizzazione della vita riuscì ad imporsi, perché l'orizzonte che l'Esodo squarciò sul futuro del popolo superò la semplice vista umana e raggiunse l'incontro con Dio.

Un'ottica del genere così benefica all'uomo, là dove altre maniere di concepire la vita si rivelarono impotenti, merita senz'altro tutta la fiducia e non permette di giudicare autosuggestione collettiva quella esperienza di Dio che sta all'origine del popolo e che lo portò a conquistarsi la libertà.


5. L'Esodo: principio di una lunga storia di liberazione

Due sono i movimenti paralleli nella storia del popolo eletto.
Da una parte la coscienza progressiva dell'oppressione:
non è possibile liberare chi non ha coscienza dell'oppressione in cui vive e non sa cosa sia la libertà, né può riceverla dal di fuori.

D'altra parte la liberazione progressiva cammina parallela alla progressiva coscienza di oppressione: una volta coscientizzato della situazione in cui vive, il popolo si sveglia e assume la liberazione come suo compito esclusivo.

La Bibbia ci dice che sia l'uno che l'altro processo hanno a che fare con Dio.

In questo senso l'Esodo fu solo un principio e non un punto di arrivo.
La presa di coscienza incominciò là dove l'oppressione si faceva sentire di più:
oppressione politico-culturale.
Dopo l'Esodo continuò l'azione coscientizzatrice di Dio attraverso i condottieri scelti da lui fino ad attingere la radice di ogni oppressione, che è l'egoismo:
il ripiegarsi dell'uomo su se stesso che lo porta a creare strutture di oppressione in tutti i campi del1a vita.
D'altra parte il compito della liberazione non si limita all'uscita dall'Egitto; anzi ne fu solo l'inizio.

Il processo continuò persistente fino a strappare la radice dell'oppressione per l'amore liberatore di Cristo.
La vera libertà che Dio propone agli uomini nasce dall'amore a Dio e al prossimo.
L'Esodo incominciato da Mosè si conclude con Gesù Cristo risuscitato dalla morte alla vita vera.
Si riassume nelle parole del Vangelo: perdere la vita per amore, per poterla possedere pienamente (Mc. 8, 35).

Dio non ha bisogno della nostra libertà e neppure gli importa di darcela in dono. Dio è libero.
A contatto con Dio l'uomo si libera e riceve il germe della vera libertà.

II germe della libertà entrò nel cuore del popolo ebreo in occasione dell'Esodo e cominciò a mettere radici.
Il popolo viveva in Egitto da 430 anni (Es. 12, 40) senza alcuna coscienza di subire una oppressione.
Quando questa passò il limite della sopportazione, allora la coscienza del popolo si svegliò al desiderio di libertà espresso nella preghiera (Es. 1, 1-2, 25).
Dio rispose alla preghiera del popolo chiamando Mosè perché' realizzasse la liberazione (Es. 3, 7-10; 6, 2-8).

Nonostante tutta l'esaltazione dell'opera di Dio che la forza di una fede già più illuminata descrive nell'Esodo, sono evidenti nel testo le astuzie di Mosè per raggiungere il suo scopo.

La fuga doveva essere mascherata dal pretesto di un pellegrinaggio di tre giorni attraverso il deserto (Es. 5, 1-3; 7,16; 9, 1; 8,25-27).
Per evitare scontri pericolosi con l'esercito di Faraone, Mosè fece uscire il popolo per la strada del sud verso il Mar Rosso (Es. 13, 17-18).

Riuscì ad attraversare il mare grazie ad un vento forte e secco che fece ritirare le acque (Es. 14, 21) e suscitò una tempesta di sabbia nel deserto che impedì agli Egiziani la visibilità (Es. 14, 19-20).
Ma lo sforzo e il calcolo dell'uomo non sono la cosa più importante. Importante per loro e per noi fu la nuova fede sbocciata in mezzo al popolo dall'esperienza vissuta:
fede in Dio che camminava con loro e fede nella parola di Mosè interprete di Dio (Es. 14, 31).

La descrizione dell'Esodo si propone di suscitare nei lettori la stessa fede, lo stesso sforzo di liberazione per arrivare a celebrare tra di loro la presenza del Dio liberatore.
«Cantate inni al Signore, perché ha fatto risplendere la sua gloria» (Es. 15, 1).
In questo senso la descrizione dell'Esodo spiega un cammino che cominciò là nell'Egitto e che continua ancora... È il cammino di tutti noi verso la terra promessa dove regna la libertà piena che viene da Dio.

Se guardiamo la vita con questi occhi, siamo capaci di accorgerci e di percepire in modo nuovo il vero valore dei fatti che oggi succedono. Quando gli uomini vivono lo sforzo di liberazione e si impegnano a por tarlo avanti, Dio si fa incontrare anche oggi da loro come si fece incontrare dal popolo eletto, perché tutti arrivino a Cristo.

Molti e svariati sono oggi gli aspetti di questo sforzo:
superare i limiti dell'ignoranza con lo studio;
vincere il vizio che deprime;
fare la psicanalisi per liberarsi da complessi e condizionamenti;
fare medicina per liberare gli altri dall'oppressione dei mali fisici; contribuire ad eliminare l'analfabetismo;
insegnare l'igiene e a coltivare un orto; popoli che si sforzano di liberarsi dal colonialismo e dall'imperialismo;
cercare di vincere le distanze che sono una forma di oppressione;
operai che si uniscono per difendere i loro diritti calpestati;
popoli che elaborano insieme la dichiarazione dei diritti dell'uomo; vincere soprattutto ogni forma di egoismo;
denunciare le ingiustizie e le torture che offendono la persona umana; promuovere lo sviluppo del popolo.
Sono infinite le forme che assume lo sforzo gigantesco di liberazione.

L'umanità cammina faticosamente attraverso tutto questo, facendo il suo Esodo nel dolore fino alla conquista della libertà totale.
Ciascun uomo fa il cammino dell'esodo:
la crescita naturale del bambino che diventa adulto è una maniera di vincere le limitazioni e di affermarsi nella vita;
ogni gruppo, ogni popolo ha il suo Esodo.
L'umanità intera è coinvolta nell'Esodo o come dice il Concilio è radicalmente impegnata nel «mistero pasquale» di Cristo.
In tutto questo groviglio di cose Dio apre le sue braccia, entra, si fa presente, agisce a vantaggio degli uomini e lì si fa incontrare.

Chi guarda dal di fuori non vede niente, non si accorge di niente, ma gli occhi della fede arrivano a scoprire là dentro (per averne fatto l'esperienza nel dolore) la presenza nascosta di Dio.

Bisogna allora concludere che tutte le azioni compiute in nome della libertà sono approvate da Dio?
Andremmo al di là delle premesse. Esistono movimenti di liberazione che invece di portare alla libertà portano ad una oppressione ancora maggiore, 'perché portano all'odio ed alla chiusura all'interno di un gruppo.
Come si fa a distinguerli?


6. La storia dell'Esodo criterio di discernimento

Mosè fu educato alla corte del Faraone (Es. 2, 5-10).
Era costume del tempo educare i ragazzi dei paesi occupati per farne poi strumenti a vantaggio dell'Egitto.
Mosè però non fece carriera perché la voce del sangue gridò più forte.
Si rivoltò contro la situazione umiliante del suo popolo e uccise un soldato (Es. 2, 11-12).
È probabile che il fatto si riferisca ad un tentativo fallito per raggiungere la libertà. Dovette fuggire (Es. 2, 11-12).

Nell'esilio Dio lo raggiunge di nuovo e gli ordina di ritornare per liberare il suo popolo (Es. 2, 23 - 4, 18).
Dopo lunga resistenza Mosè obbedisce e accetta la missione.
La libertà per la quale adesso si impegna a lottare non ha più carattere negativo (liberarsi dall'oppressione politica del Faraone) ma acquista contenuto positivo.

Chi lotta solo per liberarsi 'da' qualche cosa ha solo coscienza di ciò che non vuole e cammina all'indietro verso il futuro;
gli manca il criterio per orientare i suoi passi in avanti.
La libertà che Mosè intravede all'orizzonte fa parte di un progetto che Dio vuole attuare:
liberare il popolo dall'Egitto per fare di lui il «suo popolo» ed essere lui il «Dio del suo popolo» (Es. 6, 6-8).
Il popolo deve liberarsi 'per' diventare popolo di Dio; sa quèllo che rifiuta perché ha coscienza di quello che cerca nella vita; adesso sì, possiede i criteri necessari per dirigere i suoi passi in avanti.

Mosè e il popolo hanno chiaro l'obiettivo verso cui dirigere l'azione che tesserà tutta una storia, dando contenuto e senso alla libertà che cercano.
Tutto quello che non serve al fine non serve neppure alla loro liberazione.

È più che evidente che l'entrata di Dio nella vita degli uomini è luce che orienta e corregge allo stesso tempo.
La prima correzione o conversione si ebbe nel cervello di Mosè:
da assassino diventa coscientizzatore.

Non sempre tutto ciò che si fa in nome della libertà porta a quella libertà che Dio vuole per il suo popolo. Come pure non sempre lo sforzo di liberazione può essere pacifico e senza violenza.
Certamente la missione di Mosè provocò a prima vista una recrudescenza dell'oppressione del Faraone (Es. 5, 1-18) e quindi una rivolta del popolo ebreo contro Mosè il liberatore per aver eccitato l'odio del Faraone e per aver aizzato gli Egiziani ad uccidere gli ebrei (Es. 5, 19-21).

Invece della libertà si ebbe una oppressione ancora maggiore.
Mosè si lamenta (Es. 5, 22-6, 1), il Faraone si indurisce ancora di più e resiste alle esortazioni ricevute (Es. 7, 13.22; 8, 15-19; 9, 7.12; 1O, 20.27).
Toccava a Mosè vincere la paura e l'apatia del popolo.
Doveva convincere il popolo che, se Faraone si era indurito, Dio agiva in lui e preparava così la liberazione' (Es. 7, 3-5; 9, 35; 1O, 10.27).

Tutto lo sforzo di Mosè consisteva fondamentalmente nel far sì che il popolo prendesse coscienza dell'oppressione in cui viveva e si decidesse a far di tutto per liberarsi, perché Dio glielo ordinava.
Interpretava i fatti come segni e appelli di Dio, in favore del suo popolo. Faceva parlare i fatti.

Finalmente il Faraone cedette e il popolo partì (Es. 12, 37).
Cominciò la marcia della libertà, la marcia che Dio voleva dal popolo suo. Ma era una marcia soggetta alla critica e ambigua.
Alla soglia della libertà tutto sembrava fallire.
Imbottigliato tra il mare e l'esercito egiziano, il popolo si disperò e si ribellò contro Mosè (Es.14, 11-12).

Mosè allora fece ricorso alla fede, il popolo perseverò, nacque la libertà (Es. 14, 30). È evidente la fede del condottiero nella causa che difende e che lui stesso guida.
Crede che sarà certamente vittorioso. Non è stato Mosè a provocare la violenza. La colpa fu del Faraone che non voleva far partire il popolo alla conquista della sua libertà.
Trovava molto più comodo conservare al suo servizio un popolo di schiavi.


7. Celebrare la libertà che viene da Dio

Il popolo fece la sua grande esperienza:
ci ha liberati Iddio!
Siamo il suo popolo (Es. 19, 4-6).
Di conseguenza tutti gli avvenimenti passati erano visti alla luce di questa fede fondamentale.
In tutto' Dio era presente guidando tutto al bene del suo popolo.

Sotto questo aspetto Dio era presente anche nell'astuzia umana, che portò il popolo a scegliere un cammino meno pericoloso dirigendosi verso il Mar Rosso (Es. 13, 17-18).
Si riconobbe il dito di Dio nel vento impetuoso che soffiò tutta la notte alzando una nuvola spessa di sabbia (Es. 14, 20-21) e che facilitò la fuga perché la marea era bassa e la tempesta formava una cortina oscura che proteggeva la ritirata.

Le piaghe naturali che erano solite verificarsi in Egitto aiutarono a creare un clima generale di confusione che favorì la fuga di liberazione. Viste alla luce dei raggi X della fede, esse divennero per Mosè e per gli ebrei la rivelazione dell'azione liberatrice di Dio.
Il popolo e il suo condottiero seppero interpretare i «segni dei tempi» e corrispondervi fedelmente ricorrendo perfino ad artifici e astuzie, strategiche per portare a termine il piano di Dio.

Era la notte di Pasqua. La Pasqua era la festa pastorizia della primavera:
si usava tingere le porte delle case col sangue di un agnello per difendersi dall'influenza degli spiriti cattivi.
Per celebrare la festa del deserto uscirono dall'Egitto.

Fu così che da allora In poi la Pasqua non fu più una festa contro gli spiriti cattivi ma il 'memoriale' della liberazione:
ricordava quello che Dio aveva fatto, offriva al popolo un'occasione sempre nuova di impegnarsi un anno dopo l'altro nel progetto di liberazione in atto, e manteneva viva nel popolo la speranza di una liberazione totale nel futuro.
Per questo la vita di chi crede in Dio e nella sua promessa vuole chiamarsi «vita pasquale», cioè vita che passa successivamente dall'oppressione alla liberazione.

La Pasqua di Cristo fu la vera Pasqua, perché lui passò dalla morte alla vita vera, che dura sempre presso Dio.
Il contatto con Dio genera la vera libertà.
La storia del popolo ebreo è caratterizzata dallo sforzo di liberazione e dalla preoccupazione di celebrarne la vittoria.



SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. IV [SM=g6198] [SM=g6198]

Sansone e Dalila: folclore o qualcosa di più?


1. Alcune difficoltà relative alla storia di Sansone e Dalila

La storia di Sansone e Dalila occupa uno spazio relativamente grande nel libro dei Giudici:
dal cap. 13 al cap. 16, quasi la quinta parte del libro.

Racconta la nascita di Sansone (cap. 13) il suo matrimonio (cap. 14) le sue liti e le sue gesta contro i Filistei (cap. 15) e la sua morte tragica e gloriosa ad un tempo (cap. 16).
È una di quelle storie bibliche di cui non si sa che pensare.

Il comportamento di Sansone non va d'accordo con i principi della morale e dell'etica.
Anzi non segue addirittura nessuna legge.
Va solo dietro ai suoi impulsi.

Gli piacevano le donne. La Bibbia ne nomina tre.
Uccideva senza scrupoli.
Dava noia a tutti, ai nemici e agli amici, con le sue gesta e le sue contese quasi sempre provocate da un fatto di amore.
Fa quello che gli pare e come gli pare.

Come può la Bibbia riconoscere in tutto questo l'azione vivificante dello Spirito di Dio?
Che pensare di una simile storia?
Sarebbe solo il copione di un film scabroso?

Non è certo possibile imitarlo: sarebbe pericoloso e sconveniente.
Eppure la Chiesa fino ad oggi continua a leggere questa storia.
A che serve?
Quale utilità ha per noi?


2. L'ottica dell'autore che scrive la storia di Sansone

Il libro dei Giudici, scritto molti anni dopo gli avvenimenti che racconta, somiglia a un tappeto fatto di ritagli.
Con mattoni vecchi l'autore ha costruito una casa nuova.
Visse nel secolo VII a.C.

Tutti dicono che la vita nazionale ha bisogno di riforme profonde, altrimenti sarà il caos.

Il re Ezechia (716-687) aveva tentato di riformare la vita della nazione, ma fu un fallimento e le cose andarono di male in peggio sotto il regno di Manasse (687 -642) e di Amon (642-640).
Nel 640 il governo passò nelle mani di un giovane, il re Giosia che godeva il favore del popolo.

Era un condottiero risoluto a portare avanti il lavoro (diverse volte interrotto) della riforma urgente della nazione.
Era appoggiato da tutti.

Inoltre la decadenza dell'Assiria rendeva meno tesa la situazione internazionale.
Sorse così un movimento nazionalista composto dal governo, dal clero e dai profeti é appoggiato dalla simpatia popolare.

Si proponeva una riforma profonda basata sulla costituzione, che era la legge di Dio riveduta e corretta nel libro del Deuteronomio, la cui data risale a quel tempo o a poco prima.

Durante la revisione generale e collettiva un uomo ebbe una idea geniale: approfittare di tutte le tradizioni popolari del passato a favore del movimento riformista.
La sua tesi era: chi riforma la vita, o almeno vi contribuisce, prepara ed assicura un futuro migliore.

Era dell'opinione che la situazione di malessere generale fosse causata dalla negligenza con cui si osservavano i diritti e i doveri contenuti nella legge di Dio.
Il popolo doveva prenderne coscienza.
A tal fine scrisse il libro dei Giudici che include la storia di Sansone.

L'autore raccoglie tutte le antiche tradizioni del tempo dei Giudici e le riordina secondo un tema fisso che esprime la sua tesi e il suo messaggio fondamentale:

1/ quando il popolo al tempo remoto dei Giudici tralasciava di seguire la legge di Dio perdeva la libertà e cadeva sotto il dominio straniero (Giud. 2, 1-3.11-15; 3, 7-8.12-14; 4, 1-2; 10, 6-8; 13, 1);

2/ quando poi si pentiva convertendosi a Dio e riformando la vita, Dio suscitava sempre un condottiero su cui scendeva la forza dello Spirito di Dio per liberare il suo popolo (Giud. 3, 9-10.15; 4, 3 seg.; 6, 7 seg.; l0, 10 seg.);

3/ ne risultava un periodo di pace e tranquillità perché il popolo era libero (Giud. 3, 11.30; 5, 31;
8, 28; 15, 32);

4/ in seguito abbandonata di nuovo la legge di Dio, tornava l'oppressione e ricominciava lo stesso processo.

Così l'autore interpretava la storia dei Giudici.
I Giudici erano i condottieri carismatici suscitati da Dio in risposta alla buona volontà del popolo.

Il ripetersi costante ed infallibile dell'intervento liberatore di Dio in risposta alla 'conversione' o alla riforma del popolo dava al lettore la garanzia che lo stesso intervento era possibile anche al tempo suo.
Bastava prepararlo e provocarlo con una profonda riforma della vita nazionale, giacché Dio non è cambiato da allora ad ora.

La forza dello Spirito di Dio avrebbe garantito anche adesso il felice esito della riforma tentata dal popolo.
Sotto questa luce il tempo remoto dei Giudici riviveva per l'autore e per i suoi lettori e acquistava dimensioni di attualità; se volevano che la situazione cambiasse in meglio dovevano fare come i loro antenati.

L'autore del libro dei Giudici inserisce la storia già esistente di Sansone in questo contesto generale.
Per metterla in armonia con la prospettiva e l'obbiettivo globale del libro vi aggiunse una breve introduzione:
«Israele cominciò a fare ciò che non piaceva a Dio;
e Dio permise che cadesse nelle mani dei Filistei...» (Giud. 13, 1) e conclude così: «Sansone governò Israele per 20 anni» (Giud. 15, 20; 16, 31).

Ecco in qual modo una storia vecchia, senza perdere in nulla il suo carattere popolare, cominciò ad avere una funzione di grande attualità: diventò un esempio per chi affronta le situazioni col realismo della fede preparando così la manifestazione della forza di Dio.

L'esempio suscitava la domanda:
«Chi è oggi il nostro Sansone che merita il nostro appoggio e nel quale la forza di Dio si manifesta?».
La risposta che l'autore lascia sospesa è evidente: «il giovane re Giosia».



3. Note al margine della storia di Sansone .

Rimane aperta la domanda:
ma la storia di Sansone è proprio successa?
È proprio vero che Dio approvò tutte quelle cose?
A che servono tanti racconti scabrosi e poco verosimili di amore e morte? Qual è la verità?
E possibile saperla?

Occorre anzitutto tener presenti due cose:
si tratta di letteratura ben popolare; i fatti successero in particolari circostanze di oppressione da parte dei Filistei.

Evidentemente la letteratura popolare non osserva le leggi di una cronaca giornalistica e neppure si preoccupa di dare una versione fotografica dei fatti; si lascia influenzare dai pettegolezzi che gonfiano i fatti secondo l'interesse del momento.

Inoltre una letteratura sorta durante l'oppressione esprimeva necessariamente le profonde aspirazioni del popolo:
sconfiggere i Filistei e riconquistare la libertà.

La letteratura registra esempi del genere durante l'ultima guerra mondiale. Sotto l'oppressione nazista il movimento della resistenza faceva saltare un ponticello.

Il popolo faceva i suoi commenti e il fatto passava di bocca in bocca.
Ci godevano a raccontarlo.
Serviva ad attutire la tensione e a mantenere viva la speranza.
Voleva dire che esistevano forze attive a favore della libertà da tutti sperata.

Mano a mano però che la storia passava di bocca in bocca, le dimensioni del ponte aumentavano fino a diventare fantastiche.
I Filistei avevano invaso tutto Israele e il popolo soffriva.
Si formò un movimento di resistenza per riconquistare la libertà.

Non mancarono gli eroi.
Uno di essi fu Sansone che dette il nome al secolo. Uomo forte e coraggioso, con la sua audacia brutale riuscì a tener viva la speranza del popolo preparando la scalata al potere di David, che molti anni più tardi sconfisse definitivamente i Filistei.

Come la storia del ponticello, Sansone entrò nella leggenda.
La sua storia cresceva mano a mano che passava di bocca in bocca.
Oggi non è più possibile sapere che cosa esattamente egli abbia fatto, come non è più possibile sapere le dimensioni esatte del ponte.

La favola costruita intorno alla persona di Sansone, benché abbia un sicuro fondamento storico non nacque con lo scopo di essere una cronaca dei fatti accaduti. La fonte fu un'altra e un altro fu lo scopo.

Nacque come mezzo per esprimere una speranza e per alimentarla;
funzionava come valvola di sicurezza per aiutare il popolo a respirare.

Era come se il popolo dicesse:
«vogliamo vivere, non vogliamo morire da un momento all'altro!
possiamo ancora sperare, farci coraggio, resistere, perché abbiamo con noi la forza dello 'Spirito di Dio».

Questo obbiettivo concreto provocò un crescendo nella dimensione favolosa e fantastica dei fatti e ci dimostra che la speranza del popolo non conosce limiti. Si tratta di un racconto più patriottico che storico; somiglia piuttosto al monumento di Porta Pia che al grido storico di Garibaldi.
Fu il mezzo che fece crescere la coscienza del popolo e lo mantenne all'erta. Il popolo non poteva adattarsi.



4. La storia di Sansone a fumetti

Nascita di Sansone (Cap. 13). Tutto fa pensare che il bambino diventerà un grande uomo;
il padre si chiama Manoach che vuol dire 'tranquillo'.
La madre è sterile (Giud. 13, 2).
E con tutto ciò nasce un bambino 'terribile'.

Se ne deduce che dietro alle quinte c'è Dio.
Perciò si racconta che la nascita fu annunziata da un "angelo di Dio" il quale chiese di consacrarlo interamente a Dio.
Perciò sua madre deve osservare certe prescrizioni (Giud. 13, 4) e il bambino non si dovrà mai tagliare i capelli (Giud. 13, 5).

Già si prevede il destino di Sansone e la fonte della sua forza:
proviene dalla sua totale consacrazione a Dio che in lui vuole manifestare la forza dello Spirito.
In tutta la Bibbia l'annuncio anticipato della nascita fa parte dello schema secondo il quale il bambino che nascerà è investito di una specialissima missione che realizza il piano di Dio: Giacobbe (Gen. 25, 21-26) Samuele (1 Sam. 1, 1-28) Giovanni Battista (Lc. 1, 5-25) Gesù Cristo (Lc. l, 25-37).

Matrimonio di Sansone (cap. 14). Sansone andò contro tutte le regole.
Si innamorò di una fìlistea nemica del popolo e la sposò.
Nessuno riuscì a dissuaderlo (Giud. 14, 1-3).
Molto tempo dopo il popolo riconobbe in questo fatto la mano misteriosa di Dio che tutto disponeva per il suo bene, perché da questo matrimonio venne la vittoria sui Filistei (Giud. 14, 4).

In altri termini «Dio scrive diritto su righe storte».
I versetti 5-20 sono evidentemente una favola leggendaria intorno ad un fatto che oramai è impossibile dimostrare: uccise un leone all'insaputa dei genitori.

Durante la festa nuziale propose un rebus e perse la scommessa a causa dell'insistenza di sua moglie; dovendo pagare il prezzo di 50 tuniche, entrò in una città filistea, uccise 50 uomini, strappò loro le tuniche e pagò il debito.

E la Bibbia dice che mentre ammazzava «lo Spirito di Jahvè irruppe su di lui» <14, 19). Alla fine dei conti Sansone ritornò furibondo a casa di suo padre. Il suocero aveva dato la figlia ad un altro.

Litiga con i Filistei (cap. 15). Quando Sansone dopo molto tempo andò a trovare sua moglie seppe che il suocero l'aveva ingannato dando la figlia ad un altro. Dalla rabbia prese 300 volpi, le legò due a due sulle code insieme a una torcia accesa e le spinse nei campi di cereali. Bruciò tutto (Giud. 15, 4-5).

I Filistei si vendicarono bruciando vivi la moglie e il suocero.

Sansone rispose per le rime uccidendo un numero «grande di Filistei» e poi si andò a nascondere in una grotta (Giud. 15, 6-8).
L'avvenimento fu causa della rivolta dei Filistei contro gli Ebrei.
I familiari di Sansone, per evitare mali maggiori, mandarono un plotone di 3000 uomini a prendere Sansone e a consegnarlo ai Filistei.
Non volevano seccature.

Sansone si lasciò prendere e consegnare ai nemici della sua nazione.
Ma al momento della consegna lo Spirito Santo si impossessò di lui (Giud.
15, 14); Sansone spezzò le corde, prese una mascella di somaro e uccise 1000 Filistei.

Stanco e assetato dopo questa avventura, chiese a Dio che gli mandasse dell'acqua e una roccia si spaccò e ne scaturì l'acqua. Aveva appena finito di ammazzare 1000 uomini e Dio lo ricompensava con un miracolo!

Fine tragica e gloriosa di Sansone (cap. 16).
Sansone andò a Gaza, città dei Filistei, e entrò in una casa di prostituzione. I Filistei pensarono di averlo preso in trappola.
Chiusero le porte della città.

Ma Sansone esce, scardina le porte delle mura e se le carica in spalla fino nei pressi dell'Ebron. Un viaggio di molte miglia (Giud. 16, 1-3). Poi si innamora di Dalila, anch'essa Filistea.
I Filistei fecero un piano per ucciderlo. Dalila era la persona-chiave.

Doveva scoprire il segreto della forza di Sansone. Sansone la ingannò per tre volte (Giud. 16, 4-14).
La quarta volta Sansone capitolò e rivelò che il segreto si nascondeva nei lunghi capelli: sette lunghe trecce che non erano mai state tagliate, segno della sua consacrazione a Dio.

Mentre dormiva gli tagliarono i capelli, lo presero e lui non ebbe più la forza di resistere. Gli cavarono gli occhi e lo gettarono in prigione.

Quando un uomo permette che un altro si intrometta tra lui e Dio, deviandolo da Dio, perde la forza e il coraggio e diventa zimbello della malizia umana.

Organizzarono allora una grande festa al dio Dagon.

Nel frattempo i capelli di Sansone crebbero ancora di nuovo e la sua forza tornò. Durante la festa Sansone fa crollare il tempio e uccide più Filistei di quanti ne aveva uccisi in tutta la sua vita (Giud. 16, 30).


5. Sansone e Dalila: folclore o qualche cosa di più?

Chi legge questa storia non può fare a meno di provare ripugnanza e ammirazione: ripugnanza per i delitti commessi; che la Bibbia non si preoccupa di nascondere né di giustificare.

ammirazione per l'audacia e l'autenticità di Sansone; non mentisce, è sincero, è del tutto libero; sfida le convenzioni; sconfigge i traditori (suoi familiari) che volevano farlo prendere; non sopporta doppiezza né compromesso.

La Bibbia non approva i delitti e le debolezze di Sansone, si limita soltanto a descrivere quello che il popolo diceva di lui e indica il cammino che dall'oppressione portò alla libertà.

Tuttavia sottolinea il carattere che distingue il cammino dal principio alla fine: sincerità e amore alla libertà.

Mette pure in évidenza un consiglio sempre attuale:
non lasciarsi trasportare dalle parole della donna leggera, perché ne derivano soltanto noie, e perfino un uomo forte come Sansone può uscirne sconfitto.

Sono racconti popolari di un popolo riconoscente che non ignora la colpa, ma che sa perdonare. Sansone fu un bandito, ma viveva e incarnava un ideale che era l'ideale del popolo, ideale sacro: l'amore alla libertà.

Egli contribuì alla piena riconquista della libertà al tempo di David.
Per questo il popolo, guardando i fatti ad una certa distanza, riconosce la mano di Dio in quella storia incomprensibile e si convince che Dio può scrivere diritto su righe storte.

Gran parte della storia di Sansone e Dalila è folclore. Ma non per questo la sua importanza è minore. Il valore sta precisamente nel folclore esuberante che mette in evidenza l'interesse e il giudizio del popolo in tutti quegli avvenimenti:

1/ esprime la speranza di un popolo che cammina verso il futuro appoggiandosi alla potenza di Dio;

2/ esprime l'amore alla libertà e alla sincerità;

3/ esprime la fede incrollabile che Dio cammina con il popolo in tutte le circostanze;

4/ condanna coloro che preferiscono i compromessi e che perciò tentano di togliere di mezzo l'uomo veramente libero.



6. Altre conclusioni


La riflessione sulla storia di Sansone e Dalila ci apre uno spiraglio per capire come nacque la Bibbia e come fu composta.
Non certo da un giorno all'altro.

Nacque per un lento processo che accompagnò il lento formarsi della coscienza del popolo, che alla luce di Dio percepiva sempre più chiaramente la sua responsabilità.

Per questo incontriamo nella Bibbia (e anche solo in uno dei suoi libri) diverse stratificazioni che si riferiscono a epoche differenti.

Nel nostro caso la storia di Sansone è vista da un lato con gli occhi dello scrittore che viveva al tempo del re Giosia;
dall'altro con gli occhi del popolo che visse centinaia di anni prima sotto l'oppressione dei Filistei.

Il libro dei Giudici sembra una costruzione nuova fatta con mattoni vecchi. Lo studio di questo libro della Bibbia prova che l'interesse della Bibbia non è soltanto conservare la storia dei tempi antichi, ma conservarla in modo che dia al popolo una visione di fede d'accordo con quello che il popolo vive al momento presente.

Scopo della Bibbia è mantenere il popolo sveglio e consapevole della sua responsabilità.

La storia di Sansone inoltre rivela la sincerità con cui il popolo raccontava il suo passato: non nasconde nulla.
Senza approvare gli sbagli commessi, si accorge anche del bene che essi contengono.

In questo la Bibbia anche oggi ha ragione.

Basta dare uno sguardo alla storia umana: ogni azione umana è ambivalente, è un misto di bene e di male.
Spesso il male sta alla radice dell'agire mentre le apparenze sono buone.

Gesù ha chiamato 'farisaico' un comportamento del genere quando l'esterno non riflette l'interno.
A volte il male affiora alla superficie mentre la radice è buona.

Dio preferisce questo secondo comportamento, per cui accoglie i peccatori, i pubblicani e le prostitute.

Sansone era un uomo il cui comportamento era molto cattivo, ma nell'intimo egli era molto buono: sincerità, autenticità, amore alla libertà.
Del resto anche la storia della Chiesa è un miscuglio di bene e di male.

In nome di Dio si fecero cose orribili:
certi fatti delle crociate, dell'Inquisizione, della persecuzione agli eterodossi all'inizio del nostro secolo... Non abbiamo diritto di condannare le azioni di Sansone.

Al contrario esse ci chiedono un esame di coscienza.
In fondo ciascuno, esaminando la sua vita e la concatenazione dei suoi gesti, si accorge che il bene e il male si mescolano in modo da formare un tutto inseparabile.
Non per ciò Dio è assente dalla nostra vita.

A questo punto la Bibbia getta la maschera e dice chiaramente: «Ecco chi siamo noi!» Non nasconde né giustifica, ma riconosce e confessa tentando di 'riformare' e 'convertire'.

Al mondo non piacciono gli uomini liberi che non vanno dietro alla legge della maggioranza, che sfidano tutti e scomodano amici e nemici, come faceva Sansone. Però il più delle volte proprio loro preparano un futuro migliore.

Possono fare molti sbagli, come Sansone e come tanti che anche oggi si battono per un futuro migliore.

Ma non riconoscere ciò che vi è di positivo e l'appello di Dio che sta in loro, sia ieri che oggi, è «peccare contro lo Spirito Santo», come dice Gesù.

Di lui dissero che aveva il demonio in corpo perché scomodava e impediva a molti di stare tranquilli. Per giustificarsi attribuivano al più grande avversario di Dio quello che Dio stava operando in Gesù Cristo per liberare gli uomini (cf. Mc. 3, 23-30).

Per un peccato del genere non c'è perdono, perché ostruisce la sorgente dell'acqua che potrebbe lavare e purificare il male della nostra vita. Sarebbe come se tagliassimo alla radice qualunque tentativo di 'riforma' proprio col pretesto di voler fare riforme e innovazioni.




SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. V (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

I Profeti: Dov’è quel dio in cui crediamo?


1. Domande e notizie preliminari sui Profeti

Come fa un profeta a sapere che Dio gli ordina di dire questo o quello? Come nasce la vocazione di un profeta?
Come distinguere il profeta vero dal falso, se tutti e due affermano di parlare in nome di Dio?

Qual è la missione di un profeta?
Come fa a realizzarla?
Che cosa ci insegna su Dio?
Al giorno d'oggi ci sono ancora i profeti?
Sono queste le domande che affiorano dalla lettura dei libri dei profeti.

I libri dell'Antico Testamento attribuiti ai profeti sono 16, di cui quattro sono detti «maggiori» (Isaia, Geremia - insieme alle lamentazioni e a Baruc - Ezechiele e Daniele) e gli altri 12 sono detti «minori» (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia).

La distinzione fra «maggiori» e «minori» è dovuta al numero dei libri che hanno scritto o che sono loro attribuiti.
Nella Bibbia si parla anche di altri profeti dei quali non abbiamo nessuno scritto, per esempio Elia ed Eliseo.

Molti profeti sono per noi soltanto nomi senza significato.
Non è più possibile sapere chi furono come vissero e perché lottarono. Tuttavia lo studio critico dei loro scritti e della storia, dentro e fuori della Bibbia, permette oggi di costruire la trama complicata delle situazioni umane in cui alcuni di loro furono costretti a vivere ed a portare avanti la loro missione.

«Profeta» e «profezia» sono parole che indicano la previsione del futuro. In realtà però profeta vuol dire «uno che parla in nome di».
Sono uomini che parlano in nome di Dio e che sanno di farlo. .



2. Come nasce la vocazione di un profeta?

È sempre difficile entrare nell'intimità di un altro e alzare il velo del mistero della vita che si svolge fra lui e Dio.

La vocazione di profeta rientra nella sfera del mistero impenetrabile della vita. Riflettendo però sulle piste che essi stessi ci hanno lasciato nelle loro profezie possiamo arrivare a farci un'idea di come nasce la vocazione di un profeta.

Consideriamo due esempi.

Il profeta Amos era un uomo semplice, un uomo del popolo, contadino e pastore (Am. 7, 14). Viveva in un'epoca di progresso economico promosso dal re Geroboamo (783-743) ma che di fatto era il risultato dell'egoismo collettivo di un gruppo.

Ne derivava un'ingiusta divisione di classi che opprimeva gran parte del popolo (Am. 5, 7; 2, 6-7; 3, l0). Quel popolo che Dio aveva liberato era ridiventato schiavo e questa volta dei suoi propri fratelli.
Amos viveva profondamente integrato nella vita del popolo e per questo la sua fede e il suo buon senso gli dicevano che un simile stato di cose era contrario alla volontà di Dio.

Era un paradosso e per lui diventò un problema assillante che non gli permetteva di pensare ad altro.

Tutto gli parlava dell'ingiustizia installatasi nella sua terra e gli faceva prevedere imminente il castigo di Dio:
un muratore che lisciava l'intonaco gli ricorda che Dio livellerà il suo popolo; un cesto di frutta matura gli fa pensare che è maturo il tempo del castigo; il fuoco nella steppa gli dice che Dio incenerisce l'ingiustizia. (cf.Am. 7, 7-9; 8, 1-3; 7, 4-6).

I fatti cominciano a parlare.
Tutto diventa un appello.
In Amos a poco a poco cresce una coscienza.

Finché si decide: Dio vuole che io parli!
«Il leone rugge: chi non ha paura?
Dio ordina: chi non parlerà in suo nome?» (Am. 3, 8).
Lascia tutto e si dirige diritto verso il suo fine (Am. 7, 10-17).

Del profeta Osea sta scritto:
«la missione profetica di Osea, ebbe inizio quando il Signore gli disse: va e sposa una prostituta...» (Os. 1, 2).

L'interpretazione più probabile è questa; Osea si sposò, e benché da parte sua fosse felice, la moglie lo lasciò e si dette alla prostituzione.

Osea continuò ad amarla. L'amore fedele e disinteressato di Osea fece capire alla donna il bene che aveva perduto e tornò ad essere sua sposa. Cosi Osea scopri che aveva in mano la forza dell'amore che trasforma.

Poiché viveva integrato nella vita del popolo scopri nella sua esperienza dolorosa, ma ricca, un significato più vasto.
Il popolo abbandonava Dio, considerato «lo sposo del popolo», e si prostituiva ad altri dèi.

Qui si innesta l'esperienza personale di Osea, che illumina la condotta di Dio: Dio continua ad amare il popolo con amore fedele e disinteressato, capace di rigenerarlo e farlo ritornare ad essere il «popolo di Dio», la «sposa fedele di Jahvé».

La coscienza della sua missione si illumina:
annunciare al popolo l'amore gratuito di Dio per provocare una conversione sincera. Per questo le sue profezie sono cos1 violente, cos1 come la gelosia è la più violenta passione dell'uomo.

Gli esempi mostrano che il profeta era un uomo la cui coscienza personale e individuale costituiva il momento alto della coscienza del popolo di Dio. Uno che ascoltava la chiamata di Dio dentro la sua situazione personale perfettamente integrata in quella del popolo.

La percezione chiara dell'esigenza di Dio lo portava anche a percepire come avrebbe dovuto essere la vita del popolo.
Uomo di Dio e uomo del popolo allo stesso tempo.
Vive l'impegno con Dio e con il popolo e sente che non deve più tacere.

Parla con autorità perché parla in nome di Dio, della coscienza e della tradizione secolare del popolo.
La sua vocazione sboccia dal confronto fra la situazione reale e la situazione ideale. Severi castighi aspettano chi pretende parlare in nome di Dio senza essere inviato da lui (Dt. 18, 20).

Per provare l'autenticità della sua missione il profeta predice il futuro. 'Profezie' imminenti.
Le previsioni si avverano e dimostrano che Dio è con lui (Dt. 18, 21-22; Ger. 28, 9; Ez. 33, 33). Cosi si distingue il falso dal vero profeta.



3. Missione e prassi del Profeta: ciò che dice di Dio

La missione e la prassi del profeta sono sempre condizionate dalla situazione concreta del popolo al quale dirige il suo messaggio.
Per ciò che riguarda Iddio, egli è strumento nella sua mano, è inviato al popolo per spingerlo a camminare verso la meta per la quale si è impegnato con Dio nell'alleanza.

Il profeta è per così dire l'uomo che esige dal popolo l'adempimento dell'impegno liberamente assunto con Dio e con se stesso.
Per comprendere quindi la missione e la prassi del profeta è indispensabile descrivere quella parte della vita del popolo che condizionava ]a sua attività e provocava la sua reazione in nome di Dio.

Con l'Esodo il gruppo che uscì dall'Egitto prese coscienza di essere il «popolo di Dio» impegnandosi a realizzare con Dio il progetto di liberazione.

La coscienza di «popolo di Dio» dinamizza il gruppo e lo spinge a camminare sempre, a non fermarsi mai, aprendo la strada del futuro che la forza e la fedeltà di Dio garantiscono.

La convinzione che è alla base del coraggio, della fede della speranza del dono di sé e dell'amore affonda le sue radici nell'esperienza e nella certezza assoluta:
«Dio è con noi come colui che ci chiama momento per momento.
Siamo impegnati con lui e lui è impegnato con noi».

Questa coscienza o esperienza di amicizia profonda, detta pure Alleanza, suscita comportamenti e gesti:
legge, culto, istituzioni, feste, celebrazioni, costumi, come per esempio i pellegrinaggi al tempio, tradizioni che conservano e tramandano il passato e diventano la memoria che influisce sul presente;

immagini e simboli, come per esempio l'arca dell'alleanza e il vitello d'oro; profetismo, sacerdozio, monarchia, orazioni, sapienza popolare ecc.

Lungo questo scenario scorreva la vita intensa del popolo e la coscienza di essere, il popolo di Dio si tramandava di generazione in generazione insieme all'appello di Dio ad essere fedeli.

Comportamenti e strutture scaturivano dalla grande fede che il popolo aveva in Dio.
Erano mezzi per mantenere viva la fede, la speranza, il dono di sé.

Non erano fini a se stessi, erano solo mezzi per raggiungere il fine da cui ricevevano orientamento e critica.

Il giorno in cui per una ragione qualsiasi l'uno o l'altro comportamento non fosse più espressione dell'approfondimento della vita e per ciò non servisse più a trasmettere il valore che lo aveva generato, quel comportamento passava ad essere corretto, criticato o eliminato.

Il criterio dell'eliminazione o della correzione era sempre il progetto originale di Dio in funzione del quale Egli creò il popolo.
I comportamenti e strutture della vita erano creazione dell'uomo, che attraverso di loro esprimeva la sua fede.

Ma il male dell'uomo fu sempre il suo desiderio giusto e inveterato di sicurezza, sia individuale che nazionale.

Appena trovò, dopo averla tanto cercata, una forma di vita che esprimesse la sua convinzione, vi si aggrappò come ad una conquista che gli dava sicurezza.

Poco a poco si verificò un fenomeno:
questi modi di vivere l'amicizia con Dio, invece di continuare ad essere espressione di una ricerca costante che dinamizzasse e spingesse a camminare sempre verso il futuro, diventavano espressioni di una ricerca di sicurezza umana, perdevano cioè il contatto con la fonte (la coscienza di essere popolo di Dio) e non erano più tramite di vita.

Diminuiva l'esperienza interiore e continuavano inalterabili la struttura e il comportamento esterno, dando l'impressione che niente fosse cambiato.

In realtà però tutta l'impalcatura esterna della fede, le strutture e i comportamenti erano già tutti minati alla base perché mancava la vita reale.

Il comportamento esterno comincia ad essere considerato (da coloro che in esso si rifugiano) come un biglietto d'ingresso che dà diritto all'aiuto di Dio.

Diventa una convenzione sociale, la facciata di una casa che non esiste, solo per illudersi di stare in pace con Dio mentre in realtà la pianta è tagliata alla radice e non ha più vita.

Tali convenzioni sociali, fragili per natura, diventano oggetto di una difesa serrata ed accanita contro chiunque osi attaccarle.

È l'ora dei profeti:
la loro missione e la loro prassi nascono quasi sempre dal corto circuito tra la vita e il comportamento. Denunciano la falsa sicurezza dietro cui si nasconde il popolo per lo più incosciente. Scuotono il popolo e lo spingono a cercare nuove forme di comportamento che possano di nuovo esprimere e stimolare la vita e la fede.

Condannano le forme vuote che contribuivano a mantenere il popolo nella sua apatia. La prima reazione è l'insicurezza del popolo, che si vede privato di ciò che gli dava una certa tranquillità di vita e di coscienza.

Il profeta agisce sempre in nome di Dio.
Mette in evidenza che l'idea di Dio espressa da certe forme di vita e da certi atteggiamenti del popolo non è quella del vero Dio che si rivelò nel deserto ai padri quando li liberò dall'Egitto.

I profeti riescono ad avere una visione così chiara che diventano capaci di denunciare ciò che è sbagliato e difettoso perché sono uomini di Dio. Non tanto insegnano chi sia Dio, quanto lo rivelano nella loro vita, provando che Dio è sempre nuovo e molto più grande di quanto il popolo possa pensare.

Dio non si lascia addomesticare da nessuna cosa, neppure dalla più religiosa.
Vediamolo questo fenomeno ora nella concretezza degli eventi.



4. I profeti criticano l'idea di Dio

Il vitello d'oro:
quando uscirono dall'Egitto costruirono la statua di un torello per dare al popolo l'immagine concreta della forza con cui Dio lo aveva liberato (cf. Es. 32, 4).

L'immagine però nascondeva una insidia molto seria:
identificare Dio con gli altri dèi anch'essi rappresentati in forma di toro;
confondere Dio con la sua immagine;
visualizzare e localizzare eccessivamente la forza divina che non può identificarsi con nessun mezzo e con nessuna immagine.

Più tardi infatti, quando Geroboamo ripristinò l'immagine del toro (I Re 12, 28) per dare carattere religioso alla rivoluzione politica fatta da lui, l'immagine fu causa di apostasia.

Per questo nella Bibbia l'immagine del vitello d'oro è oggetto delle più violente condanne;
non può esprimere la fede in Dio (I Re 12, 31-13, 2).

Luoghi alti:
entrando nella terra promessa, il popolo incominciò ad adorare Dio nei così detti «luoghi alti», all'ombra di alberi frondosi.
Si pensava che là si concentrasse di più la forza di Dio dato che Dio faceva crescere alberi così enormi in luoghi deserti.

Perciò Salomone adorò Iddio nel «luogo alto di Gabaon» (cf. I Re 3, 4) senza causare inconvenienti.

Ma una simile maniera di adorare Dio nascondeva un pericolo:
identificare Dio con gli altri dèi adorati nello stesso modo negli stessi luoghi;

localizzare troppo l'azione di Dio e il luogo dell'incontro con lui.

Perciò, quando il pericolo diventò realtà, insorsero i profeti a condannare una pietà del genere.

La chiamarono «prostituzione sotto gli alberi» (cf. Ger. 3, 1-2.7; Is. 1, 29-31; Os. 2, 6-7).

Invece di esprimere e dinamizzare l'amicizia con Dio, il culto nei luoghi alti portava alla degenerazione della vita. Bisognava criticarlo e condannarlo.

Re e Monarchia:
nella persona del re si personalizzò la grande promessa che diceva: «sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio».
Oggi si direbbe:
«sarò per lui un padre e lui sarà per me un figlio» (II Sam. 7, 14).

Il re, diventava così la concretizzazione visibile dell'amicizia di Dio col popolo e lo strumento diretto della volontà di Dio.

Poco a poco però la presenza del re diventò un pretesto per accomodarsi: «dal momento che in mezzo a noi c'è il re, Dio è obbligato ad aiutarci, perché lui stesso ha promesso di mantenere sempre un re sul trono di David» (I Sam 7, 16).
Per questo sorgono i profeti:
il trono di David sarà una casa distrutta (Am. 9, 1); nessuno più della sua stirpe occuperà il trono (Ger. 22, 30), il re d'Israele sparirà per sempre (Os.10.15). Il fatto di avere un re non mette al sicuro nessuno.

Tempio:
era il luogo d'incontro del popolo con Dio:
«come è bella la tua casa Signore!
Muoio dal desiderio d'incontrarmi con te nel luogo dove abiti» (Sal. 83, 2-3).

Pellegrinaggi, processioni, salmi, canti, preghiere tutto era legato al tempio, alla casa di Dio.

«Se abbiamo il tempio, Dio è con noi, coinvolto nei nostri interessi: prendiamoci cura del tempio».

La preoccupazione del tempio faceva dimenticare l'obbligo più grave di vivere la fede di cui il tempio era solo un'espressione.

Per questo Geremia attacca frontalmente il tempio (Ger. 7, 1-15) e dice: «rubare, ammazzare, fare ogni sorta di male e poi venire al tempio e dire:
'ci sentiamo al sicuro', per poi continuare a fare lo stesso.

Voglio trattare questo tempio come ho trattato il tempio di Silo» (Ger. 7,9-10.14).

Tutti sapevano che il tempio di Silo era stato totalmente distrutto.
Il tempio in sé non dà nessuna certezza e non garantisce la protezione di Dio.

Culto:
Il culto era il centro della vita della nazione:
ricordava il passato e lo faceva rivivere nel presente facendo sì che una generazione dopo l'altra si impegnasse nel progetto di Dio e prendesse coscienza dei suoi diritti e dei suoi doveri.

Ma il culto si materializzò nel rito, e slegato dalla fonte viva che era l'esperienza della presenza di Dio, diventò una cambiale a scadenza fissa per comprare la protezione divina.

Per questo si dava tanta importanza alle cerimonie e nessuna alla vita.

Sono i profeti che si accorgono della falsità di questa facciata;
un culto simile non serve a nulla;
«che mi importano i vostri innumerevoli sacrifici?

Non posso più sopportare i vostri olocausti:
quando venite e stendete le mani per pregare, io volto la faccia dall'altra parte!

Moltiplicate pure le orazioni, tanto io non vi ascolto! Mani piene di sangue!» (Is. 1, 11.15). Il culto non assicura per se stesso la protezione di Dio.

Gerusalemme:
Gerusalemme è la città della Pace cantata in tanti salmi, simbolo della forza e della presenza di Dio che agisce nella vita del popolo (cf. Sal. 121, 136, 147). Era il cuore della nazione, la «Montagna Santa».

Ma quella gloria non serviva a niente dal momento che non portava il popolo alla pratica della giustizia.
Perciò Gerusalemme sarà abbandonata da Dio (Ez. 11.22-25).

Sarà rasa al suolo come una città qualunque (Is. 3, 8-9).
Abitare in Gerusalemme non dà nessuna sicurezza.

Terra:
Abramo si mise in cammino verso la terra promessa,conquistata più tardi da Giosuè.

La conquista della terra era il segno che Dio manteneva le sue promesse.

Perciò, abitando la terra, possiamo essere sicuri che Dio è con noi.
Il popolo trovava lì la sua sicurezza e viveva come se già avesse raggiunto la mèta.

I profeti annientano e smascherano una simile presunzione come la più vana delle illusioni:
tutti saranno portati in esilio, dovranno abbandonare la terra (Ger. 13, 15-19) che sarà interamente distrutta (Ger. 4, 23-28).

Il giorno del Signore:
si viveva di speranza.
Un giorno Dio dovrà ben venire a manifestare la sua giustizia: distruggere i cattivi ed esaltare il suo popolo.
Sarebbe stato un giorno di luce.

Vivevano in questa dolce e illusoria speranza trascurando il più importante.
Amos allora dice:
«guai a quelli che vivono aspettando il giorno di Jahvé!... Sarà per voi giorno di tenebre e non di luce!» (Am. 5, 18-20).

Neppure il futuro può dare la sicurezza tranquilla di possedere Iddio.



SEGUE..



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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. V (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

I Profeti: Dov’è quel dio in cui crediamo?




Popolo eletto:
l'origine del popolo eletto risale a quando Dio lo fece uscire dall'Egitto e strinse con lui un'alleanza.

Era come un titolo nobiliare, fonte di ogni dinamismo e di tutta la forza necessaria per andare avanti.

Ma poco a poco coloro che ne facevano parte se ne valsero per considerarsi privilegiati e confidarono più nel privilegio che nella fedeltà derivante dalla scelta di Dio.

Allora Amos dice:
«così parla il Signore: per me voi siete come il popolo della terra dì Kusc. Vi ho tratto dall'Egitto come feci con i Filistei da Caftor e con gli Aramei/Siri da Kir» (Am. 9, 7).

Nel nostro linguaggio sarebbe come dire:
«mio figlio Gesù Cristo è morto sia per voi cattolici che per i comunisti e per i castristi.
Per me voi non siete migliori di loro».

Gli Aramei/Siri e i Filistei erano i maggiori nemici del popolo di Dio. Dio ha cura di loro come di quelli che credono in lui.

Il solo fatto di appartenere al popolo eletto non conferisce nessuna speranza, nessuna sicurezza.

Figli di Abramo:
Abramo fu il grande amico di Dio e la sua intercessione poteva salvare intere città (cf. Gen. 18, 16-33).

Poter dire:
«siamo della stirpe di Abramo!» (Gv. 8,33) era titolo di gloria.
Ma molti si fermarono al titolo senza fare le opere che fece Abramo.

Giovanni Battista, l'ultimo profeta dell'Antico Testamento, fece sapere a tutti che davanti a Dio i figli di Abramo valgono quanto le pietre:
«non venite a dirmi:
abbiamo Abramo per padre!
Perché Dio può far nascere dei figli di Abramo anche da queste pietre qui» (Lc. 3, 8).
Un altro appoggio cadeva.

La legge di Dio:
Dio ha dato la legge e chi l'osserva sarà salvo (cf. Ger. 8, 8).
Perciò fu necessario spiegare bene la legge per sapere con esattezza che cosa ordinava e garantirsi così la salvezza.

La legge diventò il pretesto per obbligare Iddio.
Paolo dice che sia il pagano (greco), senza la legge, come il giudeo, con la legge, tutti sono schiavi del peccato (Rom. 3, 9).
«Nessuno mai sarà salvo per avere osservato la legge» (Rom. 3, 20).

I profeti abbattono tutti gli appoggi, smante1lano tutti i nascondigli e proiettano la luce della verità in tutti gli angoli oscuri.
Tagliano tutti i fili del telefono che mettono in comunicazione con Dio, fanno saltare tutti i ponti che legano a Dio.

Fanno piazza pulita, aprono una voragine e lasciano tutti nella insicurezza quasi assoluta.
Tutto è abbattuto e criticato come falso, non per se stesso ma in quanto non è più appe1lo di Dio che spinge a camminare verso il futuro della promessa;
anzi è diventato mezzo di comodismo e perfino di oppressione proprio in nome di Dio.

Anche oggi, chissà, il profeta direbbe le stesse cose e farebbe la stessa critica a molte forme che consideriamo ancora sante ed intoccabili.
E come allora neppure oggi il profeta sarebbe riconosciuto come tale ma sarebbe rigettato proprio in nome di Dio.

Lo stesso Gesù fu rigettato in nome di Dio e della tradizione: «Quest'uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato» (Gv. 9, 16).
Né messa alla domenica né rosario né rosa di oro né cattedrale maestosa né Pasqua né acqua benedetta né candela né ex voto niente può «per se stesso» costringere Dio.

Chi si aggrappa a queste cose si aggrappa alla proiezione di se stesso, che certamente non è Dio ma un mito inesistente.
Non è certo il Dio vivo e vero quello che i profeti conoscono da vicino e adorano. Non esiste su questa terra una leva capace di muovere il cielo.
Il profeta si limita a criticare perché l'uomo capisca che insistere su tutte queste formalità, come se avessero in se stesse la forza di costringere Iddio, sarebbe come dialogare con l'eco della propria voce.

Si capisce allora perché il profeta dovette affrontare forti resistenze; egli stava demolendo gli appoggi più radicali della sicurezza umana; basta leggere, per esempio, le considerazioni dell'epistola agli Ebrei sulla sofferenza dei profeti perseguitati (Ebr. 1l, 32-38).

Tutta la critica fatta dai profeti, apparentemente così negativa, essi la facevano spinti dall'idea che avevano di Dio, profondamente in contrasto con il comportamento e le strutture della vita che il popolo conduceva.

Non potevano permettere che l'uomo si alienasse dalla realtà della vita né che la religione fuggisse verso le forme mondane del rito, della cerimonia, del culto.
Significava svuotare il rito, la cerimonia, il culto.

Se vivessero oggi sarebbero essi stessi i primi a dire che una religione del genere diventa davvero «l'oppio del popolo».
Per convincersene basta leggere e meditare i loro scritti.
Ci resta da esaminare quale fu il lato positivo della critica così radicale fatta dai profeti.



5. Il Dio vivo e vero dei profeti

In conclusione, secondo il modo di vedere dei profeti, tutto era sbagliato?
Benché distruggessero tutti i ponti, uno ne costruivano, capace di stabilire un contatto reale fra Dio e gli uomini, che dava agli uomini la garanzia della presenza di Dio: la fede.
Che significa tutto questo?

I profeti vivono profondamente la presenza di Dio.
Sono uomini di Dio. Dio va al di là di tutte le cose.
Dio non può essere preso al laccio, incanalato;
soggiogato come bestia da traino al carico dei desideri degli uomini.

Dio non si addomestica. L'uomo non si può permettere di invertire le parti, e invece di essere lui a servire Dio, costringere Dio a servirlo, strumentalizzando il rito e il culto che in questo caso si ridurrebbero a una stregoneria battezzata.

Per i profeti Dio è una presenza totalmente gratuita che offre la sua amicizia a chi voglia accettarla.
Ma egli vuole che la sua amicizia sia rispettata.
L'amico che offre amicizia vuole che l'altro abbia fiducia in lui e non che cerchi di garantirsi i beni dell'amicizia con astuzie e raggiri.

Sarebbe come mancare di fiducia e sarebbe motivo sufficiente per negargli l'amicizia per il futuro.
Con il tuo amico non puoi mai riferirti ai regali che gli hai fatto, ai benefici che gli hai elargito per ricevere in cambio l'appoggio dell'amicizia;

basta il fatto di essere amici:
«Senti, caro, tu dici di essere mio amico.
Sta bene.
Se così è, mi arrischio a questa o a quella impresa che interessa pure a te e sono certo che tu mi aiuterai».

Ci si appella all'amicizia in sé e per sé e all'impegno che l'altro ha preso con se stesso in forza dell'amicizia.

Lo stesso succede con Dio.
Si è impegnato con gli uomini offrendo loro la sua amicizia.

Vuole che sia rispettata.
Esige fede e fiducia come condizioni elementari e iniziali per qualunque altro accordo. La sua presenza in mezzo agli uomini è garantita e sicura perché lo ha detto lui.

Ma lui è così forte che può benissimo sottrarsi a qualsiasi incontro indebito (quando cioè mancano fede e fiducia):
vitello d'oro, luogo alto, re, tempio, culto, Gerusalemme, terra, legge, popolo eletto, figli di Abramo, giorno di Jahvé, rosario, candela, ex-voto, processione, precetto domenicale, Pasqua, primi venerdì del mese, preghiera a Santa Rita, cattedrale, tutto è relativo.

Questi elementi non hanno per se stessi nessun potere di garanzia e il giorno in cui diventano mezzi per «comprare il cielo» e per garantirmi la salvezza a mio uso e consumo meritano la critica e la condanna dei profeti anche al giorno d'oggi.

Non che siano cattivi in sé. Possono anche essere cose utili buone e perfino necessarie, quando usate come espressioni di quella fede e di quella fiducia che sono condizione fondamentale per qualsiasi incontro con Dio.

Sono appena frecce indicative che orientano a Dio.
Ma Dio sta sempre al di là di tutto quello che possiamo pensare di lui ed è sempre più vicino a noi di quanto direbbero tutte le possibili espressioni di amicizia, proprio perché è amico.

Queste forme sono valide come i fili del telefono, ma non sono la persona con cui parlo né possono costringerla a parlarmi.
Essa può benissimo attaccare il ricevitore e lasciarmi brontolare con l'eco dei miei desideri.
Se però le mie parole sono espressioni di fede, certamente arrivano a Dio e Dio non fa il sordo.

Proprio perché è fedele, Dio rimane in comunicazione con l'uomo dandogli appoggio e aiuto.

Solo apparentemente i profeti lanciano gli uomini nella più completa incertezza, perché in realtà sono proprio loro a gettare le basi della più incrollabile certezza possibile ad un uomo:
la certezza assoluta che Dio è presente.

Non è lontano da noi; è con noi.
Il suo nome è Emanuele, che vuol dire Dio con noi, forte fedele amico.
Ma egli ci supera, egli è sempre l'’Altro'. Non possiamo addomesticarlo. Il suo rapporto con l'uomo è così libero e sovrano che può sottrarsi al dominio dell'uomo.

L'uomo invece è debole e non riesce a sottrarsi al dominio che un altro uomo gli impone. L'atteggiamento di Dio, allo stesso tempo così vicino e così lontano, è una sfida e una accusa.

Ricorda all'uomo i suoi limiti:
Uno almeno riesce sempre a fuggire alle sue brame di dominio.
Il comportamento di Dio critica il rapporto di dominio che un uomo esercita su un altro uomo e risveglia in coloro che sono dominati la volontà di fare rispettare la loro dignità.

Dio assume rispetto agli uomini lo stesso atteggiamento che gli uomini devono assumere rispetto agli altri:
l'unico mezzo capace di rendere una persona coerente con se stessa è la fede, la fiducia, l'amore disinteressato.

Quando l'uomo sa mettersi al suo posto davanti a Dio, Dio si sente in dovere di aiutarlo.
Dice il salmo:
«Lo proteggerò perché ha riconosciuto il mio Nome» (Sal.
90, 14).

In altre parole:
«Sono costretto ad aiutarlo perché lui fa sul serio ».
Ma per far questo l'uomo deve buttarsi nel buio, dargli fiducia, assumere un atteggiamento di fede che crede nella parola dell'altro.
Ossia lasciare che l'altro sia se stesso;
lasciare che nella sua vita Dio sia Dio.

Questo ci insegnano i profeti a rispetto di Dio.
La sintesi è contenuta nel nome che Dio stesso si scelse:
«Jahweh» che vuol dire: «io sarò presente».

È pure l'abbreviazione dell'altro:
«io sono colui che sono» (Es. 3, 14) e vuol dire: «certissimamente io sarò sempre presente e ti aiuterò;
ma 'come' e 'quando' ti aiuterò lo decido io.
Conta su di me».

Il nome è un appello alla fede.
Dio dette prova della sua presenza liberatrice:
la prima grande prova fu l'Esodo;
l'ultima prova ancora in corso è la venuta di Gesù Cristo, Emanuele, Dio con noi (Mt. 1, 23).

Questo Dio riconosciuto e vissuto così nella vita concreta è il nucleo da cui parte tutta l'azione profetica.
Ed è allo stesso tempo una nuova maniera di vedere l'uomo.

Ecco perché i profeti, anche in mezzo alle più grandi disgrazie molte volte da loro stessi preannunziate, non perdono mai la speranza.
Per quanto critico possa sembrare il loro intervento nella vita del popolo, il loro messaggio in fondo è sempre di speranza.

La critica entra quando la forma concreta del vivere minaccia di rendere la vita così meschina da soffocare la speranza nel cuore del popolo e soprattutto nel cuore dei poveri.



6. Al giorno d'oggi ci sono ancora i profeti?

I profeti generalmente non 'si servono di un'etichetta né scrivono il loro nome di profeti sul biglietto da visita.


Oggi il movimento profetico nella Chiesa e nel mondo è molto forte.
La critica delle strutture e degli atteggiamenti anacronistici, che ormai non dicono più nulla, è in corso e chi le aprì le porte fu proprio il Concilio Vaticano II.

Come al tempo della Bibbia, il movimento profetico oltre ad essere un movimento di fede all'interno del popolo eletto, era allo stesso tempo una corrente culturale che assunse dentro la Chiesa una dimensione di fede tutta particolare.

Non sono soltanto i cristiani che criticano i comportamenti e le strutture oggigiorno incapaci di esprimere la vita che scaturisce e che incomincia.

I cristiani stanno dentro a tutto questo e ne fanno parte orientandosi con la fede in Dio.

Nella Chiesa di oggi troviamo gente che cerca di neutralizzare l'alienazione in cui si adagiano tanti cristiani, smarriti tra pratiche e osservanze che non sono più espressione di amicizia con Dio ma soltanto espressione di una ricerca ansiosa di sicurezza umana.

Se si mantiene rigidamente la situazione di compromesso sia nella Chiesa che nella società, la colpa non è soltanto del popolo ma anche di quelli che esercitano l'autorità.
Perciò la critica dei profeti ieri come oggi raggiunge chi ha nelle mani il potere.

Anche Gesù fece lo stesso:
criticò i farisei e i capi religiosi.
Del popolo ebbe compassione come di pecore senza pastore.

Per questo la missione profetica è una missione pericolosa, affatto piacevole per chi ne prende coscienza, come il profeta Amos ed Osea. Prima di parlare ci penserà due volte.

Come Mosè (Es. 11-4, 13) e Geremia (Ger. 1, 6) cercherà ragioni e pretesti per sottrarsi a un compito così arduo.

Ma ieri, come oggi, nonostante le proibizioni, i profeti continuano a parlare:
«Dio lo vuole: chi potrà non parlare in nome di Lui? » (Am. 3, 8).



SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VI (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]





dal re Ezechia al re Giosia: storia di una riforma


«Ho trovato il libro della legge nel tempio di Jahvé» (II Re 22, 8).
Il grido cadde come una pietra in un lago tranquillo:
in pochi momenti tutta la superficie è in movimento.

Come il colpo di cannone nel silenzio della valle:
in pochi secondi l'eco riempie la valle come il tuono di mille cannoni.

Nel corso della storia si verificano situazioni del genere, in cui tutto converge verso uno stesso punto ma nessuno può sapere quale sia, perché sta al di là dell'orizzonte.

L'aria è pregna.
Qualcosa sta per succedere.

Nessuno sa che cosa, ma tutti ne hanno il presentimento;
qualcosa succederà inevitabilmente.

E quando succede è come l'energia elettrica che finalmente arriva e nel buio della notte illumina d'improvviso tutti i lampioni della città perché l'impianto era già pronto e si aspettava solo l'arrivo della corrente.
Tutto cambia.

Successe così quando il sacerdote Kilkia scoperse il libro della legge nel tempio di Jahvé e lanciò quel grido fatidico.
Era l'anno XVIII del regno del re Giosia (II Re 22, 3) l'anno 622 a.C.

Non si conoscono con esattezza le circostanze storiche della scoperta della legge e neppure si sa perché andò a finire proprio nel tempio. Sappiamo però la ripercussione che ebbe il fatto.
È questo che ci interessa.

I movimenti storici sono come i grandi alberi dalle radici umili e nascoste nei secoli anteriori.
Per questo sono irreversibili. Nessuno riesce a sbarrarne il passo.

Sono più forti degli uomini, i quali però possono influirvi sia in bene che in male. Possono far sì che il voltaggio della corrente che arriva dalla centrale elettrica superi quello dell'impianto, che scoppia e va in aria.

Allora accadde proprio così. Tutto andò in malora.



1. Le radici da cui nacque l'albero

Esattamente cento anni prima, nel 721 a.C., accadde la grande catastrofe del regno di Israele situato a Nord della Palestina.
Salmaneser, re della Siria, la grande potenza mondiale dell'epoca, invase il territorio (II Re 17, 3-5), distrusse la capitale Samaria (II Re 17, 6), rase al suolo l'interno del paese, deportò il popolo (II Re 17,6.20.23; 18, 11) e trapiantò al suo posto altre popolazioni (II Re 17, 24). Mise fine definitivamente a qualunque focolare di rivolta e di sovversione.

Si chiuse la storia del regno del Nord.
Ma la guerra continuò.
Gli eserciti dell’Assiria continuarono a marciare verso il Sud circondando le montagne del regno di Giuda e andarono a combattere contro gli Egiziani nel territorio di Gaza.

La distruzione di Samaria fu un avviso molto serio per il piccolo regno di Giuda, che nella guerra tra le due grandi potenze (Assiria ed Egitto) si trovò completamente isolato, imbottigliato in alta montagna.

Il popolo del Nord si disintegrò e cessò di esistere, perché aveva abbandonato il centro che unificava la vita nazionale.

Aveva smesso di essere fedele all' Alleanza e aveva lasciato da parte la costituzione del popolo che era la legge di Dio (II Re 17, 7-18; 18, 12).

Però in Giuda non era differente l'infedeltà e il cancro della decomposizione era identico (II Re 17, 19). Il territorio non fu invaso, ma più per un caso che per essersi meritato di scampare.
Si salvò perché poco prima il re Acaz si era fatto amico dei potenti.

Non volle entrare nell'alleanza di Israele contro l'Assiria (II Re 16, 5-6) e andò lui stesso a cercare il re Salmaneser pagando un pesante tributo affinché questi venisse ad aiutarlo contro la minaccia di Israele (II Re 16, 7-18).

E adesso che fare?
Quale posizione prendere?
Farsi amico della Siria?

No di certo! Sarebbe come sconfessare tutto un passato di fede e di lotta.
Anzi la stessa Assiria, anche quando aiutava gli altri, aveva di mira solo il suo interesse, il suo potere e la sua sicurezza.

Al di fuori la minaccia dell' Assiria cresceva, e al di dentro, senza incontrare alcuna resistenza, si formava un vuoto dilagante.
Acaz era un condottiero impotente.
Non sapeva come affrontare la situazione divenuta drammatica.

Il profeta Isaia aveva già tentato di rianimarlo con la fede nel futuro che Dio riservava al suo popolo (Is. 7, 1-25), ma non aveva trovato eco in quest'uomo mediocre che in un momento di disperazione era arrivato al punto di sacrificare il suo stesso figlio per propiziarsi altre divinità (II Re 16, 3).

Non c'era più spirito combattivo; la speranza veniva meno insieme alla capacità di resistere.
Avevano perduto il senso dell'esistenza.

Il vuoto interiore cresceva a dismisura. Aveva ragione Isaia:
«Se non avete fede non potete resistere» (Is. 7, 9).
Come risvegliare la fede?

Acaz morì. Il governo fu assunto dal giovane Ezechia, abile politico che aveva 25 anni di età.
Regnò quasi 30 anni (II Re 18,2).

Era un uomo di fede che «collocava in Dio la sua speranza» (II Re 18, 5). Aveva fede nel futuro di Dio e seppe comunicarla agli altri.
Suscitò un desiderio generale di riforme di cui lui stesso si fece portavoce e strumento.

Un soffio di vita nuova pervase l'intera nazione e tutti si sentirono rianimare.
L'apatia era vinta, il vuoto colmato.
Cominciò a nascere una nuova mentalità:
idee nuove su Dio, sul culto, sul passato, sul destino della nazione.

Erano solo idee, ma idee forti e ardenti che misero subito le ali e cominciarono a circolare nella testa del popolo.

Proprio qui, in questo movimento di rinnovazione provocato da Ezechia, in queste idee nuove, nasce la radice di quella legge che fu scoperta nel tempio quasi cento anni dopo dal sacerdote Kilkia.



2. I primi passi della riforma

La riforma prese corpo e entrò in tutti i settori della vita nazionale. La fede ne uscì purificata e i fuochi di magia e superstizione furono estinti (II Re 18, 3-4; II Cron. 29, 3-11);
le ingiustizie furono eliminate e la legge di Dio adottata come costituzione del popolo nella solenne celebrazione della Pasqua (II Cron. 30, 1-27);

si ricercarono e si raccolsero le tradizioni antiche (Prov. 25-1); Gerusalemme fu restaurata e le sue mura furono fortificate per qualunque eventualità (II Cron. 32, 1-5);

Ezechia si incaricò del rifornimento di acqua in caso di assedio o di assalto alla città e scavò un acquedotto nella roccia viva che tutt'oggi desta meraviglia (II Re 20, 20); combatté e sconfisse i Filistei nemici tradizionali dei Giudei (II Re 18,8);
purificò il tempio, (II Cron. 29, 12-17) riformò il culto e il sacerdozio (II Cron. 31.1-21).

Dalle ceneri rinasceva un popolo nuovo.
Ezechia scoprì il punto nevralgico attraverso cui far breccia per dare nuova speranza a un popolo avvilito e disperso.

Il perno della riforma consisteva nella rinnovazione spirituale e religiosa del popolo.

Una vera conversione del popolo al fulcro da cui partiva la rigenerazione della vita nazionale;
una conversione cioè alla sua vita con Dio" perché il ricordo del passato era ancora vivo in lui (cf. II Cron. 30, 5-9.13-20).

Tornarono a fiorire la speranza e la volontà. di lottare e di vivere in forza di questa nuova fede.

Ezechia riuscì a sfondare la porta del futuro che minacciava di chiudersi per sempre. Ci riuscì soprattutto perché la riforma liturgica, espressione autentica della vita del popolo, aprì uno sbocco alle forze vive che in esso esistevano, aiutandolo così a riscoprire la sua identità di «popolo di Dio».

Fu il grande merito di Ezechia che resterà immortale:
«Tra tutti i re di Giuda nessuno fu come lui né prima né dopo» (II Re 18, 5).

L'opera sua però non si restrinse alle frontiere della sua nazione.
Da buon politico illuminò l'orizzonte della situazione internazionale, tanto più che sarebbe stato impossibile che una nazione piccola come la sua, in una situazione come quella, si rinchiudesse in un nazionalismo ostinato e cieco.

In Egitto il Faraone Sabaka si rifaceva dalla sconfitta subita.
Aveva riunito tutte le forze della nazione ristabilendo così l'equilibrio internazionale rotto prima di lui dall'invasione degli Assiri.

Subito da tutte le parti sorse il tentativo di un fronte internazionale anti Assiria appoggiato all'Egitto, che anzi lo fomentava.
In seno al governo di Ezechia crebbe la corrente a favore dell'Egitto che tentava di avere anche il re dalla sua parte.

Il profeta Isaia, consigliere del re in materia religiosa e politica, che aveva già in precedenza sconsigliato Acaz di appoggiarsi all'Egitto, conservava ancora la stessa linea politica.

L'Egitto non dava affidamento (v. Is. 30, 1-7; 31, 1-3).
Ma Ezechia non ascoltò il] consiglio.
Entrò in campo e partecipò attivamente al gioco (II Re 18, 21).

L'Assiria non si fece aspettare.
Piombò sulla resistenza e la sconfisse.
Giuda fu invasa, le città capitolarono una ad una (II Re 18, 13).
Restò solo Gerusalemme che Ezechia aveva attentamente preparato alla difesa lavorando in silenzio per anni ed anni.

Non si sa perché, ma il fatto è che Gerusalemme non fu presa.
Non fu neppure assalita.
Ezechia ne usciva vittorioso.

Come succede sempre in battaglia, le due parti in campo danno due differenti versioni dei fatti e ciascuna li interpreta a modo suo.

La Bibbia dice che le cose andarono così:
Sennacherib, generale assiro, arrivò con quattrocento mila uomini;
il popolo ne fu atterrito, ma intervenne l'angelo del Signore e decimò l'esercito nemico; il generale fu costretto alla ritirata. (II Re 18, 13-19.37; II Cron. 32,9-23).

L'altra versione dei fatti scoperta dagli archeologi nella città di Ninive dice una cosa del tutto differente.
Comunque siano andate le vicende, la ritirata di Sennacherib fu motivo di grande euforia che contaminò lo stesso re Ezechia:
si ingolfò nel gioco politico della cospirazione internazionale contro l'Assiria (II Re 20, 12-19).

Il popolo sentì crescere la fiducia in sé e nei suoi sforzi e non stava in sé dalla gratitudine (II Cron. 32,23). Il fatto contribuì alla rinnovazione interna del paese.



3. Sorgono forze contrarie e paralizzano il movimento

Ma il vento della sorte può cambiare direzione, ed infatti le cambiò.
Il successore di Ezechia, suo figlio Manasse, fu una delusione per il popolo e una nullità per il governo.
Era un inetto e perciò non dette nessun impulso alla riforma iniziata con tanta buona volontà e speranza.

Era un politicante e non si interessò né della religione né della giustizia (II Re 21,1-16).
Si ritornò al punto di partenza.

E tutto questo durò la bellezza di 50 anni e più.

Manasse cominciò a governare a 12 anni di età e morì al governo già vecchio di 60 anni (II Re 21, 1).

Nonostante tutto però, nel popolo rimase una certa nostalgia e la certezza che quando tutti lo vogliono davvero qualcosa si può e si deve fare, come attestano i fatti che seguono.

I politicanti s'impadronirono del governo.
Non si curavano affatto né della legge di Dio né del popolo (II Re 21, 16). Accadde quello che si temeva.

Amon, successore di Manasse, fu assassinato (II Re 31, 33).
Bisognava togliere di mezzo il re e mettere al governo chi difendesse meglio gli interessi di un gruppo di militari, ufficiali dello stesso Amon (II Re 21, 23).

Ma l'assassinio fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Il popolo si ribellò, perché nonostante le disgrazie e le delusioni sofferte a causa del re, si identificava ancora con la monarchia della famiglia di David.

Se qualcuno avesse osato toccarla avrebbe offeso il popolo e poteva aspettarsi immediata vendetta.

Il popolo fece giustizia:
prese e condannò i militari che avevano cospirato contro il re impossessandosi ingiustamente del governo (II Re 21, 24).
Il regime fu salvo.

Andò al governo il legittimo discendente di David ancora bambino di otto anni, Giosia (II Re 22, 1).
A quanto sembra il sacerdote Elkia assunse la reggenza fino a che il ragazzo avesse raggiunto un'età sufficiente per prendere in mano le redini del governo.
Era l'anno 640 a.C.



4. L'ansia di riforme si raddoppia

La violenza degli avvenimenti scosse il popolo e gli dette una nuova coscienza del suo potere.
Fu come ricominciare tutto da capo. Ricuperarono il ritardo sofferto per colpa di Manasse.

La voglia di fare riforme, e riforme di base, tornò raddoppiata.
Tutto contribuiva a questo clima dentro e fuori della nazione.

Fuori: l'Assiria era governata da Assurbanipal da oltre 28 anni.
Il tiranno aveva dato pace al mondo ma la pace del cimitero.

Fece azzittire i popoli davanti alla sua violenza assassina:
un'infinità di massacri, di deportazioni, di torture, di sangue.
Perciò a metà del suo governo poté diminuire la censura e la repressione e dedicarsi tranquillamente allo studio e alla caccia.

Lasciò ai posteri una biblioteca colossale ritrovata recentemente, ed altorilievi rappresentanti scene di caccia di rara bellezza. Il suo apogeo fu anche il principio della sconfitta finale.

A poco a poco l'Assiria languiva per eccesso di potere.
L'Egitto a sua volta, pur minacciando un'altra ribellione, non costituiva ancora un vero pericolo.
Babilonia, la terza potenza mondiale di allora, non era ancora cresciuta abbastanza per significare una minaccia, ed era vista con simpatia dai popoli oppressi.

Ezechia al tempo suo aveva già scambiato idee segretamente con un emissario della Babilonia (II Re 20, 12-15).

Nacque così all'interno del paese un movimento nazionalista.
Con la violenta eliminazione dei cospiratori e degli assassini del re Amon tutti passarono in blocco dalla parte del nuovo re ancora bambino, creatura del popolo.

In questo frattempo apparvero due grandi profeti, Geremia e Sofonia, che predicavano al popolo la riforma e il cambiamento.

Il movimento rinnovatore s'impose e dilagò. Invase tutto il paese.
Era appoggiato da tutti e anche in campo internazionale sembrava realizzabile.

Cominciò l'avanzata:
il re in testa e tutti dietro a lui.
Ma cominciò senza sapere bene da che parte orientarsi.
Tutto era pronto e tuttavia mancava ancora qualche cosa.

Secondo il libro dei Re passarono altri 18 anni prima che fosse dato il passo definitivo (II Re 22, 3).

Il libro delle Cronache ricorda alcuni tentativi anteriori (II Cron. 34, 37).

L'impianto elettrico era pronto ma dalla centrale non arrivava ancora l'energia.
C'era un intoppo.
Come quando si aspetta che l'acqua raggiunga i cento gradi per bollire.

Ma se sotto la pentola c'è il fuoco, non c'è pericolo:
l'acqua bollirà.E il fuoco c'era.

L'attesa durò fino al momento in cui echeggiò il grido:
«Ho trovato il libro della Legge nel tempio di Jahvé!»• (II Re 22, 8).

Tutta la città s'illuminò perché era arrivata la luce.
Il cannone tuonò nel silenzio della valle.
Si era trovato quello che mancava.
Echeggiò il grido e cominciò l'avanzata.

D'improvviso si aprì nitidamente una strada e tutti (re, profeti, sacerdoti, funzionari e popolo) vi entrarono dentro.
Avevano davanti a sé un futuro pieno di ottimismo.
Era l'anno 622 a.C., esattamente 100 anni dopo la caduta di Samaria.



5. La «Magna Charta» della riforma trovata nel tempio: la sua storia

La legge trovata nel tempio era l'antica legge di Dio, ma riveduta e corretta in una edizione nuova adatta ai tempi nuovi.

Le idee lanciate da Ezechia e soffocate durante il lungo governo di Manasse vi incontravano una formulazione concreta e operativa.
Quelle idee non erano scomparse, ma erano state ruminate da alcuni idealisti che le conservarono, le formularono e le misero per scritto (idealisti che pensavano al futuro e non si lasciarono vincere dal marasma politico e religioso provocato dall'incapacità di Manasse).

Non si sa come né perché il loro scritto andò a finire nel tempio.
Là fu trovato da Elkia in occasione delle riforme che si stavano facendo nella costruzione (II Re 22, 3-10).

Portato al re e letto alla presenza di lui, il libro provocò una reazione inaspettata di paura e di confusione:
«Grande deve essere la collera del Signore contro di noi, perché i nostri padri non hanno obbedito alle parole di questo libro e non hanno messo in pratica tutto ciò che vi è scritto» (Il Re 22, 13).

Ebbero l'impressione che all'improvviso la nebbia si dileguasse e lo orizzonte si delineasse limpido ai loro occhi.

Il libro era lì ad indicare il cammino da tutti desiderato ma che nessuno riusciva a definire.

La legge trovata nel tempio diceva come fare.
Veniva a formulare con esattezza ciò che era confuso nelle aspirazioni di tutti.
Offriva loro una strategia dell'azione.

Tutti presero coscienza della crisi che stavano vivendo (cf. II Re 22, 14-17). All'istante il popolo fu convocato, la legge fu letta in assemblea plenaria e tutti s'impegnarono a metterla in pratica (II Re 23, 1-3).
La riforma aveva adesso la sua «Magna Charta».

Si poteva mettere mano all'opera.
Il popolo aderiva in pieno (II Re 23, 3).
Lo scopo consisteva nell'applicare integralmente le esigenze di Dio nella situazione nuova in cui si trovavano.

A dire il vero, una riforma drastica della vita nazionale era più che necessaria. Tutti se ne rendevano conto.
La religione, così come era praticata, era piena di superstizioni.

Una delle cause era l'infiltrazione e la mescolanza di elementi pagani nel culto di Jahvé e l'abbondanza di piccoli santuari sparsi per tutto il territorio, dove si praticava un culto affatto differente dal culto magico dei Cananei.

I profeti non si stancavano di denunciarlo.
Ma non serviva quasi a niente.

Bastò per esempio che morisse Ezechia perché Manasse ripristinasse tutto l'apparato pagano del culto (II Re 21, 3-7).
Segno che nella vita del popolo c'era tutta una ricerca e un vuoto nascosto, che trovavano risposta concreta solo in questi elementi magici.

C'era il pericolo di una perversione lenta e progressiva dell'idea di Dio, seguita dalla perversione del senso della vita della nazione.

Proprio così 100 anni prima era incominciata la caduta della Samaria.
Se lo ricordavano tutti e avevano paura che la cosa si ripetesse.
Il popolo del Nord si disintegrò e cessò di esistere per non sapere più chi era né perché esisteva.

Era meglio prevenire che rimediare.

Ma non c'era re né profeta capace di strappare il male con la radice e tutto.
La coscienza del popolo non era chiara.
Il problema si presentava assai complesso.

Fin dal 722, quando la Samaria fu distrutta, i teorici del governo avevano incominciato ad analizzare il problema più da vicino, arrivando a conclusioni pratiche radicali di grande importanza per la vita del popolo. Redarono un documento o manifesto in cui si diceva come applicare la legge di Dio.

Stesero anche un piano d'azione. Elkia lo trovò molto tempo dopo nel tempio.



6. La «Magna Charta» della riforma trovata nel tempio:
il suo contenuto

Esaminiamo i punti principali del manifesto o legge contenuti nel Deuteronomio.

Il documento presenta Mosè che parla al popolo poco prima di prendere possesso) della terra.
A dire il vero il popolo cui Mosè parlava non era quello che visse al suo tempo verso l'anno 1200 a.C. ma era il popolo che camminava per le strade di Gerusalemme' e nell'interno della Palestina, un popolo dedito alla superstizione al tempo di Manasse e Giosia.

Mosè espone la legge in modo molto diretto e personale sotto forma di un discorso.
Si propone di arrivare alla coscienza del popolo e fargli sentire la sua responsabilità in quel particolare momento storico della sua vita.

Attraverso la lettura del manifesto il popolo avrebbe dovuto riscoprire la sua identità di «popolo di Dio», il suo impegno urgente con questo Dio e le esigenze di vita' che ne derivavano.
Col re il manifesto raggiunse'il suo scopo.

Basta vedere la reazione appena finì di ascoltarne la lettura (II Re 22, 13).
Il Deuteronomio ragiona così:
il popolo non può avere altra divinità all'infuori di Jahvé, unico Dio e Signore del popolo (cf.Dt. 6, 4-25).

Tutto il resto che porta il nome di Dio non ha alcun valore.
Deve essere sradicato (Dt. 6, 14-15; 7, 25-26).
L'impegno del popolo con Jahvé non deriva da quello che il popolo ha fatto per Jahvé, ma da quello che Jahvé ha fatto per il popolo (Dt. 6, 20-7, 6): è un dovere di riconoscenza e di amore (Dt.
7, 7-11).

Per il fatto di essere stati scelti da Jahvé, hanno il dovere di osservare i suoi comandamenti per potere un giorno godere delle sue promesse.
È l'idea fondamentale e occupa tutta la prima parte del libro del Deuteronomio (capp. I-II).
Segue l'applicazione pratica della nuova maniera di concepire la vita nazionale.

L'unico santuario sarà espressione della fede nell'unico Dio.
Tutti gli altri luoghi di culto saranno distrutti.
Jahvé, il Dio del popolo, può essere adorato solo nel luogo da lui scelto per il culto (Dt. 12, 5).

Si capisce che questo unico luogo sarà Gerusalemme.
Solo li andranno a fare offerte ed olocausti (Dt. 12;
6-7). Ogni pratica di culto è prescritta fino nei più insignificanti particolari.

Tutto è centralizzato. Niente resta al caso o all'iniziativa personale. Bisogna farla finita con la situazione in cui «ciascuno si regola come meglio crede» (Dt. 12, 3). La grande preoccupazione consiste nel circuire la liturgia in modo da escludere una volta per tutte la pratica della magia (cf. Dt. capp. 12, 18).

Una delle più importanti. norme concrete era l'obbligo di fare tre pellegrinaggi all' anno al tempio di Gerusalemme in occasione delle tre grandi feste nazionali (Dt. 16, 16).

Sarebbe bastato a promuovere la coscienza di unità nazionale e sarebbe stata un’occasione propizia per istruire e aggiornare il popolo su Dio e sulle esigenze della Legge.

Conviene leggere il libro del Deuteronomio per farsi un'idea dell'appello vibrante rivolto alla coscienza del popolo, in quello stile diretto e suggestivo che gli è proprio, e per capire la rigidità della riforma liturgica che non lasciava niente di indefinito.




SEGUE..






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VI (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]








dal re Ezechia al re Giosia: storia di una riforma




7. Il problema della manutenzione del clero:
pietra d'inciampo alla rinnovazione


Al problema della riforma del culto si legava quello della manutenzione del clero dell'interno.
Tutti quei santuari, sia degli dèi falsi che del vero Dio, avevano i loro sacerdoti.

I poveretti trovavano nei santuari l'unico mezzo di sussistenza. Decretando l'abolizione dei santuari il clero di Gerusalemme decretava la fame e la miseria dei colleghi dell'interno. Problema insolubile circolo vizioso; Ezechia aveva tentato già una riforma del clero senza nessun risultato (II Cron. 31, 2).

Col governo di Manasse tutto era tornato al punto di partenza.
Senza prima dare una soluzione ragionevole al problema concreto del clero, qualunque altra soluzione per promuovere la riforma sarebbe stata come un innesto su un ramo secco.

Per quanto possano essere belli gli ideali, nessuno vuol morire di fame per loro amore.

Gli autori del libro del Deuteronomio si proposero di risolvere il problema del clero e trovarono la soluzione di cui si parla nel libro di Giosia:
una parte del clero dell'interno fu trasferito a Gerusalemme, dove ottenne un impiego di seconda categoria nel tempio (Il Re 23, 8; cf. Dt. 18, 6-8);

un'altra parte ricevette la proibizione di stabilirsi a Gerusalemme (II Re 23, 9) e fu affidata alla carità del popolo (cf. Dt. 14, 27-29).

Affiora la rivalità tra i due cleri e la lotta che si facevano da tempo per conquistare una maggiore influenza sul popolo.

Il clero della capitale voleva guadagnarsi una influenza maggiore nella nazione e voleva centralizzare il culto nelle sue mani.
E ne aveva il mezzo dal momento che il pericolo della magia era grande.

D'altra parte il trasferimento di tutto il clero nella capitale poteva marginalizzare lo stesso clero della capitale.

Il clero dell'interno si vide privato delle sue normali fonti di guadagno. Abbandonato alla carità del popolo o ridotto a un impiego di seconda categoria nel tempio, non vedeva di buon occhio l'azione centralizzatrice dei suoi colleghi di Gerusalemme che godevano condizioni di vantaggio.

Non è poi molto piacevole essere messo di punto in bianco alla stregua dello «straniero, dell'orfano e della vedova» (Dt. 14, 29)!
La previdenza sociale del clero fin da quel tempo costituì un problema e un problema cruciale per l'esito della riforma che si doveva fare.

Sembra proprio che tutta la legislazione corrispondesse soltanto al modo come gli agenti centrali di coordinamento a Gerusalemme sentivano ed affrontavano il problema, in quanto erano persone che da molto tempo pensavano a queste cose e avevano una coscienza illuminata.

Non era certo espressione del problema così come lo sentiva e lo viveva la base, il popolo e il clero dell'interno. Qui si situa la causa del fallimento della riforma.



8. L'esecuzione della riforma e la sua tragica fine

Il re Giosia assunse la riforma come sua missione personale.
Fece di tutto per metterla in pratica.
Corse tutta la nazione da nord a sud (II Re 23, 4-14).
Entrò perfino nel territorio di Israele (II Re 15-20).

Voleva farla finita con tutti i santuari, sia di Jahvé sia degli altri dèi, per purificare la religione dal cancro della superstizione e della magia.

Usò la violenza e arrivò ad uccidere i sacerdoti degli dèi falsi bruciandoli vivi insieme ai loro altari (II Re 23, 20).

Attuò la riforma del clero (II Re 23, 8-9).
Fu molto elogiato:
«Ha fatto ciò che piace a Dio e in tutto ha imitato la condotta di David suo padre senza deviare né a destra né a sinistra» (II Re 22, 2).

È difficile dare un giudizio sul movimento di riforma messo in opera da Giosia.
La morte inattesa e immatura gli impedì di portarla a termine.

Dopo di lui andarono al governo uomini incapaci.
Tutto restò a metà.

Giosia abbatté la vecchia casa e non fece in tempo a costruirne una nuova.

Ancora una volta sarà la situazione internazionale ad influire sull'andamento dei fatti interni del paese dando loro una direzione imprevista.

Nabopolassar, re di Babilonia, la terza potenza mondiale dell'epoca, ereditò dai suoi antenati lo spirito di lotta e di indipendenza e dette inizio alla rivolta contro il potere secolare degli Assiri.

Con battaglie fulminee riuscì a frantumare in pochi anni un potere immenso costruito durante secoli.
L'Assiria agonizzava.

Nel 612, cioè dieci anni dopo la scoperta del libro della Legge nel tempio, quando Giosia correva il paese distruggendo i santuari e trasferendo il clero, Ninive, la grande capitale degli Assiri, fu presa dai Babilonesi e rasa al suolo.


Questo fatto è simile all'esplosione della prima bomba atomica di Hiroshima:
finisce un'epoca e ne incomincia un'altra.

L'Assiria si ritirò con le truppe che le restavano verso il nord nell'attuale Siria e là si barricò in un ultimo tentativo di difesa disperata.

E come può accadere, quando la Cina diventa troppo forte, l'America e la Russia diventano amiche;

così l'Egitto, eterno nemico dell' Assiria, si mise a fianco di questa per l'equilibrio del Medio Oriente.

Inviò un esercito di rinforzo per raccogliere i resti dell'esercito assiro barricato nel nord dell'Assiria.
Per arrivare fino là doveva passare per la terra di Giosia.

Giosia, forse spinto dalla presunzione, pensò di cogliere il momento buono per contribuire in qualche modo alla politica internazionale.
Riunì i soldati e andò 'ad aspettare gli Egiziani dietro la gola di Megiddo sul monte Carmelo.
Voleva impedirne il passaggio affrettando così la sconfitta sia degli assiri che degli egiziani.

Aprì il fuoco contro il Faraone per vincerlo in battaglia.
Fece male i calcoli e fu sconfitto nel primo scontro (II Re 23, 29).
Ferito a morte, fu raccolto e portato a Gerusalemme dove morì e fu sepolto tra il compianto generale del popolo che lo considerava un grande amico (II Cron. 35, 23-24).

Si dice che lo stesso profeta Geremia fece l'elogio funebre del re la cui morte uccise l'ultima speranza del popolo (II Cron. 35, 25).
Giosia aveva solo 39 anni.
Morì giovane (cf. II Re 22, 1).

Siamo nell'anno 609. Dodici anni di lavoro intenso per la riforma si chiudevano con una morte stupida ed inattesa.

Il Faraone, di ritorno dalla missione militare a nord della Siria, passò da Gerusalemme e sottomise il regno di Giuda mettendovi a capo l'uomo di sua fiducia (II Cron. 36, 1-4).

Da quel momento tutto andò male;
22 anni più tardi, nel 587, la città fu presa da Nabucodonosor, successore di quel re a cui Giosia aveva dato appoggio pagando con la vita.

Nabucodonosor re di Babilonia, prese la città, la rase al suolo e fece piazza pulita per sempre dell'indipendenza del popolo, che la riconquistò solo nel 1947 d.C., quando si formò lo stato di Israele che oggi deve sostenere le stesse lotte, facendo lo stesso gioco di politica internazionale delle grandi potenze.



9. Bilancio della riforma

La riforma morì con la morte di chi l'aveva promossa.
Come si spiega?
Dove stava lo sbaglio?
A chi attribuirne la causa?

Alla politica interna?
Alla incompetenza dei successori di Giosia?
Allo stesso Giosia?
Alla «Magna Charta» della Riforma?

Se la riforma era stata promossa proprio per evitare il disastro che si realizzò, perché allora non riuscì ad evitare la china che la portò fin là?

Fu troppo debole o troppo forte?
Fu uno sforzo vano senza prospettive di futuro?

C'è un fatto curioso in tutta questa storia.
Geremia, la grande figura religiosa di quel tempo, che fin dal principio ne accompagnò tutti i passi, che predicò la conversione, che pianse amaramente la morte del giovane re, non sembra con le sue profezie aver dato tutto l'appoggio a quanto si faceva in nome della riforma.

Non si identificò col movimento di riforma che il re Giosia portò alle ultime conseguenze.
Perché?

La riforma affrettò o ritardò la catastrofe che sopravvenne così rapidamente nel giro di soli 20 anni, quando i cambiamenti solevano realizzarsi, molto più lentamente che al tempo d'oggi?

È difficile dare un giudizio, perché ce ne mancano gli elementi.
Cercheremo solo di formulare una ipotesi, dal momento che i fatti ci stanno davanti ed esigono risposta e la questione ci interessa perché
anche oggi la Chiesa è coinvolta in un gigantesco sforzo di riforma segnato da avvenimenti di ogni tipo, sia interni che esterni, nazionali e internazionali.

Davanti ad un'opera d'arte si possono fare studi di diverso tipo per cogliere tutta la portata del messaggio che vuole comunicarci:
tuttavia il messaggio colto dal critico d'arte può non essere quello dell'artista.

Ma lo sforzo fatto dal critico di arte rientra nella prospettiva dell'artista:
l'artista vuole che la sua opera susciti la riflessione degli uomini e li metta davanti alla loro coscienza.

Allo stesso modo, nella spiegazione della Bibbia e dei fatti raccontati dalla Bibbia, la parola dell'esegeta non è importante.

Anzi è molto relativa.
L’importante è che l'esegeta, secondo le sue capacità d'interprete, riesca a sprigionare la forza e la luce della parola di Dio perché operi sulle coscienze degli uomini.

Le conclusioni saranno forse differenti da quelle proposte dall'esegeta.
Non ha molta importanza.

È importante che gli uomini si siano fermati, abbiano riflettuto, abbiano confrontato la vita e l'attività con la parola di Dio, abbiano scelto e si siano resi conto alla luce di Dio del perché delle loro posizioni.




lO. L'errore di calcolo che ha fatto crollare la casa in costruzione

Il nuovo modo di vedere la fede sintetizzato nel Deuteronomio sotto forma di progetto concreto di azione era una risposta nata dalle esigenze della realtà, ma in quel momento era pure l'espressione di una piccola minoranza che improvvisamente volle imporsi a tutti.

Si mise in marcia col segnale rosso e contribuì ad accelerare il disastro che aveva intenzione di evitare.
Bisogna aspettare che il semaforo dia il segnale verde, anche se ci mette un po' di tempo, soprattutto quando si tratta di portare il popolo a riformare la mentalità e le pratiche religiose.
Altrimenti si causano disastri.

La riforma drastica che bruciò le tappe del progetto dei teologi di Gerusalemme, anche se era in profonda sintonia con la vita del popolo, fu soltanto teorica, e in pratica rimase senza effetti fino a molto tempo dopo, fino all'epoca che seguì l'esilio.

Si trattò di una riforma imposta dall'alto su schema prestabilito.
Il popolo non riconosceva le sue aspirazioni nella riforma promossa con tanto zelo.

Per questo non la fece sua.

Per questo la riforma morì con l'uomo che la promosse senza lasciare traccia.

Il popolo ha difficoltà a ragionare, né si lascia convincere dalle idee, per quanto chiare e nobili possano essere.

Quando un problema di fede si colloca in termini troppo pratici, come fu nel caso della riforma di Giosia, la teoria applicata drasticamente non approda a nessuna soluzione.
Dà i suoi frutti a distanza di tempo come elemento di coscientizzazione.

Le soluzioni drastiche che tutto ad un tratto applicano un progetto teorico, senza tenere conto della realtà, non funzionano, perché nessun popolo le capisce. Presto o tardi finiscono col fallire.

Il re Giosia non agì con molta comprensione nei riguardi della situazione concreta del clero rurale e del popolo.

Seguiva le norme stabilite da un progetto già pronto, senza chiedersi se era possibile attuarlo in quella forma.
Un carro pesante, quando è tirato d'improvviso con uno strattone, anche se da molto tempo stava aspettando la sua ora, non cammina perché il timone si spezza.

Quando il re volle risolvere il problema non si dette molta pena di consultare il popolo, mentre il buon esito della riforma dipendeva proprio dalla collaborazione del popolo.


Era il popolo che doveva mantenere il clero, che doveva pagare le decime per il tempio, che doveva fare i tre viaggi a Gerusalemme, che doveva osservare tutte le prescrizioni.

Ogni forma di culto pubblico a Dio fu centralizzata in Gerusalemme.
Tutto il resto fu proibito e controllato.
Le prescrizioni prevedevano anche i più piccoli dettagli.

Anche se con retta intenzione, una simile riforma improvvisa privò il popolo da un momento all'altro dell'unico appoggio che aveva per la sua vita in tempi tumultuosi;
appoggio tradizionale che lo aiutava a incontrarsi con se stesso e con Dio, anche se fosse falso.

Da quel giorno in poi chiunque continuasse a praticare qualsiasi altra forma di culto si sentiva come un fuorilegge, su una falsa strada. Privato della sua maniera concreta di adorare Dio, col quale si era identificato durante secoli di vita, e ignorando il raziocinio delle nuove forme di adorazione, il popolo non si ritrova più né con se stesso né con Dio.

In pratica non era sempre possibile andare a Gerusalemme e le tre visite per anno non bastavano a saziare l'intenso desiderio religioso del popolo.
Molto più tardi l'istituzione della sinagoga supplì a questa grave mancanza e rese possibile l'esecuzione della riforma contenuta nel libro del Deuteronomio.

In conclusione il popolo si vedeva collocato al margine del culto ufficiale. Si fece un gran vuoto, senza nulla che potesse riempirlo:
solo forse un'idea.

La vita del popolo diventò una vita senza Dio, almeno di fronte alla legge ufficiale.

Eccolo li, senza più nessun orientamento, in mezzo alla confusione religiosa e politica di quei tempi disastrosi.
Lo choc generato dalla riforma fu troppo forte e il popolo non aveva né criteri né sostegno per sopportare l'applicazione rigorosa delle nuove regole traendone profitto.

Il popolo fu privato del suo diritto.


La morte prematura del re ruppe le dighe e le pratiche pagane dilagarono più numerose di prima per colmare il vuoto scavato dalla riforma.

È significativo che Geremia, uomo del popolo e grande condottiero religioso di quel tempo, per quello che si sa,non abbia dato completo appoggio al movimento.

Eppure se c'era uno che aveva avuto coraggio di criticare gli abusi della religione, questi era proprio Geremia.

Ma quando tutto è confuso non è facile prendere una posizione netta e chiara per dire con certezza che cosa si debba fare.

Sarebbe come un paese che basasse tutta la sua economia sopra un unico prodotto.
Per quanto ricco possa essere, quando arriva l'ora della crisi di quell'unico prodotto, il paese cade in miseria.

Di chi è allora la colpa?

In tempi simili è sempre più facile e più sicuro dire come non dovrebbe essere piuttosto che come deve essere, escludendo ufficialmente altri cammini, altri tentativi, altre esperienze.

Non si tratta di essere fedeli solo a Dio.
La fedeltà a Dio vuole che siamo fedeli anche al popolo.

Il che vuol dire:
la preoccupazione più importante di Dio è il benessere e la felicità degli uomini, il loro sviluppo e la loro piena realizzazione.
Ridurla ad una preoccupazione legalista normativa in nome della purezza della fede, per quanto meravigliosa e giusta possa essere, non è sempre quello che Dio vuole.

Ad un babbo importa anzitutto non tanto che il figlio possegga idee esatte sopra suo padre, ma che riesca nella vita e sia felice.

Quando sarà felice grazie alla bontà di suo padre, avrà pure idee giuste su di lui.

La gloria di Dio non si distingue dalla felicità degli uomini.
Non basta domandarsi soltanto che cosa Dio vuole che io faccia.

Bisogna domandarsi come Dio vuole che io realizzi le cose che aspetta da me. I più grandi sbagli generalmente si fanno non contro la prima esigenza ma contro la seconda.
Siamo fedeli ad una dottrina astratta ma non seguiamo il modo di Dio nel viverla e nel metterla in pratica.

La legge del Deuteronomio conteneva e contiene la giusta dottrina perché la Bibbia ne è depositaria e i cristiani continuano a leggerla fino ad oggi.

Ma il modo con cui gli uomini mettono in pratica e applicano la legge impedisce la sua stessa esecuzione e applicazione.
Tutti hanno agito con la migliore delle intenzioni, nella perfetta obbedienza, ma questo non basta.




11. Conclusione

La Bibbia, portando fino a noi questa storia complicata di riforma, suscita una luce molto grande per orientare la critica.

Ci fa intuire che la Parola di Dio si inserisce nella storia degli uomini in modo tale da rimanere sottoposta alle libere decisioni umane, fino a correre il rischio di non raggiungere il suo fine.

È tutto qui il grande mistero della storia che la Bibbia registra, ma non spiega.

Troviamo nella Bibbia la fede incrollabile che la storia, sostanziata, dinamizzata, orientata dalla Parola di Dio, è sempre una storia vittoriosa.

Tale certezza porta il popolo a prendere decisioni, ad agire.
D'altra parte però queste stesse decisioni e questo agire umano arrivano ad oscurare a volte la presenza della Parola e ad annullarne l'effetto; così almeno sembra, entro i limiti delle nostre possibilità di osservazione e di giudizio.

Quanto successe al tempo di Giosia è preludio di quello che succederà quando «la Parola fatta carne» sarà eliminata dal consorzio umano, uccisa su di una croce, manifestando nella sconfitta la sua forza invincibile.

Tutto ciò serve ad aumentare in coloro che credono in Dio il senso della loro responsabilità.

La complicata storia di una riforma cominciata bene e finita male, perché non rispettò il popolo, dimostra che quel popolo ebbe una storia uguale a quella di qualunque altro popolo.

In mezzo alla confusione generale camminarono i profeti con le loro angustie e le loro speranze, a tastoni, scrutando gli orizzonti per scoprire gli appelli di Dio.

Non sempre indovinarono, non sempre riuscirono a vederci chiaro.
Ma nell'insieme il popolo ha camminato fra alti e bassi ed è arrivato là dove Dio lo voleva.

Il popolo non aveva la linea telefonica che lo mettesse in diretta comunicazione con Dio.
Ma aveva la coscienza che in tutto quello che succede Dio è presente.

La sua storia tormentosa un'impressionante ricerca di Dio.



SEGUE..





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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VII (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

Geremia: la fuga non è mai soluzione





Benché sia vissuto in un tempo totalmente differente dal nostro, qualcosa tuttavia ci unisce a quest'uomo.

Ci risveglia a certi aspetti della nostra realtà, nei quali non eravamo soliti vedere o percepire gli appelli di Dio.
Ci si presenta come un uomo concreto, non più un uomo solo del passato, ma del tutto inserito nel nostro presente.

Potremmo trovarcelo davanti in qualunque angolo della strada.

Attenzione!



1. La realtà: la condizione umana del popolo al tempo di Geremia

Situazione internazionale:
È il tempo che va dalla morte del re Giosia (609) fino alla distruzione di Gerusalemme e alla deportazione del popolo verso l'esilio di Babilonia (587).

Il quadro della politica internazionale è completamente cambiato:
le due grandi potenze mondiali, Assiria e Egitto, hanno perduto l'egemonia coloniale.

Si profila all'orizzonte una terza potenza, terribile e che incute spavento: Babilonia.

Nell'anno 612, Babilonia distrusse la capitale dell'Assiria, Ninive.
Fu uno choc internazionale, simile a quello della bomba atomica cinese a Washington.

Il piccolo popolo di Giuda vedeva di buon occhio il cambiamento e cercava di dare il suo contributo (a suo proprio vantaggio).
Il re Giosia, nell'anno 609, inviò il suo esercito per impedire il passaggio del Faraone di Egitto, Nekao, che si recava a dare aiuto agli ultimi resti delle forze dell’Assiria (un tempo nemica, ma adesso amica, a causa della minaccia di Babilonia), rifugiate nel nord della Siria.

Giosia fu sconfitto e perse la vita in battaglia (lutto nazionaIe).
Le forze alleate dell'Egitto e dell' Assiria furono sgominate e annientate a partire dall'anno 609;
il cammino dell'avanzata dI Babilonia era aperto.

Ripercussione della situazione internazionale sul piano nazionale:
Due erano le correnti politiche del governo di Giuda:
alcuni erano a favore di Babilonia, altri a favore dell'Egitto.
Per cui, tre mesi dopo la morte di Giosia (che era a favore di Babilonia), il Faraone d'Egitto riuscì a deporre dal trono il successore Gioacaz, anch'esso favorevole a Babilonia, e a mettere al suo posto un nuovo re, Gioacchino (609-598), favorevole all'Egitto.

Adesso, era Babilonia il grande pericolo!

Con la vittoria di Babilonia su Nekao, nell'anno 605, Giuda diventò vassalla di Babilonia.
Intrighi dei filoegiziani suscitarono una rivolta che fu schiacciata.

Dal tempo di questa rivolta (602) fino alla distruzione (587) si ebbe una situazione confusa.

Lentamente si andava creando una vera psicosi contro Babilonia, chiamata «il pericolo del nord». (cf. Ger. 1, 14-15).
Intrighi, politica sporca, sabotaggi.

Nessuno più pensava onestamente.
Per limitare il pericolo, si suggerivano soluzioni assurde.

Situazione nazionale:
La morte inattesa e prematura del giovane re Giosia, condottiero amato dal popolo, fu un duro colpo che soffocò le speranze nel cuore di molti.

La riforma incominciata (vedi capp. 4 e 6) non andò avanti.
Ebbe inizio la decadenza.

Il trono era occupato da re inetti.

Nella generale incertezza, ciascuno si difendeva come meglio poteva e dilagava la più nefasta ingiustizia.

Si cercava sicurezza nelle alleanze militari con l'Egitto;
era la politica dello struzzo, che nascondeva o ignorava il pericolo dicendo: «Va tutto bene!

Va tutto bene!» Mentre tutto andava male. (Ger. 6, 14).
Si parlava solo di felicità per nascondere le piaghe del terrore (cf. 8, 11). E si tentava rifugiarsi in una politica fiacca e falsa, sotto il manto protettore della religione ufficiale.

Si pensava di trovare la fonte della sicurezza nel fedele adempimento della liturgia, con tutte le sue feste e cerimonie:
«Siamo salvi!» (7, 10). E non era difficile trovare profeti e sacerdoti che legittimassero un processo del genere e che rassicurassero i capi circa le soluzioni da loro suggerite per superare la crisi (8, 10).

La religione diventò cosi, un «vero oppio del popolo» che credeva in questi falsi profeti quando dicevano:
«Vi sarà dato tutto il bene! Non vi succederà alcun male!» (23, 17).

Ma non si combatte un esercito con riti vuoti, con cerimonie senza vita e con promesse senza garanzia.

La disgrazia si avvicina inesorabilmente.

La religione era strumentalizzata per difendere gli interessi dei gruppi.





2. Riflessione critica sulla situazione: nasce la vocazione del profeta


Nel villaggio di Anatot, circa sei km. a nord di Gerusalemme, abitava un ragazzetto, Geremia, di stirpe sacerdotale (Ger; 1, 1), forse discendente di Ebiatar, sommo sacerdote al tempo di David, destituito dei suoi diritti da Salomone (cf. 1 Re 2, 26-27).

Era, dunque, un ragazzo che aveva nelle vene la tradizione del popolo, che viveva molto intensamente il dramma della sua nazione e si accorgeva dell'inutilità delle soluzioni ufficiali, che non coglievano il fondo del problema.

Da quello che si può dedurre dagli scritti posteriori del profeta, egli vedeva la situazione con occhio critico, illuminato dalle esigenze della sua fede in Dio.

Era una visione molto semplice e quasi semplicista, ma di grande portata.

La situazione attuale provava ad oltranza che il popolo aveva abbandonato il cammino di Dio.
L'ingiustizia si era installata nel potere, a cominciare dallo stesso Re (cf. Ger. 22, 13, 19).

Geremia arrivò perfino a dubitare che in Gerusalemme ci fosse ancora un solo uomo capace di praticare la giustizia (5, 1).
«Passano di delitto in delitto e non mi riconoscono più, dice il Signore» (9, 2).

Causa di tutto era l'abbandono di Dio (2, 13).
Invece di servire Dio, che esigeva la pratica della giustizia (7, 5-6), ciascuno seguiva il suo Dio.

Tanti dèi quante erano le città di Giuda, e tanti altari quante erano le strade di Gerusalemme (11, 13 ).
Per questo, la nazione camminava verso la sua totale disintegrazione.
In una situazione del genere, era inutile la politica dello struzzo, che si sottraeva alla responsabilità e cercava protezione e sicurezza in una religione vuota di senso o in alleanze militari equivoche.

Bisognava attaccare il male alla radice:
«Praticate la giustizia fin dall'aurora, liberate l'oppresso dalle mani dell'oppressore, affinché la mia ira non divampi, come le fiamme di un braciere ardente che non si spegne mai» (21, 12).

Qualsiasi altra soluzione sarebbe stata solo un innesto su un ramo morto. Invece di allontanare il «pericolo del nord», queste soluzioni l'avrebbero avvicinato sempre più.

Si scavavano la fossa con le loro stesse mani.

Sembrava che nessuno avesse coscienza delle sbaglio:
mentre si sforzavano per risolvere la crisi, affrettavano l'epilogo della disgrazia.

La visione critica della realtà segnava la responsabilità di Geremia. Bisognava fare qualche cosa.

Dio lo voleva.

Era diventata un'ossessione.


Un giorno, in cucina, vede la pentola rovesciarsi dalla parte del sud:
« Vedo una pentola che bolle;
il suo contenuto trasborda da nord a sud» (1, 13).

E il fatto comincia a parlare, a partire dal momento in cui si lega al problema che lo interessa:
«La malizia ferve a nord, e ricade su tutti gli abitanti di questo paese» (1, 15).

Così nacque la sua vocazione.

Con una coscienza chiara, si accorge che Dio lo chiama per parlare al popolo.
Si accorge che questa è la sua missione, per la quale fu destinato fin dal seno di sua madre (1, 5).

E ha paura:
«Oh, Signore, vedi, io non ho forze per portare il peso della tua parola; sono appena un ragazzo» (1, 6).
Ma la paura non ha senso, perché la forza di Dio sarà con lui:
«non aver paura davanti al popolo, perché io starò con te e ti proteggerò» (1, 8).

Diventerà «come una città fortificata, una colonna di ferro, una muraglia di bronzo» (1, 18), cioè, nessuno lo potrà vincere, perché la verità e la ragione staranno con lui.

È invincibile.

«Si proveranno a lottare contro di te, per vincerti e sgominarti, ma non ci riusciranno, perché io sto con te per liberarti» (1, 19).

Geremia partì.

Si investì della missione che si era maturata lentamente in lui, diventando convinzione personale, inalienabile e sicura, venuta da Dio, Signore del suo popolo.



SEGUE..





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Geremia: la fuga non è mai soluzione



3. Prassi del profeta Geremia


In mezzo all'angustia generale.
Geremia ragionava a mente fredda.

Denunciava con chiarezza la falsità della politica ufficiale, non si preoccupava delle dicerie dei profeti opportunisti (28, 117; 23,9-40), ma seguiva la sua strada, smascherando uno per uno i punti essenziali di quella falsa sicurezza, generata dalla paura del popolo e dalla presunzione dei condottieri.

Il culto:
non piace a Dio, anche se profuma di incenso comprato All’estero (6, 20); è un culto falso e disonesto (7, 2126); non offre nessuna protezione.

Il tempio:
è un inganno tragico volersi appoggiare all'esistenza del tempio.

Dio non abita più là dentro, ma è diventato straniero nella sua propria terra (14, 8), e il tempio sarà distrutto come una casa qualunque (7, 12-14).

Dio non ne vuol più sapere degli Israeliti (7,15).
La circoncisione (9,24), i sacrifici (14, 12), il digiuno (14, 12), la preghiera (11, 14), in cui riponevano la loro fiducia, non servono più a niente;
neppure i grandi uomini del passato, Mosè e Samuele, potranno far sì che Dio abbia pietà del popolo (15, 1).

La legge non li protegge più, perché hanno fatto della legge uno strumento di oppressione e di inganno (8, 8-9).

Il re, che era la pupilla degli occhi di Dio, è diventato inefficiente: «Anche se il re fosse un anello della mia mano destra, me lo strapperei, dice il Signore» (22, 24).

Non avrà discendenza (22, 30).

Conclusione logica: «Dio non abita più a Gerusalemme (8,19 )>>.

È inutile gridare: «Va tutto bene! Perché tutto va di male in peggio» (8, 11).
È inutile pensare che l'Egitto si interessi di soccorrerti (37, 7).

«Sarai ingannata dall'Egitto come lo fosti dall'Assiria.
Anche di là uscirai con la testa fra le mani» (2, 36, 37), (cioè, prigioniero).

Qualunque soluzione tu prenda, sarà solo una fuga, e la fuga non è mai soluzione! Sarebbe come invocare il pericolo, invece di allontanarlo.

Ma insomma, Geremia, tu che critichi tutto, quale soluzione suggerisci?

Non c'è soluzione!
Tutto è marcio; questa istituzione qui deve sparire:
«Sono così abituati a fare il male che non riescono più a fare il bene>~ (13, 23).

La conversione del popolo è impossibile, come è impossibile che un negro diventi bianco (13,23).
Il peccato ha pervaso ogni cosa (17,1-2).

Neppure se volessimo, potremmo cambiare stile di vita (18, 11-12).
La fedeltà è sparita in mezzo a loro (7, 27-28); perciò:
«Spezzerò questo popolo e questa città come si frantuma un vaso di argilla, che non si può più mettere insieme» (19, Il).

«Allora, dove andremo?».

«Alla peste, quelli che sono destinati a morire di peste!
Alla spada, quelli che sono destinati a morire di spada!
Alla fame, quelli che sono destinati a morire di fame!
Alla schiavitù, quelli che sono destinati alla schiavitù» (15, 2).

Resta una sola possibilità di uscire vivo dalla terribile minaccia:
consegnarsi al nemico che avanza (27, 12; 58, 17-18).

Era i1 consiglio di Geremia a chi volesse ascoltarlo.

Gli altri consigli, che spronavano alla pratica del bene e della giustizia, sembravano cadere nel vuoto.
Un uomo che parlava così era pericoloso e sovversivo.

I suoi discorsi provocavano rivolta, demoralizzavano il popolo e toglievano il coraggio ai soldati, che non avevano più animo per combattere contro Babilonia (38, 4).

Un uomo di questo tipo doveva essere eliminato (28, 4).
Sapeva solo parlare di terrore (20, lO).

Combinarono d'imprigionarlo e, in un pomeriggio relativamente çalmo, dopo un prolungato assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, Geremia fu catturato, mentre usciva dalla città (37, 1116).

«Tu stai passando dalla parte dei Caldei cioè dei Babilonesi».
«Bugiardi! lo non sto passando dalla parte dei Caldei» (37, 14).

Le sue proteste non valsero a niente.
Fu preso, malmenato, e gettato in prigione (37, 15).
Un sotterraneo, che lo soffocava e gli faceva sentire la paura della morte (37, 20).

Ma la prigione non valse a nulla.
Un uomo come Geremia è sempre scomodo, sia in carcere, sia a piede libero.

Invece di migliorare, la situazione peggiorò sempre di più, perché la prigione causò divisioni fra gli stessi capi del popolo (leggere i capp. 37, 38).

Tanto chi era a favore come chi era contro, tutti avevano paura di lui, come risultò dall'intervista segreta del re con Geremia.
Il re non voleva che si sapesse che era stato lui a chiamarlo per parlare (38, 24-26).

Geremia era un uomo per il quale «fede in Dio» non era alienazione; consisteva nel vivere bene la sua vita umana.

Scopriva gli appelli di Dio negli avvenimenti, sia nazionali che internazionali.
Lui faceva parlare i fatti, «interpretava la vita».

Visto che tutti dicevano di aver fede in Dio, Geremia esigeva l'adempimento dell'impegno e metteva in evidenza le incongruenze della fede con la vita.
Proprio per questo la sua parola feriva.

Non si voleva vedere la luce della verità, che Geremia metteva in evidenza con le parole e i gesti chiari, scultorei.
Tentarono con ogni mezzo di soffocare la sua voce.





4. Conseguenze di un impegno: sofferenza e persecuzione

A guardarla da lontano, la figura di Geremia è ammirevole.
Vista da vicino, impressiona e fa paura per la violenza del dolore e per la imperturbabile fedeltà a una missione che non aveva mai desiderato, ma che nacque e crebbe in lui come appello di Dio (cf. 20, 7-9).

Bisogna aver sofferto tanto per arrivare a dire:
«Maledetto il giorno in cui sono nato, non può essere benedetto il giorno in cui sono nato, non può essere benedetto il giorno in cui fui dato alla luce... Perché non sono morto ancora prima di nascere?

Che bellezza se il ventre di mia madre fosse stato la mia tomba!
Perché sono uscito vivo dal seno materno?» (20, 14-17).

Fu vittima di cospirazioni e attentati (15, 10).
Lottò e lavorò per 30 anni continui senza ottenere il minimo risultato (25, 3).

Il suo lamento è tragico: «Ho lasciato la famiglia, ho abbandonato l'eredità e ho consegnato alle mani dei nemici ciò che di più caro aveva il mio cuore (sua madre).
Il mio popolo mi è venuto contro come un leone che rugge nella foresta» (12, 7-8).

Restò solo col suo dolore.
Li aveva tutti contro:
il fratello e i suoi stessi familiari lo tradirono (12, 6), gli abitanti di Anatot, suoi conterranei, cercarono di ucciderlo (11, 18-21), i sacerdoti e gli altri profeti e il popolo intero si lanciarono contro di lui gridando: «a morte!» (26, 8).

Alla fine, fu gettato in un pozzo in rovina e fetido, da cui fu tolto per intercessione di alcuni amici, tra i pochi che gli restavano (38, 1-13).

E tutto ciò gli sembrò una sofferenza assurda e inutile.
Infatti, 23 anni di lavoro senza alcun risultato, farebbero perdere il coraggio a chiunque!

E, tuttavia, in mezzo a tante sofferenze, lo sosteneva una forza che nessuno avrebbe potuto vincere, e faceva di lui «una città fortificata, una colonna di ferro, un muro di bronzo» (1, 18).

Era la certezza:
«Il Signore mi accompagna, come un guerriero invincibile» (20, 11).
Per quanto dura fosse la sua sorte e per quanto tentasse di rivoltarsi contro di essa, in fondo voleva essere così e ne era contento.

Sapeva che questo era il suo cammino.
E anche se la sua missione lo faceva soffrire tanto, ricordava con gioia il momento della sua vocazione, quando dice:
«Tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre.

Mi hai vinto e hai trionfato su di me» (20, 7).
Per lasciarsi sedurre bisogna pur trovare qualcosa che piaccia davvero!

Sempre disprezzato in vita, quest'uomo, dopo la morte, diventa l'immagine del futuro Messia «Uomo dei dolori che portò su di sé le nostre colpe» (Mt. 8, 17; Is. 53, 3-4).
Succede sempre così;
chi in vita sembrava soffocare la speranza di tutti, dopo la morte diventa simbolo di speranza universale.





5. Geremia contribuì alla realizzazione del progetto di Dio

Geremia non aveva nessuno con cui sfogarsi, si sfogava con Dio.
Contribuì così ad interiorizzare la religione e ne fece la religione «del cuore» cioè, qualcosa di molto personale che entra nell'intimo dell'uomo e non si limita ad alcuni gesti esteriori.

Geremia riuscì a farlo, non solo col suo insegnamento, molto più con la sua vita.
Per riuscire nella vita, per superare e combattere le difficoltà della sua missione, dovette soffrire: vinse, perché nella sofferenza riuscì ad incarnare, nella sua vita personale, tutti i valori collettivi della fede del popolo.

La sofferenza lo portò ad interiorizzare la religione e fece crescere in lui l'uomo.

Quando pregava, ed è frequente nel suo libro, non era artificiale, ma diceva tutto quello che gli veniva dalla mente e dal cuore:
vendetta, disperazione.

Vivendo il suo dramma personale, la sua solitudine (non si sposò per essere fedele alla sua vocazione) maturò in lui l'esperienza della fede.


Riuscì ad assimilare tutti i valori del passato, personalizzandoli nella sua vita.
Sarebbe utile leggere. i passi più significativi delle così dette «Confessioni di Geremia»:, (cap. 11, 18-12,6; 15, 10-21; 17, 14-18; 18, 18-23; 20,7-18; 12, 7-13) Dalla sofferenza emerge la coscienza personale dell'uomo di fronte alla coscienza collettiva.

L'uomo si incontra con se stesso;
perché si è incontrato coll'Io assoluto di Dio.
In Geremia, la religione diventa più matura, più adulta.

Incomincia con lui il movimento di rinnovazione dei così detti «Hassidim» e dei «poveri di Jahvé», dei quali facevano parte la Madonna e Elisabetta.

Un altro punto alto, negli scritti e nella vita di Geremia è l'aspetto concreto della religione, il coraggio che aveva questo uomo di indicare gli appelli di Dio nella vita.

La religione, per lui, non era un sistema, erano uomini che camminano animati dalla fede, in direzione del futuro.

È evidente che ci vuole coraggio per indicare gli appelli di Dio, perfino negli avvenimenti internazionali;
segno della fede che Dio ha in mano il mondo e il suo destino.

Si intravede anche la convinzione che il mondo sarà quello che gli uomini lo faranno con la loro libertà:
è inutile riferirsi a Dio, come pretesto per giustificare il malessere.

Da questo aspetto concreto della sua missione, si capisce che Geremia non intendeva davvero rinchiudersi nella 'sacrestia', come oggi si finisce col fare.

Insomma, come abbiamo visto, la figura di Geremia, così discussa in vita, diventò simbolo di speranza. Quando, più tardi, Isaia descrive la figura del futuro Messia (Is. 53), ha davanti agli occhi l'immagine di Geremia.





SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..




Con il presente capitolo entriamo in un settore nuovo dell'Antico Testamento.
Abbiamo già parlato, in parte, dei libri storici nei capp. 1-4, e dei libri profetici nei capp. da 5 a 7.

Vediamo, adesso, qual è il significato dei così detti libri sapienziali.

Il titolo «ansia di vivere - necessità di morire» serve solo a polarizzare la nostra riflessione intorno ad un tema che ha preoccupato gli autori dei libri sapienziali, dal principio alla fine.

Un altro tema assillante era la sofferenza e la cattiveria che esistono nel mondo.
Ne parleremo nel cap. 9, a riguardo di Giobbe.

Prima, però, di entrare nell'argomento specifico, è necessario fare alcune riflessioni sull'origine dei libri sapienziali.




1. Origine, natura e senso dei libri sapienziali

Una parte della Bibbia è dedicata ai libri così detti sapienziali.
Essi sono:
Proverbi.
Ecclesiastico.
Ecclesiaste.
Cantico dei Cantici.
Giobbe e Sapienza.

C'è chi include nella lista anche il libro dei Salmi.
Però, parleremo dei Salmi in un capitolo a parte, nel cap. X.

Grande è la differenza fra i libri storici e profetici, da un lato, e i libri sapienziali dall'altro.

I primi sono espressione di un pensiero nuovo che i capi religiosi si preoccupavano di trasmettere al popolo e di innestare nella vita, per trasformare, attraverso di essi, l'esistenza umana.

I secondi esprimono il pensiero del popolo, già in atto, che attraverso di essi diventa parola e si organizza allo scopo di migliorare la vita.

Sono due differenti modi di pensare:
uno che ragiona dal di fuori verso il dentro, dall'alto in basso;
l'altro che ragiona dal di dentro verso il fuori, dal basso in alto.

Queste due maniere di pensare esistono anche oggi.


Ai libri profetici corrisponde la dottrina della Chiesa, esposta e formulata nei catechismi e nei documenti conciliari e pontifici;
quella che ci hanno insegnato e che ci serve per orientarci nella vita.

Ai libri sapienziali corrisponde la ricerca dell'uomo di oggi che, partendo dai dati concreti della vita, vuol trovare un cammino per migliorare la sua esistenza:
antropologia, psicologia, sociologia, economia, filosofia, medicina ecc. o, in parole povere, la sapienza popolare e l'esperienza della vita.

Fino ad oggi, i libri sapienziali sono quelli che più piacciono al popolo e i meno studiati dal clero.

Forse un incosciente preconcetto di classe ha portato il clero, di cui fanno parte gli esegeti e i teologi, a preferire i libri storici e profetici (quasi tutti scritti dai colleghi della stessa casta privilegiata) ai libri sapienziali, nati dalla bocca del popolo.

E non è possibile farlo senza nuocere alla rivelazione divina, che si esprime anche nel pensiero del popolo e nelle sentenze dei libri sapienziali.

Oggi, però, si nota un ritardo nello studio dei libri della sapienza.

La Sapienza non dà la priorità ad una virtù intellettuale, ad una conoscenza, ma alla capacità di orientarsi bene nella vita e di agire con buon senso.

Sarebbe quello che oggi si chiama «filosofia della vita».

Si tratta di una certa maniera di affrontare la vita, comune a quei popoli, che, per se stessa, ha poco a che vedere con la religione, così come, al tempo d'oggi, le radici del pensiero dell'antropologo o dell'economista poco hanno a che vedere con le loro convinzioni religiose.

Non per il fatto di essere protestante o cattolico, il ragioniere sarà più bravo nella contabilità, o il contadino saprà meglio coltivare i campi.

La convinzione religiosa non ha nessuna influenza sulle radici del pensiero di questa gente.
Però, può influire sul ‘come' mettere un sostegno alla pianta, perché cresca dritta.

In questo senso anche la fede influisce, sia sul nostro mondo che sul mondo della Bibbia.
Si spiega così la direzione nuova che la Sapienza prese nella Bibbia, e la differente applicazione che un capitalista o un comunista fanno dei risultati della scienza.

In questo caso il popolo della Bibbia è uguale agli altri popoli e riflette sulla vita con gli stessi loro criteri.

Arriva perfino a prendere in prestito alcuni passi dalla Sapienza dell'Egitto (Prov. 22, 17-23, 11).

Anche al giorno d'oggi:
la sociologia in Brasile (esempio) soffre molto l'influenza dei sociologhi dell'America del Nord.

All'origine della Sapienza troviamo il popolo che riflette sulla vita e cerca una risposta alla domanda:
come vivere?
Come fare per riuscire bene nella vita?
Come comportarsi?

Sono domande che rivelano la preoccupazione di chi cerca il segreto per orientarsi concretamente nella vita, per non essere vinto dalla vita.

La ricerca della Sapienza è la ricerca dei valori e delle leggi che regolano la vita umana;
ci si propone di scoprire questi valori e queste leggi per integrarli nella vita e così progredire e stare meglio.

La ricerca incomincia umilmente, insieme al popolo semplice, attraverso i Proverbi, che anche oggi si leggono sui camion che corrono per le nostre strade.

Diventa complicata e scientifica, tanto nei libri di Giobbe e della Sapienza come nei progetti e nelle conclusioni complesse della scienza moderna.

La più importante conclusione della Sapienza è quella di affrontare i mali della vita, di formare la nuova generazione che cresce, contribuendo così al governo della vita.

La Sapienza si caratterizza per il metodo induttivo.
Accetta solo quelle soluzioni la cui efficacia è stata verificata nella pratica della vita.

Un esempio tipico lo troviamo nel libro dell'Ecclesiastico, che ci dà un vero ritratto di come procede il sapiente nelle sue ricerche.

L'ambiente da cui trae origine la Sapienza è quello dell'educazione familiare:
i genitori cercano con ogni mezzo che i figli aprano gli occhi sulla realtà e vedano con oggettività le cose della vita.

È tutto un capitale di esperienza accumulato attraverso il susseguirsi delle generazioni, trasmesso di padre in figlio, con un metodo pedagogico molto interessante.

Sapiente, anticamente, era colui che sapeva formulare meglio una determinata esperienza di vita, compendiandola in un proverbio incisivo.
Sorsero così i proverbi o detti popolari, simili a pezzi di vita, che esprimono i valori scoperti dal popolo.


Ecco alcuni esempi, scritti nella Bibbia:

«L'animo allegro fa buon sangue e lo spirito triste secca le ossa» (Prov. 17, 22)

«Chi risponde prima di avere ascoltato si mostra sciocco e degno di biasimo» (Prov. 18, 13)

«Il povero supplicando parlerà . e il ricco risponderà arrogantemente» (Prov. 18, 23)

«Le ricchezze attirano amici in abbondanza e dal povero, anche gli amici che aveva, si scostano» (Prov. 19, 4)

«Tutti i giorni del povero sono brutti, però, un animo tranquillo è come un banchetto perpetuo» (Prov. 15, 15)

«Anche lo stolto, se tacerà, sarà creduto saggio e intelligente se chiuderà le labbra» (Prov. 17, 28)

«Il pigro tuffa le mani nel piatto e neppure per portarsele alla bocca le tira fuori»(Prov. 19, 24)

«Un monile d'oro al naso di un porco è la bellezza di una donna sciocca» (Prov. 11, 22)

Ed altri ancora.

Il proverbio esprime un'esperienza elementare di vita, tramandata sotto forma di mashal (cioè di paragone).

Esprimono tutti buon senso e scaturiscono là dove pulsa il cuore della vita, nell'ambiente familiare, nell'educazione dei figli, nel circolo degli amici.

Sono familiari e servono come indicazioni lungo il cammino dei figli, non già come ricette pronte e come precetti tassativi, ma in quanto mettono in evidenza i valori.

Si preoccupano delle cose della vita, del comportamento e del rapporto con gli altri, insomma degli interessi immediati.

La Sapienza popolare, qualunque ne sia la fonte, è caratterizzata da poca speculazione filosofica ma da molta profondità.

Ecco, per esempio, alcuni argomenti trovati nel libro dell'Ecclesiastico, a rispetto dei quali l'esperienza ci è tramandata sotto forma di proverbio:
pazienza,
elemosina,
falsa sicurezza,
lingua e suo controllo,
amicizia,
lutto,
libertà,
relazioni sociali,
rispetto della donna,
timore di Dio,
galateo a tavola,
saper dubitare,
prudenza con i potenti,
uso delle ricchezze,
vino e donne,
lussuria e adulterio,
malizia della donna,
dovere del segreto tra amici,
prestiti,
educazione dei figli ecc.






2. Istituzionalizzazione della Sapienza e formazione dei libri sapienziali


A poco a poco, però, la Sapienza che era stata accumulata dilaga e penetra in tutti i settori della vita umana.

Esce dallo stretto ambito della famiglia, diventa oggetto di ricerca, perde un po' di spontaneità e di familiarità e diventa una istituzione, al fianco delle istituzioni del sacerdozio e del profetismo, in vista dell'organizzazione della società.

Nella mano del re, l'istituzione della Sapienza diventa ora uno strumento di governo e comincia ad essere associata alla figura del re Salomone, il sapiente per antonomasia (cf. I Re 4, 27-54).

Come prima la Sapienza contribuiva ad organizzare e dirigere la vita personale e familiare, adesso contribuisce all'organizzazione e al governo del popolo.

Così trasformata, uscita dall'ambiente familiare e entrata nell'ambiente ufficiale del governo, la Sapienza comincia ad essere oggetto di approfondimento e di studio.

Al posto dei proverbi brevi e popolari, sorgono trattati e studi profondi sullo stesso argomento.
L'aspetto concreto cede il posto alle ricerche e si incomincia a investigare intorno alla filosofia e alla concezione della vita, che si nascondevano dietro il movimento della Sapienza.

Come al giorno d'oggi:
da secoli gli uomini esercitano la politica:
solo oggi, però, si comincia a studiare la politica in sé e per sé e cominciano a sorgere scuole di scienze politiche.

La pratica della Sapienza subì, dunque, una evoluzione, come si può constatare nei vari libri sapienziali contenuti nella Bibbia, che registrano le epoche e i diversi aspetti di questa evoluzione.

Proverbi.
Questo libretto contiene un complesso di proverbi antichi e molto popolari.
Gli autori compilarono una specie di prefazione che va dal cap. I al cap. IX, in cui spiegano che cos'è la sapienza e quale ne sia l'origine.
I primi nove capp. sono molto posteriori e, perciò stesso, molto più teorici e molto più profondi che il resto del libro (derivato da incontri familiari, cioè da genitori preoccupati per l'educazione dei figli e per i problemi della vita).

Cantico dei cantici.
A quanto sembra, si tratta qui di una compilazione di canti popolari che parlano di amore.
Un saggio pensò che questi canti potevano molto bene essere espressione concreta dell'amore di Dio verso gli uomini e dell'amore degli uomini verso Dio.
Mise insieme 12 di questi canti popolari e compose il libro che adesso si trova nella Bibbia e che fu sempre uno dei più commentati.

Ecclesiastico.
Rappresenta la pratica della Sapienza, nel momento in cui uscì fuori dall'ambiente familiare. Contiene tanti piccoli trattati sui più svariati argomenti.
Si nota una sistematizzazione dei proverbi, in diverse categorie.
Ma, con questo libro, non si arriva ancora alla riflessione filosofica sull'origine della sapienza.
La concretezza predomina in tutti i settori.

Ecclesiaste.
Fu scritto da uno dei saggi ufficiali del governo, che esprime così la sua profonda frustrazione di fronte ai differenti atteggiamenti degli uomini nella vita.
Nessuno lo soddisfa.
Li esamina, uno per uno, e arriva alla conclusione che tutto è assurdo. Introduce qua e là proverbi sull'intervento di Dio nella vita degli uomini, per dire che non avevano perso del tutto la fede nella vita e nell'autore della vita: Dio.

Giobbe.
È la più alta espressione letteraria della Sapienza e tratta di argomento che sempre ha preoccupato, più di ogni altro, i sapienti:
il problema della sofferenza del giusto.
Sembra un copione di teatro.
Non ha più nulla dell'antico proverbio, ma è quasi la forma classica del dramma.
Rappresenta l'esperienza viva di un uomo che soffre.

Sapienza.
È l'ultimo dei libri sapienziali, scritto verso il 60 a.c.
È il più profondo trattato sull'origine della Sapienza che viene da Dio. Risente molto l'influenza della filosofia greca, almeno nel modo di esprimersi.
È stato scritto in Egitto.





SEGUE..






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..




3. Messaggio dei libri sapienziali

A chi legge i libri della sapienza, soprattutto quelli che contengono materiale più antico (Proverbi ed Ecclesiastico) viene spontaneo un'osservazione:
parlano poco di Dio e quasi soltanto parlano della vita.

E ancora:
la maggior parte di quello che vi è scritto poteva molto bene essere scoperto da chiunque si fosse messo a pensare un po' sulla vita.

Sembra proprio che non dicano niente di straordinario.
Trattano solo delle cose comuni e della vita quotidiana.

Perché si trovano nella Bibbia?
Perché Dio si dette pena di ispirare tali cose?

Nei libri sapienziali dell'Egitto e della Babilonia si leggono molte cose del genere, spesso anche più belle di quelle raccontate nella Bibbia.

Che senso ha tutto questo?

Il clima sapienziale determinava la mentalità e il modo di pensare del popolo, come ogni giorno accade alla mentalità scientifica.

Proprio in questa terra lavorata dalla sapienza, fu piantato il seme della Parola di Dio e germogliò l'albero della Rivelazione.

Passò molto tempo prima che i sapienti si accorgessero del valore della rivelazione, rispetto alla stessa sapienza.
E non per questo cessarono di essere uomini di fede.

Ma la fede non influiva affatto sulle fonti e sugli schemi della ricerca che la sapienza faceva circa il senso della vita.

Oggi un antropologo può essere un uomo di molta fede, ma la sua convinzione religiosa non influisce affatto sui principi della sua scienza.

A poco a poco però, a misura che la Sapienza prendeva coscienza dei limiti delle soluzioni da lei proposte ai problemi umani, si apriva sempre più alla Parola della Rivelazione, trasmessa dai profeti e dai sacerdoti e contenuta nei libri profetici e storici.

I sapienti incominciavano, così, ad accorgersi del valore della Rivelazione per la loro ricerca sulla vita e cominciavano a prendere la Parola di Dio come fattore e strumento per la scoperta della Sapienza.

Senza sacrificare i suoi principi logici, la Sapienza recepì una influenza molto profonda per opera dei profeti e dei sacerdoti che la aiutò ad orientare la riflessione sulla sua origine e sulla direzione da prendere.

Arrivò a scoprire in Dio l'origine e il fine ultimo di tutta la sapienza che governa la vita umana.

Non si trattava di un Dio qualunque, ma del Dio di Abramo, del Dio dei suoi padri che fin dall'inizio, aveva orientato la storia del popolo.

Lo stesso Dio che stava alla origine delle leggi e dei valori che regolano la vita.
Allora, tutto diventò trasparente.

La legge si identificava con la Sapienza.
Lo dice il salmo 118.
Il campo delle ricerche si allarga.

Non solo la vita presente, con i suoi problemi, merita di essere analizzata, ma anche la storia del passato, dove questo Dio ha lasciato le impronte della sua Sapienza.

Nei libri dell'Ecclesiastico (cap. 44-50) e della Sapienza (cap. 10-19) affiorano considerazioni sulla storia.

La storia, vista non già con gli occhi del profeta e del sacerdote, ma con gli occhi propri del popolo, che sono gli occhi segnati dalla mentalità della Sapienza.

Giovanni ne fa la sintesi nel prologo del suo Vangelo, dove dimostra che la Parola creatrice, all'origine della vita, è la stessa parola salvatrice, che guida la storia.
Tutte due hanno la stessa radice in Dio e trovano la loro espressione concreta in Gesù Cristo «parola incarnata» (Gv. 1, 1-14).

La scoperta di Dio origine e fine della Sapienza, illuminò di luce nuova gli antichi proverbi.
Ci appaiono come il primo gradino umile e semplice della lunga scala che dalla vita sale fino a Dio.

Perciò i libri sapienziali, contenuti nella Bibbia, testimoniano una visione ottimistica della vita:
per chi ha occhi per vedere, la vita e tutta la realtà possono diventare specchio di Dio.

Questi libri sono la testimonianza eterna che il luogo di incontro dell'uomo con Dio è nella vita, nel povero quotidiano, nelle cose che scaturiscono dalla più profonda esperienza umana.

Rivelano che il più grande valore di ogni uomo è possedere la vita che vive.

Sono un invito a non cercare Dio fuori della vita:
né nella candela,
né nella promessa,
né nel pellegrinaggio,
né nel rito o nella cerimonia,
ma anzitutto nella vita.

A partire dalla vita vissuta così, il rito, la cerimonia, la promessa e il pellegrinaggio possono acquistare un senso reale.
Sono sempre un appello a non lasciarsi mai vincere dalle contraddizioni della vita;
sono gli incroci lungo il cammino, che può portare fino a Dio.

Il senso è sempre lo stesso:
quel popolo crebbe, riflettendo sul significato della vita, e ne scoprì valori e non valori.

Li sintetizzò in proverbi e li comunicò agli altri, i quali, a loro volta, approfondirono le origini di questa esperienza e così, poco a poco, arrivarono fino a Dio, autore di tutto quello 'che avevano e che vivevano.

Per questo i libri posteriori sono più profondi e parlano di Dio più dei primi.
In tutti, però, si sente la stessa aderenza costante alla vita.

Come i libri storici e profetici registrano la marcia verso Dio, attraverso la storia, così i libri sapienziali registrano la marcia verso Dio, attraverso un progressivo approfondimento della vita.

Un cammino non si fa senza l'altro, si completano a vicenda.

Insomma, benché la sapienza degli Ebrei fosse sotto molti aspetti uguale a quella degli altri popoli, nella misura in cui cresceva la riflessione sulle loro origini, sorgevano le distanze.

La Parola, venuta dal di fuori, orientava la ricerca della Parola, nata dal di dentro.
Si spiega così l'originalità della Sapienza di questo popolo.
Non degenerò nel fatalismo e nel dualismo caratteristico dei sapienti degli altri popoli.

In breve, possiamo dire così:
nei libri della Sapienza parla la voce del popolo.
Il popolo che riflette sulla sua esperienza di vita.
Il popolo esprime il suo gusto di sapere e di vivere e rifiuta di essere sconfitto dalla vita.
Il popolo rivela tutta la sua smisurata ricchezza, la sua ricerca di Dio, il suo incontro con la verità.

Nel cammino della Sapienza, la Rivelazione divina non si realizza, per' così dire, dall'alto in basso, ma dal basso in alto.

Partendo dalle radici della vita, gli uomini sono risaliti, hanno scoperto il loro creatore e lo hanno adorato.

Lo stesso cammino potrebbe essere ripetuto, oggi, perché già una volta ha avuto successo far pensare il popolo, farlo riflettere, farlo parlare e dire quello che sente;

far partecipare il popolo in modo che trovi il suo cammino verso la Verità, verso Dio;
non imporre, ma orientare e «educare», lasciandolo scoprire da sé, la sua ricchezza, e la sua esperienza di vita.

Mettere il motore in moto e non trascinarlo a rimorchio, come si fa con chi non ha arbitrio né opinione propria.
Ricordare sempre che la sintesi finale nella storia della salvezza, contenuta nei libri dell'Ecclesiastico e in quello della Sapienza, fu fatta non con i criteri del clero, ma della Sapienza, cioè del popolo.

Con questa visione della storia della salvezza fu varcata la soglia del Nuovo Testamento.

Oggi diremmo:
fondere la verità rivelata con le categorie usate dal popolo e con le quali il popolo orienta e governa la sua vita, e non con le categorie del clero.
Sarebbe questa la più alta funzione del clero in mezzo al popolo.





4. Ansia di vivere - necessità di morire

Da quanto abbiamo potuto verificare fin qui, la caratteristica degli autori dei libri della Sapienza è data dalla loro riflessione sulla vita.

L'accento cade sul buon senso e sul realismo.
Per cui si capisce bene come il problema della morte (che mette fine alla vita) e della sofferenza (che rende difficile la vita) occupassero gran parte della riflessione dei sapienti.

Affrontano la morte con una mentalità realista.

Da principio l'ideale di vita era:
vivere tanti anni, avere tanti figli, vedere i nipoti.
La morte tranquilla del vecchio realizzato era il coronamento della esistenza.

Non c'era nessun altro problema.
La morte era accettata tranquillamente, come un dato che faceva parte della vita.
Diveniva interrogativo angoscioso quando appariva prematura e violenta, e stroncava la vita e lasciava incompiuta l'esistenza.
Questo accadeva spesso.

I Caino uccidevano gli Abele.
Perché?

Nel capitolo sul Paradiso terrestre abbiamo visto come l'autore, che faceva parte dei circoli dei sapienti, risolse il problema:
la morte violenta è entrata nel mondo, l'uomo uccide il fratello perché, prima di farlo, si era già separato da Dio.

Ma poco a poco, il problema riguarda la morte in se stessa, la morte che esige una spiegazione.
Perché l'uomo deve morire se in lui arde la volontà indomita di vivere e di vivere sempre?

Il motivo di questa nuova problematica deriva dal fatto che, coscientizzato dalla lunga e secolare riflessione sulla vita, ìl sapiente comincia ad assumere un atteggiamento critico di fronte alla realtà, e non è più disposto ad accettare le cose con la facilità di prima.

Inoltre, la riflessione sulla realtà della vita ha dimostrato che neppure una morte tranquilla, dopo una vita lunga e felice, può essere considerata naturale e non è la suprema realizzazione dell'uomo.

Il libro dell'Ecclesiaste} soprattutto, dette un passo enorme nella storia di questa riflessione.

Davanti allo spettacolo del presente, l'autore finì col non credere più a tutto ciò che si diceva nel passato (più o meno come oggi).
Niente più valeva la pena.
Tutto era «vanità», e vanità della vanità «cioè, in termini popolari la vita è una grande sciocchezza che non vale la pena di essere vissuta» ( Eccle. 1, 2).

Per lui la vita era un tormento, proprio a causa della morte.
A che serve lavorare tanto e ammazzarsi di stanchezza, se poi un giorno si deve morire e lasciare agli altri quello che avevi messo insieme; senza sapere che cosa faranno di quello che tu hai conquistato con tanta fatica? (Eccle. 2, 18-19).

«È uscito nudo dal ventre di sua madre, nudo, come è venuto, uscirà pure da questa vita e non porterà con sé nessuna ricompensa del suo lavoro» (Eccle. 5, 14).

Tutte le possibili soluzioni date al problema della vita vengono sottoposte ad una critica serrata.

In questo modo niente vale la pena, e, dopo la morte, non t'importa più di niente, «perché il destino degli uomini è come quello degli animali; li aspetta uno stesso fine.

La morte di uno è la morte dell'altro.
Tutti e due ricevettero lo stesso soffio di vita e il vantaggio dell'uomo sull'animale è nullo, perché tutto è vanità (sciocchezza).

Tutti camminano verso uno stesso destino; tutti escono dalla polvere e ritornano alla polvere.

Chi sa dire se il soffio della vita degli uomini sale verso l'alto e il soffio della vita dei bruti scende verso la terra? (Eccle.3, 19,21).

Nessuno sa quello che succederà dopo la vita, al momento della morte.
Con questa riflessione l'autore del libro Ecclesiaste si risvegliò all'ipotesi di un futuro dopo la morte.

Oh se esistesse davvero! Ma con la sua scettica ironia egli stesso uccise, subito dopo, la speranza di incontrare qualche cosa nell'Aldilà.
L'ansia di vivere è messa a faccia a faccia con la barriera di una vita senza senso e di una morte che le ruba ogni speranza.

A questo punto la Sapienza scopre i suoi limiti, sbarra in un problema senza soluzione.
Guidata solo dai risultati delle sue conclusioni empiriche, arriva necessariamente alla costatazione dell'assurdo.

Ma la disperazione dell'assurdo, provocata dall'Ecclesiaste, svegliò nell'uomo il bisogno di sapere di più sulla morte e sulla vita.

L'Ecclesiaste ha creato problemi, là dove, prima di lui, nessuno li incontrava (più o meno come i nostri contadini del Sud e delle isole; una volta coscientizzati sui problemi della loro vita, incominciano a vedere la realtà della loro situazione con altri occhi, e non l'accettano più come prima).





SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (terza parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..





5. La fede in Dio squarcia il velo che nasconde il futuro

La coscienza critica della realtà cresce e il problema diventa sempre più grave:
qual è il futuro che ci aspetta?
La morte o la vita?

Le promesse del passato, dirette ad Abramo, si concretizzavano in proposte di felicità terrena:
popolo, terra, benedizione (Gen. 12, 1-3).

Dio lo aveva promesso e nessuno dubitava della sua fedeltà nel compiere le promesse.

Ma la realtà era proprio l'opposto;
invece di raggiungere il futuro promesso da Dio, i giusti soffrivano sempre più l'oppressione (Eccle. 4, 1-2), mentre quelli che non si curavano di Dio se la passavano bene (Eccle. 8, 10).

La situazione concreta di ogni giorno sembrava negare la giustizia di Dio e contraddire la sua fedeltà.

L'Ecclesiaste aveva dunque ragione.
Perché allora continuare a credere in questo Dio?

Il conflitto fra fede e realtà, che ne derivava, li minacciava di disperazione totale.

Metteva in dubbio la vita, la morte, Dio, e ogni altra cosa.

Il problema si presentava in questi termini:
il bene presente non totalizza né colma il desiderio di vita e di felicità suscitato dalla promessa.

Invece di vita e di felicità, la promessa aveva portato la frustrazione e la delusione.

L'espressione della crisi è vivamente descritta nel libro dell'Ecclesiastico.

Ma la situazione di conflitto tra fede e realtà, espressa e accresciuta dalle riflessioni dell'Ecclesiaste) sboccò in una nuova conquista.

La crisi fu causa del loro bene, perché li spinse a cercare nuove soluzioni.

La nostalgia di Dio e la fede nella sua fedeltà e giustizia furono più forti dell'apparente contraddizione della realtà.

Se Dio ha promesso, deve pure esistere un mezzo per vedere la promessa realizzata.

Se la vita presente nega la promessa, a causa delle contraddizioni e della morte, Dio deve pure essere più forte della morte, deve pure avere una potenza tale da conservare la vita degli uomini anche dentro la morte.

L'audacia della fede portò a spezzare la barriera della morte che stava soffocando la speranza.

A causa della loro fede nel Dio forte e fedele, riuscirono a rompere il circolo chiuso delle riflessioni e si aprirono alla realtà più vasta di una vita con Dio, per sempre, garantita dalla potenza e dalla fedeltà di Dio.

Nasce la fede nella resurrezione dei morti e nella vita con Dio dopo la morte.

Non fu un decreto a rivelare questa verità, ma la dolorosa riflessione dell'uomo, dal tempo di Abramo fino agli ultimi secoli prima di Gesù Cristo.

Le prime timide espressioni di speranza in una vita senza fine appaiono nei Salmi lO, 7; 16, 15; 22, 6; 26, 4.

Soprattutto il Salmo72 offre una formulazione più nitida di quello che cominciava a delinearsi nella mente dei sapienti:
veramente in mezzo alla mia amara rivolta, io mi comportavo come un animale, senza la coscienza di stare vicino a Te:
la tua mano mi difende, la tua provvidenza mi guida, e mi introduce nella felicità.

Perché, di fatto, che cosa può bastarmi sia in cielo come in terra, se io sto lontano da te, Signore?
Possono assalire il mio corpo e spezzarmi il cuore.

Ben altro è il fondamento della mia vita!
Il futuro che mi aspetta è Dio eterno.

Lontano da te non mi riesce vivere.
L'infedeltà verso di te è l'inizio della morte.
La felicità s'incontra camminando verso il Signore.

La certezza della mia vita è Dio per sempre» (Sal. 72, 21-28).

La fede infonde il coraggio di affrontare la realtà presente, e la pretesa sembra a prima vista assurda, ma alla fine, s'illumina:
è giusto sperare, perché Dio risuscita l'uomo.

L'espressione chiara di questa verità la incontriamo nel libro della Sapienza (capp. 1-5), là dove parla del destino degli uomini:
Le anime dei giusti (che sono morti) stanno nelle mani di Dio e nessun tormento le raggiungerà.

Sembra che siano morti agli occhi degli insensati; il loro passaggio è giudicato una disgrazia e la loro morte una distruzione, ma essi stanno veramente nella pace... Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé (Sap. 3, 1-3.5).
Si tratta di una importantissima conquista, lungo la strada della vita.


Più tardi nel Nuovo Testamento, Cristo verrà a completare ciò che i sapienti avevano insegnato della vita dopo la morte, sulla vita che non muore, ma vince con la forza della fede e con la speranza.

A causa della fede, la vita che non muore e che vince la morte è già una realtà.

Il futuro è già in atto, già si trasforma, fa risorgere il mondo e l'umanità dai disastri del male e della morte.

Credere nella vita che non muore è credere alla possibilità di rinnovamento del mondo:
da vecchio diventerà nuovo.




6. Considerazioni finali

Da tutto quanto abbiamo detto, traspare un'esperienza umana molto profonda e molto nostra.
Nessuno riesce a vivere solo.

Ogni uomo ha bisogno di far dipendere il suo Io da qualcuno che lo sostiene e che gli dà coscienza del suo valore e gli fa sentire la soddisfazione di fare qualcosa di utile.

Le sue forze ne sono motivate.

Molti fanno dipendere il loro lo dalla forza dell'amicizia che «e-duca» e dalla forza dell'amore umano.
Ma, pensandoci bene, ogni uomo sa che un giorno l'altro uomo morirà.

Se cade il sostegno, cade pure chi a lui si appoggiava.
L'amicizia e l'amore umano non sono così forti da poter vincere la morte.

Chi prende coscienza dei suoi limiti cerca di far dipendere il suo lo da qualcosa che oltrepassi la morte e lo faccia 'sopravvivere:

1/ dal lavoro e dal contributo al bene comune, perché il suo contributo continua ad esistere ed anche dopo la morte può essere una maniera di sopravvivere, ma l'Io sparisce nella collettività del gruppo e non esiste più.
Così pensavano anticamente i vecchi egizi ani e fu proprio la forza della speranza in una sopravvivenza nell'opera realizzata in vita che li portò a costruire le piramidi, ancora oggi in piedi.
Senza dubbio è un modo di sopravvivere.

2/ Dalla razionalità, che fa della vita un assurdo e chiede all'uomo di accettarla così; sarebbe davvero uomo colui che riuscisse a conformarsi all'assurdo della vita, accettando di vivere per poi sparire, tranquillamente nell'ora della morte.

3/ Dai figli, che continuano la vita e prolungano il nome del padre;
è un'occasione di sopravvivenza, in cui però l'Io sparisce.
La conquista della vita attraverso la procreazione è arrivata a degenerare nel culto della fertilità, praticato dai popoli della Palestina nei tempi antichi.


Tutte queste forme di sostenere l'Io e dargli continuità, perché la vita abbia un senso, con l'andare del tempo non soddisfano più, perché l'Io, la persona che interroga e vuol vivere, sparisce.

Nella Bibbia, questo circolo chiuso, dentro il quale l'uomo non trova via d'uscita per sopravvivere, si spezza.

Una Voce gratuita raggiunge l'uomo, voce che viene da una sfera di vita che non è più soggetta alla morte.
Una voce di amore, che stabilisce un dialogo.

La voce di Dio, che chiama ciascuno per nome, sveglia l'uomo e gli fa intuire una forza che lo fa vivere e che è capace di restituirgli la viti nell'ora della morte.

È la forza dell'amore e dell'amicizia, che chiama l'altro per nome e lo valorizza; questa forza sarà sempre vitale, perché l'amore, intuito e vissuto, è un amore eterno.

L'uomo si e messo a parlare con Dio e Dio ha svegliato in lui la volontà di vivere, e adesso che è aperto e mosso dall'amore di Dio, vuole andare oltre la morte e vivere sempre.

Desiderio giusto e normale, confermato più tardi dalla risurrezione di Cristo.

Solo questa amicizia e questo amore sono capaci di dare valore di eternità ad ogni amore e ad ogni amicizia umana.

Niente si perde.
Tutto diventa espressione della fede e della speranza, che fanno vivere per sempre.




SEGUE..



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06/07/2014 10:31
 
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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. IX (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]



un prologo al libro di Giobbe:
il dramma di tutti noi



Sta per cominciare il dramma.
Nel teatro si fa silenzio.
Il telone però non si apre.
Esce fuori un presentatore e, a tela chiusa, legge il prologo.
Presenta all'uditorio, nel nostro caso al lettore, il problema che sarà svolto e approfondito nel dramma imminente, il problema concreto della vita di un uomo e del suo destino.







1. Che dice il prologo


Il presentatore esordisce raccontando una storia:
«C'era una volta, nella lontana regione di Uz, un uomo chiamato Giobbe, integro, onesto, che temeva Iddio e fuggiva il male» (Giob. 1, 1).

Era un uomo pio, ricco, celebre, stimato da tutti, felice (Giob.
1, 2-5).

Il prologo continua e gli spettatori si sentono trasportati dietro le quinte del destino degli uomini, là dove si decide il perché delle cose che succedono nella vita e che ci sono sconosciute, perché superano le possibilità della nostra indagine.

Immagina una riunione nell'alto dei cieli.

Racconta che Dio convocò la corte celeste per discutere e decidere il destino degli uomini.
Satana era uno dei membri della riunione (Giob. 1, 6).

La parte di Satana, in questo caso, sarebbe quella dell' «avvocato del diavolo» nel processo dell'umanità, o meglio del Pubblico Ministero, che accusa gli uomini davanti a Dio.

Quando Satana prese la parola, Dio aveva richiamato la sua attenzione sulla vita esemplare di Giobbe:
«integro, onesto, che temeva Iddio e fuggiva il male» (Giob. 1, 7-8).

Ma Satana non ci aveva creduto.
Contestava.
Diceva che tutto ciò dipendeva solo dal fatto che Giobbe viveva nel benessere ed era ricco:

«Giobbe teme Dio perché non gli costa niente.
Non hai tu forse difeso come con una muraglia la sua casa, la sua persona e tutti i suoi beni?
Hai sempre benedetto ogni sua opera» (Giob. 1, 9-10).

La tanto decantata pietà di Giobbe era solo una facciata apparente.
«Stendi la tua mano e prova a levargli tutto quello che possiede.
Vedrai che ti getterà in faccia insulti e maledizioni» (Giob. 1, 11).

Dio accettò la sfida:
«sta bene; ti do potere su tutto quello che possiede» (Giob. 1, 12).

Col permesso di Dio Satana mise alla prova la rettitudine e l'onestà di Giobbe.
Poteva fare tutto quello che voleva, purché non toccasse la persona di lui.

Fu così che, d'improvviso, senza sapere perché, Giobbe vide cadere sopra i suoi beni una catena di disastri.

Finì col perdere tutto, da un'ora all'altra.
Dal disastro si salvarono solo Giobbe e sua moglie.
Anche i figli morirono tutti, in una tempesta (Giob. 1, 13-19).

Era troppo! Disperato, Giobbe si strappa di dosso i vestiti e grida «nudo sono uscito dal ventre di mia madre; nudo tornerò alla terra!» (Giob. 1, 21).

Ma, nonostante tutto, Giobbe non si ribellò, «né bestemmiò il nome di Dio» (Giob. 1, 22).

Al contrario, la sua reazione fu questa:
«il Signore mi ha dato, il Signore mi ha tolto.
Benedetto il nome del Signore» (Giob. 1,21).

Perciò, nella riunione seguente, Dio mostrò a Satana che si era sbagliato a rispetto di Giobbe (Giob. 2, 1-3).
Non era solo apparenza.
Era proprio virtù.

Ma Satana non si dette per vinto:
«pelle per pelle! L'uomo è capace di dare tutti 1 suoi beni, pur di salvare la sua vita.

Stendi la tua mano e tocca le sue ossa e la sua carne; giuro che ti rinnegherà sul viso» (Giob. 2, 4-5).

Dio gli dette il permesso: «sta bene. Te lo consegno».

Gli chiese solo di non ucciderlo.

Per il resto, poteva fare di lui quello che voleva.
Satana mise in opera il suo piano.

D'improvviso, senza sapere perché, Giobbe diventò lebbroso, orribile (Giob. 2, 7).
Con un coccio si grattava le ferite.
Andò a stare su un letamaio (Giob. 1, 8).

Sua moglie non volle più aver niente a che fare con lui, non sopportava neppure l'alito fetido di Giobbe nel suo letto. (Giob. 19, 17).

Arrivò a istigarlo a maledire Iddio.

«Perché restare fedele a un Dio che non ti protegge e ti castiga così?
E tu ancora persisti nella tua onestà?
Scemo! Manda una maledizione a Dio, e falla finita con la vita!» (Giob. 2, 9).

Giobbe le rispose:
«scema sei tu, che parli così! Se abbiamo accettato da Dio la felicità, come non accetteremo da lui anche l'infelicità?» (Giob. 2, 10).

E Giobbe, nonostante tutta la sofferenza, non si ribellò contro Dio (Giob. 2, 10).

E il peggio era che non sapeva il perché di tanta sofferenza.

Non aveva partecipato alle riunioni, in cui si decise del destino degli uomini, anzi, non sapeva neppure che si facessero.
Esperimentava solo, nella sua carne, l'effetto doloroso delle decisioni prese.

Secondo la mentalità del popolo di quel tempo, un dolore e una sofferenza tanto grandi potevano solo spiegarsi così:
castigo di Dio.

Giobbe doveva essere un grande peccatore.

Tre amici di Giobbe vennero a sapere delle disgrazie che lo avevano colpito e si mossero da lontano per partecipare al suo dolore, per portargli un po' di conforto e manifestargli simpatia e solidarietà. (Giob. 2, 11).

Ma Giobbe era così sfigurato, che quasi non lo riconobbero (Giob. 2, 12). Furono schiacciati dalla pena.

Si sedettero presso di lui, piansero, e non furono capaci di dire una parola. Un silenzio di «sette giorni e sette notti, tanto era grande il dolore da cui lo vedevano oppresso» (Giob. 2, 13).

La sofferenza del giusto chi la può spiegare?
La sofferenza del giusto!
È questo il problema che sarà discusso nel dramma.

Il prologo ha presentato un caso ben concreto, uno tra mille, simili a questo.
Ha compiuto la sua missione, e si ritira.
L'attesa è generale.





2. Tema del dramma:
la sofferenza del giusto, chi la può spiegare?


Il silenzio di 7 giorni e di 7 notti arriva fino al pubblico, che sta nel teatro, fino al lettore.
La tela, che è rimasta chiusa fino a questo momento, si apre lentamente.

Sulla scena, Giobbe sopra un letamaio.
Vicino a lui, i tre amici.

Nessuno dei 4 parla... Il silenzio del dolore si prolunga, invade i secoli, invade il mondo e arriva fino a noi, oggi, che leggiamo il libro di Giobbe.

Questo silenzio esprime la nostra incapacità a spiegare la sofferenza; avvolge tutti, e tutti ci unisce in uno stesso tentativo di ricerca:

Giobbe, i tre amici, il pubblico della sala, il lettore, noi, oggi, qui, tutti gli uomini. Nessuno parla...

D'improvviso, un urlo squarcia il silenzio.
Un lamento di dolore.

Il pubblico sussulta e, allo stesso tempo si rallegra, perché Giobbe, finalmente, ha trovato il coraggio di esprimere con parole e di gridare ai quattro venti ciò che prova il giusto che soffre, senza sapere perché.

Quel grido diventa portavoce di molti che lo ascoltano:
«Maledetto il giorno in cui sono nato e la notte in cui fu detto:
un figlio maschio è venuto al mondo!
Che quel giorno si cambi in tenebre!
Che Dio, dall'alto, ignori quel giorno! ... Perché non sono morto nel seno di mia madre, perché non sono rimasto soffocato uscendo dalle sue viscere?

Perché ebbi un grembo che mi accolse e due seni che mi allattarono? Riposerei in pace e dormirei... Perché far conoscere la luce agli infelici e la vita a chi ha il cuore sepolto nell'angoscia?

Non ho pace né riposo, né conforto, ho soltanto un infinito tormento» (Giob. 3, 4.11-13.20.26).

Giobbe aprì il dibattito.
Mise le carte in tavola.

Ebbe inizio la dura marcia dell'uomo in cerca di un senso per le cose che succedono durante la vita, in cerca di un senso per il dolore e la pena che lo avvolgono.

Sul palco, in tutta la sua nuda crudezza, c'è il problema degli uomini, di noi tutti, identificati nella persona di Giobbe, personaggio centrale del dramma che si rappresenta:
quando nascemmo, non chiedemmo di nascere e, ciò nonostante, già c'era chi si preparava ad accoglierci;
siamo nati, e adesso dobbiamo soffrire e morire, stupidamente, senza sapere il perché né della vita né del dolore.

Sulla scena sono rappresentati anche i tentativi che cercano di spiegare il perché della sofferenza, identificati nella persona dei 3 amici di Giobbe e nel quarto, un giovane amico che entra in scena più tardi (capp.
32-37).

Ignorano tutti, Giobbe e gli amici, la decisione presa da Dio e dalla corte celeste, e non sanno perché succedono tutte quelle cose.

Sono come il pubblico, che ha portato con sé, nel teatro, il suo dolore e, adesso, lo vede incarnato nella persona di Giobbe;
ogni giorno cerca nuove spiegazioni al suo dolore, e ricorre a razionalizzazioni di ogni specie, per rendere la vita più sopportabile.

I 3 amici di Giobbe sono anche gli amici del pubblico, perché incarnano le spiegazioni che comunemente si danno ai dolori della vita.

Ma in Giobbe, il pubblico è costretto ad ammirare il coraggio di uno che contesta quello che tutti considerano santo e consacrato;
il coraggio di chi, partendo da una esperienza di vita, affronta ed abbatte tutta una tradizione secolare, perché, essa, mentre dice di difendere Dio, inventa menzogne sulla vita umana (Giob. 13, 7-8).

Man mano che il dramma si svolge, il pubblico si rende conto quanto valgano i suoi argomenti, le sue consolazioni e la sua simpatia.

Si accorge fino a che punto le sue idee riescono a spiegare il dolore, se è capace di resistere agli attacchi violenti che sgorgano dalla coscienza tormentata e realista di un uomo come Giobbe.

I 3 amici, che rimasero in silenzio 7 giorni e 7 notti, rappresentano la difesa degli argomenti che il popolo era abituato ad usare:
cercano di difendere il popolo e la tradizione contro gli attacchi di Giobbe.

Non permetteranno che un uomo, disperato e addolorato, attacchi la solida pietà tradizionale e infranga la stessa sicurezza della sua vita.

Chi vincerà?
La tradizione o la coscienza?

Il dialogo tra Giobbe e i suoi tre amici è anche il dialogo interiore che ogni uomo fa dentro di sé, quando si trova di fronte al dolore e alla sofferenza.

Lo stesso dialogo che oggi si verifica fra la generazione antica e quella nuova:

la generazione antica, che si aggrappa a quanto ha ricevuto dagli antepassati;

la generazione nuova, che vuol partire decisamente dall'esperienza della vita, perché nella tradizione degli antichi non trova nessuna spiegazione ai suoi problemi, nessuna risposta alle sue domande.




SEGUE..





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un prologo al libro di Giobbe:
il dramma di tutti noi





3. Il problema esistenziale che ha provocato il libro di Giobbe e che in esso si esprime.

Per molto tempo questa fu la situazione culturale del popolo:
viveva nella struttura tribale, in cui tutto era di tutti, in cui ciascuno partecipava al destino dell'altro, in cui tutti erano o poveri o ricchi, in cui non esisteva nessuna differenza, ma un grande senso di solidarietà sia nel bene come nel male.

A questo livello di cultura, era la cosa più naturale del mondo che uno soffrisse per il male commesso dall'altro (cf. Gios. 7, 1-26).

C'era anche un proverbio che diceva:
«i genitori hanno mangiato erbe amare, ma i denti dei figli si sono infiammati» (Ez.18, 2).

Inoltre, a quel tempo, non sapevano ancora niente sul futuro.. Credevano che, dopo la morte, il destino dei buoni e dei cattivi fosse identico (Eccle. 9, 1-2);
sarebbero sopravvissuti in un luogo detto Sheol, che, a loro modo di vedere, stava sottoterra.

Impregnato di questa cultura, il popolo tentò di dare una espressione alla sua fede in un Dio personale e giusto, che castiga i cattivi e premia i buoni; tutto il male del mondo deve essere considerato un castigo mandato da Dio.

Se tu stai soffrendo e sei giusto, la tua sofferenza è il castigo dei peccati e delle disobbedienze fatte da altri.

Se tu stai bene, la tua felicità è il premio di Dio per la giustizia tua e di altri.

Non arrivavano a pensare ad un premio o ad un castigo, dopo la morte.

Queste spiegazioni soddisfacevano il popolo e risolvevano il problema della sofferenza del giusto.

Si trattava di una spiegazione naturale, d'accordo con la cultura del tempo, l'unica da cui potevano ricevere l'idea della giustizia di Dio.

Ma quando il popolo nomade diventò agricoltore, si ebbero profondi cambiamenti.
La coscienza individuale crebbe.

Abitando in borgate ed in città, coltivando ciascuno il suo campicello, partecipando attivamente al commercio, superarono l'antico concetto della solidarietà nel bene e nel male.

Capirono che ciascuno riceve quello che ha piantato.
Il frutto del suo lavoro.
Non accettano più di soffrire per il male commesso da un altro;

il profeta Ezechiele cerca di esprimere la giustizia di Dio all'altezza dei nuovi concetti culturali (Ez. 18, 2 seg.);

Non si può più dire che Dio castiga i figli per i peccati dei genitori; ciascuno riceve da Dio quello che si è meritato.
Altrimenti, Dio sarebbe ingiusto.

Ma che succede?
Si cerca di esprimere nuovi concetti, usando il criterio di prima: il male è castigo di Dio.

Se tu soffri, e non soffri a causa dei peccati degli altri, resta una sola spiegazione:
tu soffri perché tu sei peccatore.

La ricchezza e la felicità sono segni della ricompensa divina:
il ricco è l'uomo giusto.

La povertà e la disgrazia sono segni del castigo divino:
il povero è il peccatore.

In questo modo la teologia cercò di salvare i dati della tradizione circa la giustizia divina.

Giobbe aveva ragione:
per difendere Dio, inventavano un sacco di bugie sulla vita umana (Giob. 13, 7-8).

Da tutto questo nacque il problema esistenziale che provocò il libro di Giobbe e che in esso si esprime.

Il libro traduce l'angoscia di un uomo che soffre.

La tradizione:
cioè tutta la struttura della vita organizzata, tutta la mentalità operante, lui stesso Giobbe, in quanto formato in questa mentalità, diceva:
sei un peccatore, sei un essere rigettato da Dio; la grandezza della tua sofferenza rivela la grandezza del tuo peccato.

Allo stesso tempo però la coscienza gli diceva:
io sono innocente (Giob. 6, 29):
Dio è crudele, trattandomi così (Giob. 31, 21).

Fa soffrire molto sentirsi rigettato da Qualcuno, che amavo tanto e che mi sono impegnato a servire con tutto il cuore (Giob. 16, 17).

Sembrava che Dio si fosse allontanato da Giobbe, perché era peccatore, mentre in realtà, Giobbe, scandagliando il suo cuore e facendo l'esame di coscienza, non trovava niente che potesse avere offeso Dio (Giob. 27, 5-6; 31, 1-40).

Perché Dio lo trattava così?
«Le freccie dell'Onnipotente mi hanno crivellato» (Giob. 6,4).

Nel suo cuore scoppia una rivolta contro Dio (Giob.23, 2).

E d'altra parte Giobbe crede nella giustizia di Dio.

Dio è giusto, più giusto dell'uomo.

Ci doveva essere, dunque, un motivo per cui Dio lo castigava così, trattandolo come un nemico (Giob. 19, 11).
Ma la coscienza gli diceva il contrario.

Chi aveva ragione:
Dio, così come la tradizione e lo stesso Giobbe lo concepivano, o la coscienza?

Qui stava la soluzione del problema che il libro di Giobbe si propone:
come fare per essere fedele alla coscienza e a Dio contemporaneamente?

Nell'esperienza dell'autore del libro di Giobbe la crisi collettiva del popolo, che si andava allargando e provocava in tutti una sensazione di malessere, scoppiò in una crisi personale.

Giobbe esprime con parole quello che, in modo vago, stava nel cuore di tutti.

Proprio per questo il libro possedeva una immensa forza di coscientizzazione.





4. La tecnica del dramma: far partecipare gli altri e portarli a scoprire


Il dramma ha la sua tecnica:
Giobbe e i suoi amici ignoravano quello che il pubblico già sapeva, perché non avevano ascoltato il prologo.

Il pubblico ha in mano il criterio per accompagnare e giudicare con esattezza gli argomenti usati dai personaggi del dramma, nell'impressionante ricerca del perché del dolore.

Nella discussione che ne seguì, Giobbe rappresenta la coscienza nuova che nasce, gli amici rappresentano la tradizione, che si preoccupa di difendere il valore ricevuto dagli antenati.

Il pubblico riconosce l'eco dei suoi desideri, sia in Giobbe che nei tre amici.

Giobbe rappresenta il pubblico, quando è tentato di ribellarsi alla situazione.

Gli amici rappresentano il pubblico, in quanto tutti vorrebbero andare dietro a quello che gli altri pensano, per non crearsi nuovi problemi.

Giobbe è amico del pubblico quando minaccia di smascherare uno schema di sicurezza tradizionale, che garantiva una certa pace, anche se fittizia; smaschera la falsità dietro cui l'uomo si nasconde.

Gli amici di Giobbe sono amici del pubblico in quanto rappresentano il dominio sulle coscienze, che ne impedisce la crescita; in quanto sono capaci, in nome di Dio e della tradizione, di «mettere all'asta l'orfano e vendere un amico» (Giob. 6, 27).

La discussione fra Giobbe e i tre amici è lenta e rivela l'uomo così com'è: fragile e orgoglioso, debole e superbo, ignorante e cosciente, indifeso e sicuro.

La riflessione del dramma cresce e va avanti; poi ritorna al punto di partenza.

Proprio come la discussione della vita:
lenta, dolorosa, va avanti e indietro, fino a che, là in fondo all'orizzonte, si accende una lucina, quanto basta per ravvivare la fiamma della speranza di un uomo come Giobbe, che soffre, disperato, perché secondo
la credenza dell'epoca, si considerava condannato da Dio, castigato per i suoi innumerevoli peccati, di cui però non aveva memoria né coscienza.

Il pubblico ha già capito che, nel caso di Giobbe, non si può applicare l'opinione tradizionale.

Ma Giobbe non lo sa affatto, e neppure i suoi tre amici; come Giobbe, tanta gente si trova nelle stesse condizioni.

Forse è proprio il caso di uno o di un altro che sta nella sala, assistendo allo spettacolo.

Applicare in questo modo, matematicamente, il criterio della tradizione, sarebbe partecipare alla più nera delle ingiustizie e delle menzogne.

Ma come confutare gli argomenti della tradizione?

Se lo propone l'autore del dramma, mettendo in scena Giobbe e i suoi tre amici.

La lotta di Giobbe consiste nello sfatare gli argomenti della tradizione, basandosi sulla testimonianza della sua coscienza;
Giobbe non ha chi lo difenda;
né la struttura, né la società.

Ha solo la testimonianza e la voce della sua coscienza.
Nient'altro.

Cionostante, man mano che la discussione cresce, la coscienza acquista vantaggio sulla tradizione e riduce gli argomenti presentati dai tre amici a «sentenze di cenere» (Giob. 13, 12) «gettate al vento» (Giob. 16, 3) «ingannatrici» (Giob. 6, 18).

«Dimostratemi che ho sbagliato e io mi azzittirò» (Giob. 6, 24).
« Voi siete gente molto furba.
Ma, proprio voi, ucciderete la Sapienza!
Anch'io ho una testa per pensare, come voi pensate.

Non sono affatto inferiore a voi.
Chi ignora quello che voi sapete?» (Giob. 12, 2-3).






5. Il fondo del problema: l'idea sbagliata che gli uomini hanno di Dio


L'autore non si limita a sfatare gli argomenti della tradizione.
Il problema è ben più profondo.

Non si tratta di dire solo quello che non è.
Bisogna trovare una via d'uscita, che ancora non si trova, con la semplice confutazione degli argomenti dell'altro.

Il vero problema si colloca ad un altro livello.

Il vero conflitto di Giobbe non è tanto con i tre amici o con la tradizione, ma è proprio con Dio!

«Quello che sapete voi lo so anche io, non sono inferiore a voi.
Ma io vorrei parlare coll'Onnipotente; vorrei discutere con Dio» (Giob. 13, 2-3).
« Voi non siete altro che impostori, medici che non servono a niente.

Almeno se stessero zitti, potrei scambiarli per sapienti... Per difendere Dio, dite un sacco di bugie.

Possibile che per difendere Dio sia indispensabile ingannare?

Voi avete su Dio idee preconcette.

Fate silenzio!
Lasciatemi in pace!
Voglio parlare anch'io!
Succeda quello che succeda.. Metto la mia vita nelle mie mani.

Se Dio vuole uccidermi non mi resta altra speranza, ma anche così voglio difendere la mia causa davanti a Lui.

Facendo questo sono già salvo, perché un empio non sarebbe ammesso alla sua presenza» (Giob. 13, 4-5, 7-8, 13-16).

Subito dopo, Giobbe si mette a discutere con Dio:
«allontana da me la tua mano, metti fine alla paura che ho della tua ira.

Chiamami e io ti risponderò; oppure lasciami parlare e tu mi risponderai.

Quali sono i peccati e gli sbagli che ho commesso?» (Giob. 13, 21-23).

Prima di incominciare a parlare, Giobbe aveva detto:
«Sono pronto a difendere la mia causa, perché so bene che la ragione è mia» (Giob. 13-18).

Il dramma è una specie di tribunale mascherato.
Imbastisce un processo, in cui compaiono Dio e l'uomo per misurare la loro ragione e risolvere il conflitto che li divide.

Giobbe vuole aprire un processo contro Dio, esporre le sue ragioni e difendere la sua causa (Giob. 23, 4), sicuro di essere assolto una volta per tutte (Giob. 23, 7).

Non bastano i pareri degli amici, né a favore né contro; Dio stesso dovrà pronunciare il giudizio fra Dio e gli uomini (Giob. 16, 21).

Con questo proposito Giobbe si allontana dagli amici, dalla società e da tutto ciò che prima determinava la sua vita.

Va per un cammino nuovo, temerario, un cammino solitario.
Si mette in marcia.

Per nessuna cosa al mondo lascerebbe insoluto il problema che lo affligge e che, essendo il problema di un uomo, diventa il problema della presenza di Dio nella vita degli uomini.

E Dio accetta la proposta di Giobbe.
La voce di Dio si fa udire in un lungo discorso sulla Sapienza divina, che riempie l'immensità della terra (Giob. cap. 38-41);
Giobbe ha interrogato Dio e gli ha esposto il problema della sua vita.
Adesso è Dio che interroga Giobbe:
«Cingiti i fianchi come un uomo, voglio interrogarti e tu mi risponderai» (Giob.
38, 3).

Segue la descrizione delle meraviglie dell'universo, pieno di tanti misteri, che Giobbe non conosce e non sa spiegare, ma che hanno tutti un senso e un fulcro comune, governato dalla Sapienza divina.

Alla fine del discorso, Giobbe trae questa conclusione:
«I miei orecchi avevano sentito parlare di Te, ma ora i miei occhi Ti hanno visto.
Per questo mi ritratto e mi pento, nella polvere e nella cenere» (Giob. 42, 5-6).

L'immagine di Dio, ricevuta dal passato, per aver sentito parlare di Dio, si frantuma in mille pezzi.

Nella mente di Giobbe nacque una nuova immagine di Dio, a partire dalla sua esperienza personale.

Giobbe vide una luce sull'orizzonte della vita.
La pace e la tranquillità ritornarono.

Il problema della vita non veniva da Dio, ma da una immagine falsa di Dio, che si era andata formando nella testa di Giobbe, per sentir parlare di Dio.

Abbattuta l'immagine falsa che gli veniva dal passato e dalla tradizione, Giobbe si ritrovò con Dio e squarciò un orizzonte nuovo di vita, per sé e per gli altri.

L'autore non dice chiaramente quale sia stata la soluzione trovata da Giobbe, ma offre al lettore e al pubblico tutti gli elementi perché essi stessi possano dedurre la conclusione a cui arrivò Giobbe.

Questa è la tecnica del dramma, la tecnica propria dei sapienti:
non si curano di dare una soluzione astratta; l'importante è che il lettore partecipi alla ricerca e arrivi, da sé, a scoprire la verità.

Il pubblico, il lettore sono chiamati a pensare e a riflettere, per vedere se riescono ad identificarsi con Giobbe e a scoprire, Ciascuno per conto suo, la soluzione che Giobbe scoperse.

Il dramma è finito.

Cala la tela.

Riappare il presentatore e pronuncia la sentenza:
gli amici di Giobbe hanno perduto la discussione.

Interpretando il pensiero di Dio, egli dice agli amici di Giobbe:
«voi non avete parlato bène di me, come il mio serve Giobbe» (Giob. 42, 7).

Difendendo con vecchi argomenti una posizione già superata, si sono resi colpevoli, e adesso devono chiedere perdono a Giobbe, che ha avuto il coraggio di affrontare Dio, la realtà, la tradizione, appoggiandosi solo alla testimonianza della sua coscienza (Giob. 42, 7-9).

Il presentatore conclude dicendo che Giobbe tornò ad essere felice, esprimendo così la pace interiore che ritorna quando ci si ritrova con Dio (Giob. 42, 10-17).






6. Conclusione


Il dramma rappresentato nel libro di Giobbe è la storia di una vita, è il risultato di un'esperienza e di una ricerca.

Ci viene offerto dall'autore come esempio di un cammino possibile a molti altri uomini, chiamati ad affrontare, come Giobbe, il mistero del dolore, abbattendo gli antichi preconcetti, che non reggono più al confronto con la realtà e al crescere di una coscienza nuova.

Giobbe e i suoi amici sono tutta l'umanità che cammina per la strada dolorosa della vita, discutendo insieme, curvi e umiliati, sotto il peso enorme della sofferenza.

Conflitto permanente tra rivelazione e realtà;
rivelazione, così come la intende la cultura umana;
realtà, così come si presenta in ogni epoca alla coscienza degli uomini, mettendo in discussione tutto quello che viene dal passato.

Anche oggi, la forza della coscienza sale sul palco della storia, su un monte di sterco, emarginata in mille modi, discute con i tre amici che difendono la posizione tradizionale e che usufruiscono del potere.

Il pubblico assiste al dramma, attraverso i giornali e la televisione.
La discussione procede lentamente, va avanti e indietro, ma nel complesso guadagna terreno:
la coscienza è più forte.

Alla fine, chi difendeva e conservava il vero valore della tradizione non erano i tre amici, ma lo stesso Giobbe, che inaugurò il cammino per un nuovo incontro con Dio, sbarrato dagli schemi della tradizione incarnata dai tre amici.

Il libro di Giobbe ha fatto cambiare tutta una teologia, ha fatto piazza pulita.

Ma non ha risolto il problema definitivamente.
Neppure pretendeva di farlo.

Voleva solo rimuovere una grossa pietra, che ostruiva il cammino.
E ci è riuscito.

I tre amici sono rimasti con le pive nel sacco.
Giobbe ha scoperto ed ha conservato il midollo della tradizione.

Il libro di Giobbe rivela e mostra quanto bisogno abbia il popolo di Dio di essere davvero criticato e contestato.

Giobbe non ebbe paura di battersi, quando si accorse che la coscienza non poteva accettare e assimilare la posizione tradizionale.

Escludere la possibilità della contestazione e della critica, o volerla incamminare e orientare, sarebbe come scavare la fossa alla posizione che si vuole difendere contro la critica.

Là dove la coscienza non è libera di esprimersi, lo si deve esigere, mettendo a tacere gli altri:
«Zitti tutti! Lasciatemi libero!
Voglio parlare!
Quello che voi sapete lo so anch'io.
Non sono affatto inferiore a Voi!» (Giob. 13.2).

I tre amici di oggi devono ricordarsi sempre che Dio, alla fine, dette ragione a Giobbe, perché aveva parlato bene di Dio, anche se tutti pensavano che avesse sbagliato.

Il libro di Giobbe rappresenta una grande apertura umana.

L'autore del libro, membro del popolo eletto, nasconde la sua esperienza col Dio del suo popolo dietro la figura leggendaria di Giobbe, che non apparteneva al popolo, ma era una figura internazionale.

Come quando un cristiano descrive la sua esperienza con Cristo, nascondendola sotto la figura ormai leggendaria di Gandhi.

Il libro di Giobbe esprime l'atteggiamento proprio della vita dei saggi.

La loro riflessione partiva dalla coscienza, dalla decisione di non farsi vincere dalla vita; il tema è sempre la vita e i suoi problemi.

L'obbiettivo e il metodo sono:
Non imporre, ma far pensare, far scoprire un cammino.
Nuova caratteristica è il realismo.
L'ambiente in cui si discute è il circolo di amici.

Sul palco, 5 persone: Giobbe, i tre amici e più tardi Eliù, il quarto amico giovane.

Una riunione di sapienti, una di quelle riunioni che si facevano sempre e dappertutto, per discutere i problemi della vita.

È difficile capire il libro di Giobbe, perché il linguaggio letterario è complicato e insolito alle nostre orecchie; ma il problema messo in discussione è così vicino a noi e così vissuto oggi che, nonostante la difficoltà di comunicazione causata dal linguaggio, la vita è più forte e rende possibile la vera comunicazione.





SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. X (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]



riassunto dell' Antico Testamento:
i Salmi «verso la certezza, camminando nella storia»




I Salmi sono un riassunto dell'Antico Testamento, non perché contengano di tutto un po', ma perché esprimono in mille modi l'atteggiamento proprio dell'uomo che si dispone a vivere la vita come risposta all'appello di Dio:
camminare verso la certezza, immersi nella storia.



1. Difficoltà dei Salmi come preghiera

I Salmi parlano di Dio come di Qualcuno sempre pronto a manifestarsi, in diretta comunicazione con gli uomini;
che interviene nei momenti critici della vita, vince le guerre, cura le malattie, guida il popolo e arriva perfino a modificare il normale corso degli eventi, pur di realizzare il suo impegno con gli uomini.

Oggigiorno Dio non si vede.

La sua azione sfugge a qualsiasi osservazione empirica.

Per gli uomini di oggi, soprattutto per quelli che vivono nelle grandi città, Dio non è più un elemento naturale della vita, anzi, per molti di loro è diventato un argomento inutile.

L'ateismo è un atteggiamento pratico, fuori di discussione, per un numero di uomini sempre più grande.

Due modi completamente differenti.

Sembra impossibile pregare con i Salmi e, allo stesso tempo, prendere sul serio la vita e la realtà di oggi.

Già di per sé, pregare è difficile.

Non è facile raccogliersi davanti ad uno che non si vede.

Il contatto con gli altri, è sempre difficile.
È molto duro arrivare ad una vera apertura; mettere a tacere tutto il resto, e tenere gli occhi fissi in colui col quale stiamo parlando.

In genere i nostri contatti sono superficiali.
Sono conversazioni, non sono dialogo.

Tanto più sarà difficile mettersi in contatto con l'Altro, che è invisibile.

I Salmi ci si presentano come antiche preghiere formulate con termini di una cultura totalmente differenti;
il linguaggio ci suona strano.

Frasi incomprensibili, simbolismi e immagini che, a] giorno d'oggi, non dicono più niente.

Ignoriamo il contesto a cui si riferiscono.

Trattano di situazioni che non abbiamo vissuto.

Per questo è difficile arrivare a riconoscersi nei Salmi, con tutti i nostri problemi e la nostra realtà di vita.

Alcuni Salmi, poi, sono imperfetti, perché insultano e maledicono. Esprimono il desiderio di vendetta, di odio, di violenza.
Come pregare, oggi, con preghiere così imperfette?





2. I Salmi e il movimento secolare della preghiera degli uomini

I Salmi non sono la più perfetta espressione della preghiera.

Ci sono Salmi belli e Salmi imperfetti.
Salmi meravigliosi dal punto di vista letterario, e Salmi che sono soltanto un plagio.

Non dobbiamo neppure considerare i Salmi come un blocco monolitico, caduto dal cielo, già pronto.

Il libro dei Salmi non è nato da un giorno all'altro.

Per scrivere il libro dei Salmi, ci volle più tempo che per qualsiasi altro.

Cominciò ad essere composto verso il 1000 a.C. (al tempo di David) e sembra che fosse finito verso il 300.

Anche dopo che il libro fu scritto, la fonte dei Salmi non si inaridì.

Per esempio:
1/ Nella traduzione greca dell'Antico Testamento (detta dei Settanta), troviamo 14 Salmi o ‘odi’, che non si incontrano nell'originale ebraico.

2/ Negli scritti del Mar Morto (scoperti tra i] 1947 e il 1956), che vanno dall'anno 100 a.c. fino verso l'anno 60 d.C., troviamo un gran numero di Salmi, che non sono contenuti nel libro dei Salmi.

3/ In molti altri libri della Bibbia, sia in quelli storici come nei sapienziali e profetici, troviamo Salmi e orazioni che non sono registrati nel libro dei Salmi.

Perciò il libro dei Salmi raccoglie e trasmette solo alcune delle preghiere usate a quel tempo.

È un contributo limitato al movimento secolare della preghiera, un esempio soltanto di come si pregava e si cantava allora.

Non si pretende dare ai Salmi il monopolio della preghiera.
Non escludono altre preghiere, anzi, le suscitano e le incamminano.

L'importante non sta nei Salmi in sé e per sé, ma nel movimento di preghiera da cui sgorgano e verso cui ci vogliono riportare.

I Salmi riflettono la storia millenaria della lenta ascesa dell'uomo verso Dio e della nostra progressiva liberazione, quando ci incontriamo con Dio.

Nei Salmi troviamo tutto quanto si dice a rispetto di questa ascesa, sia le cose buone come le cattive.

Le imperfezioni (vendetta, odio, autosufficienza) spariscono mentre l'uomo cammina.
Sono più evidenti nei Salmi più antichi.

Perché i Salmi testimoniano lo sforzo dell'uomo per essere fedele a Dio e a se stesso.
Sono preghiera di gente che, come noi, cammina verso la meta che Dio ci propone.

Le imperfezioni ci dicono che Dio accetta la preghiera, così come l'uomo è capace di farla.

Altrimenti non gliel'avrebbe ispirata.
L'importante è che sia sincero.





3. Origine dei Salmi e lenta formazione del libro dei Salmi

Il libro dei Salmi è un insieme artificiale di 150 Salmi, raccolti in un unico manuale, a fini liturgici.

Il titolo ebraico è «Sefer Tehillim» che vuoI dire «libro degli inni» mentre, se teniamo conto del sottotitolo di alcuni Salmi, solo uno ha le caratteristiche del «Tehila», 'Inno' (Sal. 144).

Il titolo più comune è «Libro dei Salmi». 'Salmo', in ebraico Mismor, significa una determinata maniera di cantare.

Noi, oggi, abbiamo:
la samba, il valzer, la marcia ecc., così a quel tempo, avevano gli 'Inni' (Tehillin) i 'Salmi' (Mismor), i 'Cantici' (Shirim) ecc.

Si suole fare una certa confusione, quando un titolo dice:
'Inni' e un altro 'Salmi'.

In realtà, il libro contiene Inni, Salmi, Cantici, Lamentazioni e molte altre forme di canto e di preghiera.

Il fatto è che non si sa bene come classificare il contenuto del libro. Perché l'origine degli elementi che lo compongono, è varia.

È sempre difficile unificare la vita sotto un unico denominatore o un unico titolo.

I Salmi sono 150.
Anche il numero è artificiale.

Si pensò ad un numero tondo, come si usa fare quando si mette insieme un «libro di Canti» liturgici per il popolo.

Era, più o meno, uno dei tanti manualetti di «canti e inni liturgici» come quelli che si usano anche oggi, di origine varia, raccolti qua e là, tradotti, adattati, completati perché possano servire alla celebrazione della liturgia popolare.

Prima che uscisse il libro dei Salmi, esistevano varie collezioni di canti e di preghiere, come esistono, anche oggi, raccolte di canti per la Messa, per le processioni, per la benedizione del Santissimo Sacramento.

Esisteva una raccolta di canti e Salmi per i 'pellegrinaggi' (Sal. 119-133) detti: Salmi 'graduali'.

Un'altra per i canti della cena pasquale, detta «gruppo Hallel» (Sal. 104-106.110-117.134-135.145-150), di autori vari, come oggi abbiamo i dischi di Roberto Carlos, di Gianni Morandi, di Fabrizio de André, di Geraldo Vandré ecc.

La fine del Salmo 71 dice così:
«qui finiscono i Salmi di David» ma, non tutti i Salmi sono di David, neppure il Salmo 71.

Alcuni Salmi sono attribuiti a Salomone, a Mosè, ai figli di Corè ecc.

Alla fine, si tentò di riunire tutto quello che si trovava sul mercato del canto in un'unica raccolta.

Si mise insieme ogni cosa, da qualsiasi parte venisse.

Per questo, si verificarono ripetizioni:
il Sal. 13 è uguale al Sal. 52, il Sal. 39, 14-18 è uguale al Sal. 79.

Alcuni Salmi si trovano ripetuti in due raccolte differenti, soltanto con variazioni insignificanti.

Misero insieme tutto, e ne derivò una certa confusione.

Per esempio, il testo ebraico, alla fine del Sal. 71, dice così:
«qui finiscono i Salmi di David», ma ci sono Salmi non Davidici prima del Sal. 71 e Sal. di David dopo il Sal. 71.

L'autore della redazione finale mise tutto insieme e compilò 5 raccolte, che terminano tutte allo stesso modo:
«Benedetto sia il Signore Dio di Israele, per i secoli dei secoli» e il popolo doveva rispondere:
«Amen, amen,> (v. la fine dei Sal. 40, 71, 88, 85).

Il Sal. 150, l'ultimo di tutti, è un'elaborazione diluita di questa acclamazione.

La genesi del salterio rivela, pertanto, il suo carattere popolare.

Sono canti sgorgati dalla vita, che riflettono la vita.

Il popolo riconosceva in quei canti il riflesso della sua stessa vita.

Per questo, fu il libro più divulgato e più noto.



SEGUE..




[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. X (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

riassunto dell' Antico Testamento:
i Salmi «verso la certezza, camminando nella storia»







4. La maniera popolare di pregare e di cantare Salmi


Un altro mezzo importante per conoscere il luogo esatto che i Salmi occupavano nella vita del popolo, lo troviamo nella maniera con cui erano usati e cantati, per pregare.

Molto simile a come noi facciamo, oggi.

Diversi Salmi hanno un breve titolo e una breve spiegazione, circa l'origine e le modalità del canto:

1/ Molti salmi venivano accompagnati da strumenti.
Il Sal. 150 descrive alcuni strumenti e ci dice che si usavano strumenti popolari.
Sarebbe come dire, oggi: il violino, la chitarra, il mandolino, la fisarmonica ecc.

2/ Il popolo vi partecipava in modo primitivo e semplice, con acclamazioni: «Amen, Amen» e «Allelu-Ja» «Amen» (cf. Sal. 105, 48), come dire:
«Bene» «Viva». «Allelu-Ja» è «Hallelu-Ja» cioè «Gloria a Jahvé».

3/ C'era un Salmo simile a una litania.
Invece di dire come oggi:
«Prega per noi», il popolo diceva:
«Ci ad elam besdò» cioè:
«Perché il suo amore è eterno» (Sal. 145).

4/ Spesso ,il popolo partecipava, ritmando le parole di risposta e ripetendo il nome di Dio, cadenzato col battito delle mani:
«Jabù-Jabù-Jabù» (cf. I Cron. 29, 20).

Quanto alla melodia, si faceva come si fa oggi:
«questo canto deve essere adattato alla musica di «Ruota Viva» di Chico Buarque di Olanda.

Per esempio, il Sal. 21 doveva essere cantato con la melodia di un canto molto noto, sotto il titolo:
«il cervo all'aurora».

C'era un canto chiamato «non distruggere», la cui melodia doveva essere usata nel tempio per recitare i Sal. 56, 57, 58 (cf. anche i titoli dei Sal. 17,44,45, 52, 55, 59, 68, 74, 79, 80, 83).

Se oggi si adattano le parole alle melodie di Ruota viva) La banda) C'era un ragazzo} Un fiume amaro ecc., la cosa non è poi tanto nuova, anzi è molto antica.

I sotto titoli, ancora oggi, sono avvisi per il coro.

Toccava al «Maestro del coro» intonare alcuni Salmi. (cf. Sal. 13, 20, 30, ecc.).
Il Sal. 87 doveva essere cantato in tono triste.
Il Sal.6 doveva essere cantato <
Tutte queste indicazioni, fornite dal libro dei Salmi, dicono la sua origine popolare.






5. Davide autore dei Salmi?

Secondo il testo ebraico, dei 150 Salmi, 73 sono di Davide, 12 di Asaf, 11 dei Figli di Corè, uno di Heman, uno di Etnan, uno di Mosè, alcuni di Salomone e 35 anonimi.

La traduzione greca attribuisce a Davide 85 Salmi.

Il continuo riferimento dei Salmi a Davide e l'attribuzione a lui del salterio in blocco, hanno un significato teologico più che storico.

È evidente che Davide compose molti Salmi, ma non tutti sono suoi.

Come Mosè è messo all'origine della legislazione e Salomone all'origine della Sapienza, così Davide sta all'origine del movimento di preghiera.

Era una personalità forte e, con la forza della sua pietà sincera, promosse e intensificò la preghiera.

Poter attribuire il Salmo a Davide e metterlo in rapporto con lui, significava dire che il Salmo occupava un posto ufficiale nella liturgia. Cioè, che il Salmo aveva valore per la vita.







6. Lo studio attuale dei Salmi e la loro interpretazione


Nella storia della Chiesa sempre si pregò con i Salmi; sempre ci fu chi cercò di spiegarli e interpretarli per uso del popolo.

Uno dei più celebri commenti è quello di S. Agostino.

Una sola era la sua preoccupazione:
interpretarli in modo tale che il popolo (sec. IV) riuscisse a scoprire nei Salmi l'eco della sua vita e della sua fede.

Partiva, quindi dalle esigenze concrete della vita dei fedeli e cercava di darvi una risposta.

Al sorgere dell'era moderna, si verificò una separazione tra la vita e la fede.
I Salmi trovarono posto a fianco della vita, col fine di sostenere una fede, molto spesso irreale.

Perciò, l'esegesi entrò per cammini nuovi, cercando di venire incontro alla nuova problematica, allo scopo di reintegrare la fede con la vita.

L'esegeta tedesco Herman Gunkel applicò ai Salmi il metodo «dei generi letterari», per arrivare a scoprire quale sia il posto dei Salmi nella vita del popolo.

Prima di lui i Salmi si presentavano in blocco, come il corso di un fiume di grande portata, senza differenziazioni.

Gli studi di Gunkel ci permisero di risalire la corrente e raggiungere i veri affluenti, che si uniscono per formare il fiume.

In altre parole, il blocco monolitico di 150 Salmi si distingue in vari tipi di preghiere (generi letterari):
inni, lamentazioni, suppliche, storia meditata ecc.

Ogni tipo suppone un determinato ambiente, come lo studio della samba rivela tutto un modo di vivere e di sentire.

Lo studio permise di fare un passo enorme, perché, da allora, i Salmi cominciarono a riflettere aspetti concreti della vita del popolo.
Ma gli affluenti non sono la sorgente.

Per quanto sia importante lo studio di Gunkel, non possiamo fermarci lì.

E’ curioso il fatto che, quando gli esegeti cercarono con i loro commenti di catalogare i diversi' tipi dei Salmi, non si trovarono mai d'accordo.

Perché?

Secondo noi, il perché sta nel fatto che la vita è anteriore a tutte le forme e a tutti i tipi di orazione e non si lascia determinare da loro.

Non si può classificare la vita.
Bisogna andare oltre tutte le forme letterarie e risalire gli affluenti, fino alla sorgente da cui hanno origine.

Questa fonte è più vicina a noi di quanto possiamo pensare e sospettare, perché è la nostra vita umana, illuminata dall'appello di Dio che ci chiama.

Scavando nei Salmi, scopriamo la vita, quella stessa che noi tutti viviamo, e nei Salmi ritroviamo noi stessi.

Solo così i Salmi potranno essere espressione autentica di quello che ci vive nell'animo.

I Salmi, così intesi, ci mettono davanti alla vita nuda e cruda, come scaturisce dentro di noi, ci portano a interrogarci sulla vita, a farci sentire le sue gioie e le sue pene, le sue speranze e le sue angoscie e, perciò, a sentirci inquieti, coscientemente e deliberatamente, di quella inquietudine che faceva esclamare a S. Agostino:
«ci hai fatto per te, e il nostro cuore è inquieto, fino a che non riposa in Te».

In questo modo i Salmi raggiungono il fine per cui sono stati ispirati, ci fanno scoprire chi siamo e quale sia la nostra responsabilità.

Ci scomodano, ci infondono speranza e ci fanno camminare sempre verso la meta che Dio ci propone.

Sono lo specchio fedele della vita, che riflettono criticamente la nostra vera identità.




SEGUE..






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. X (terza parte) [SM=g6198] [SM=g6198]



riassunto dell' Antico Testamento:
i Salmi «verso la certezza, camminando nella storia»





7. La più grande difficoltà e la più importante esigenza per la interpretazione dei Salmi


La principale difficoltà nella recita dei Salmi, origine di tutte le altre già dette, è la seguente:
i Salmi, per le ragioni che abbiamo visto, restano fuori del nostro campo di interesse.

Sembra che non abbiano niente da dirci sulla nostra vita:
problemi differenti, linguaggio differente, cultura differente, situazione differente, storia differente.

Senza contatto di affinità sul piano della vita, ogni discussione, ogni spiegazione dei Salmi cade nel vuoto e non rappresenta per noi un valore autentico né richiama il nostro vero interesse.

Non accendono in noi una luce.

Ci lasciano al buio a rispetto di noi stessi, dal momento che non parlano di noi e, di conseguenza, ci lasciano all'oscuro anche su Dio, che parla per mezzo di loro.

Ma la difficoltà nasce da un equivoco.

Anzitutto ci è mancato un sufficiente approfondimento della nostra vita e perciò non riusciamo a coglierne la vibrazione presente nei Salmi.

Inoltre, non abbiamo approfondito abbastanza la conoscenza dei Salmi, per cui non vi scopriamo la nostra vita umana, unica fonte da cui scaturiscono tutte quelle preghiere.

Se scavassimo in profondità, sia nei Salmi come nella nostra vita, ci renderemmo conto che si tratta di vasi comunicanti la cui base è comune: l'uomo che cerca il senso della vita, l'uomo che si confronta con il problema dell'Assoluto, riflesso nei mille problemi del suo quotidiano.

Non riuscirà a raggiungere la radice dei Salmi, non riuscirà a pregare con i Salmi chi, allo stesso tempo, non prende coscienza che anche lui, dentro di sé, incontra la stessa radice.

Benché ci siano estranei, i Salmi sono nati dalle mille situazioni esistenziali, che oggi potrebbero essere la nostra:

allegria, gratitudine, tristezza, angoscia, disperazione, frustrazione, abbandono, sconfitta, vittoria, dubbio, crisi, pace, guerra, incomprensione, fedeltà, amicizia, tradimento, malattia, vecchiaia, persecuzione, ingiustizia, oppressione, esperienza di apparente contraddizione e assurdo della vita.

Chi non è passato attraverso situazioni del genere, non potrà davvero capire i Salmi e, difficilmente, arriverà a fame la sua preghiera.

Per cui, l'esigenza principale per una buona interpretazione dei Salmi è l'esperienza della propria vita, in tutta la sua ampiezza e profondità, con tutti i problemi e sentimenti che ne derivano.

È il ponte che ci unisce, nel tempo e nello spazio, all'autore dei Salmi.

Solo allora, i Salmi diventeranno per noi espressione autentica della nostra vita.
Riacquisteranno oggi, per noi, tutta la forza di una espressione umana che si rivolge a Dio.

Diventeranno capaci anche di ispirarci nuove preghiere, vigorose e sincere, per sostenerci nell'ascensione progressiva che riporta l’uomo a Dio, in una incessante ricerca di Pace:
«Pace, è tutto quanto desidero!» (Sal. 119).







8. I Salmi: espressione della ricerca di Dio nella vita


Oggi sembra proprio che per molti non ci sia più posto per Dio.

Non sanno che farsene di Lui, nella vita.

Credono che esiste.
Niente altro.
Non sanno bene a che serve.

Il problema non è tanto che Dio esista o no, ma:
«Che senso ha Dio nella vita?»

Leggendo la Bibbia ci imbattiamo nello stesso problema.

Si crede all'esistenza di Dio, ma si vuol sapere dove incontrarlo e si mette in dubbio la sua presenza salvifica:
«Signore, possibile che tu non ti ricordi mai più di me?

Quando sentirò di nuovo su di me la dolcezza del tuo sguardo?» (Sal. 12. 2).

«Oggi tu ci rigetti e ci svergogni!...

Sì, hai venduto a poco prezzo il tuo popolo, senza neppure interessarti del guadagno» (Sal. 43, lO.13).

Lo stato di abbandono in cui a volte eravamo ridotti era una prova dell'assenza di Dio e un motivo di orribili crisi di fede:
«Oltre ad essere schiacciato dal peso della tristezza, devo anche sentire gli insulti di chi mi provoca tutto il giorno, dicendomi:
'Dov'è il tuo Dio?'» (Sal. 41, 11).

Le mamme, al giorno d'oggi si lamentano:
«Non so più cosa dire ai miei figli a riguardo di Dio».

«Dov'è dunque il vostro Dio?» (Sal. 41; 4.11; 78.10; 113, lO).

La domanda ritorna sempre e non ha risposta, come non l'aveva per gli ebrei.

Avere un Dio e non poterlo chiamare per testimone è senza dubbio scomodo e spinge alla ribellione.

Che razza di Dio è mai questo?
Era il loro problema, ed è anche il nostro.

La Bibbia non è altro che una risposta viva alla problematica che, in ultima analisi, è la stessa dell'uomo moderno.

Oggi, molti prescindono dal problema teorico, ma si pongono il problema pratico:
Che senso ha Dio nella mia vita?

Visto che il concetto di Dio, come l'hanno ereditato dal passato, non offre più, secondo loro, nessuna risposta sostanziale per l'esistenza,
oggi Dio viene messo da parte, come qualcosa che non interessa, come 'oppio', come contrario al progresso, come causa di alienazione, come una cosa che non ha più senso di esistere:
Dio è morto (per loro).

Viva l'uomo.

Il problema è vecchio, anche se è sempre nuovo:
«Che c'entra Dio con tutto questo, ammesso che sappia quello che ci succede?» (Sal. 72, 11).

Molta gente ha tirato la conclusione:
«Dio non esiste» (Sal. 13, 1) perciò «Spezziamo le catene con cui ci lega, e liberiamoci dal peso del suo dominio» (Sal. 2, 3).

Chi può vincerci?

Siamo superiori con le nostre parole inganniamo tutti (Sal. 11, 5). «Ognuno viva per sé e si arrangi come meglio può».

Di fatto tolto di mezzo Dio la vita sembra più facile.

L'uomo si sbarazza di una inutile angustia ed è più libero di progredire e di crescere:
«Ecco come vive la gente senza Dio:
tranquilla e felice aumentando sempre più il capitale» (Sal. 72, 12) mentre, chi porta il peso del problema di Dio sembra infelice.

Bisogna avere molta fede per resistere alla tentazione di lasciare tutto:
«alla fine, che mi vale vivere onestamente?

A che mi serve conservar pulite le mani?

Solo a ricevere insulti, dalla mattina alla sera, e ad essere sempre condannato?

Molte volte, sono arrivato al punto di dire:
la faccio finita, seguirò l'esempio dei senza Dio» (Sal. 72, 13-15).

Ma sempre qualcosa diceva all'uomo che una simile decisione non avrebbe risolto niente.

Sarebbe stata solo una fuga:
«Dire così, sarebbe farla finita con te, Signore, e rinnegare la fede dei miei fratelli» (Sal. 72, 15).

Allora egli sceglie di portare il peso della contraddizione di Dio.
Non accetta di condurre una vita più facile e più conforme ai criteri della maggioranza.

Perché, allora?

Il fatto è che questo strano Dio è coinvolto nella vita umana.

Senza di Lui la vita non ha senso:
«Lontano da Te, è impossibile la vita!

Esserti infedele è incominciare a morire.

La felicità io la trovo soltanto se cammino verso il Signore.
La sicurezza della mia vita è Dio, per sempre!» (Sal. 72, 27 -28).
È il problema della sicurezza che tutti cerchiamo, durante tutta la vita.

L'autore del salmo sembra avere incontrato una sicurezza così grande che è capace di vivere tranquillo e sereno in mezzo all'insicurezza ed alle incertezze della vita.

«Possono assalire il mio corpo e farmi anche a pezzi il cuore.

La mia vita ha un altro fondamento.

Il futuro che mi aspetta è Dio eterno» (Sal. 72, 26).

Dio, fondamento e futuro della vita, è capace di darci una indipendenza, una fermezza, una libertà e una sicurezza tali, come di rado si incontrano, ma che, in fondo, sono il desiderio concreto e il supremo ideale di tutti.

Un Dio di questo genere ha davvero qualcosa di comune con la vita dell'uomo.

L'umanità, il realismo e la testimonianza della vita, che traspaiono dai Salmi, confermano che questo Dio non è frutto di autosuggestione, ma è una realtà gratuita, per il bene dell'uomo, Credere in questo Dio porta l'uomo a essere più uomo.

Nel suo cuore sbocciano grandi virtù, quando l'uomo si incontra con questo Dio:

1/ coraggio di vivere: «La mia vita ha il suo
fondamento nel Signore.
Chi potrà scuotermi?

Anche se venisse un esercito contro di me, non avrò paura.
Anche se mi sfideranno a battaglia, non cesserò di sperare» (Sal. 26, 1-3).
Così dice l'uomo maturo, che sa quello che vuole.
Ha trovato la sua sicurezza in Dio.



2/ Tranquillità da fare invidia:
(La gioia che ha invaso il mio cuore è più grande della loro, in mezzo a tante ricchezze.

Tranquillamente vado a dormire e subito mi addormento, perché la pace del mio cuore viene da Te solo, Signore!» (Sal. 4, 8-9).



3/ Nitida percezione delle esigenze della giustizia.
«Chi può avvicinarsi davvero a questo Dio?

Che si esige per vivere alla sua santa presenza?
Le mani pure e il cuore innocente, non attaccarsi alle apparenze, non giurare il falso.

Chi vive in questo modo, avrà la benedizione del Signore».

«Signore, chi potrà ospitarsi nella tua casa?

Chi cammina nell'integrità, realizza la giustizia, dice la verità, non calunnia, non nuoce al suo prossimo, non offende il vicino, disprezza quello che Dio disprezza e stima quelli che amano Dio, giura e non si ritratta, anche se gliene viene danno, non impresta denaro ad usura, non si fa corrompere a danno dell'innocente» (Sal. 14).



4/ Coraggio per denunciare le ingiustizie dei potenti:
«Capi del popolo!
È proprio giusto quello che fate?

State davvero governando gli uomini con rettitudine?
Mi pare proprio di no...

Con malizia preparate i vostri piani, e fate pesare sulla terra la violenza delle vostre mani» (Sal. 57, 2-3).



5/ Chiara percezione della giustizia di Dio, che ispira fiducia sulla sorte di coloro che soffrono ingiustizia:
(Stiano tranquilli i giusti, la giustizia sarà vendicata, i colpevoli pagheranno le opere loro.

E tutti diranno:
Sì, la giustizia non rimarrà senza ricompensa, perché c'è un Dio che giudica gli uomini». (Sal. 57, 11-12).



6/ Rigetto di una religione fatta solo di riti e di norme, senza contenuto:
«A che ti serve ripetere come un pappagallo tutti i miei comandamenti e parlare di religione il giorno intero?

Tu che non hai preso la responsabilità del tuo impegno di vita e hai messo da parte i miei appelli?» (Sal. 49, 16-17).

Conoscere questo Dio e convivere con Lui è il dono più prezioso che un uomo possa ricevere:
«La tua amicizia mi è più cara della mia stessa vita» (Sal. 62, 4), giacché a causa del contatto con questo Dio, l'uomo ha incominciato a svegliarsi ai veri valori della vita.

È risorto alla gioia di una nuova speranza, ed ha attinto alla fonte nascosta da cui sgorga incessantemente la vera preghiera, con inni, cantici, ringraziamenti, lodi, suppliche.

Si capisce allora il grido:
«Che cosa può bastarmi, sia in cielo che in terra, se sto lontano da Te, Signore?» (Sal. 72, 25).

Il pernio della sua vita è il costante camminare verso questo Dio:
«La felicità, io la trovo camminando sempre verso il Signore» Tutto quanto un uomo fa, in questo senso, risponde ad un appello, che nasce dal più profondo dell'essere:
«Dentro di me una voce mi diceva:
continua a cercare la presenza di Dio.

Per questo vado in cerca di te, Signore, non ti nascondere alla mia ricerca» (Sal. 26, 8-9). Seguire questa voce porta l'uomo là, dove neppure lui può pensare, né prevedere.

Dio è sempre una sorpresa e un imprevisto.

L'immediata conseguenza della sua venuta, è sempre la tenebra.

Cresce e progredisce solo chi ha il coraggio di accettare nella sua vita questo Dio, senza venir meno, nella ferma fiducia che Lui è più forte di qualunque crisi, è capace di sostenerlo e di fargli vincere le difficoltà:
«Grande è la mia fiducia nel Signore; da lui aspetto una parola amica» (Sal.129).

«Ah! Se non avessi la certezza assoluta di arrivare a gustare, un giorno, la bontà del Signore nella terra dei viventi...» (Sal. 26, 13).

Quando tutto crolla, resta solo il sostegno di Dio, che sta con noi, adesso invisibile, ma davvero presente:
«Sei il mio sostegno, Signore, l'unica parte che mi resta nella vita» (Sal.141, 6).

Con questa certezza, l'uomo cammina, dando tempo al tempo, sperando di sentire di nuovo, un giorno, la voce del suo Dio.

Mentre dura la crisi, il suo atteggiamento è quello espresso nel Sal. 62: «Mi aggrappo a te, Signore, e tu mi tieni saldo con le tue mani» (Sal. 62, 9).

L'uomo sa e conosce la legge della vita:
«chi cammina, piange mentre semina la sua semente.

Quando ritorna, tornerà cantando, col carico del suo frumento» (Sal. 125, 6).

Chi non cammina non si accorge di nulla.

Camminando verso la certezza, immersi nella storia, ci si accorge, alla luce di Dio, che tutte le cose sono relative, tutte le forme di vita, le incertezze, i limiti e le insicurezze.

Con questo, l'uomo è capace di lasciare ogni falso sostegno, ogni certezza fallace, e si sveglia ai veri valori, e cerca il suo appoggio e la sua sicurezza nel fondamento e nel futuro della sua vita, che è Dio.

Chi ha provato questo fondamento e questo futuro, ha trovato la vera pace, la pace di Dio, e può dire:
«dentro di me si è fatta una grande pace.

La pace e la serenità sono venute per rimanere.

Come il bambino dopo la poppata:
dorme tranquillo, tra le braccia della mamma» (Sal: 130).
Questo ci dicono' i Salmi, su Dio e su noi stessi.

Toccano il fondo della problematica umana.

Se ben tradotti, possono davvero essere usati come espressione concreta della nostra speranza.

Ci possono perfino aiutare a svegliarci a certi aspetti della vita, ai quali ancora non diamo sufficiente attenzione:



9. Il materiale per l'orazione

Dove trovare il materiale per pregare?

Una sola parola dice tutto:
la vita, la vita che viviamo.

Per gli autori dei Salmi le cose della vita servono da svegliarini.

Vedendo e vivendo la vita, si ricordano di un'altra cosa.

Si ricordano di Qualcuno, che è più grande di tutti:
Dio.

Per loro, la vita, con tutte le cose belle e tristi, la natura, con tutte le sue meraviglie e le sue minacce, la storia e la vita, con tutte le loro peripezie, insomma tutto quello che ti fa ridere e piangere, tutto è diventato trasparente come cristallo, capace di svelarti e ricordarti Dio, tuo amico, che ti chiama, ti interroga, ti incoraggia e ti critica.

Quasi senza saperlo, le cose della vita diventano per loro il materiale e l'argomento di una conversazione, bisbigliata all'orecchio di Dio, l'amico.

Così sono nati i Salmi.

Sono sbocciati dalla vita con Dio.

Se non legassimo tutte le cose alla vita, il discorso sui Salmi sarebbe inutile.

Sarebbe come installare una bellissima televisione, senza legarla alla presa di corrente.

Non serve a niente, sarà un mobile per abbellire la casa;
ma la televisione non è nata per questo.

I Salmi sono serviti per documentare come pregavano un tempo, ma non furono ispirati per essere catalogati nell'archivio.

Furono ispirati, per pregare e per suscitare la preghiera



SEGUE..


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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XI (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

origine dei quattro vangeli:
dal «vangelo» ai quattro «vangeli»





1. A che serve indagare sull'origine dei Vangeli?


Se apro un comune dizionario linguistico, che corre nelle mani del popolo e ne riflette la mentalità, alla voce «Vangelo» leggo più o meno così:
1/ dottrina di Cristo;
2/ ciascuno del quattro libri principali del Nuovo Testamento;
3/ passi del libro che si legge durante la celebrazione della Messa;
4/ cose che si ritengono vere;
5/ insieme di precetti che regolano la vita di una setta.

Secondo ciascuna di queste definizioni, la parola V angelo significa, o può significare:

dottrina, libro, cerimonia o rito, verità, codice morale.

Quale delle cinque definizioni, è quella giusta?
Inoltre siamo soliti identificare il Vangelo con la vita di Gesù, e in questo caso Vangelo è sinonimo di Storia, in quanto ci dà le notizie sulla vita di Gesù, sulle cose che Egli disse e fece.

Perché tanta differenza?
A causa dei Vangeli o del nostro modo di vedere?
I primi cristiani pensavano proprio così?
Facevano anche loro la stessa confusione che facciamo noi?

Di fatto, è molto differente, nella pratica della vita, considerare i Vangeli solo come libri o come semplice storia, come norma morale di vita, o come criterio di verità, o come teste di dottrina;
oppure come una semplice lettura, da farsi durante la cerimonia della messa.

Saranno, invece, un'altra cosa ancora, che sta alla radice di tutti i differenti aspetti enumerati sopra, e da cui derivano e prendono la vita?

Per questa ragione, sarà molto utile investigare liberamente come sono nati i Vangeli, quale fu la loro origine.

Noi passiamo sopra a molte cose, che sono scritte nei Vangeli, proprio perché non abbiamo occhi per vedere.

Quando conosceremo meglio come nacquero i Vangeli, saremo in grado di scoprire e correggere il nostro sbaglio.

Sarà una ricchezza in più, per la nostra vita.
oggi.





2. Alcune domande la cui risposta rivela un'altra mentalità


Elenchiamo una serie di domande, le cui risposte devono essere cercate nei Vangeli;
il risultato della ricerca sarà impressionante:

nessuna domanda troverà una risposta sicura.

E’difficile che i quattro Vangeli si mettano d'accordo su uno stesso argomento.

1. Quanti anni durò la vita apostolica di Gesù, dal battesimo di Giovanni Battista in poi?

2. Quali furono le precise parole della consacrazione del vino, usate nell'ultima cena?

3. A chi apparve, per primo, Gesù dopo la sua risurrezione, e dove apparve?

4. Quali furono le parole del centurione, ai piedi della croce, dopo la morte di Gesù?

5. Quale fu l'itinerario seguito da Gesù, nei suoi viaggi attraverso la Palestina?

6. Quante beatitudini Gesù proclamò, all'inizio del Discorso della Montagna?

7. Quanti giorni Gesù visse sulla terra dalla risurrezione all'ascensione?

Le risposte devono essere cercate simultaneamente nei quattro Vangeli.

Chi si metterà al lavoro, scoprirà che, secondo quanto dice l'evangelista, la vita apostolica durò meno di un anno, più di due anni, e fino a tre anni.

Vedrà che Matteo dice una cosa e Marco un'altra, che Luca dice questo e Giovanni quello.

Si accorgerà che, a rispetto di certe questioni, solo uno o due, dei quattro, sanno dirci qualcosa.

Ci rimane, pertanto, un certo dubbio sugli argomenti più importanti parole dell'ultima cena.

Padre Nostro, durata della vita di Gesù, itinerario dei viaggi, apparizioni, discorsi, fatti e miracoli.

Tutto ciò dà l'impressione che i quattro evangelisti non si interessassero delle stesse cose che interessano a noi.

Sembra che non importasse loro di tramandarci una descrizione minuziosa ed esatta delle cose, altrimenti non ci sarebbe una così grande divergenza in materia tanto importante.


Quando scrivevano i fatti della vita di Gesù, lo facevano con una mentalità molto differente da quella che abbiamo noi quando leggiamo i Vangeli.

Per questo non scopriamo, fino in fondo, il messaggio che gli evangelisti racchiusero nel testo, perché non ci mettiamo dallo stesso punto di vista loro, rispetto al contenuto dei Vangeli.





3. Paragone che ci mostra un'altra dimensione, nei quattro evangelisti


I Vangeli furono scritti molto tempo dopo le lettere di Paolo.

Per capire bene uno scritto, bisogna avere una certa familiarità con l'ambiente che lo ha generato.

L'ambiente da cui nacquero i quattro Vangeli è quello stesso delle lettere di Paolo, cioè l'ambiente delle comunità piene di fervore, formate dai cristiani che vivevano nella Palestina, nell'Asia Minore, nella Grecia e nell'Italia.

Più o meno come succede alla musica popolare:
per capire bene una certa musica, bisogna conoscerne il popolo, l'epoca, e la regione d'origine.

Vogliamo parlare proprio di questo.
Il grafico vuol stabilire un paragone tra le lettere di Paolo e i quattro Vangeli.

Si vede bene che le cose hanno subìto una certa evoluzione:

Le lettere di Paolo focalizzano soprattutto il «mistero pasquale», cioè gli avvenimenti della passione, morte e resurrezione di Gesù.

Parlano di Gesù e del Vangelo, quasi ad ogni pagina.

Poco dicono, però, di quello che Gesù visse, prima della sua passione, morte e resurrezione.

Parlano di Gesù, come di Qualcuno che sta in mezzo ai fedeli, come di Qualcuno che vive.

Questa presenza viva e attuante di Cristo in mezzo alla comunità è per loro il «Vangelo», la grande «Buona Notizia».

II fondamento della sua presenza è la passione, morte, e resurrezione.

II Vangelo di Marco, per esempio, si interessa soltanto di quello che è successo a Gesù prima della passione, perché comincia con la narrazione dal battesimo di Giovanni Battista, il che vuol dire, dall'inizio della vita apostolica di Gesù.

I vangeli di Matteo e Luca, scritti dopo quello di Marco, allargano il loro campo d'interesse e cominciano dall'infanzia e dalla nascita di Gesù.

II vangelo di Giovanni, l'ultimo di tutti risale alle origini del mondo, e si apre con la frase: «In principio era il Verbo...
(Gv. 1, 1).

Questo verbo di Dio è Gesù Cristo, che si fece carne» (Gv. 1, 14).

Pertanto, man mano che andiamo verso il futuro, l'interesse per Gesù Cristo si spinge sempre più dentro il passato.

Ne deriva una conclusione:
la radice dell'interesse degli evangelisti non fu la dottrina, né la storia, né la verità, né la morale, né la redazione del libro, né la cerimonia, ma la persona di Gesù risuscitato, vivo in mezzo a loro.

Per i primi cristiani, Cristo non è Qualcuno che è morto, è risuscitato e poi se ne è andato in cielo.

I primi cristiani, quando parlavano di Cristo, non pensavano al passato.

Per loro Cristo era presente, stava lì con loro, nella loro vita, vivo come loro erano vivi, grazie alla forza di Lui.

L'interesse fondamentale si fermava qui:
in questa presenza amica di Cristo nella vita: «Per me vivere è Cristo» (Fil.1, 21).

Se poi, nei Vangeli scritti, cercavano di informarsi sulle cose, sui fatti, sui discorsi, sugli avvenimenti del passato, era solo per approfondire attraverso queste notizie la conoscenza di Cristo, vivo in mezzo a loro.

Lo stesso succede quando si fa amicizia con qualcuno.
Quello che ci interessa è la persona dell'Altro.

Ma, col crescere dell'amicizia, cresce anche il desiderio di conoscere meglio l'amico.

Ed allora, è molto naturale che si entri in contatto con la sua famiglia, con i suoi genitori, che si cerchi di sapere come viveva, che studi ha fatto, quale sia stata la sua infanzia.

Tutto questo, però, ha un solo scopo:
conoscere meglio l'amico, le sue esigenze, le sue aspirazioni, per rendere più intensa l'amicizia con lui, 'oggi'.

Perciò le lettere di san Paolo e gli Atti degli Apostoli, che ci tramandano il modo di vivere dei primi cristiani, nei primi tempi, rispetto a Cristo, ci dicono che si polarizzavano in Cristo e nella sua presenza, viva in mezzo a loro.

Per loro era sufficiente questa presenza viva e amica, che conquistava il cuore di tutti.

Era la Buona Novella, il Vangelo.

Mano a mano, però, che l'esperienza di fede in Cristo si faceva più profonda, vollero sapere di più su di lui e incominciarono a ricercare, nel passato, quello che lui aveva detto, aveva fatto e insegnato.

Erano spinti a farlo dalle difficoltà della vita cristiana, dal momento che l'incontro con Cristo vivo aveva imposto alla vita una nuova direzione, trasformando tutto e provocando in loro una vera e propria 'conversione'.

Avevano bisogno di sapere come comportarsi nella vita nuova.

Incominciarono allora a spingersi nel passato di Cristo, non a causa del passato in se stesso, ma a causa del presente, in cui si scontravano con tante difficoltà e condividevano la vita con Cristo.

Era il bisogno di sapere meglio che cosa Cristo volesse, chi fosse, da dove venisse e che cosa promettesse.

Questa indagine sul passato ebbe il suo momento alto nel vangelo di san Giovanni, che andò a ritroso, fino a prima della creazione del mondo (Gv. 1, 1), illuminando il significato di quel Gesù, vivo in mezzo a loro, non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini e per l'universo intero.

Chi si mette a leggere i Vangeli, con il solo scopo di trovarvi storia, dottrina, verità, morale e alcuni elementi per le cerimonie, non li sta leggendo con la stessa ottica con cui furono scritti.

La lettura dei vangeli esige, in coloro che li leggono, una disposizione fondamentale:
la convinzione dell'amicizia con Cristo vivo, oggi, in pieno secolo XXI. Per conoscere questo Cristo, per sapere che cosa lui vuole da me, ho bisogno di leggere i Vangeli.

Il Vangelo, o «Buona Notizia», non è anzitutto dottrina, non è cerimonia, non è un libro, non è morale, non è storia, non è un insieme di verità, ma è Qualcuno:
Gesù Cristo; «per me, vivere è' Cristo», questa è la radice, il resto è ramo e fiore.

Senza la radice, tutto il resto secca e imputridisce.

Ma, anche una radice senza ramo e senza fiore, non esiste!

La dottrina ha senso solo in rapporto con la persona di Cristo, da cui è nata.
Altrimenti, diventa un insieme astratto di verità, imparate a memoria, senza sapere a che servano.

La morale cristiana ha senso ed è cristiana, solo se sta in rapporto con questo amico, vivo e presente nella nostra vita.

Altrimenti, diventa un insieme di odiosi precetti.

Perché si è impegnato con Cristo, il cristiano compie il suo dovere.

La storia suscita interesse solo quando parla di un amico.

Chi si interessa, per esempio, di insegnare a tutti la storia di Giulio Cesare?

La cerimonia ha senso, solo se siamo amici di quella persona.

Non si festeggia il compleanno di uno sconosciuto.

Ma, se si tratta di un amico, non manca nessuno.

Il libro ha senso, solo se parla di una persona conosciuta.

Non si conservano fotografie di uno sconosciuto.

Infine la verità interessa soltanto quando mi rivela qualche cosa che si riferisce a un amico.
Conferma l'amicizia che ci lega.

La radice e il tronco da cui deriva tutto il resto, è la persona di Gesù Cristo.
L'interesse lo provoca lui.

Soltanto la persona è capace di portare alla conversione ed alla trasformazione, non la dottrina astratta.

Il Vangelo, prima ancora di essere un libro scritto, è una realtà viva e personale.

Gli scritti di Matteo, Marco, Luca e Giovanni si propongono soltanto di illuminare il Vangelo vivente.

Se il Vangelo non è vivo nella vita, a poco o niente servono i quattro vangeli.

Sarebbero come le corde della chitarra senza la cassa di risonanza, come la carta geografica che segnasse i contorni di una regione inesistente.

Sarebbero una cosa fittizia.

Forse, sta proprio qui la ragione dell'attuale crisi:
ci manca l’esperienza della radice; insistiamo troppo sui rami, dei quali non si vede chiaro il punto d'innesto sulla radice.

Una 'notizia' diventa 'buona', quando corrisponde ad una speranza, viva dentro di noi.

Chi ha tutto, chi non ha bisogno di niente, chi è pienamente soddisfatto, per costui nessuna notizia è buona, perché non aspetta più nulla.

Non è capace di vibrare con niente.

Forse il fatto di vivere tranquilli e accomodati, in una religione che ci va a genio, pensando che va tutto bene, è proprio la causa per cui la 'notizia' di Cristo, vivo tra noi, non è più, per noi, la «buona notizia».

Anzi, diventa 'scomoda', perché mette in evidenza, deficienze e limitazioni nella vita personale e sociale, che preferiremmo ignorare.

In questo caso, la «Buona Nuova» si rivolta contro di noi e diventa causa di giudizio, come lo fu per i Farisei (cf. Gv. 3, 19, 21).



SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XI (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

origine dei quattro vangeli:
dal «vangelo» ai quattro «vangeli»







4. Paragone tra i quattro Vangeli


Un altro aspetto curioso dei quattro Vangeli merita la nostra attenzione e può aiutarci a capirne meglio la finalità, rispetto alla nostra vita.

Molte frasi, discorsi, fatti e miracoli di Gesù sono raccontati contemporaneamente nei quattro Vangeli o, almeno, nei tre così detti sinottici (Mt. Mc. Lc.).

Mettendo a confronto queste descrizioni, si notano molte differenze, come abbiamo detto sopra.

Alcuni esempi!

II Padre nostro:
Matteo lo considera parte del Sermone della Montagna (Mt. 6, 9-13), mentre Luca lo riferisce ad un'altra occasione (Lc. 11, 1-4).

Chi ha ragione?
In Matteo prevale la preoccupazione catechetica.
Si potrebbe dire che scrive per aiutare i professori di religione.

Per questo ha facilitato le cose, ed ha riunito, in un unico discorso, tutto quello che si riferisce alla preghiera (Mt. 6, 5-150).

La parabola della pecorella smarrita è raccontata da Matteo,come espressione dello zelo apostolico (Mt. 18, 12-14) e, da Luca, come espressione dell'amore misericordioso di Dio, che va in cerca dei peccatori (Le. 15, 3-7).

La Trasfigurazione:
Matteo parla di volto splendente come il sole e di nuvola luminosa (cf. Mt. 17, 2-5).

Ci ricorda Mosè quando, sul Monte Sinai, avvolto da una nuvola luminosa, aveva il volto splendente e dettava al popolo la legge antica.

Matteo, dunque, presenta Gesù come un nuovo Mosè, che dà agli uomini la legge nuova.

La legge è Gesù Cristo, presentato dal Padre, che dice:
«questo è il mio Figlio amato:
ascoltatelo!» (Mt. 9, 31).

Luca, invece, a proposito della trasfigurazione, dice che Elia e Mosè parlavano con Gesù della passione e morte (Lc. 9, 31) e racconta il sonno degli apostoli (Lc. 9, 32).

Pensa all'agonia del Getsemani, quando Gesù si confrontava con la passione e gli apostoli se la dormivano (cf. Lc. 22, 40-46).

La passione di Cristo ebbe inizio quando Egli stesso decise di soffrire, al momento della trasfigurazione.

E potremmo continuare, moltiplicando gli esempi.

Ma l'importante è che gli evangelisti non si propongono di tramandarci letteralmente le parole di Gesù.

A loro importano, soprattutto, i lettori, che leggeranno le parole di Gesù.

La vita di questi deve essere raggiunta dalla Parola di Dio!
Perciò ogni evangelista presenta le cose nel modo che crede più efficace, per raggiungerli.

Per conseguenza non è possibile leggere i Vangeli, come se non avessero niente a che vedere con la nostra vita.

Non possiamo limitarci a spiegare i testi e fermarci lì.
Bisogna legarli alla vita che viviamo.

C'è chi pensa che la fedeltà consista nel conservare la verità cosi come sta, senza cambiare nulla.

Basta ripetere sempre le stesse cose.

Se, poi, la verità corrisponde o no alle esigenze della vita, poco importa.
A loro interessa solo di conservare la verità ortodossa.

Si perdono in discussioni, il più delle volte inutili. Non servono a niente, se non riflettono la verità della vita!

Per gli evangelisti, professare la vera fede significava:
essere sempre pronti a cambiare la vita, se Gesù lo avesse chiesto.

Fedeltà, non era solo il contenuto del 'credo', con cui si faceva
la professione di fede.

Proprio per questo, agli evangelisti non importa tanto di copiare, scrupolosamente, alla lettera, le parole e i fatti della vita di Gesù, ma di presentarli in modo tale che il lettore possa capire che questo fatto o questa parola sta in stretto rapporto con la vita.

Chi legge i Vangeli per istruirsi e non per viverli, si trova fuori dalle finalità del Vangelo.

La prima preoccupazione degli evangelisti è stata inserire il messaggio di Cristo nella vita del lettori.

E poiché i lettori dell' Asia sono differenti da quelli dell'Italia o della Palestina, ogni evangelista esponeva i fatti della vita di Gesù in modo differente.

Non si preoccupavano della storia o del passato, ma della vita presente dei cristiani.

Non ebbero, certo, molti scrupoli nel modificare un po' il senso letterale delle parole di Gesù, purché i lettori arrivassero a coglierne il messaggio.

Come loro, misero in costante collegamento la 'realtà' di chi leggerà e il «messaggio del Vangelo»;
così chi oggi vuole leggere i Vangeli deve necessariamente avere la stessa preoccupazione:
collegare «la realtà di chi legge» e il «messaggio dato dai Vangeli».

Altrimenti, saremo come colui che «ascolta la parola di Dio e non la mette in pratica» (Mt. 7, 26).






5. Origine dei Vangeli: dal Vangelo ai quattro Vangeli


Dopo tutto quello che abbiamo visto fin qui, possiamo, con più facilità, descrivere l'origine dei vangeli.

Non si deve pensare che un bel giorno lo Spirito Santo sia sceso giù e abbia chiamato quei quattro uomini, perché scrivessero, sotto dettatura.

Tutto il contrario.

Gesù ordinò loro di non scrivere niente, ma li inviò a predicare e ad annunciare la Buona Novella della sua morte e resurrezione:
si fece uomo come noi, amico ,di tutti, per portare tutti sulla strada della vita e manifestare a tutti il vero senso della vita quotidiana.

Ne abbiamo certezza, perché Lui risuscitò e vive in quelli che credono in lui.

Questa è la Buona Notizia, è questo il Vangelo.

Gli apostoli lo predicavano e lo annunciavano a tutti:
Cristo è vivo in mezzo a noi, per aiutarci a scoprire il senso della vita.

La predicazione cominciò con la Pentecoste.

Basta scorrere appena gli Atti degli Apostoli per farsi un'idea di come andarono le cose.

Molta gente aderiva al messaggio, aderiva alla persona di Gesù Cristo che apriva una prospettiva nuova di vita.

Si manifestava concretamente nell'esperienza dell'amore e della carità.

Da ogni parte sorgevano comunità ferventi di persone chiamate «cristiani» (Atti 1l, 26) perché credevano in Cristo.

I ‘cristiani' si trasformarono, radicalmente, nel modo di affrontare la vita.

Proprio per questo erano carichi di un'infinità di problemi e di necessità:
come fare per comunicare la fede agli altri (perché chi scopre una cosa buona sente il bisogno di comunicarla agli altri)?

Come giustificare la fede, di fronte alle accuse degli altri giudei e pagani?

Possiamo continuare ancora ad osservare l'antica legge?

Come risolvere i problemi interni della comunità:
possiamo ricorrere ai tribunali civili?

Come organizzare il nostro culto?

Come celebrare, in comune, le cose che ci interessano e che costituiscono, adesso, la gioia della nostra vita?

Quale deve essere il rapporto fra i membri della comunità?

Soprattutto, dal giorno in cui aderirono a Cristo, nacque in loro un grande amore per lui e un bisogno di conoscerlo meglio, per scoprire, sempre di più, la sua funzione nel piano di Dio.

Cercavano risposte a tutte queste domande ben concrete, che si riferivano alla vita concreta di ogni giorno.

Ricorrevano agli apostoli, e questi si ricordavano delle cose che Gesù diceva e faceva.

Fu così che, dentro la comunità dei cristiani, incominciarono a circolare un gran numero di racconti su Gesù:
pezzi di discorsi, storie di miracoli, descrizioni di fatti della vita di lui e frasi isolate, che Lui aveva detto, in differenti occasioni.

Con questi racconti, fatti dagli apostoli, in risposta alle loro domande, i cristiani cercavano di orientarsi nella vita nuova.

Poco a poco, come succede sempre, ci fu chi mise insieme le frasi di Gesù, per facilitarne la memorizzazione e per conservarle.

Qualcuno fece la collezione dei miracoli, altri cercarono di catalogare le discussioni di Gesù con i farisei (servivano da falsa-riga, per risolvere le loro discussioni con i giudei).

Più tardi, quando gli apostoli incominciarono a sparire, morendo, uno dopo l'altro, i cristiani sentirono il bisogno di fissare sulla carta quello che correva, di bocca in bocca, sulla vita di Gesù, tramandata
dagli apostoli.

Fino a che, finalmente, quattro persone, in luoghi ed epoche differenti, (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) decisero di mettere insieme, ciascuno per conto suo, in un solo volume, tutto, quello che potevano raccogliere e ricordarsi a riguardo di Gesù (cf. Lc. 1, 1-4).

Nel loro lavoro, la nostra fede riconosce l'azione dello Spirito Santo, fino al punto di vedere, nella parola dei Vangeli, la Parola di Dio.

Si deduce, allora, che gli evangelisti non solo descrivono i fatti della vita di Gesù, ma riflettono, allo stesso tempo, la preoccupazione dei primi cristiani, che cercavano risposte ai loro problemi di ogni giorno, riguardanti la testimonianza della fede.

Senza l'interesse, che i primi cristiani avevano di vivere la loro fede nella pratica della vita, i Vangeli non sarebbero mai stati scritti.






6. Risposta alla domanda iniziale


Le informazioni del dizionarietto popolare hanno ragione o no?

Come definire il Vangelo?

Dottrina?

Libro?

Cerimonia?

Morale?

Verità o Storia?

La risposta è già stata data e possiamo riassumerla così:
il Vangelo è, anzitutto, una vita nuova, sbocciata nell'uomo dalla sua adesione a Cristo.

Questa è la grande verità che provoca una conversione, da cui deriva un nuovo comportamento morale.

Dalla riflessione su questa realtà deriva la dottrina, che, messa per scritto, genera il libro e, dalla celebrazione della vita comunitaria, sorge il culto con la cerimonia.

Fondamento di tutto è la storia di Gesù di Nazareth, che nacque e visse durante 33 anni, morì assassinato e risuscitò.

Continua oggi, presente e attuante in coloro che si aprono a Lui
con la fede.

La storia è il fondamento, ma non solo la storia di Gesù.

Anche la nostra storia oggi, qui.

La nostra storia attesta la veracità del Vangelo in cui crediamo.
Non occorre parlare molto, se poi, nella vita, non si vede niente, se poi noi non risuscitiamo ad una vita nuova, che tutti possono vedere.



SEGUE.....




[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XII (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

il discorso della montagna:
consiglio, legge o ideale?







1. Alcune notizie per ambientare il discorso di Gesù


Il cosiddetto «discorso della montagna» si trova nei capitoli 5, 6, 7 del Vangelo di Matteo.

Si chiama «discorso della montagna» perché, secondo Matteo, Gesù usò come pulpito un'altura che si trovava in quei paraggi.

Dice il Vangelo:
«Gesù, vedendo la folla, salì sulla montagnola.

Si sedette, e i discepoli gli si strinsero intorno.

Prese allora la parola, e li educava dicendo...» (Mt. 5, 1).
Con queste poche parole l'evangelista dipinge lo sfondo del quadro, su cui si stagliano le lettere luminose del discorso rivoluzionario.

«Il discorso della montagna», che invita tutti a leggerlo, ad ascoltarlo, meditarlo.

Il discorso della montagna è il primo dei 5 grandi discorsi di Gesù, nel Vangelo di Matteo.

Matteo vi ha raccolto tutto quanto si riferisce all'entrata nel regno di Dio:
chi può entrare nel Regno, a quali condizioni, come ci si deve comportare per appartenervi.

Gli altri discorsi trattano rispettivamente della diffusione del Regno attraverso la predicazione apostolica (Mt. 10), del «Mistero del Regno» nascosto nelle parabole (Mt. 13), della convivenza reciproca nel Regno (Mt. 18) e della manifestazione finale del Regno (Mt. 24-25).

Il discorso della montagna si divide in tre parti:

1/ Le Beatitudini (Mt. 5,1-12), che definiscono i membri del Regno di Dio.

2/ Il modo di vivere degli uomini, che fanno parte del Regno (Mt. 5, 13 fino 7, 2).

3/ Le conclusioni finali (Mt. 7, 13-27), in cui Gesù insiste molto sulla prassi e non solo sulla mentalità e l'intenzione.

Quanto al modo di vivere, descritto nella seconda parte, si distingue così:

1/ funzione dei membri del Regno, in mezzo al mondo: essere sale della terra e luce del mondo (Mt. 5, 13-16).

2/ Lo spirito che li muove dev'essere differente dallo spirito che anima i farisei (Mt. 5, 17-20).

3/ Con 6 esempi contrari, Gesù definisce la vita del cristiano, rispetto all'Antico Testamento (Mt. 5, 21-48).

4/ Gesù precisa quale spirito deve animare i 3 grandi esercizi di pietà: elemosina, preghiera, digiuno (Mt. 6, -1-18).

5/ Spiega come ci si deve comportare rispetto ai beni di questo mondo (Mt. 6, 19-34).

6/ Descrive i rapporti reciproci (Mt. 7, 1-5) con quelli che «non sono niente» (Mt. 7, 6) e con Dio (MI. 7, 1-5).

Finisce con la cosiddetta «regola d'oro» (MI. 7, 12).






2. Tre difficoltà per chi legge il discorso della montagna


1/Sembra che Gesù metta tutto a testa in giù:
per Lui la felicità è dei poveri e degli afflitti, degli umili e dei perseguitati.(Mt. 5, 3-12).

Dice che è venuto per completare la legge (Mt.5, 17) e allo stesso tempo ordina cose impossibili (cf. Mt. 5, 22.48).

2/ Se è vero che il discorso della montagna indica la strada della felicità, possiamo pure rinunciarci:

non arrabbiarsi mai con gli altri (Mt. 5, 22);

non offendere mai il fratello (Mt. 5, 22);

non rimanere alla messa se un altro ha qualcosa contro di me ma, prima, fare la pace (Mt. 5, 23-24);

non guardare mai una donna con desiderio di possederla (Mt. 5, 28);

non giurare mai (Mt. 5, 37);

non opporre resistenza al malvagio e, se ti dà, uno schiaffo sulla guancia destra, presentagli l'altra guancia (MI. 5, 39);

dare anche la camicia a chi vuol portarti via la giacca (Mt.
5, 40);

amare i nemici (Mt. 5, 44);

perdonare sempre (Mt. 6, 12);

non fare niente per essere visto dagli altri (Mt. 6, 1);

avere tanta fiducia in Dio che diventino superflue perfino le parole della preghiera (Mt. 6, 5-8);

non mettere da parte denaro (Mt. 6.19);

scegliere tra Dio e il denaro (Mt. 6, 24);

non preoccuparsi del cibo, della bevanda e del vestito e vivere come i passerotti, senza alcuna preoccupazione (Mt. 6, 25-31);

non giudicare mai nessuno (Mt. 7, 1-2);

fare agli altri quello che vorresti che fosse fatto a te (Mt. 7, 12);

insomma essere perfetto come è perfetto il Padre che sta nel cielo
(Mt.5, 48).

È mai possibile osservare tutto questo?

È possibile che si arrivi al punto di dire:
«ho fatto tutto.
Sono perfetto, come è perfetto il mio Padre?».

3/Luca riferisce lo stesso discorso.
Ma in modo molto differente da Matteo.

Leggiamo nel Vangelo di Luca 6,20-49:

1/ Non fu su di una collina, ma in pianura (Lc. 6, 17).

2/ Le beatitudini sono 4 e non 8, come dice Matteo (Lc. 6, 20.22).

3/ Inoltre, ci sono 4 maledizioni, che mancano in Matteo (Lc. 6.24, 26).

4/ Molte cose che Matteo registra, Luca le omette, per esempio:
manca il Padre Nostro e non ci sono neppure certi esempi che si esprimono per contrasto, non dice niente del sale della terra e della luce del mondo (ne parla altrove) ecc.

Si tratta proprio dello stesso discorso?

In caso affermativo, quale dei due evangelisti ha ragione?







3. Soluzioni proposte


Prima difficoltà:
«Gesù colloca tutto a testa in giù».

Non solo nel discorso della montagna, ma in molte altre cose dette da Gesù:

gli ultimi saranno i primi, i primi saranno gli ultimi (Mc.10, 13);

il più piccolo è il più grande (Lc. 9, 4-8);

perdere la vita per guadagnarla, ma perde la vita chi vuol guadagnarla (Mt. 16, 25);

peccatori, pubblicani e prostitute, alle porte del Regno, hanno la precedenza sui farisei, sui giusti (Mt. 21, 31) ecc.

Siamo così abituati a queste espressioni, che neppure ci accorgiamo della minaccia che nascondono contro la nostra sicurezza, che si appoggia su cose e valori, da noi stessi creati e tenuti in piedi.

Le abbiamo già sentite tante volte, e così poca gente le prende sul serio!

Sembra perfino che non siano vere!

Conservano la parola di Gesù, come si conservano nei musei spade e cannoni:
belli a vedersi e ad ammirarsi, ma, oramai, non fanno più paura a nessuno.

Sono stati messi fuori combattimento.

La stessa cosa succede al crocifisso.

Sta dappertutto;
case, bar, negozi, uffici, distributori di benzina, parlamento, luoghi dove si fa la giustizia e l'ingiustizia.

Fa parte dell'arredamento, come fa parte del pranzo il caffè espresso che si usa prendere alla fine.

Non ci accorgiamo nemmeno più che si tratta di un uomo torturato e legalmente assassinato, per un ideale che non ha voluto rinnegare.

Anche le parole del discorso della montagna sono incorniciate ad arte e riposte nel cotone.

La parola di Dio, questa spada a due tagli (Ebr. 4, 12), non ferisce più.

La sua azione è controllata e neutralizzata.

La nostra coscienza non si scomoda per lei.

Facciamo della parola di Dio quello che la pubblicità, al giorno d'oggi, fa delle idee nuove che sorgono:
se ne impadronisce e poi le butta sul mercato.

In questo esatto momento l'idea nuova non scomoda più, perché è stata messa a servizio degli interessi di coloro che non vogliono essere scomodati.

Soluzione facile e frequente, che riduce la parola di Dio alle dimensioni della nostra.

Quanto alla seconda difficoltà:

è possibile osservare il discorso della montagna?

Non è da oggi che i cristiani vedono il problema e cercano di risolverlo.

Ecco alcune delle risoluzioni proposte, dai tempi antichi fino ad oggi.

1/Il discorso della montagna è solo per una piccola élite.

C'è chi pensa così:
«quello che Gesù dice nel discorso della montagna non può essere per tutti!

È impossibile».

Ne deducono che il discorso della montagna deve essere inteso, non come legge universale, valida per tutti, ma come consiglio diretto ai più generosi, a quelli che ne sentono la vocazione.

Il gruppo scelto si limiterebbe ai vescovi, ai preti, ai religiosi e a qualche laico di azione cattolica.

Per la grande massa della gente comune basterebbero i dieci comandamenti, che sono anche troppo.

Non si dovrebbe esigere dai laici quello che Gesù propone nel suo discorso.

Opinione molto comune tra i cattolici, non come teoria ufficiale, ma come pratica della vita.

2/Il sermone della montagna deve essere spiegato e osservato} come qualunque altra legge.

Gesù è un Dottore della Legge.

Sarebbe venuto per codificare, in un modo nuovo, i comandamenti della Legge di Dio.

Anzi, Lui stesso disse che era venuto, non per annullare la legge, ma per completarla (Mt. 5, 17).

Il discorso della montagna è una legge} e deve essere applicata come un'altra qualunque.

Davanti ad una legge è proprio inutile lamentarsi e dire:
«è troppo difficile per me».

Davanti al tribunale, non vale la scusa:
«io non sapevo che questa legge esistesse».

Oppure:
«non l'ho osservata, perché una legge del genere,per me, è impossibile».

Tutti i cittadini devono agire in modo da stare sempre nella legge e la legge dalla parte del cittadino.

Perché, così, chi giudica non può procedere contro di lui;
e lui, con l'osservanza della legge, ha di che difendersi contro chi giudica.

L'osservanza del discorso della montagna cominciò ad essere, per molti, un mezzo di difesa contro Dio legislatore.

Si fecero studi profondi:
come fare, perché il cristiano non si senta condannato dal discorso della montagna?

Come fare per osservarlo integralmente?

Come fare perché il cristiano possa avere sempre la coscienza tranquilla e sentirsi nella legge, ed essere difeso dalla legge?

L'eccesso del raziocinio fece cadere molta gente nel cosiddetto legalismo, o casistica.

Il discorso della montagna sarebbe come il programma della televisione, che fa propaganda dell'utilitaria a rate:

«l'automobile è tua!
portatela a casa, oggi stesso!»
ossia, «il Regno di Dio è tuo!
beati i poveri!» (Mt. 5, 3).

Ma, sia nell'uno che nell'altro caso, le cose sono così difficili che né l'utilitaria né il Regno usciranno mai dalla vetrina.

Si tratta solo di una réclame (o promessa) o nient'altro.

3/Il discorso della montagna si propone di provocare alla penitenza.

Lutero tentò di osservare il discorso della montagna come se fosse una legge, ma non ci riuscì e finì col domandarsi...
alla fine, perché Cristo è venuto?

Per facilitare o per complicare la salvezza?

Per aprirci alla speranza o per precipitarci nella disperazione?

Lutero si accorse che mai e poi mai un uomo, per quanto si sforzasse, sarebbe stato capace di osservare quello che Cristo propone nel discorso della montagna.

Ma allora, perché il Cristo pronunciò il discorso della montagna?

Lutero si rispose così:
col discorso della montagna Gesù cercò di convincere gli uomini, una volta per tutte, che noi, con le nostre forze, non riusciremo mai a realizzare quello che Lui ci chiede.

Se Dio si fosse messo a esigere da noi tutto quello che doveva, avremmo potuto rinunciare definitivamente alla salvezza e andarcene diretti alla dannazione, senza biglietto di ritorno.

Perché ce lo mettessimo bene in testa, Cristo usò la pedagogia del discorso della montagna.

Là sta scritto quello che avremmo dovuto essere, ma che non saremo mai, né potremmo esserlo.

Gesù, a bella posta, ci ha proposto un ideale divino, assolutamente impossibile a noi.

Il discorso della montagna servirebbe per farla finita con l'orgoglio dell'uomo, di fronte a Dio.

Il fine sarebbe duplice:

anzitutto, l'uomo posto davanti a tali esigenze, dispera di poter raggiungere la salvezza con le sue sole forze;

è costretto a riconoscere la sua miseria e la sua radicale impotenza a salire, da solo, la scala del cielo.

In secondo luogo, il discorso della montagna serve a portare l'uomo a gettarsi nelle braccia della misericordia di Dio e a dire col pubblicano:

«Signore, abbi pietà di me, che sono solo un povero peccatore» (Lc. 18, 13).

L'uomo deve aspettarsi la salvezza esclusivamente da Dio e non dai suoi sforzi.

Dio gliel'ha promessa, perciò, si è compromesso a dargliela.

Dio non inganna.

Perciò l'uomo non deve fidarsi delle sue forze, perché le sue forze non sono capaci di conquistare niente.

Il discorso della montagna servirebbe solo a condurre l'uomo a Cristo, riconoscendo in Lui l'unico salvatore.

4/ Gesù non ha dato una legge) ma ha insegnato una mentalità.

L'opinione è oggi accettata da molti.

Attraverso un insegnamento molto concreto, servendosi di esempi e di fatti, Gesù ci starebbe educando ad una nuova mentalità.

Per esempio:
«Chi si adira col suo fratello, dovrà comparire davanti al tribunale,) (Mt. 5, 22) non sarebbe una legge che proibisce, anzi, non arriverebbe neppure a essere una legge, ma appena una maniera concreta di dire che chi crede in Gesù dovrebbe avere una mentalità tale che gli fosse impossibile anche la più piccola mancanza contro la carità.

È molto differente considerare il discorso della montagna come legge, come consiglio, come mentalità, o come esigenza reale ma impossibile.

La differenza che esiste fra le varie opinioni dice chiaramente che non si tratta di un problema di facile soluzione.

Vedremo, più avanti, che pensare di tutto ciò.

Il fatto è che le diverse opinioni ebbero grande influenza nella vita dei cristiani e, fino a oggi, influiscono sulla vita di molta gente.

Si disse:
«È una legge».

Ne risultò quell'infinità di regole e osservanze, tutte imposte in nome di Cristo, che misero tanta gente in angustia, in ribellione, per tutta la vita, senza capire un'acca dell'amore di Dio e del senso della vita.

Per loro, il Vangelo - che vuol dire «felice notizia» - di «felice notizia» aveva solo il nome.

Invece di pace e tranquillità, causava, e causa tuttora, angustia e disperazione di coscienza.

Per questo, molta gente non ne vuol più sapere di religione.

Si disse:
«è un consiglio».

Ne risultò quell'abitudine di predicare al popolo solo la morale dei l0 comandamenti.

Poco o niente ne sa il popolo dell'ideale del Regno di Dio.

La promessa del Vangelo non lo attraeva.

Agiva più per interesse e per paura.

Per non perdere il cielo, dopo la morte.

Si disse:
«È un mezzo per chiamare a penitenza».

Ne derivò quell'atteggiamento cristiano che non vede la terra che ha sotto i piedi e guarda solo al cielo, aspettando che le cose succedano senza la sua partecipazione.

Dio faceva tutto da sé;
l'opera dell'uomo era inutile;
Dio diventa il fac-totum.

Molti cristiani non vedevano neppure il rapporto tra Vangelo e lavoro, per trasformare il mondo e renderlo migliore.

Per loro il mondo è una porcheria, non serve a niente, neppure per comprarsi il cielo.

Non si disse, ma si pensò:
«sono soltanto belle parole! ».

E la religione e la fede furono soltanto una bella cornice messa intorno alla vita.

Restarono al margine, dove realmente scomodavano la coscienza degli uomini.

Fede e vita si separarono definitivamente.

Si disse «È una mentalità».

Ne derivò un atteggiamento vago, che non significa niente.

Ciascuno va dietro al suo capriccio, con piena libertà.

Si nega il bisogno della Scrittura e delle norme;
il Vangelo è tutt'altra cosa.

Non è facile trovare il punto giusto, da cui si possa valutare e capire tutta la profondità del messaggio racchiuso nel discorso della montagna.

Quanto alla terza difficoltà:

«perché Luca fa un discorso tanto differente?»
la risposta è stata data, in parte, nel capitolo precedente.

Basta fare alcune osservazioni.

Matteo scrive per i giudei convertiti.
Per questo, mise insieme frasi e discorsi di Gesù, che formassero una sintesi del messaggio del Vangelo, accessibile a loro.

Si capisce, allora, il continuo confronto tra l'Antico e il Nuovo, nel capitolo V.
Interessava i giudei convertiti.

Luca scrive per i pagani convertiti.
Ad essi non interessava tanto il confronto tra la morale instaurata da Gesù e la morale dell'Antico Testamento, per cui Luca lo omette del tutto, e conserva appena quello che interessa ai suoi lettori.

Segue l'esempio di Matteo:
sintetizza il pensiero di Gesù, non per i giudei convertiti,
ma per i pagani convertiti.

Ambedue cercano di essere fedeli al Vangelo:
il Vangelo si propone di «convertire» e provocare un cambiamento nella vita.

La fedeltà al Vangelo esige che il messaggio di Cristo sia presentato in modo tale che raggiunga la persona nella sua vita concreta.

La vita concreta dei pagani convertiti era differente da quella dei giudei convertiti.

In nome della fedeltà, le parole di Gesù dovevano essere presentate in modo differente all'una e all'altra categoria di persone.

Inoltre, bisogna ricordarsi che Matteo aveva di mira i «professori di religione».

I professori di religione, in generale, non hanno né tempo né modo di fare una sintesi della materia.

Vanno sempre in cerca di un manuale, dove possano trovare raccolto tutto quello che si può dire su uno stesso argomento.

Matteo si incaricò di farlo, e riunì, sotto forma di discorso, tutto quello che si riferiva al comportamento necessario per entrare a far parte del Regno.


SEGUE..

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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XII (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

il discorso della montagna:
consiglio, legge o ideale?






4. La vita di una persona spiega e dà senso alle parole che dice



In mezzo a tante opinioni contrastanti, non è facile definire quale fu il genuino pensiero di Gesù!

L'esegeta corre sempre il rischio di presentare le sue idee personali, come se fossero di Gesù.

Tuttavia è pur necessario fissare dei criteri che ci aiutino a vedere con chiarezza come orientare la nostra vita.

Perché quello che diremo non sia soltanto il nostro pensiero, ma corrisponda davvero a quello che il Vangelo ci dice di Gesù, credo che sia indispensabile situare il discorso della montagna dentro l’ambiente generale della vita di Gesù e vedere come Lui viveva e praticava ciò che insegnava e proponeva agli altri.

La vita di Gesù ci darà la chiave per aprire la porta che ci introduce dentro il discorso della montagna.

Per esempio:
Gesù disse che non ci si deve arrabbiare (Mt. 5, 22), ma Lui andò su tutte le furie e non una sola volta (Mt.3, 5).

Arrivò al punto di fare una frusta e cacciare i venditori dal tempio (Gv. 2, 5).

Gesù disse che non si possono insultare gli altri ma Lui stesso insultò e usò parole molto forti contro gli altri:
«Ipocriti» (Mt. 23, 27),
«Figli di assassini» (Mt. 23, 31),
«Sepolcri imbiancati» (Mt. 23, 27),
«Serpenti! Razza di vipere» (Mt. 23, 33).

Disse che bisogna dare la guancia destra a chi ti percuote sulla sinistra (Mt. 5, 39).

Ma Lui stesso, quando ricevette uno schiaffo, non offerse l'altra guancia.

Anzi, protestò energicamente e reagì con decisione:
«se ho parlato male, dimostramelo;
e se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv. 18, 23).

Disse che non dobbiamo preoccuparci col mangiare, col bere, col vestire, ma Lui aveva con sé i 12 apostoli che pensavano a tutto (Mt. 16, 7).

E anche un gruppo di «pie donne» che «gli davano assistenza con le loro sostanze» (Lc. 8, 3).

Disse che non si devono giudicare gli altri (Mt. 7, 1), ma Lui li giudicò quando disse al popolo:
«Fate tutto quello che i Farisei vi dicono, ma non imitate le loro opere, perché loro dicono, ma non fanno» (Mt. 23, 3).

Non si può ignorare questo modo di vivere di Gesù, quando vogliamo spiegare il vero senso delle sue parole.

Dalla vita ci vengono gli elementi per spiegare il vero senso delle parole.

Vita vissuta e parola pronunciata sono come la cassa di risonanza e le corde:
formano un tutto inscindibile, l'unità della chitarra che trasmette la musica e il messaggio del discorso della montagna che arriva fino a noi.

Inoltre, succede oggi al discorso della montagna, lo stesso fenomeno che si verificò con la persona di Gesù Cristo:
si danno molte opinioni, tra le più disparate, ma nessuna riesce ad esprimere tutta la realtà.

Tutti si sentono in dovere di dare pareri ma nessuno coglie nel segno: non è una legge, non è per una é1ite, non è per gettarci nella disperazione, non è solo una cornice, né soltanto una mentalità... Ma, allora, che è?

La stessa cosa accadde anche a Gesù.

Tutti lo conoscevano, l'avevano sentito parlare e davano pareri su di Lui.

Alcuni erano perfino molto belli, ma erano come le bolle di sapone dai mille colori:
appena le tocchi, svaniscono.

Una volta Gesù riunì i suoi discepoli, per fare un'indagine sull'opinione del popolo a suo riguardo:
«Chi dicono che io sia?» (Mc. 8, 23).

Risultato spaventoso:
nessuno ci indovinava.

Chi diceva che era Giovanni Battista o Elia, chi pensava che fosse un profeta (Mc. 8, 28).

Mettendo insieme le opinioni, sparse lungo i vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento, si nota la grande varietà dei giudizi dati su Gesù e sul suo messaggio:
«uomo di Dio» (Gv. 3, 2),
«agitatore che sovverte il popolo» (Lc. 3, 2),
«il profeta Geremia» (Mt. 16, 14),
«il profeta promesso e atteso» (Gv. 6, 14),
«un pericolo permanente per il popolo» (cf. Gv. Il, 47-50),
«un distruttore delle sante tradizioni» (Mt. 26, 61),
«un uomo che non viene da Dio, perché non osserva il sabato» (Gv. 9, 16), «pazzia e scandalo» (1 Cor. 1, 18.23),
«mangione e beone, amico dei pubblicani e peccatori» (Mt.11, 19),
«il Messia o Cristo» (Mc. 8, 29).

In fondo in fondo, ciascuno giudica Gesù da quello che ne sa, da quello che è e che vuole.

Lo riducono alle dimensioni dei loro pensieri.

Cristo, là dentro, ci sta stretto.

Sta stretto negli schemi inventati da noi.

Prima o poi, li fa crollare tutti, con la forza del Nuovo, che è Lui.

Come si vede, accadde a Gesù quello che sta accadendo al discorso della montagna.

Ma perché nessuno ci indovina?

Forse un esempio popolare, preso dalla vita quotidiana, può aiutarci a capire il problema:

Cento anni fa, un povero contadino, un giorno, andò in città e per la prima volta vide un aereo:

«una grande carcassa di ferro lucente, con due grandi ali, che si alzava da solo da terra e volava».

Tornando al suo paesetto, dove nessuno ancora aveva visto, né aveva sentito parlare di aereo, cercò di spiegare che cosa era un aereo.

Quando ebbe finito di parlare, ognuno cercò di dire la sua, per spiegare quello che aveva capito:
«Vola?»
«Vola sì, ma non batte le ali»;

«Fa chiasso?»,
«Altro che!
Ma la voce non esce dal becco»!

«Ha il becco?»
«Sì, ma non lo apre».

«Mangia e beve?»
«Beve la benzina, ma non ha stomaco»

«Digerisce?»
«Sembra di sì, perché tutto il liquido sparisce nel suo ventre, ma non ha intestino»

«Vola da solo?»
«Vola, ma non è vivo» «Ma come è possibile una simile cosa, amico mio! ».

Nessuno riuscì a farsi un'idea esatta di quello che fosse un aereo.

Il poveretto cercò di paragonare l'aereo a tante cose, che i suoi amici conoscevano.

Ma l'aereo era una cosa così nuova, che non c'era verso di paragonarlo, costringendolo ad entrare nelle categorie familiari a quel popolo.

Solo vedendolo con i propri occhi e toccandolo con le proprie mani, avrebbero potuto capire e rendersi conto che cosa fosse quella carcassa meravigliosa, di cui il loro amico parlava con tanto stupore.

Successe così a Gesù e così succede anche oggi al discorso della montagna.

La persona, la vita, le parole di Gesù furono così nuove e differenti che non entravano nella testa del popolo di quel tempo e neppure del tempo nostro.

Cercarono e cerchiamo ancora di paragonarlo a cose e persone di nostra conoscenza:
Giovanni Battista,
profeta,
uomo di Dio,
legge,
causa di disperazione,
consiglio,
mentalità,
cornice.

Ma, tutti i nostri concetti messi insieme non sono capaci di arrivare alla radice, là dove Gesù pensa e agisce.

Non c'è verso di capire chi è Cristo e che senso abbia il discorso della montagna, usando solo le idee, che nascono da noi.

Sputiamo sentenze e non cogliamo nel segno.

Perché, prima di Gesù, Dio mai si è fatto così piccolo, così vicino?

Così umano, così nascosto dentro la vita?

Era così nuovo, che soltanto vedendo e toccando da vicino Gesù in persona, convivendo con Lui, poteva darsi che la mente del popolo si aprisse per capire chi fosse Lui e che senso avesse il discorso della montagna.

Qui sta la chiave per capire il discorso della montagna.

Dove mai ci porterà il «nuovo», incarnato nella vita di Gesù?



SEGUE..






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il discorso della montagna:
consiglio, legge o ideale?






5. Il nuovo che si rivela nella vita e nella parola di Gesù



Esaminiamo tre aspetti, per avere un'idea dell'ambiente in cui situare
il discorso della montagna.

1/L'arrivo di Gesù: la forza dell'amore che trasforma.

Con la venuta di Gesù tra gli uomini le cose sono cambiate.

È' accaduto qualcosa di assolutamente nuovo.
Gesù arriva come il padrone:
caccia l'usurpatore (Lc. 11, 22),
spazza la casa (Lc. 11, 25),
pulisce l'aia (Mt. 3, 12).

La famiglia umana ritrova la pace e il benessere;
i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi odono (Mt. 11, 5),
la gioia, la felicità ritornano a brillare sul viso dei poveri (Lc. 6, 20.21),

gli emarginati, prostitute, peccatori, pubblicani, sono riammessi nel consorzio umano (Mc. 2, 16; Lc. 7, 36-50),
le malattie sono curate (Mt. 8, 16-17; Mc. 6, 56),
la natura non è più una minaccia (Mt. 8, 23-27) e serve l'uomo (Lc. 7, 1-17; Mc. 5, 41-43),

i peccati vengono accusati (Mt. 23, 13-31; Gv. 16, 8-9) e sono perdonati (Mc. 2, 5; Lc. 7, 48),
i deboli sono accolti, senza essere condannati (Gv.8, 1-11),
la giustizia è proclamata (Mt. 5, 10-20; 6, 33),
la sincerità è Proclamata (Mt. 6, 1-6; Mc. 7, 17-23),
la verità è annunciata (Gv. 8, 46),

le barriere cadono, gli uomini si uniscono, un soffio di amore rinfresca la vita (Gv. 13, 34-35; Mt. 11, 28-30) e fa risuscitare le ossa spolpate (cf. Ez. 37, 1-14).

Come la terra secca, nel deserto, rinasce sotto la pioggia, così l'umanità si rinnova, sotto l'azione benefica di Gesù Cristo.

Qualcosa è cambiato fin dalla radice:
il mondo è liberato dal peccato e dall'errore (Gv. 1, 29), che vengono sradicati, perché la colpa è confessata (cf. Mc. 1, 5) e perdonata.

Si spezza la forza del male e agonizza, ferita a morte, perché il demonio è espulso, (Lc. 11, 20; Gv. 12, 31; Atti l0, 38 ecc.)
gli uomini sono liberati da ogni forma di oppressione (Lc. 4, 18), rinascono al bene, la cui vittoria già si fa sentire (Gv. 16, 33).

La venuta di Gesù fu davvero una festa per tutto il popolo (Lc. 2, 10), la trasformazione incominciò con la sua venuta;
era il semaforo verde, aspettato da secoli.

Segno che il Regno di Dio era venuto (Lc. 11,20;
17, 21; Mc. 1, 15).

2/ L'arrivo di Gesù: luce che confonde e provoca:

col bene e l'amore appaiono anche il male e l'odio.

Gesù arriva e divide gli uomini (Gv. 7,43; l0, 19).

Tutti si sentono raggiunti da Lui e prendono posizione.

Nessuno rimane neutrale (Lc. 11, 23).

Il suo arrivo è come un giudizio (Gv. 3, 19-21):

quelli che affrontano la vita, senza preconcetti e senza interessi egoistici, quelli che amano la verità, si dichiarano dalla parte di Gesù e riconoscono in Lui la voce di Dio (Gv. 8, 32; 18, 37; Mt. 11,25).

Ma coloro, cui manca l'amore alla verità, resistono alla voce di Cristo (Gv. 8,43. 44), la imbavagliano (cf. Gv. 11, 57), la marginalizzano (cf. Gv. 9, 22) e, alla fine, la soffocano nel sangue di un assassinio, ratificato ufficialmente dalla legge (Gv. 19, 7).

Davanti a Dio, gli uomini si definiscono.

Gesù non fa niente che provochi resistenza:
è solo una presenza umile e decisa di amore e di verità (Gv. 8, 39-40), e ne fa brillare la luce in tutti i nascondigli, in cui gli uomini si rifugiano.

Ne rivela, pertanto, tutte le debolezze e i difetti e, soprattutto, denuncia la mancanza di autenticità e di sincerità (Gv. 8,45-47; 3, 19-21; 12,46-50).

Risveglia negli uomini la voce della coscienza addormentata sotto il cumulo delle leggi e dei precetti umani.

Chi ha paura della sua coscienza reagisce e cerca di soffocare la voce di Cristo.

Chi è sincero, accetta il giudizio di Cristo e vi aderisce. (Gv. 3,21;
6, 68).

Le acque si rischiarano, perché si fa più nitida la separazione tra buoni e cattivi.

Il giudizio è in corso (Lc. 22, 51; Mt.l0, 35).

Nonostante la forza della resistenza, Gesù non è raggiunto né vinto dagli attacchi dei suoi avversari, che lo trascinano a morte, proprio perché Lui è libero (cf. Gv. lO, 18).

3/ L'arrivo di Gesù: esigenza di un cambiamento radicale di vita.

Gesù provoca una reazione, perché non chiede permesso per agire e per parlare, ma parla e agisce con una libertà spaventosa.

Si presenta proprio come il padrone della situazione.

Colloca delle esigenze che nessun uomo, prima di Lui, neppure si sognò di porre agli altri.

Fa di se stesso la norma, il criterio, il fine di tutto l'agire umano.

Solo Lui possiede la chiave della vita, che apre la porta della felicità.

E non solo ce l'ha, ma dice che la chiave è Lui.

Basta esaminare le sue affermazioni:
«Io sono la porta» (Gv. lO, 9),
non esiste un'altra porta di entrata per la salvezza.

«Io sono la luce del mondo» (Gv. 8, 12), fuori di Lui tutto è tenebra.

«Io sono la verità» (Gv. 14, 6), tutto il resto è menzogna. (Prov. 8, 44).

«Io sono la vita» (Gv. 14, 6), non c'è altra via per sfuggire alla morte (Gv. 11, 25-26).

«Io sono il cammino» (Gv. 14, 6), senza di Lui l'uomo si perde (Lc. 11, 23).

«Io sono il pane della vita» (Gv. 6, 35), senza di Lui abbiamo fame (Gv. 6, 35).

Lui è la fonte dell'acqua (Gv. 7, 37.38), senza di Lui l'uomo non riesce a spegnere la sua sete (Gv. 4, 13-14).

Per amore di Lui gli uomini devono essere pronti a rinnegare tutto
(Lc. 14, 33), altrimenti non possono essere suoi discepoli.

Per amore suo, bisogna essere pronto a perdere la vita (Mc. 8, .35), altrimenti non si può avere la vita.

Chi va dietro a Lui, deve portare la croce tutti i giorni (Lc. 9, 23).

Lui si mette al di sopra dei genitori e dei fratelli e non permette che si preferisca la famiglia a Lui (Lc. 14, 16).

Dice che solo Lui sa qualcosa su Dio (Mt. 11, 27) e che nessuno va a Dio se non attraverso di Lui (Gv. 14, 6).

Il maggior peccato consiste nel non credere alla sua parola (Gv. 16, 9).

Nel porre questa esigenza, non dà spiegazioni, né si giustifica.

Quando gli chiedono soddisfazione, non ,risponde (Mc. 8, 11-12).

Parla con autorità (Mc. 1, 27), ma non è autoritario, perché è sempre «mite ed umile di cuore» (Mt. 11, 29).




SEGUE..




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il discorso della montagna:
consiglio, legge o ideale?








6. Il discorso della montagna nella vita di Gesù


Chi volesse spiegare il discorso della montagna, senza fare i conti con quanto abbiamo costatato nella vita di Gesù, non riuscirebbe a capirci nulla.

Con Gesù è veramente apparsa una cosa nuova, che i giudei, con tutto il loro Antico Testamento, non riuscirono a capire.

Gesù definisce il nuovo col dire che è il Regno di Dio:
«è suonata l'ora!

il Regno di Dio è arrivato!

cambiate vita!

credete alla buona notizia!» (Mc. 1, 15).

La buona notizia, il vangelo, non consiste solo in parole, non consiste solo nel discorso della montagna, per quanto meraviglioso esso sia.

La buona notizia è, anzitutto, la persona di Gesù.

Lui è il Regno di Dio, ossia in Lui, Dio è re.

In Lui si esprime ciò che succede agli uomini quando decidono di aprirsi a Dio, lasciando che Dio sia Dio nella loro vita.

Cambia tutto e si trasforma in meglio, fin dalle radici.
Così fece Gesù.

Con la sua vita ci ha dimostrato che l'uomo può essere davvero uomo, pienamente umano, solo quando permette a Dio di essere Dio nella sua vita, quando si apre al Regno di Dio, perché solo allora l'uomo arriva ad essere pienamente quello che deve essere secondo il progetto del suo creatore.

Solo Dio conosce l'uomo, fino in fondo, e solo Lui riesce a far funzionare l'uomo, al cento per cento.

Ci è riuscito attraverso Gesù Cristo.

Per questo, Gesù è Buona Notizia per tutti gli uomini, perché corrisponde esattamente a tutto quanto gli uomini possano desiderare.


Chi vede e ascolta il messaggio sente nascere in sé un desiderio spontaneo:
come vorrei farne parte anch'io!
come devo vivere, che devo fare per parteciparvi?

La risposta è data dal discorso della montagna, in cui Matteo ha messo insieme tutto quello che Gesù disse di concreto, sull'esperienza e sul comportamento di quelli che si decidono a lasciare che Dio sia Dio nella loro vita e entrano, decisamente, a far parte del Regno di Dio.

Il discorso della montagna è l'espressione di quel bisogno di cambiamento radicale, che la presenza di Gesù annuncia.

Il discorso della montagna mostra fino a che punto l'uomo può arrivare, quando l'energia dell' Amore incomincia a trasformare effettivamente la sua vita.

Il discorso della montagna è espressione di quella luce che abbaglia e provoca, perché mette gli uomini a confronto con la loro coscienza e mostra loro la causa dei loro mali.

Perciò suscita le più contrastanti opinioni.

Il discorso della montagna manifesta il nuovo, che è entrato nella vita degli 'uomini, quando si aprono a Dio.

Espressione concreta della conversione che si opera in coloro che aderiscono a Gesù Cristo.

Nessuno riesce, con le sue sole forze, a osservare il discorso della montagna, come nessuno riesce, con le sue sole forze, a mettersi in contatto con Dio.

A che serve, allora, proporsi una cosa impossibile, che non sta in me osservare?

un paragone servirà a chiarire.

La nostra vita è come un'automobile, che decidiamo di comprare, e su cui sta scritto:

massima velocità 200 all'ora.
Il padrone si siede al volante e cerca di fare i suoi 200 all'ora, ma non ci riesce, neppure sul rettilineo, né in discesa, neppure se spinge a tutta forza l'acceleratore.

Non gli è possibile raggiungere la velocità massima, segnata dall'indicatore.

Se la macchina è fatta per 200 all'ora, al massimo arriva a fare 130 km. Così è la vita.

Il discorso della montagna segna la velocità massima della vita:

«essere perfetto come è perfetto il Padre che sta nel cielo» (Mt.
5, 48).

Noi, però, con tutta la buona volontà, anche se lanciamo la macchina a tutta velocità, anche se corriamo in quarta, lungo una discesa diritta e larga, si e no, arriviamo a fare 130 km orari.

Dobbiamo concludere che è proprio impossibile arrivare ai 200 km orari, indicati dal discorso della montagna.

Ma perché allora scrivere sulla macchina della vita:
velocità massima: 200 all'ora?

Il fatto è che, là dove Dio stesso entra nella vita dell'uomo e l'uomo si apre a Dio e si mette in contatto con Gesù Cristo, aderendo a Lui, solo a questo punto, per così dire, l'uomo scopre che la sua macchina possiede una quinta marcia, che gli permette di correre più veloce di prima e arrivare, finalmente, ai 200 km orari.

Dentro di noi uomini, esistono possibilità e forze addormentate, che neppure noi conosciamo.

Dio, che ci conosce fino in fondo, quando entra nella nostra vita, riesce a portare l'uomo al massimo delle sue possibilità.

Quello che, umanamente parlando, sembrava impossibile - e di fatto lo era, in modo assoluto - proprio questo diventa possibile e reale.

Cose del genere succedono tutti i giorni.

Una semplice amicizia può far si che una persona scopra, dentro di sé, forze e possibilità che gli erano del tutto sconosciute e che non avrebbe scoperto mai se, nella sua vita, non fosse sorta quell'amicizia.

A contatto con Cristo, amico, ossia, entrando nel Regno di Dio, l’uomo perfora il fondo roccioso della sua coscienza e scopre, dentro di sé, nuovi strati di petrolio, che generano nuova e ignorata energia.

La vita intera si mette in moto e prende un senso nuovo.
Si crea un ambiente nuovo.

Il discorso della montagna appartiene a questa nuova vita.

Dentro questo ambiente siamo capaci di leggerlo, spiegarlo e capirlo, perché solo là può essere vissuto.

Chi resta fuori di questo ambiente, non ci capisce niente e sbaglia sempre nelle sue opinioni, come fecero i giudei, a rispetto di Gesù.

Ci sembra, quindi, assurdo esigere l'osservanza del discorso della montagna, da parte di chi non sa chi sia Gesù Cristo, da parte di coloro per i quali s. Antonio e Gesù Cristo sono la stessa cosa, e Gesù Cristo è soltanto un'idea.

Solo chi ha conosciuto Gesù Cristo e ha aderito a Lui, ossia chi, di fatto, ha fede, può osservare il discorso della montagna.

Siccome un'amicizia infonde un certo dinamismo, la trasformazione che genera nella vita, le scoperte nuove che rivela e le nuove forze che sveglia, tutto ciò sarà pure progressivo e dinamico.

Il discorso della montagna non si osserva da un giorno all'altro.
È un programma di vita.

Esprime, in modo sempre più chiaro e definito, l'adesione interiore dell'uomo a Gesù Cristo.

Aderendo a Cristo, l'uomo apre una porta d'ingresso a Dio e, con la forza di Dio, la vita si trasforma, progressivamente, nei termini segnati dal discorso della montagna.


SEGUE..




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il discorso della montagna:
consiglio, legge o ideale?



7. Discutendo le opinioni


Il discorso della montagna, visto e capito nel contesto totale della vita di Gesù, non è una legge.

Una legge si cerca di sapere bene come sia,
si studia; si spiega, si analizza.

In questo senso il discorso della montagna non è legge.

È inutile studiarlo, spiegarlo, perché è impossibile osservarlo come si osserva un'altra legge qualunque.

È inutile far forza sul giuridicismo e sulla giurisprudenza, a niente servono il legalismo e la casistica, così care ai farisei.

Svuoteremmo il discorso della montagna, riducendolo a una legge umana, che si osserva solo con lo sforzo umano.

Sparirebbe, allora, tutto il dinamismo del nuovo, del Regno di Dio, che sta alla radice.

Inoltre il discorso della montagna diventerebbe il peso più insopportabile.

E non è possibile, perché Gesù dice:
«il mio giogo è soave, il mio peso è leggero» (Mt. 11. 30).

Gesù ha condannato i farisei, che spiegavano la legge di Dio come se fosse una semplice legge umana (cf. Mt. 23, 4).

Se così fosse, infelici i poveri e gli ignoranti che non conoscono la legge e non sanno spiegarla.

Invece, Gesù chiamò «beati» i poveri e promise loro il Regno (Mt. 5-3).

Non si può ammettere che colui che disse:
«venite a me, o voi tutti che siete afflitti, oppressi dalla fatica e sopraccaricati e io vi consolerò;

prendete su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mite ed umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre» (Mt. 11, 28-29),

non si può ammettere che Gesù abbia dato una legge che, invece di riposo, dà solo preoccupazione, angustia e scrupoli.

La preoccupazione, l'angustia e lo scrupolo incominciano dove il discorso della montagna è slegato dalla persona di Cristo, dalla sua amicizia, per essere spiegato e osservato alla stregua di una legge, appena con mentalità giuridica.

Tuttavia, Cristo non ha reso la vita più facile.
Proprio al contrario.

Cristo raggiunge l'uomo, come l'uomo vuol essere raggiunto nella vita, squarciandogli un orizzonte nuovo, svegliando in lui, come risposta, l'amore, il coraggio, la capacità di resistere, la speranza, l'iniziativa e la creatività.

Il discorso della montagna non è fatto per portarci alla disperazione e poi gettarci nelle braccia dalla misericordia come diceva Lutero.

È vero che il discorso della montagna ci dà la coscienza chiara dei nostri limiti e delle nostre debolezze.

Ci prova che da soli noi siamo incapaci di fare quello che Dio ci domanda, ma nel contesto generale della vita di Gesù, il cristiano scopre e incontra, dietro il discorso della montagna e alla sua radice, la persona di Gesù Cristo, si accorge del suo amore e della sua amicizia e vede che, aderendo a Lui, potrà arrivare ad osservare quello che il discorso della montagna suggerisce.

A questo punto però, ci mancano del tutto i criteri umani per dare un giudizio, come ci mancano per spiegare la vita di Gesù, così come l'abbiamo vista prima.

I criteri di Dio sono altri e ci confondono.

Se questo fosse davvero l'obbiettivo del discorso della montagna, diremmo che Gesù poteva essere più chiaro, perché non lo si può capire dalle parole che lo compongono.

In nessun luogo sta scritto che il discorso della montagna è fatto per buttarci nella disperazione e, di rimbalzo, nelle braccia della misericordia di Dio, disgustati da tutto quello che facciamo.

Sarà possibile che Gesù tratti gli uomini come quel Signore che mandò i suoi servi per una strada complicatissima e quasi intransitabile, perché giungessero a disperarsi, per poi sentirsi dire:
«Avete visto che da soli non ce la fate?
Venite, entrate in macchina con me, che vi porterò io alla meta»?

Il discorso della montagna non è per una piccola élite di preti e monache e alcuni laici, tra i più generosi.

È per tutti.

Gesù non ha parlato solo per gli apostoli, ma per la «moltitudine». (cf.
Mt. 5, 1-12).

Gesù non ha mai pensato ad una religione di élite.

A misura che tutti escono dall'Antico Testamento e incontrano Cristo, tutti varcano la soglia del discorso della montagna.

Bisogna sapere, però, se tutti sono già in condizioni di entrare nel Nuovo Testamento.

Non si tratta di dire:
«cerchiamo di facilitare le cose al popolo e lasciamogli osservare solo i dieci comandamenti».

Non abbiamo né il diritto né il potere di farlo.

Si tratta di aiutare il popolo perché si metta sulla strada che, dai dieci comandamenti, porta al discorso della montagna, attraverso l'adesione a Cristo.

Per questo, noi tutti abbiamo ancora un piede nell'Antico Testamento, coll'intenzione di uscirne, bene o male, perché nasca in noi quella pianta nuova, che nessuno sa cosa sia;
viene da Dio ed è proprio quella che tutti sognano.

Siamo tutti in marcia verso la perfezione:
«Siate perfetti, come vostro Padre celeste è perfetto».

Il discorso della montagna non serve solo a comunicare una nuova mentalità.

Il cristianesimo non è fatto di idee e di mentalità, è «conversione», cioè azione concreta.

Soprattutto verso la fine del discorso della montagna, Gesù insiste di più sulla necessità" della prassi.

Invece di parlare di mentalità nuova, sarebbe meglio dire «forza nuova».

Il Vangelo assomiglia alla sonda, che cerca nelle profondità del suolo gli strati di petrolio.

Quando ne raggiunge uno, il liquido prezioso esce in getto spontaneo, che poi va a scaldare le stufe, a far funzionare i motori, a far correre le macchine.

Il vangelo perfora il suolo dell"io', scopre, là in fondo, forze nuove di imprevedibili energie.

Queste forze balzano fuori trasformando la vita e mettendo in moto la macchina di una società migliore.

La perforazione si chiama «coscientizzazione».

La coscientizzazione, nel nostro caso, è la percezione del proprio valore e si dà, quando l'uomo scopre l'appello di Dio nella sua vita.

L'appello di Dio è come le radici dei grandi alberi:
si perdono in ramificazioni infinite, nelle viscere della terra, come vasi capillari molto fragili, ma, messi insieme, fanno nascere il tronco, che affronta le più violente bufere.

Dio chiama molto umilmente;
nelle cose insignificanti del terribile quotidiano.




8. Piste generali per l'interpretazione del discorso della montagna


Da tutto quello che abbiamo detto fin qui, possiamo trarre alcune conclusioni, per capire meglio il discorso della montagna.

Il discorso della montagna è il giudizio di Gesù sulla vita umana.

La vita umana, ben vissuta, dovrebbe essere così.
Ci propone l'ideale.
L'ideale non si osserva.
Verso un'ideale, l'uomo cammina, tentando di raggiungerlo.
Sarò giudicato, non per il fatto di averlo raggiunto;
ma per il fatto di aver camminato verso di lui, con fedeltà.

Il confronto con l'Antico Testamento (Mt. 5, 21-48) ci dice così:
La legge dell'Antico Testamento, i dieci comandamenti sono i primi passi di una strada, che, se continuiamo a camminare, ci porta al tipo di vita descritto dal discorso della montagna e va a finire a Dio.

Anche per l'uomo, che sta ancora nell'Antico Testamento, l'esigenza si impone con la stessa insistenza.

La differenza, tra l'Antico Testamento e il Nuovo Testamento, consiste nell'accorgersi della portata che questa esigenza ha nella vita.

Nell'Antico Testamento l'esigenza divina ordinava:
«non uccidere» (Mt. 5, 21).

Se l'uomo sarà fedele e camminerà per questa strada di «non uccidere», Dio si farà più vicino a lui, gli si manifesterà di più e l'uomo, a causa della percezione più chiara dell'amicizia di Dio con lui, si accorgerà meglio delle esigenze di «non uccidere» per la sua vita umana, e finirà col riconoscere che Dio si impone con la stessa insistenza quando chiede:

«non t'arrabbiare»; ovvero, si accorgerà di aver osservato, davvero, il «non uccidere», quando sarà riuscito a strapparsi dal cuore la radice dell'assassinio, che è l'ira.

Perciò è difficile cogliere il senso delle frasi di Mt. 5, 21, 23 e delle altre che seguono.

In Gesù, Dio è arrivato così vicino agli uomini, che non c'è alcun dubbio circa le esigenze divine nella vita umana.

Si riassumono tutte nel nuovo comandamento dell'amore.

I dieci comandamenti sono dieci piste, aperte nella vita umana, per educare l'uomo all'amore e al dono di sé (Mt. 7, 12).


Le beatitudini (Mt. 5, 1-12), che sembrano mettere tutto a testa in giù, dimostrano che i criteri di Dio sono ben altri.

Abbattono e trasformano il nostro mondo, così ben organizzato, secondo i criteri della nostra sicurezza personale e collettiva, criteri nostri, nati in parte dalla fondamentale diffidenza dell'uno contro l'altro, di una nazione contro un'altra nazione.

Perciò coloro che sono allegri, i grandi, tutti quelli che godono dei vantaggi in forza dell'organizzazione terrena di questo mondo, tutti questi non valgono per Iddio, tanto quanto valgono per il mondo.

Quando il nuovo affiora, tutto cambia.

«Felici quelli che piangono, perché saranno consolati;

felici quelli che soffrono ingiustizia, perché possederanno il Regno;

felici gli umili, perché avranno in eredità la terra;

felici i puri perché vedranno Dio».

Le beatitudini sono la più grande minaccia che mai fu pronunciata contro l'umanità, chiusa in se stessa, preoccupata della sua sicurezza.

Il maggior prodotto del nostro tempo è la marginalizzazione.

Proprio i marginalizzati della società sono proclamati felici.

Segno che, quando verrà il Regno, finirà l'ingiustizia,
che oggi produce gli emarginati.

Nel discorso della montagna il rapporto con Dio sta su altre basi.

Non si basa su quello che noi facciamo per Iddio, ma su quello che Dio fa per noi;
nella elemosina,
nella preghiera,
nel digiuno,
il nostro atteggiamento dovrà essere radicalmente differente (Mt. 6, 1 -19).

Chi pensa che tutto dipende da lui, farà di tutto per moltiplicare le preghiere, credendo che le sue parole e le sue opere abbiano una grande forza per muovere Iddio.

Chi invece si accorge di essere gratuitamente sostenuto da Dio, farà di tutto per mostrargli la sua gratitudine e si appellerà non tanto alle opere quanto all'impegno che Dio ha preso con lui, di sostenerlo fino alla vita eterna.

Esige che Dio compia il suo impegno e Dio non resiste mai.
Perciò sarà ascoltata la sua preghiera (Mt. 7, 7-11).

Il nuovo rapporto con Dio implica un nuovo rapporto con i beni materiali (Mt. 6, 19-21.24).

È questione di ottica e di punto di vista da cui si guardano la vita e il mondo (Mt. 6, 22-23).

Il punto di vista e l'ottica sono I differenti, perché alla luce di Dio l'uomo si accorge meglio del senso della sua vita.

Sa dare il giusto peso alle preoccupazioni per il cibo, per la bevanda e per il vestito.

Preoccupazioni più che necessarie alla vita, ma non certo le più importanti (Mt. 6, 25-34).

Gesù non è venuto a riformare questa o quella parete della casa;
è venuto a guarire la radice dell'albero, a rinforzare le fondamenta della casa.

Migliorando queste, migliora tutto.

Il discorso della montagna si dirige alla radice delle azioni umane:
vuole sincerità radicale davanti a Dio, davanti alla propria coscienza e davanti agli altri.

Solo a misura che la persona scopre chi è, le diventa possibile essere radicalmente sincera.

Tante apparenze mascherano il nostro io, e noi neppure ce ne accorgiamo.

Per questo, il processo di conversione o di trasformazione, che il discorso della montagna esige per portarci alla sincerità radicale, è un processo doloroso, che incontra molta resistenza, sia dentro di noi, che dentro la società.

Sarà oggetto di ogni specie di accusa, sotto le quali si nasconde la difesa individuale e collettiva.



SEGUE..



[SM=g6198] [SM=g6198] CAPITOLO XIII [SM=g6198] [SM=g6198]

le parabole:
rivelare il divino nell'umano





1. Difficoltà e incertezze rispetto alle parabole


Una delle maggiori difficoltà deriva dalle prediche di certi parroci.

Quando il vangelo della domenica contiene una parabola,sembra che Gesù abbia parlato del Brasile odierno con una precisione matematica:

la zizzania (Mt. 13, 25) è la moda di oggigiorno;

il nemico che semina la zizzania sono quelle persone che non ubbidiscono alla Chiesa;

la pecorella smarrita e ritrovata fra le 100 di quel gregge è proprio quel Tizio... così così... che si è convertito in quella circostanza
(Lc. 15, 4).

Il buon samaritano è quel buon signore cattolico che fa la carità alla Chiesa.

E così via.
Come fanno a sapere tante cose? Chi ascolta se lo domanda spesso.

È giusto o no spiegare così le parabole?

La parabola «del fattore infedele» è molto difficile a spiegarsi
(Lc. 16, 1-8).

Fece un mucchio d'imbrogli (v. 5-7) e alla fine si dice che Gesù «elogiò l'amministratore disonesto' perché aveva agito con astuzia» (v. 8).

Come fa Gesù ad elogiare un tale procedimento?

Bisogna dunque imitarlo?

Gesù si serviva delle parabole per educare il popolo ma non le spiegava quasi mai.

Il popolo sembrava non capirci niente tanto che perfino gli apostoli cercavano di scoprirne il senso (cf. Mc. 4, 10).

Si accorsero del problema e lo denunciarono:
«perché il Signore parla in parabole al popolo?»

Gesù rispose loro:
«parlo in parabole perché vedendo non si accorgano e ascoltando non capiscano» (Mt. 13, 11-13).

In conclusione Gesù parla in parabole per ingannare il popolo (cf. Mc. 4, 11-12).

Che senso hanno le tante parabole che Gesù non spiega?






2. Due esempi concreti della nostra vita


Una parabola è una specie di paragone o immagine presa dalla realtà della vita per spiegare un'altra realtà in rapporto al Regno di Dio.

Ci sono due modi di fare un paragone o una immagine per illuminare un punto oscuro a chi ci ascolta.

Tutti e due li troviamo nei vangeli.

Prima però di parlare dei paragoni usati nei vangeli è conveniente illuminare il problema con due esempi presi dalla vita.

Primo esempio:
Uno disse a un altro: «Compare, come ti va la vita?»

Rispose quello: « Vorrei andare a cento all' ora ma non passo gli ottanta.

Sul rettilineo vado a tutto vapore.
Sulla salita mi arrampico e nelle curve mi do da fare;
ma non è uno scherzo».

Per chi conosce la vita di oggi la risposta, che sembra enigmatica, è chiara.

Sembra che parli della macchina, ma di fatto pensa alla vita:
vorrebbe andare a tutta velocità ma non ce la fa e con questo vuol dire che la vita non va poi tanto bene;

parla di rettilineo ma pensa ai giorni facili della vita, quando tutto corre liscio;

parla di salita e pensa ai contrattempi;

dice curve e pensa alle crisi della vita.

A buon intenditori poche parole.

In questo esempio concreto si usano i termini della strada ma si pensa a ben altro;

si parla di macchina ma si pensa ad una determinata maniera di vivere.

Cosi pure Gesù si serve di paragoni e parla del seminatore,
del seme che cade lungo la strada,
sulle pietre,
tra gli spini e nella terra buona.

Ma pensa all'apostolo o al predicatore (seminatore),
alla Parola di Dio (seme),
al cuore incostante (pietre),
al cuore distratto (strada),
al cuore adescato dai piaceri della vita (spini),
al cuore aperto ben disposto e sincero (terra buona) (cf. Mt. 13,3•8 e 13, 18-23).

In una parabola del genere posso chiedere spiegazioni su ogni elemento del paragone:
«che vuol dire?».

Secondo esempio:
Parlando a un gruppo di uomini sposati un tale fece questo esempio:
«C'era un uomo sposato che soleva alzarsi all'alba,
preparava il caffè per gli altri membri della famiglia,
metteva la casa in ordine e poi andava a lavorare nei campi.

Lavorava tutto il giorno, riposava poco, sudava molto fino ad alte ore della notte.

Tornava a casa felice e contento perché aveva passato un giorno di più dedicato alla sua famiglia».

Qui non ci si può domandare:
«che vorrà mai dire alzarsi presto,
fare il caffè,
lasciare la casa in ordine,
lavorare nei campi?

Che vuol significare quando dice che tornava a casa tranquillo e contento?».

Sono domande che evidentemente non hanno senso qui, perché i vari elementi del paragone non hanno valore, ossia non hanno un loro significato proprio indipendente.

Il paragone ha un unico senso nel suo contesto:
si propone di mettere in rilievo l'operosità e la dedizione di quell'uomo verso la sua famiglia allo scopo di spingere gli uomini sposati che stavano ascoltando a fare lo stesso.

Nel primo esempio ogni elemento aveva un senso particolare in rapporto ad una determinata maniera di vedere la vita.

Nel secondo esempio ogni elemento ha la funzione di contribuire ad illuminare il senso totale del paragone.

Allo stesso modo Gesù usa molti paragoni o parabole di cui non possiamo domandarci:

«che voleva dire con l'immagine della pecorella smarrita?

Chi sarà il buon samaritano?

Che significa la zizzania?

cosa corrisponde al seme di mostarda?

Chi è l'uomo che dorme mentre il seme germoglia? (Mc. 4,27).

E le briciole che cadono dalla mensa a cosa alludono? (Lc. 16,21).

Nella maggior parte dei paragoni usati da Gesù il contesto ha un unico senso.

È inutile star lì ad indagare sugli elementi della parabola uno per uno perché non hanno un significato proprio.





3. Applicazione concreta:
il «fattore infedele» e la «vigna abbandonata»


La parabola più difficile a spiegarsi è quella del fattore infedele
(Lc. 16,1-8), proprio perché ci rompiamo la testa a scoprire il significato di ogni elemento del paragone mentre il significato è unico per tutto l'insieme.

Il punto più difficile è là dove Gesù fa l'elogio del fattore infedele perché ha agito con saggezza.

Ma che vuol dire?

In un'altra occasione Gesù aveva detto:
«Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe» (Mt. 10,16).

Paolo dice che il «giorno del Signore verrà come un ladro nel cuore della notte» (I Tess. 5,2); cfr. Mt. 24,43-44; II Pt. 3,10).

Nessuno ne deduce che il Signore è un ladro, anche se è paragonato a un ladro.

Nessuno conclude:
deve essere colomba e serpente.

Evidentemente in questi tre casi il paragone, è fatto rispetto a una qualità che caratterizza l'opera del ladro e che esprime il modo di fare dei serpenti e delle colombe.

Il ladro non si fa annunciare, ma viene quando meno te l'aspetti:
così verrà il Signore alla fine dei tempi.

La semplicità e l'astuzia sono qualità da imitarsi sull'esempio della colomba e del serpente.

Lo stesso si dica a rispetto del paragone del fattore infedele.

C'è una sola differenza:
nel caso del fattore infedele il paragone non è fatto con un'unica parola (come nel caso del ladro, del serpente e del1a colomba);

Gesù racconta tutta una storia per mettere in evidenza l'unica qualità valida del fattore infedele.

Questa deve essere imitata (come il giorno del Signore imita la qualità del ladro che arriva senza essere aspettato in piena notte).

Qual è allora l'aspetto che Gesù vuol mettere in evidenza nella condotta del fattore infedele?


Per scoprirlo bisogna fare un minuzioso esame del paragone e vedere dove converge il suo interesse.

In una pittura tutti gli elementi convergono in un unico punto, che è poi il messaggio che l'autore vuol comunicare.

Le parabole sono altrettante pitture che con poche pennellate caratterizzano una situazione.

Esaminando la parabola del fattore infedele si capisce che un bel giorno quell'uomo fu messo alle strette perché il padrone aveva scoperto i suoi imbrogli.

Avrebbe dovuto dar conto dell'amministrazione e per conseguenza sarebbe stato cacciato via.

Avrebbe di certo perduto l'impiego.

Il domani si profilava incerto e ben diverso dal presente.

Il fattore non si scompone, non si lascia sopraffare dalla realtà;
ma pensa come fare.

Esamina e calcola a mente fredda la sua situazione.

Fa il bilancio delle possibilità:
«zappare non fa per me... chiedere l'elemosina mi vergogno...

Lo so io quello che faccio, così quando sarò licenziato avrò chi mi riceve in casa sua» (Lc. 16,3-4).

Falsifica i conti dei debitori del suo padrone.
Almeno così, quando sarà senza lavoro, potrà battere alla porta dei debitori.

Non potranno rifiutarsi, perché lui potrebbe sempre accusarli e portarli davanti al tribunale per frode.

Il futuro è garantito.

Sta proprio qui il punto alto che la parabola vuol mettere in evidenza: quell'uomo agì con efficienza, non si lasciò abbattere dalle circostanze ma si assicurò il futuro con destrezza e facendo bene i suoi piani.

Gesù fissa la sua attenzione sulle qualità che l'episodio mette in evidenza con poche parole.

Il suo obbiettivo è dirci:
«perché non fate lo stesso?
perché anche voi, nel vostro campo, non agite con la stessa accortezza ed efficienza?»

Infatti, quando Gesù entra nella vita di qualcuno, il futuro di questa vita cambierà radicalmente.

Non sarà possibile continuare a vivere come prima.

Gesù vuole che non ci abbandoniamo all'inerzia, ma che affrontiamo molto concretamente la vita alla luce della fede, che facciamo con calma i nostri piani e agiamo con efficienza e scaltrezza per garantirci un nuovo futuro, che è frutto del nostro incontro con Gesù.

Non ci spinge ad essere disonesti, bensì ad essere efficienti in quello che facciamo nel campo della fede.

Non domandiamo:
che vuol dire la parola «amministrazione» in questa parabola?
che significano i cento barili di olio, i cento sacchi di farina?

Non significano proprio niente.

Come nel caso dell'uomo che si alzava presto per fare il caffè, servono soltanto a mettere in luce l'efficienza e la scaltrezza di fronte al futuro in pericolo.

Fanno parte del quadro come l'albero in fiore vicino alla casa contribuisce a esprimere l'allegria che l'artista voleva comunicarci con la sua pittura.

La parabola della «vigna abbandonata» (Lc. 20,9-19) è tutt'altra cosa e prende il nome di allegoria.

Sentendo parlare della «vigna», gli ebrei ricordavano il canto della vigna del profeta Isaia (Is. 5,1-7).

Sapevano bene che Gesù parlava di una vigna ma pensava al popolo cui Dio prodigò tante tenerezze.

Gesù parla di «preparare la vigna», ma pensa alla responsabilità del popolo nel date frutti.

Parla di servi e braccianti che il padrone della vigna mandò a lavorare, ma pensa ai profeti inviati da Dio nell'Antico Testamento.

Non furono accolti, furono flagellati e rimandati via a mani vuote
(Lc. 20,10-12).

Parla del Figlio carissimo che il padrone inviò, sperando che lo rispettassero più degli altri dipendenti, ma pensa a se stesso, l'ultimo inviato da Dio al popolo che i profeti designano come il figlio tanto amato.

Parla di uccisione del Figlio del padrone della vigna, ma pensa alla sua propria morte.

Il paragone si chiude con la domanda:
«Che farà dunque il padrone della vigna?»

Segue la risposta:
«Sterminerà i vignaiuoli e affiderà la sua vigna ad altri»
(Lc. 20, 15-16).

I giudei capirono bene il senso della risposta e dissero:
«Dio non voglia!»

ossia:
«questo mai!»

Capirono il senso del paragone:
Gesù li minacciava di trasferire il Regno di Dio ai pagani.

La parabola o allegoria della «vigna abbandonata» è una delle poche che ci permette di interrogarci su ogni elemento e dettaglio:
«che significa?».

Lo stesso si dica della parabola del Buon Pastore (Gv. 10,18) e della «vera vite» (Gv. 15,18).

In tutte le altre bisogna cercare il significato unico su cui insiste Gesù.

Possiamo farlo in molte maniere.

In certe parabole prese dalla vita concreta di ogni giorno succedono cose curiose che non si verificano tutti i giorni:

per esempio, è raro trovare un pastore che lascia sole cento pecore nel deserto per cercare proprio quell'una che si è perduta (Lc. 15, 3-6);

è difficile trovare un padre che stia ad aspettare il figlio ingrato che lo ha lasciato senza dargli soddisfazione e per di più gli corra incontro e gli faccia grande festa (figlio prodigo);

è difficile trovare una donna che perda una lira e per ritrovarla scopi tutta la casa e poi chiami tutte le vicine per raccontare loro la sua avventura e per fare festa (Lc. 15,8-10).

Chi legge questi fatti si meraviglia perché, pur essendo reali, non succedono tutti i giorni.

Ma proprio questo vuole la parabola:
richiamare l'attenzione sulle cose strane che racconta.

Là dentro si nasconde il significato unico che Gesù vuole annunciare.

Là tutti gli elementi del paragone convergono.

A volte però i due tipi di paragone si mescolano;
quando per esempio Gesù nelle parabole parla di re, di giudice, di padre pensa sempre a Dio.

Quando parla di figlio del re, di lavoratori del re, di greggi e di vigna, pensa ai profeti e al popolo di Dio.

Quando dice di «rendere conto» e parla di «raccolto»' e «pesca» pensa al giudizio di Dio sugli uomini.

Quando parla di festa o di sposalizio, pensa alla gioia del Regno di Dio.

Come si fa a saperlo?

Perché Gesù fa come tutti facevano al tempo suo.
Il metodo delle parabole era molto usato nell'insegnamento.

Gli altri professori di religione pure lo conoscevano e lo usavano.

Secondo le regole della metodologia di quel tempo, scoperta e studiata nelle ultime ricerche, tali figure avevano' già il significato che tutti davano loro.

Gesù quando insegnava, usava il linguaggio del popolo.






4. Vantaggi dell'insegnamento in parabole


Tutte le parabole sono immagini prese dalla vita di ogni giorno, note a tutti:
sono le cose della vita che fanno ridere e fanno piangere, che ci accompagnano dalla mattina alla sera.

Gesù si dimostrò un grande pedagogo nel servirsi delle cose della vita per spiegare le cose invisibili del Regno di Dio.

Se io dicessi:
«Il rinnovamento della Chiesa assomiglia ad una grande strada alberata.
Quando i rami sono troppo grandi bisogna potarli, per aiutare la crescita dell'albero e impedire che il fogliame lussureggiante assorba tutta la linfa dell'albero e lo inaridisca».

Chi ha ascoltato il mio discorso, quando passa lungo il viale alberato e vede gli alberi mutilati dalla potatura, si ricorda del paragone e gli alberi incominciano a parlare, convincendolo che è proprio così.

La vita ci parla di Dio e del suo Regno.

La raccolta degli elementi delle parabole di Gesù ha messo insieme un curioso mosaico in cui appaiono le più svariate situazioni e aspetti della vita:
semi,
aratro,
luce,
sale,
passerotti,
fiori,
porci,
gramigna,
gigli,
fieno,
colombe,
serpenti,
feste,
nozze,
pane,
vino,
fermento,
commercio,
amministrazione,
cenone,
guerra,
costruzione,
torre,
casa,
strada,
spini,
terra buona,
pescatore,
rete,
bambini,
pulizie della casa,
pietre preziose che si perdono,
perle ritrovate,
talenti,
vigna,
pecorella,
pastore,
eredità,
educazione,
salario,
malviventi,
ricco,
povero,
figli ingrati ecc.

Basta scorrere i Vangeli.

Ogni cosa è densa di significato.

Gesù quasi mai spiega i paragoni che usa.
Qualche volta conclude così:
«Chi ha orecchie per intendere intenda!» (Mt. 13,9).

In altre parole suonerebbe così:
«Ecco tutto.
Avete udito.
Ora fate in modo di capire».

Affida al popolo il compito di scoprire il messaggio.

Gesù dà all'uomo un voto di fiducia.

Lo stima abbastanza intelligente per scoprire nelle cose della vita quotidiana il significato delle cose del Regno.

Non gli offre tutto bello e pronto.

Invece di risolvere i problemi e dare risposte fatte, Gesù crea problemi e quesiti nella testa degli uomini per costringerli a pensare.

E gli uomini, pensando vivendo e riflettendo, arriveranno alla soluzione dei problemi che Gesù ha messo loro in mente.

Tutti gli aspetti e le situazioni svariate della vita, cui Gesù allude con le parabole, diventano eloquenti e interrogano l'uomo.

Mentre ara il campo e scava il solco, il contadino si ricorda della parola di Gesù:
«Chi mette mano all'aratro e poi si volta indietro non è adatto per il Regno dei cieli» (Lc. 9,62).

Gesù rende la vita trasparente.

Sprigiona un significato nuovo dalle cose della vita.

Le parabole valgono non solo perché ciascuna di loro offre un insegnamento, ma anche e soprattutto perché, inaugurano una maniera nuova di vedere la vita di ogni giorno:
ogni cosa si riferisce al Regno di Dio e parla di Lui.

In un certo senso Gesù è venuto a rendere problematica la vita dell'uomo.

Quando l'uomo vive troppo tranquillo è segno che qualcosa in lui non va bene.

Gesù gli suscita tanti problemi e tanti interrogativi con le parabole, non già per tormentarlo ma per metterlo sulla strada giusta che lo porta a Dio, alla felicità.

Inoltre un’immagine o un paragone possiede una forza di comunicazione ed un potere di evocazione molto superiore a quello di un'arida esposizione teorica.

Sarà forse più vago e inesatto, ma ci guadagna in profondità ed è molto più pregno di significato.

Gesù, scegliendo di usare le parabole, non seguì un cammino del tutto nuovo.

Seguì il metodo pedagogico corrente, ma lo trasformò dal di dentro.

Seguì piuttosto il metodo dei sapienti che quello dei profeti, almeno quando insegnava al popolo.

Per i farisei la sua predicazione prese il colore di una denuncia profetica.






5. Le parabole e il Regno di Dio


Nel capitolo sul discorso della montagna abbiamo visto che cosa deve essere il Regno di Dio.

In Gesù, nella sua persona e nel suo lavoro, il Regno di Dio era presente e attuante.

Quando Gesù introduce le parabole dicendo:
«A che cosa potremo paragonare il Regno di Dio o con quale parabola potremo simbolizzarlo?» (Mt. 4,30) cerca di spiegare al popolo il senso della sua presenza in mezzo a loro.

Ogni parabola si propone di spiegare l'uno e l'altro aspetto del suo mistero.

In altre parabole, specialmente in quelle che pronunciò verso la fine della sua vita, Gesù pensava al Regno che doveva realizzarsi attraverso la sua morte e resurrezione e che sarebbe cresciuto lentamente lungo la storia degli uomini fino alla fine dei tempi.

La realtà invisibile del Regno è spiegata con gli elementi visibili della vita di ogni giorno.

Sorge la difficoltà già incontrata prima:

come faceva Gesù a dire:
«parlo in parabole perché ascoltando non intendano e vedendo non si accorgano»? (Mc. 4,1112; Mt. 13,11-15).

Si ha limpressione che la parabola invece di essere scelta per spiegare sia stata scelta proprio per nascondere e per non far capire!

Forse la risposta è questa:
io posso parlare della vita servendomi di paragoni del genere:

«Bisogna squarciare e allargare gli orizzonti,
bisogna aprire una pista nella foresta,
mettersi alla stessa lunghezza d'onda,
raddrizzare la strada,
gettare l'ancora e ammainare le vele,
accendere i fari antinebbia e mettere le catene per la neve».

Sono immagini note a tutti, ma di cui non tutti colgono il senso.

Chi per esempio pensa che la vita è buona, va bene ed è sicura non capisce perché si parli di « raddrizzare la strada» «allargare gli orizzonti» «aprire la foresta» «metterci nella stessa lunghezza d'onda» ecc.

Queste immagini significano che la vita non va bene ed allo stesso tempo rivelano una maniera precisa di vedere la vita.

Così fece Gesù.
Si servì ,di immagini note a tutti perché scaturite dalla vita.

Ma non tutti arrivano ad intendere quel senso nuovo e sconosciuto della vita che Lui vuole insegnarci con queste immagini accessibili a tutti.

Manca la chiave di volta per capirle.

La chiave è Gesù stesso.

Finché il popolo non saprà chi è Gesù, non potrà mai cogliere tutto il senso delle immagini che Egli usa.

Agli Apostoli «fu dato di conoscere il mistero del Regno» (Mt. 13,11) perché loro si ispiravano a Gesù Cristo.

Non facevano come i farisei e il popolo (che volevano un Gesù su misura), ma cercavano di essere come Gesù voleva che fossero.

Accettavano Gesù senza mettere condizioni.

Il loro atteggiamento di apertura di fronte a Gesù era luce capace di rivelare il senso ultimo e vero delle parabole.

Per gli altri invece le parabole erano solo punti interrogativi.

Li facevano pensare, inducendoli a rompere gli schemi che si portavano dentro e nei quali avrebbero voluto «inquadrare Gesù».

La parabola è come la lampada nella mano di una persona:
incomincia coll'esaminarla per vedere come funziona e finisce con lo scoprire che non illumina se non la leghiamo alla presa della corrente.
La parabola si rivela nel suo pieno significato ed incomincia ad illuminare davvero solo quando si lega alla persona di Gesù Cristo per mezzo di una conversione sincera a Lui.

Qui l'uomo incomincia a vedere chiaramente dove mette i piedi.

Ma la parabola in sé, anche prima di legarsi a Cristo, è capace di portare l'uomo a rendersi conto di come funziona e della capacità che ha di accendersi ed illuminare la strada.

Dipende dalla forza insita nell'immagine e nel paragone.





6. Risposte alle difficoltà


Molte delle applicazioni delle parabole che si sentono nelle prediche e si leggono nei libri derivano piuttosto dalla fertile immaginazione del predicatore che dal testo.

L'immaginazione usata bene è uno strumento importante per spiegare l'uso delle immagini.

Bisogna però che chi ascolta abbia buon senso e giudichi con criterio quello che gli viene detto.

Bisogna fare come dice Gesù:
pensare ed approfondire per scoprire da sé il senso delle cose.

La parabola del fattore infedele l'abbiamo già spiegata.

Ci dice anche che Gesù era più umano di noi e che era integrato nella vita più di noi.

Non ha avuto paura di usare un esempio preso dalla cronaca nera di ogni giorno.

In tutto quello che succede, perfino nelle cose peggiori, c'è sempre qualcosa di buono di cui ci si può valere.


SEGUE...

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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XIV [SM=g6198] [SM=g6198]

i miracoli di Gesù:
campionario gratuito del futuro che ci aspetta







1. Difficoltà attuali rispetto ai miracoli


Salendo al cielo, Gesù lasciò la promessa nei miracoli per chi volesse credere nel suo nome (Mc. 6,17-18).

Secondo gli atti degli apostoli, nella chiesa dei primi cristiani succedevano molti miracoli.

Ma oggi, dove sono i miracoli promessi da Gesù?

A Lourdes?

Nella galleria dei miracoli dei grandi santuari dove la gente va in pellegrinaggio?

Dove?

A Lourdes le statistiche indicano il ribasso dei miracoli.

Col crescere della investigazione scientifica il miracolo diminuisce.

La scienza oggi riesce a spiegare tante cose che prima non si spiegavano; non sono più miracoli.

Ma allora, da che dipende il miracolo?
Da noi, dalla scienza o da Dio?

Chi mi dice che quello è un miracolo?
E i miracoli fatti da Gesù erano proprio miracoli?

Se applicassimo tutti i criteri della scienza che cosa resterebbe in piedi?

Leggiamo nei giornali:
le folle si ammassano intorno all'altare di S. Gennaro.
Vengono da tutte le parti della regione.
Arrivano in omnibus,
in treno,
in camion,
in taxi,
a cavallo,
a piedi,
in barella.

Vengono pregando in pellegrinaggio.

Negli occhi hanno la luce differente di chi aspetta il miracolo.

Sono folle in cerca di una grazia, che nella loro fede sono certe di ottenere per quel sangue che si liquefa.

Leggiamo nel Nuovo Testamento di quasi 2000 anni fa:
«Lo seguiva una grande folla perché aveva visto i miracoli che Gesù faceva ai malati» (Gv. 6,2).

«Mettevano i malati lungo le strade e li trasportavano sulle barelle, affinché quando Pietro passava, almeno la sua ombra, li coprisse.

Anche dalle città vicine accorreva molta gente portando gli infermi» (Atti 5,15-16).

Qual è la differenza tra un popolo che cercava Gesù e gli apostoli, e un popolo che oggi accorre al sangue di S. Gennaro o alla Madonna del Divino Amore o ad un taumaturgo qualsiasi che opera guarigioni ritenute miracolose?

In generale pensiamo così:
un cristiano evoluto e colto non crede poi tanto ai miracoli.

Il non cristiano o il cattolico tradizionale ci credono fermamente.
Come si spiega?

Vorrebbe dire che il cristiano moderno non crede più ai miracoli?

Che cos'è un miracolo?





2. Nozioni generali sui miracoli


La nozione corrente del miracolo ci dice che è un fatto che non si può spiegare naturalmente, che va contro il corso normale delle leggi della natura e che la scienza non sa spiegare.

Il popolo pensa che il miracolo sia una cosa dell'altro mondo, una cosa che non succede mai e che nessuno potrebbe fare perché è al di sopra delle forze naturali.

Dice che il miracolo succede quando abbiamo esaurito tutte le altre risorse:
«Adesso solo Dio può fare qualcosa».

Come se Dio non fosse ugualmente presente quando siamo noi a fare le cose, e non abbiamo bisogno di Lui per risolvere i nostri problemi.

Come se Dio non c'entrasse per niente con le cose comuni, naturali, ordinarie, umane che non hanno niente di eccezionale.

Se così fosse, avrebbero ragione quelli che dicono:
« Verrà un giorno in cui la scienza sarà capace di spiegare tutto e allora non ci sarà più bisogno di miracoli».

Inoltre il miracolo è visto come un beneficio di Dio verso chi lo riceve.

È come un regalo personale che mi spinge a chiedermi «che conversione Dio esige da me?»

È un beneficio esclusivamente individuale,
slegato dalla chiesa,
slegato dal piano di Dio rispetto agli uomini,
slegato da tutto il resto.

Insomma, la reazione più comune degli uomini di oggi di fronte al miracolo è questa:
«Sarà proprio vero?»
oppure «Che pacchia! »

La parola miracolo deriva da miraculum, che vuol dire cosa ammirabile}
un fatto che desta ammirazione.

Nella Bibbia si parla spesso di «cose ammirevoli» che Dio fa per il suo popolo.

Non è però miracolo qualunque cosa degna di ammirazione.

Per esempio:
un bambino di 3 anni che fa un salto di cinque metri è ammirevole, ma non arriverebbe ad essere qualificato miracolo.

Miracolo è un fatto, un avvenimento, una realtà che desta stupore perché l'uomo vi riconosce la presenza di Dio che si rivela.

Un esempio tratto dalla vita quotidiana serve a chiarire ciò che la Bibbia intende per miracolo.

Un bel giorno Maria, moglie di Francesco, mise un fiore sul davanzale della, finestra, un fiore fresco e dai colori vivaci.

Voleva che Francesco tornando a casa vedesse il fiore, lo ammirasse, si sentisse contento vedendo che Maria lo amava.

Era un gesto di amore.

Quando Francesco rincasò dal lavoro vide il fiore e capì quello che voleva dire.

Corse da Maria, la baciò e le disse:
«Grazie Maria, sei un tesoro».

Molta gente tornando dal lavoro passò sotto quella finestra, vide il fiore e non pensò a niente.

Neppure avrebbero potuto farlo.

Il fiore era solo per Francesco.
Francesco se ne accorse e basta.

Il fiore era segno di un grande amore,
di tenerezza,
di amicizia,
di presenza,
di fedeltà.

Il fiore raggiunge lo scopo per cui Maria lo aveva messo sul davanzale della finestra.

Non sarebbe stato neppure opportuno che tutti se ne accorgessero.

Avrebbe violato il segreto di loro due.

Per tutti gli altri il fiore non significava niente, non era un segno, era solo un fiore come un altro.

Per Francesco e per Maria il fiore significava un mondo.

Allo stesso modo Dio mette molte volte un fiore sulla finestra della nostra vita.

A volte il fiore cade sotto gli occhi di tutti e se ne dovevano proprio accorgere tutti.

Altre volte, e sono le più spicciole e forse le più belle, il fiore è solo per te.

La vita è piena di fiori, di segni di Dio che rivelano amore tenerezza amicizia presenza fedeltà potenza forza;
segni che ti destano meraviglia e ti ricordano l'amico.

Il fiore destò l'ammirazione di Francesco.
Rimase estasiato perché vi riconobbe l'espressione dell'amore di Maria per lui.

Miracolo, come abbiamo detto, è tutto quello che causa ammirazione per il fatto che ci rivela l'amore e l'appello di Dio.

Così nella Bibbia il miracolo può essere la cosa più comune e la cosa più fuori del comune.

Una tempesta,
un tramonto,
la bellezza della natura e la grazia di un bimbo,
la manna del deserto e le piaghe d'Egitto.

Oppure la resurrezione di un morto,
la guarigione di un paralitico,
la moltiplicazione dei pani.

In tutte queste cose il cuore dell'amico riconosce la mano dell'amico, come Francesco vide la mano di Maria in quel fiore sul davanzale.

Chi non è amico passa oltre e non si accorge di niente.

Per questo il miracolo, per essere miracolo, non dipende dalla scienza.

Questa cosa ammirabile non dipende solo da Dio, dipende anche da noi, dal nostro sguardo.

Dove non esiste sguardo d'amore, neppure Dio può farci niente.

Gesù non riuscì a fare nessun miracolo a Nazareth, perché lì mancava lo sguardo di amore, mancava la fede di quella gente (Mc. 5,5-6).

Quando oggi discutiamo sui miracoli ci scordiamo il più delle volte che per potersi accorgere del messaggio di quel fiore, per accorgersi del miracolo, bisogna avere lo sguardo della fede, dell'amore, dell'amicizia.






3. Caratteristiche del miracolo secondo la Bibbia


Le parole più usate nella Bibbia per definire ciò che oggi chiamiamo miracolo sono queste:
segno, forza, cosa ammirabile.

La caratteristica fondamentale del miracolo secondo la Bibbia consiste nel rivelare la presenza attuante di Dio;
una forza che agisce e provoca una cosa ammirabile richiama l'attenzione e perciò stesso diventa segno di Dio.

Non ha nulla a che fare col miracolo, in quanto tale, il fatto che va contro le leggi della natura o non trova spiegazione nella scienza.

È proprio del miracolo in quanto tale essere segno della presenza attuante di Dio nella vita.

Nella Bibbia il miracolo è una parola che Dio dice all'uomo per confidargli un segreto, per fargli un invito.

Sotto questo aspetto la Bibbia riconosce «miracoli», «segni», «cose ammirabili», «espressioni di forza» nella creazione, cioè in cose che per noi non hanno niente a che vedere col miracolo:

Dio manda la pioggia (Ger. 5,24), manda il sole per illuminare il giorno e la luna per rischiarare la notte (Ger. 31,35); lui governa il susseguirsi dei giorni e delle notti (Ger. 33,20.25).

«Nei cieli si manifesta la gloria di Dio! Il firmamento proclama la sua forza creatrice!

Nell'alternarsi dei giorni e delle notti corre un annuncio, si trasmette un messaggio.
Senza parole, senza discorsi, nessuna voce risuona.

Eppure il suo mormorio echeggia per tutta la terra e il suo ritmo si propaga fino ai confini dell'universo (Sal. 18,2-5).

Come sono numerose le tue meraviglie! Vorrei poterle contare, ma sono più numerose dei granelli di rena della spiaggia.

E anche se arrivassi a contarle, mi troverei alla fine davanti al mistero che sei Tu (Sal. 138,17-18).

La natura era un grande libro, che rivelava i tratti del volto di Dio. Evidentemente la conoscenza della natura era limitata e pre-scientifica.

Non si conoscevano ancora le leggi che oggi conosciamo con perfezione sempre crescente.

Ma non per questo il progresso della scienza ci autorizza a dire che il modo di vedere la natura proprio della Bibbia è oramai superato, e a rinnegare quei tratti del volto di Dio che essa vi scopre.

Sono cose che non dipendono dagli strumenti di osservazione scientifica, ma unicamente dal mio sguardo di fede.

Se la scienza mi dice:
«Quel tramonto,
il sole,
la tempesta,
la pioggia,
la siccità sono la cosa più naturale del mondo,
non hanno niente di straordinario»
il giudizio è giusto e vero.

La scienza ha tutte le ragioni, ma non per questo al mio sguardo è precluso di vedere là dentro un segno e un riflesso di Dio mio amico e di sentirmi ammirato, o come direbbe la Bibbia, di riconoscervi un miracolo, un segno di Dio per tutti noi.

Con una uguale prospettiva, la Bibbia riconosce i segni di Dio nella vita quotidiana, nelle cose più comuni dell'esistenza e nella storia del passato.

Basta leggere i libri dei Proverbi e il libro dell'Esodo.

La mano di Dio è visibile in tutto e riempie la vita di un'amicizia che ci manca tanto.

Nella Bibbia, potremmo dire, il miracolo è un fatto bilaterale:
da una parte suppone l'azione di Dio, dall'altra suppone nell'uomo uno sguardo di fede capace di cogliere il significato di quello che Dio fa.

Altrimenti sarebbe come un film muto.
Nessuno ci capisce niente e non ha senso.

Non sarebbe più «miracolo» nel senso biblico della parola.

La domanda che sorge nella Bibbia davanti ad un miracolo non è:
«sarà proprio vero?»
ma:
«che cosa Dio mi vuol dire con questo?»
«Qual è il suo messaggio?»
«Che vuole Dio da me, da noi?».

Ci sono miracoli falsi e veri.

I criteri per distinguerli sono due:
che siano inseriti nel contesto del piano di Dio e che vadano d'accordo con il resto della rivelazione (cf. Dt. 13,1).

Non basta che succeda una cosa meravigliosa e prodigiosa perché si possa dire senz'altro:
«Viene da Dio».

Gesù stesso dice che verrà gente a fare miracoli molto grandi e ci avverte:
«State attenti» (Mt. 24-25).


Dice anche che alla fine ci sarà gente che dirà:
«Signore, Signore, non abbiamo forse profetizzato in tuo nome?
Non abbiamo forse cacciato i demoni in tuo nome?
Non abbiamo fatto miracoli in tuo nome?

Ma io risponderò:
Non vi ho mai conosciuto!
Andate lontano da me perché fate il male» (Mt. 7,22.23).

Il miracolo non dice niente a chi non ha fede.
Sì e no arriverà a suscitare il problema di Dio.

Chi ha fede ci vede la mano di Dio, perché sta in sintonia con la frequenza d'onda con cui Dio lancia il suo messaggio.

Sono criteri che ci possono aiutare, a formulare un giudizio sui miracoli che tutt'oggi si verificano in tanti luoghi.






4. Storicità dei miracoli di Gesù


Qualcuno ha negato la storicità dei miracoli di Gesù allegando che furono tutte invenzioni dei cristiani per «canonizzare» Gesù.

Esistevano divinità miracolose fra i pagani e Gesù doveva pur competere con loro.

C'erano anche uomini che facevano miracoli, come per esempio Apollonio di Tiana che ne faceva a bizzeffe.

Perfino tra i giudei c'era gente che operava miracoli.
Gesù era uno dei tanti.

Oggi non si pensa più così.
Gli argomenti sono caduti.

In genere si negano i miracoli, non tanto a causa degli argomenti addotti ma perché prima ancora di qualsiasi argomento non si crede proprio che il miracolo sia possibile.

Gli argomenti addotti non valgono per le seguenti ragioni:
non si può negare in blocco la testimonianza schiacciante dei vangeli.

Inoltre i miracoli di Gesù non sono effetto di magia, così caratteristica negli altri taumaturghi del tempo.

Confrontando fra loro i racconti degli altri con quelli dei vangeli, si nota una grande differenza:
sobrietà e nessuna speculazione dell'aspetto meraviglioso.

Gesù fa miracoli con la sua autorità e non a richiesta, come facevano i giudei.

Nei così detti «libri apocrifi», scritti per lo più all'inizio del II secolo, si raccontano miracoli sensazionali del Bambino Gesù del tutto privi di fondamento storico.

Sono più che altro espressione di una ricerca di sicurezza.

Quando un bambino si accorge che i genitori non stanno in casa, fa tutto il possibile per sentirsi sicuro.

Atrofizzato o perduto del tutto il contatto reale con Dio, contatto di fede e di fiducia, si cerca sicurezza nei riti e nei miracoli.
I quali allora non valgono più per il significato che hanno ma diventano valori in sé e per sé.

Quanto maggiore è l'aspetto sensazionale e meraviglioso, tanto meglio è. Ma la Bibbia non pensa così.

Può succedere che, applicando tutti i criteri della scienza moderna, si arrivi a concludere che uno o un altro fatto della vita di Gesù non fu miracolo secondo il criterio che noi oggi ne abbiamo.

Non per questo cesserebbe di essere miracolo (segno forza cosa ammirabile) nel senso biblico della parola:
segno della presenza di Dio attuante in mezzo agli uomini.






5. I miracoli di Gesù come segni


Abbiamo visto nel cap. 12 che la venuta di Gesù cambiò molte cose e le cambiò dalla radice.

A causa della sua parola e del suo agire tutto si «ri-orienta» e si ri-compone.

Da Cristo sboccia e fiorisce una situazione radicalmente nuova:
una umanità nuova, un mondo nuovo.
I miracoli fanno parte di questo «rinnovamento» più vasto e ne sono il «segno».

Nei miracoli si esprime la «forza» che suscita il «mondo nuovo».

Se facciamo una verifica vediamo che l'azione miracolosa di Gesù raggiunge tutti i settori della realtà:
malattia,
fame,
cecità,
natura,
morte,
peccato,
demonio,
volontà,
tristezza.

Prende di petto tutti i mali che affliggono gli uomini:

1. caccia i demoni, causa di tutti i mali;

2. perdona i peccati che provocano i mali;

3. domina la volontà fiacca degli uomini e la irrobustisce, perché basta che lui dica:
«Vieni, seguimi», e un uomo come Levi pianta in asso il lavoro di usuraio con tutto il suo lucro per seguire Gesù Cristo (Mt. 9,9);

4. domina la natura che minaccia gli uomini perché calma la tempesta, cammina sulle acque e provoca la pesca miracolosa;

5. vince la fame moltiplicando i pani;

6. sana ogni tipo di malattia:
storpi ciechi lunatici muti sordi lebbrosi ecc.;

7. è superiore alla forza della morte e risuscita tre morti:
Lazzaro, il figlio della vedova di Naim e la figlia di Giairo;

8. la sua presenza è motivo di grande allegria e speranza per il popolo.

Il modo di fare i miracoli ricorda l'azione creatrice di Dio:
basta una parola per curare malattie, cacciare demoni, calmare il mare, risuscitare i morti (cf. Gen. 1,3).

La magia non c'entra.
Con l'arrivo di Gesù si inaugura una nuova creazione.

Gesù non fa miracoli tanto per farli.
E neppure per soddisfare la curiosità umana né per autopromozione.

Li nega ad Erode quando questi gli chiede di vederne qualcuno
(Lc. 2.3,8).

Non lo fa neppure per sé, quando sta in croce e gli dicono:
«scenda adesso dalla croce e gli crederemo» (Mt. 27,42).

Non ha mai fatto miracoli per scherzo, come fanno pensare gli apocrifi.
I suoi miracoli sono segni.
Segni di che?

In molte circostanze Gesù ci fa intuire il significato dei suoi miracoli: 1. Giovanni Battista manda a chiedergli:
«Sei tu il Signore che doveva venire o dobbiamo aspettarne un altro?» (Mt. 11,3).

Gesù risponde:
«Andate a dire a Giovanni quello che vedete e udite:
i ciechi riacquistano la vista e gli storpi camminano;
i lebbrosi sono curati e i sordi odono;
i morti risuscitano e la Buona Novella è annunciata ai poveri»
(Mt. 11,4-5).

I miracoli che Gesù enumera corrispondono a quelli annunciati dal profeta Isaia come segno del tempo messianico.

2. I farisei dubitavano degli esorcismi di Gesù.
Gesù risponde:
«Se caccio i demoni col dito di Dio vuol dire che è arrivato per voi il Regno di Dio» (Lc. 11,20).

L'espulsione dei demoni è fatta per significare che era arrivato il Regno.

3. Un'altra volta Gesù sana un paralitico per dimostrare che aveva il potere di perdonare i peccati (Mc. 2,10-12).
Il miracolo diventa segno del suo potere per stroncare il male alla radice che è il peccato.

4. Il miracolo della tempesta sedata suscita la domanda:
«Chi è costui cui il vento e il mare obbediscono?» (Mc. 4,40).

Il miracolo non è un fatto isolato, ma richiama l'attenzione di Gesù del quale vuol rivelare un aspetto personale.

5. Risana l'uomo dalla mano secca per dimostrare che Lui è più del sabato (cf. Mc. 3,1-5; 2,27-28).

6. I miracoli servono a conferire credibilità alle parole e ai messaggi che Gesù dirige al popolo (cf. Gv. 12,37; Lc. 10,13-14').
I miracoli sono segni per dimostrare che Gesù sta nel Padre, ed il Padre in Lui (Gv 10,38; 14,11).

I miracoli perciò non sono gesti di grandezza fini a se stessi, indipendenti da ogni altra cosa.

Hanno uno scopo:
rivelare agli uomini la persona di Gesù.

Attraverso di loro Gesù si presenta con la missione che il Padre gli ha dato.

Gesù non permette che il popolo si fermi ai miracoli, ossia ai benefici senza poi interrogarsi circa il messaggio che Dio vuol comunicargli per mezzo di loro.
Si lascia cercare dal popolo a causa dei miracoli.
Basta leggere i Vangeli per convincersene.

Subito dopo però cerca di portare il popolo a non polarizzarsi sui prodigi ed a ricercarne il significato.

Quando per esempio il popolo lo seguiva a causa dei miracoli (Gv 6,2) e restò con lui tanto tempo che gli mancò da mangiare, Gesù moltiplicò i pani (Gv 6,11-12).

Qualche tempo dopo il popolo lo cercò ancora e Gesù disse:
«Mi cercate non perché avete visto dei segni, ma solo perché avete mangiato il pane e vi siete saziati» (Gv. 6, 26).

Si interessavano del beneficio e non dei segni, cioè non si preoccupavano di scoprire il significato del messaggio.
Quella volta Gesù parlò con molta durezza (Gv 6,60) tenendo a distanza il popolo che rimase chiuso nei suoi interessi immediati e non volle aprirsi ad un senso più alto delle cose (cf. Gv. 6,66).

I miracoli esistono e succedono per aiutare il popolo ad aprirsi al messaggio di Dio, disponendosi ad aderire a Cristo con la fede ed a riconoscere in Lui il Messia, il Figlio di Dio.

Senza quest'apertura di fede anche il miracolo non serve a niente.
Gesù per esempio non riuscì a fare nessun miracolo a Nazareth, perché il popolo non aveva fede (Mc. 6,5-6).

I farisei furono presenti a tutti i miracoli, eppure non credettero
(Gv. 12,37) perché mancavano di semplicità e di apertura alla verità
(cf. Gv. 18, 37; 8,39-47).

Senza queste disposizioni il miracolo è inutile.






6. I miracoli di Gesù: «campionario gratuito» del futuro


Oltre ad essere segni del Regno che è venuto, i miracoli sono essi stessi l'inizio della venuta del Regno, «campionario» di quello che il potere e la fedeltà di Dio sapranno realizzare a vantaggio e per mezzo degli uomini che credono.

Per questo i miracoli, oltre ad essere semplici segni, suscitano anche la speranza, perché testimoniano l'inizio del futuro;
suscitano la fede perché manifestano la potenza che garantisce il futuro; suscitano il dono di sé e la capacità di lottare e di resistere perché garantiscono che la dedizione alla causa del Regno è valida e non sarà delusa.

Sotto le mani di Gesù il futuro prende forma concreta, e incomincia a esistere tra gli uomini il Paradiso, dove tutto è ordine, pace, armonia.

Il Paradiso incomincia con Gesù perché in Lui agisce una forza nuova che è lo Spirito di Dio.

Lo Spirito che operò nella creazione (Gen. 1, 2), che infuse vita agli uomini (Gen. 2, 7; Gv. 33, 4), che realizzò le grandi meraviglie del passato (Es. 15, lO; Is. 63, 12-14), che riempie l'immensità della terra (Sap. 1, 2), che fu promesso per il futuro come il grande dono di Dio (Gioel. 3,1-5);

questo Spirito creatore (Sal. 103, 30) Gesù lo possiede in tutta la sua pienezza (Is.11, 2; Lc. 4, 18) e lo comunica a tutti \ quelli che credono in lui (Gv. 16, 12-15) e a tutti coloro che si sforzano di vivere una
vita umana e degna (cf. Gal. 5, 22).

Ma sono necessari gli occhi della fede per distinguerne l'azione.

A volte la forza che costruisce il mondo nuovo e sbocca nel Paradiso trova maggiore disponibilità e opera in modo più intenso e prodigioso in alcune persone:
S. Francesco, Papa Giovanni XXIII, i santi in generale.

In tutti però ha gli stessi caratteri:
lotta contro il male, sforzo di liberazione da tutto quanto opprime l'uomo, tentativo di ristabilire l'ordine la pace l'armonia.



Anzitutto il miracolo vuol provocare la conversione e il cambiamento, per realizzare il Regno nella vita degli individui e della società:
«lI Regno di Dio è qui; cambiate vita» (Mc. 1, 15).

Dipendere sempre dal miracolo e pensare che il miracolo è per se stesso un segno della protezione di Dio e che a niente servirebbe il nostro sforzo, vuol dire ingannare se stesso.

Laddove il miracolo non riesce a provocare la conversione, ottiene l'effetto contrario e diventa oggetto di giudizio e di condanna (Lc. 10, 13-14; Gv. 15, 24).

Anche oggi è così:
fermarsi al miracolo e compiacersene può generare l'effetto opposto a quello che si pensa.

Miracolo è come la parola di Dio:
una spada a due tagli (Ebr. 4, 12).






7. Gesù il Grande Segno o il Grande Miracolo


I miracoli sono altrettante finestre aperte da Dio sul senso della vita, sui cammini della salvezza.

Stanno lì davanti a noi soprattutto per renderci attenti a Gesù Cristo. Il Vangelo di Giovanni ce lo insegna con molta chiarezza.

Nel Vangelo di Giovanni si trovano relativamente pochi miracoli, appena uno di ogni tipo.

Secondo Giovanni il miracolo non è solo un beneficio fatto a questa o a quella persona, ma è allo stesso tempo rivelazione di uno o di un altro aspetto della salvezza che Dio ha portato agli uomini:
cambia l'acqua in vino per dimostrare la superiorità del Nuovo Testamento sull'Antico (Gv. 2, 1-11);

cura il figlio di un ufficiale del re per dimostrare che la fede degli uomini è la prova a distanza del potere di Dio (Gv. 4, 46-54);
cura il paralitico in giorno di sabato non solo per farlo felice ma anche per rivelare che egli non lavora ad ore fisse, ma come Dio lavora sempre in qualunque momento al bene degli uomini (G v. 5, 1-17);

moltiplica i pani non solo per saziare la fame del popolo ma anche per rivelare che lui è il Pane della Vita (Gv. 6, 1-59);

cura il cieco dalla nascita e ridà luce ai suoi occhi spenti non solo per aiutare questo pover'uomo ma anche per rivelare che Lui è la luce del mondo (Gv. 9, 1-7);

risuscita Lazzaro non solo per aiutare l'amico e liberare dal lutto Marta e Maria ma anche per dimostrare che Lui è la «Resurrezione e la Vita» (Gv. 11, 1-44).


Tutti i miracoli sono appena una anticipazione del grande e definitivo miracolo della resurrezione in cui si manifestò chi era Gesù e qual è il futuro che Lui vuole realizzare.

La forza della resurrezione agiva fin d'allora in Gesù e agisce ancora in coloro che credono (cf. Ef. 1, 17-21), provocando attraverso di loro la conversione e la trasformazione della vita e delle strutture che impediscono la realizzazione del Paradiso.






8. Risposte alle difficoltà suscitate da principio


Miracolo o legge della natura?
Il dilemma non esiste.

Possiamo riconoscere un segno della presenza attuante di Dio nella contemplazione di un tramonto, negli avvenimenti di ogni giorno, nella bellezza di un fanciullo, nella guarigione operata da certe medicine.

La scienza può dare a tutto ciò la sua spiegazione, ma non arriverà mai al punto da proibirci di dire:
«Grazie Signore!
che vuoi da me?»

Ognuno ha il suo modo di vivere l'amicizia con Dio e interpreta i segni della presenza di Dio a modo suo.

Potremmo dire che ciascuno ha i suoi miracoli nella sua vita.

Il criterio è il seguente:
stare d'accordo col Vangelo;
provocare un cambiamento di vita;
non fermarsi al beneficio ma cercare l'appello di Dio che là si rivela; sostenersi nella fede e non favorire la soddisfazione degli aspetti magici che offuscano la presenza gratuita di Dio, legando il potere di Dio a elementi materiali, incapaci di un simile potere.

È ben possibile che arrivi un giorno in cui la scienza riesca a spiegare tutto ciò che succede a Lourdes.

Non per questo si dovrà concludere:
«Qui Dio non c'è».

Ciò dipende da un altro strumento di misura che è la fede.

Se Francesco non avesse avuto quella fede e quell'amore che aveva, non avrebbe visto niente nel fiore che Maria mise per lui sul davanzale.

Avrebbe visto nel fiore, nel vestito, nel cibo, qualcosa che Maria doveva fare per lui dal momento che era sua legittima sposa.

Quel fiore avrebbe fatto crescere in lui la coscienza che il marito era lui ed a lui la moglie doveva obbedienza.


L'amore non sarebbe aumentato, anzi sarebbe diminuito e lui sarebbe caduto in un egoismo sempre maggiore.

Molta gente vede nel miracolo qualcosa che Dio deve fare perché è Dio, perché è padrone.
Il padrone, si pensa, ha il dovere di dare l'elemosina ai suoi servi.

La dà però come e quando crede.
A noi spetta il dovere e il diritto di chiederla.

Quanto più il padrone fa elemosina, tanto più è padrone, così si pensa. Quanti più miracoli Dio fa, tanto meglio si comporta come Pio.

Ne deriverebbe che noi, poveri dipendenti uomini, resteremmo sempre nella condizione di dipendenti e di schiavi.

Non arriveremmo mai ad essere figli di colui al quale chiediamo e dal quale riceviamo elemosina.
Il miracolo però non è uguale all'elemosina che il padrone concede.

Il miracolo è un segno di amore che il padre dà al suo figlio.
Fintanto che non ci formeremo la mentalità di figli, non avremo lo sguardo adatto a scoprire il vero senso del miracolo.

Miracoli oggi:
Il grande miracolo, così grande che non lo vediamo neppure perché sta troppo vicino ai nostri occhi, è la vita che si rinnova per la fede in Cristo;

vita che sempre crea un coraggio nuovo e non si arrende mai;
vita che sopporta la persecuzione, che arriva a morire ma che risuscita sempre;
vita che rinnova gli altri solo per il fatto che esiste;
vita che ci confonde con la sua grande ricchezza, nonostante la povertà in cui viviamo.

Questo è il grande miracolo ambulante e continuo, provocato dall'azione dello Spirito presente nella vita degli uomini.

Laddove diminuisce la percezione della forza della vita e dello Spirito, nasce la necessità dei «miracoli» per sostenere la vita.

Quando gli uomini perdono la sensibilità per percepire la presenza attuante di Dio in mezzo a loro, presenza garantita dalla Parola di Dio, cercano altri mezzi per garantirsi tale presenza;
e sorgono i 'miracoli'.

È difficile pronunciare un giudizio sui 'miracoli' che oggi succedono in tutte le parti del mondo, e che riempiono i musei dei grandi santuari.

C'è chi scuote la testa e dice:
«poveretti!» Dobbiamo ricordarci sempre di una frase del Vangelo:
«Lo seguiva una grande folla perché aveva visto i miracoli che aveva fatto ai malati» (Gv. 6, 2).

Gesù accoglieva il popolo:
«gli facevano pena perché erano come pecore senza pastore» (Mc. 6, 34).

Arrivò perfino a permettere che una povera donna che da 12 anni soffriva di emorragie lo toccasse per essere guarita (Mc. 5, 2534).

Poteva essere un atteggiamento magico e superstizioso ma Gesù non lo condannò.

Si fa presto a condannare gli atteggiamenti del popolo!
Ma non è altrettanto facile individuare il vuoto interiore che porta il popolo a cercare i miracoli!

Invece di giudicare con superficialità il sentimento del popolo, sarebbe più onesto imporsi una revisione seria dei propri atteggiamenti:
stiamo offrendo noi al popolo una speranza, qualcosa che gli apra la porta di un futuro migliore per il quale valga la pena lottare?

Perché non riconoscere in questa crescente sete di miracoli (da San Gennaro al Divino Amore agli stregoni di tutti i luoghi) il segno che sta crescendo la disperazione del popolo, oramai incredulo e diffidente verso tutte le soluzioni ufficiali, sia dei governi che della Chiesa?

Non è questo il caso di «sentir pena del popolo come di pecore senza pastore?»
e offrirgli in tutta la sua pienezza la «Buona Notizia» del Regno?

Questo vale non solo per il popolo povero e sottosviluppato.
Oggi l’oroscopo è di moda e lo troviamo anche nei giornali 'cattolici'.

Religioni esoteriche vedono crescere il numero dei loro adepti che vengono da tutte le parti, gente istruita che ha tutto quello che vuole dalla vita.

Gli manca però la vita che cerca.

Anche costoro vanno errando per le strade della vita come pecore senza pastore, bisognosi di una visione del futuro che sia capace di risvegliare una speranza, una fede, un grande amore.






SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XV [SM=g6198] [SM=g6198]


la trasfigurazione di Gesù:
il senso delle crisi della vita






1. Obbiettivi di questo capitolo


Generalmente quando sentiamo parlare di Trasfigurazione pensiamo
a un fatto determinato nella vita di Gesù.
Non lo inseriamo nell'ambiente generale della sua esistenza.

Infatti la Trasfigurazione dà un'impronta alla vita di Gesù.

Inaugura una fase nuova e differente della sua attività.

Il fine principale di questo capitolo è illustrare, per mezzo di uno studio sulla Trasfigurazione,
quell'aspetto particolare della vita e dell'attività di Gesù che ci rivela meglio la sua umanità.

In genere quando leggiamo i vangeli pensiamo solo alle cose che vi
sono scritte e non a chi le scrisse né a coloro per i quali furono scritte.

Non pensiamo cioè agli evangelisti né alla situazione concreta dei
primi cristiani.

La narrazione della Trasfigurazione è un esempio tipico sia del perché gli evangelisti parlano tanto
di Gesù quanto della vita dei primi cristiani, e dell'intenzione che ebbero gli evangelisti nel descriverla.

Illuminare questa triplice dimensione dei Vangeli (Gesù, i primi cristiani, gli evangelisti) è un altro
obbiettivo del presente capitolo.

Il terzo obbiettivo consiste nello spiegare il senso della sofferenza
e della passione, perché dalla Trasfigurazione in poi la Passione sorge all'orizzonte della vita di Gesù
che incomincia a parlare della necessità della sofferenza per i suoi discepoli.

Il presente capitolo potrà così aiutarci ad alzare il velo che
suole nascondere un aspetto della vita di Gesù e della vita cristiana;

ci rivela come il piano di Dio si realizza a poco a poco
attraverso le peripezie della vita di ogni giorno che dipendono
dalle libere decisioni degli uomini, così come le crisi della vita

sono occasioni offerte da Dio per farci crescere e per realizzare
la sua volontà nella nostra vita.





2. Differenze fra le due fasi dell'attività di Gesù


Un giorno poco prima della sua trasfigurazione Gesù riunì i
discepoli e domandò loro:
«Chi dice la gente che io sia?» (Mc. 8, 27; Mt. 16, 13; Lc. 9, 18).

D'allora in poi cambia la direzione degli avvenimenti e si notano profonde differenze nell'attività di Gesù.

Diminuiscono i miracoli:
Nella prima fase della sua vita in mezzo al popolo, Gesù faceva tanti miracoli.

Nella seconda fase i miracoli si contano sulla punta delle dita.

Marco ne riferisce solo due in confronto alle decine del periodo precedente.

Anche Matteo ha notizia soltanto degli stessi due miracoli, più uno,
(cf. Mt. 17, 14-21; 20, 29-34 e 17, 24-27).

Luca conosce solo cinque miracoli, cioè i due di Marco e di Matteo più
tre.

Tutto qui.

Perché tanti miracoli nel primo periodo e così pochi nel secondo?

Incomincia l'allusione costante alla passione:
In un primo tempo solo una volta o l'altra si parla della Passione come di una possibilità futura.

Adesso nella seconda fase la grande preoccupazione di Gesù sono
i discepoli e la loro educazione.

Molte volte resta solo con loro e cerca di educarli. (Mc. 9, 28.30.35;
8, 27-31; 1, 10.23-27.28-31; 9, 38-41).
Fa perfino un viaggio all'estero, nella regione di Tiro e Sidone, per stare solo con i discepoli.

Gesù per la prima volta parla di Chiesa (Mt. 16, 18).

Cambia il modo di trattare il popolo:
Prima la grande preoccupazione
di Gesù era il popolo.

Adesso nella seconda fase, la Passione è una certezza e se ne parla continuamente.

Gesù arriva al punto di fare profezie sulla passione
(cf. Mc. 8, 31-32; 9, 30-32; l0, 32-34).

Incomincia a parlare della necessità della croce ai suoi discepoli:
Non solo parla della sua passione ma anche della necessità
di soffrire con lui.

Insiste sulle dure condizioni per poter essere suoi discepoli
(cf. Mt. 16, 24-28; Mc. 8, 34-38; Lc. 9, 23-27; 14, 27; 17, 33; 12, 9; Mc. 10, 28-31 ecc.).

Prima, durante il primo periodo, non insisteva così tanto sulla
necessità di soffrire con Lui.

La prospettiva delle parabole è differente:
in un primo tempo Gesù usava molte parabole per illustrare il mistero
del Regno che deve realizzarsi nel futuro attraverso la passione e la morte.

L'opposizione dei farisei diventa evidente:
Nella prima fase si sentiva un'opposizione velata contro Gesù da parte dei capi del popolo.

In questa seconda fase l'opposizione diventa chiara aperta e irreversibile.

Queste sono le differenze tra il primo e il secondo periodo
dell'attività di Gesù, che si scoprono leggendo attentamente i
Vangeli.

Una spiegazione si impone:
quale fu l'avvenimento che impresse una direzione nuova all'attività di Gesù?





3. Bilancio, revisione e cambiamento di attività nella vita di Gesù


Gesù lasciò la Palestina e andò nella regione di Tiro e Sidone,
e tornando di là con i suoi discepoli, quando arrivò vicino a
Cesarea di Filippi, si fermò e fece un bilancio della situazione
concreta:

«Chi dicono gli uomini che io sia?»

I discepoli enumerarono le opinioni del popolo che erano le più disparate:

«Dicono che sei Giovanni Battista, Elia, Geremia o uno degli antichi
profeti». (Mt. 16, 14; Le. 9, 19; Mc. 8, 28).

Risultato meschino.
Nessuno ha colto nel segno.
Tutti hanno sbagliato.

Nessuno è arrivato a scoprire chi era Gesù.

Allora.
Gesù domandò agli Apostoli:

«E voi?
chi dite che io sia?»

Pietro risposte in nome di tutti e proclamò che Gesù era Cristo cioè il Messia, il Salvatore
promesso da Dio (Mc. 8, 29), e Matteo aggiunse:
«Tu sei il Figlio di Dio vivo» (Mt. 16, 16).

Avevano colto nel segno.
Per loro l'attività di Gesù non era stata inutile.

Fatto il bilancio del suo agire in mezzo al popolo, quale sarà la reazione di Gesù di fronte alla realtà?

Gesù fu sempre obbediente al Padre.

L'obbedienza fu la nota caratteristica della sua vita.

Paolo dice che Gesù fu obbediente fino alla morte (Fil. 2, 8) e che venne al mondo proprio
per fare la volontà del Padre (Ebr. 10, 9).

Gesù stesso lo affermò tante volte:
«Non faccio niente di mia iniziativa, ma come il Padre mi ha insegnato, così parlo... Faccio
sempre quello che piace a Lui» (Gv. 8, 28-29).

Non dobbiamo però intendere l'obbedienza di Gesù come se Lui non avesse bisogno di esaminare i fatti
e gli avvenimenti, come se per Lui tutto fosse chiaro e lampante.

Gesù legge la volontà del Padre negli avvenimenti, nella Bibbia, nella situazione concreta.

Per questo si ritira e prega il Padre nella solitudine durante notti intere (Lc. 6, 12; 9, 18; 5, 16).

Molte volte la situazione concreta lo spinge a cambiare comportamento (cf. Gv. 4, 31-34).

La lettera agli Ebrei arriva a dire che Gesù imparò ad obbedire attraverso la sofferenza (Ebr. 5, 8).

In questo Gesù fu davvero uomo «in tutto uguale a noi eccetto nel peccato» (Ebr. 2, 17-18; 4, 15).

Non solo cercava di scoprire la volontà di Dio ma la metteva in pratica ad ogni costo.

Dio rispetta profondamente la libertà degli uomini.
Nella prima fase della sua attività Gesù annunciò l'arrivo del Regno
(Mt. 1, 15).

Mise in azione tutti i segni necessari perché il popolo potesse accorgersi che il Messia promesso era proprio Lui.

Ma il popolo aveva un'idea così differente del Messia che non arrivò a riconoscerlo in Gesù.

Gesù in un primo momento non usò per sé il nome di Messia, perché l'espressione era politicamente
sospetta, come sarebbe oggi la parola sovversivo o coscientizzazione.

Non voleva aumentare l'equivoco già esistente.

Realizzò la promessa senza darle un nome.

Lo doveva scoprire da sé il popolo, e riformare il suo modo di immaginarsi il Regno.

Ma questo non si avverò.

La grande opportunità «dell'anno della bontà del Signore» (Lc. 4, 19) fu annunciata e offerta
a tutti, ma non fu riconosciuta né accolta.

Dio lasciò l'uomo libero di decidere come realizzare la sua salvezza.

Il bilancio ne fu la prova lampante.

Risultò che l'attività di Gesù era arrivata al punto cruciale di una svolta decisiva.

A partire dalla libera decisione degli uomini di fronte all'annuncio
del Vangelo, Gesù rivede tutta la sua maniera di agire.

Vede sotto una luce nuova la realizzazione del Regno di Dio.
La profezia che parla della sofferenza e della morte del Servo Sofferente di Jahvé (Is. 53, 1-13)
segna d'ora in poi il suo cammino.

È questa adesso la volontà del Padre, espressa chiaramente nella Sacra
Scrittura che Gesù accetta, sebbene con angustia e paura
(cf. Gv. 12, 27).

Il rifiuto degli uomini non è valso ad impedire la realizzazione del piano di Dio.

Al contrario, ha contribuito alla sua realizzazione in un modo differente, per cui si rivela ancora
meglio la bontà di Dio verso
gli uomini.

Sarebbe ozioso domandarsi:
«Come sarebbe stato il Regno se gli uomini lo avessero accettato fin
da principio?».

Nessuno lo può sapere.
È una delle tante probabilità che non si sono realizzate.






4. La tentazione nella vita di Gesù


Nessuno può negare che Gesù fu tentato, dal momento che gli evangelisti ne parlano in modo
esplicito (Mt. 4, 1-11; Mc. 1, 12-13; Lc. 4, 1-13).

La lettera agli Ebrei dice che la tentazione fu una delle caratteristiche costanti della vita
di Gesù (Ebr. 4, 15).

Gesù fu tentato nel deserto, dove Satana cercò di spingerlo a seguire
un'altra strada per realizzare la sua missione, diversa da quella
che Dio gli aveva proposto.

Gesù reagisce decisamente con frasi prese dalla Bibbia e non permette che Satana
raggiunga il suo fine.

Satana è tutto ciò che devia l'uomo dal cammino segnato da Dio.

Più avanti Pietro sarà chiamato Satana (Mc. 8, 33), perché voleva dissuadere Gesù dal seguire
il cammino della sofferenza.

Pietro pensava che un cammino del genere non si addicesse alla dignità di Messia.

Oltre alle due circostanze in cui appare Satana, Luca allude a lui un'altra volta quando dice:
«Dopo tutte quelle tentazioni, Satana si allontanò da lui fino alla prossima volta» (Lc. 4, 13).

Qual’è quest'altra volta?

Gesù si trova sempre di fronte all'alternativa di seguire il cammino
voluto dal Padre o il cammino voluto dal popolo.

Per esempio, dopo la moltiplicazione dei pani il popolo voleva fare
di Gesù un re.

«Giudicarono che Gesù era davvero il profeta che doveva venire al mondo» (Gv. 6, 14) e volevano farne
un Messia a modo loro, un Messia politico e terreno.

Fu una tentazione per Gesù, che vi resistette fuggendo sulla montagna (Gv. 6, 15).

Durante la prima fase della sua attività, Gesù cercò di far cambiare al popolo l'opinione che aveva sul Messia e
sul Regno, accettandolo così com'era senza mettere condizioni e senza andare dietro a preconcetti.

Non ci riuscì.

Il popolo persistette nella sua opinione e Gesù lo rispettò.

Continuamente le velleità del popolo provocano Gesù a lasciare un cammino per un altro.

È la tentazione, la crisi nella vita di Gesù.

Satana interferisce cercando di sviarlo dal cammino tracciato dal Padre.

È come dire che gli uomini tentano continuamente di inquadrare Dio dentro
i loro progetti umani, senza permettergli di criticarli.

Ma Gesù non si sposta dalla sua direzione, pregando sempre.

Non cedette ai facili compromessi del potere e delle aspirazioni del popolo.

Le cose andavano verso una definizione.

L'ora della definizione arrivò anche per Gesù:
capì che non era possibile cambiare la mentalità del popolo, a causa soprattutto dell'influenza
dei capi, i farisei e gli scribi.

Mai e poi mai avrebbero accettato il punto di vista di Gesù.

Sarebbe stato lo stesso che decretare il crollo della loro posizione sociale.
Per cui le cose erano chiare.

Gesù a sua volta non cambiava di certo.
Era inevitabile il conflitto.

La croce si delineava sull'orizzonte della sua vita.
La morte violenta non è più solo possibile, è diventata una certezza.

Penetrando così l'orizzonte degli avvenimenti alla luce della
missione ricevuta dal Padre e alla luce dell'amore e del rispetto

verso gli uomini, Gesù comincia a cambiare la direzione della
sua attività.


Il suo futuro dipende adesso dalla decisione che Lui stesso prenderà di fronte alla reazione negativa del popolo.

Decisione di vita o di morte.
Fu obbediente al Padre, scelse il cammino della fedeltà che lo avrebbe portato fino alla morte.

La sua decisione fu irremovibile:
«prese decisamente il cammino
di Gerusalemme» (Lc. 9, 51) dove sarebbe stato ucciso.

Tutto ciò non avvenne senza conflitto interiore, senza tentazione, simile a quelle che si dettero
nel deserto e nell'orto degli ulivi, come ci raccontano i Vangeli.

Satana ritorna costantemente, per così dire, nella vita di Gesù.

La Trasfigurazione occupa un posto centrale nel cambiamento che si operò nella vita di Gesù.






5. Crisi e tentazione nella vita degli apostoli


Gesù lanciò quella domanda:
«Chi dicono gli uomini che io sia?» (Mc. 8, 27).

La risposta gli venne dal bilancio dell'inchiesta sulle opinioni del
popolo.

Nessuno ci indovinò.

Fece la stessa domanda agli apostoli e Pietro rispose per tutti:
«Tu sei il Messia» (Mc. 8, 29).

Lo accettavano così com'era, senza condizioni né preconcetti.

Almeno così sembrava.
Firmavano il foglio in bianco, disposti a tutto.

Gesù cominciò subito a riempire il foglio in bianco.
Le Sue parole esprimevano la decisione già matura dentro di Lui.

Gesù incominciò col dire ciò che pensava della sua missione messianica.

Come se dicesse:
«Ottimo.
Dunque io sono il Messia, ma dovete sapere che il Messia dovrà soffrire molto, sarà rinnegato dai capi del popolo,
sarà dato alla morte ma risusciterà» (cf. Mc. 8, 1).

La rivelazione fu uno choc, un fulmine a ciel sereno per gli apostoli.

Non andava assolutamente d'accordo con le idee che avevano sul Messia.

Come il popolo, anch'essi pensavano ad un Messia glorioso, maestoso, giudice severo.

E adesso l'uomo, che credevano fosse il Messia, viene a raccontare che
proprio in quanto Messia sarà canzonato, rinnegato, torturato, condannato a morte come un bandito.

Non entrava nelle loro teste.
Gli apostoli precipitarono in una crisi di fede.

Pietro che poc'anzi aveva interpretato il sentimento di tutti dicendo che Gesù era il Messia, anche adesso interpreta
il sentimento di tutti e dice:
«Sei pazzo Signore!
Mai e poi mai ti succederà
una cosa simile!» (Mt. 16, 22; Mc. 8, 32).

La reazione di Gesù fu delle più inattese:
«Vattene Satana!
Tu mi impedisci il cammino!
Tu pensi come pensano gli uomini, non come pensa Iddio!
» (Mt. 16, 23; Mc. 8, 33).

Cominciò il conflitto, ma Gesù tenne duro nel suo modo di intendere la missione di Messia e di Salvatore.

Sarà doloroso portarla fino in fondo, perché sarà osteggiata dai migliori amici ed anche dal popolo in generale.

Gesù non diminuì il problema.

Non solo disse che Lui avrebbe dovuto soffrire, ma aggiunse che anche loro, gli Apostoli, avrebbero dovuto soffrire,
rinnegare se stessi, caricarsi la croce sulle spalle e seguirlo. (Mc. 8, 34; Mt. 16, 24-25).

Non c'era più alcun dubbio.
Invece di addolcire la pillola, Gesù gliene fa assaporare
tutta l'amarezza.

Chi vuole andare con Lui deve sapere ciò che sta facendo, deve sapere ciò che l'aspetta.

La Trasfigurazione avvenne in questo clima generale:
Gesù che soffre la tentazione da parte del popolo, che esige da lui tutt'altra cosa, e da parte degli apostoli, che non lo capiscono;

che soffre in più tutto il disgusto naturale che la morte causa in qualunque persona normale; gli apostoli in profonda crisi non sanno
più che cosa fare;

il popolo vuole impadronirsi di Gesù per farne un re e un messia terreno e politico;
ma è un popolo che non sa quello che fa, come un gregge senza pastore:
un popolo che merita compassione più che giudizio severo (cf. Mc. 6, 34).

Questa è la situazione concreta di Gesù e degli apostoli.






6. La Trasfigurazione nel contesto della vita di Gesù e degli apostoli


Nella descrizione della Trasfigurazione si allude alle 'tende'
(Mt. 17, 4; Me. 9, 5; Lc. 9, 33).

Il racconto incomincia con una precisazione cronologica:
«sei giorni dopo» (Mt. 17,1; Mc. 9, 2) che non ha nulla a che vedere col testo precedente.

Che senso hanno queste due osservazioni preliminari?

Esisteva tra i Giudei una festa chiamata «Festa dei Tabernacoli
» o «Festa delle Tende».

Commemorava i 40 anni che i Giudei passarono nel deserto sotto le tende.
La festa durava sette giorni, durante i quali il popolo aveva l'obbligo di vivere sotto tende improvvisate.

Se non avesse potuto farlo durante tutti i 7 giorni, lo doveva fare almeno per tutto il settimo giorno.

Era una festa nazionale pregna di speranza messianica, più o meno come il XX Settembre a Roma.

Quando i partiti vogliono fare qualche manifestazione di protesta contro il Vaticano, scelgono di preferenza un giorno come questo.

Anche allora era così.

In un giorno come quello dei Tabernacoli il popolo si metteva in tumulto, sembrava attendere il Messia con maggiore impazienza:
«... verrà oggi? ...» Credevano che il Messia sarebbe venuto in un giorno come quello.

L'aria era carica di speranza messianico-politica.

Il popolo guardava Gesù sperando e supplicando che si definisse e si proclamasse Messia.

La tentazione era sempre più forte, più violenta e insistente,soprattutto nell'ultimo giorno di festa.

«Dopo sei giorni» cioè nel settimo, Gesù cercò un luogo solitario, come
già un'altra volta quando fuggì sulla montagna (Gv. 6, 15).

Sale sul monte a pregare (Lc. 9, 28).

Di fronte alla tentazione che gli viene dal popolo, Gesù si fissa in Dio con l'orazione.

Porta con sé solo tre apostoli:
Pietro, Giacomo e Giovanni.

Là nella solitudine Pietro si ricorda del dovere di mettere su le tende, perché era l'ultimo giorno.
«È bene per Te, Signore, stare qui con noi;
facciamo tre tende» (Mt. 17, 4).

Apparvero due figure:
Mosè ed Elia che rappresentavano
l'Antico Testamento;
e si misero a parlare con Gesù della morte che lo aspettava a Gerusalemme (Lc. 9, 31).

Il che significa:
anche l'Antico Testamento, che per gli apostoli era la più alta
espressione della volontà di Dio, dava ragione a Gesù:
doveva soffrire perché questo era il piano di Dio indicato dai Profeti.

Allo stesso tempo Gesù appare tutto glorioso, differente, trasfigurato.

L'insieme dei fatti offriva agli apostoli il mezzo per vincere la loro crisi di fede.
Vedevano Gesù totalmente glorificato, di quella gloria che avevano sognato per il Messia.

Allo Stesso tempo l'Antico Testamento, nella persona dei suoi maggiori rappresentanti Mosè ed Elia, confermava che Gesù doveva proprio soffrire.

La passione, di cui Gesù aveva tanto parlato e contro la quale si erano ribellati, rientrava proprio nel piano di Dio.

La croce era il cammino della gloria.
Non ce n'era un altro.
Il torto era loro.

Gesù aveva tutte le ragioni.
Bisognava cambiare idea e rivedere le proprie posizioni.

Dal cielo una voce li confermò nella loro conclusione:
«Questo è il mio figlio tanto amato!

Dovete ascoltarlo!» (Mc. 9, 7).

Incomincia la lenta vittoria sulla crisi di fede provocata dallo scandalo della croce.

Secondo il Vangelo di Luca la Trasfigurazione fu molto simile per Gesù all'agonia dell'orto degli ulivi:
in tutt'e due i casi vediamo degli uomini che parlano con Gesù sulla passione e morte (Lc. 9, 31).

Nell'agonia appare un angelo per incoraggiarlo ad accettare la passione e la morte (Lc. 22-43).

In tutte e due i casi gli apostoli dormono (Lc. 9, 32 e 22, 45).

Nella Trasfigurazione, mentre Gesù prega, il suo aspetto è glorioso
(Lc. 9, 29) e nell'agonia, mentre prega, il suo aspetto è ben altro, perché gocce di sangue gli scorrono fino a terra. (Lc. 22, 44).

Per alzare un poco il velo del mistero che avvolge la persona di Cristo
e per riuscire a sapere che cosa avvenne dentro di Lui al momento della Trasfigurazione, possiamo ricorrere alla scena dell'agonia
e dire così: qui Gesù ha l'aspetto di un vero uomo.

Come qualunque uomo, sente la paura e l'angoscia del1a morte mal'affronta
con coraggio e preghiera per essere fedele a Dio.
La sua missione è arrivata al momento critico.

Per sottrarsi agli inviti del popolo che voleva deviarlo dal suo cammino, si apparta, vuole stare solo con il Padre.

Mentre prega e riflette sull' Antico Testamento, affronta una situazione uguale a quel1a affrontata col demonio nel deserto,
servendosi delle parole del1a Sacra Scrittura.

L'adesione incrollabile di Gesù al Padre riceve una risposta nella Trasfigurazione quando appaiono i due rappresentanti
dell' Antico Testamento e una voce celeste si fa sentire:
«Questo è il mio figlio amato in cui trovo quello che amo» (Mt. 17,5).

Finito tutto, Gesù proibisce ai tre di svelare agli altri quello che hanno veduto (Mt. 19, 9; Mc. 9, 9; Lc. 9, 36).

Tutto sparisce e resta solo Gesù.

Gli evangelisti insistono sul particolare:
solo Gesù!
Come se volessero dire:
d'ora in poi l'unica espressione della volontà di Dio in mezzo agli uomini è Gesù Cristo nell'atto di accettare
la morte, di dare tutto se stesso ai fratelli.

Gesù in questo preciso atteggiamento è la legge che deve orientare
la vita.

A partire da questo momento tanto decisivo incomincia la seconda
fase della vita di Gesù, come abbiamo detto sopra.






7. La Trasfigurazione nei Vangeli


Ogni evangelista descrive il fatto a modo suo.

Quando tre persone dipingono lo stesso amico, ciascuna
delle tre lo dipinge in un modo differente, perché ciascuna vede nell'amico un aspetto
che gli altri non vedono.

La differenza si rivela nei piccoli tratti.
Il Vangelo di Matteo (Mt. 17, 1•8) dice che il volto di Gesù
sembrava il sole;
parla in una nuvola luminosa;
afferma che i discepoli ebbero paura quando udirono la voce celeste.

Gli altri due, Marco e Luca, non danno gli stessi particolari, e pur dicendo che gli apostoli ebbero paura,
vedono il fatto in un altro
contesto.

Accentuando i piccoli tratti caratteristici, Matteo, che scrive per i Giudei convertiti, fa pensare a Mosè che aveva
il volto splendente come il sole quando scese dalla montagna con le dieci tavole della Legge antica, (Es. 34, 29-35) e ci ricorda la nuvola luminosa che si abbassò sulla
montagna del Sinai quando Dio dette la sua Legge per mezzo di Mosè.

Matteo vuol suggerire che l'antica legge fu data per mezzo di Mosè e la nuova legge per mezzo di Gesù Cristo.

Gesù stesso è la legge nuova, perché Dio ha detto:
«ascoltatelo» (Mt. 17, 5).

Come il popolo dell'Antico Testamento ebbe paura quando vide Mosè con
la Legge, la stessa paura ritorna al momento in cui è data la legge nuova.

Il Vangelo di Marco (Mc. 9, 2-8) dà pochi tratti caratteristici quando descrive il quadro della Trasfigurazione.
Racconta solamente quello che se ne diceva, senza preoccuparsi di aggiungervi nessuna opinione personale.

L'unica cosa pittoresca, molto appropriata a Marco, è il giudizio sul candore delle vesti di Gesù trasfigurato:
«così bianco che nessuna lavandaia riuscirebbe a fare altrettanto»
(Mc. 9, 2).

Il Vangelo di Luca (Lc. 9, 28-36), come abbiamo visto, accentua la somiglianza che esiste tra la Trasfigurazione
e l'agonia di Gesù nell'orto.

Ma prima ancora di essere descritto dai tre evangelisti, esisteva il racconto orale della Trasfigurazione
tramandato dai primi cristiani.

Perché tramandavano il fatto?

A quanto sembra i motivi sono vari:
anzitutto lo scandalo della croce era una pietra d'inciampo molto grande all'evangelizzazione dei giudei (cf. I Cor, 1, 23).

Come fare perché credessero che un uomo condannato da due tribunali e ucciso scandalosamente sulla croce
potesse essere accettato come Messia?

Solo dimostrando che la sofferenza e la croce rientravano nel piano di Dio descritto dall'Antico Testamento.

La Trasfigurazione risolveva il problema e dimostrava che secondo l'Antico Testamento la croce era il cammino
del Messia verso la gloria.

In secondo luogo i cristiani trovavano nell'avvenimento una conferma alla loro fede in Gesù Figlio di Dio,
dal momento che Dio stesso aveva detto: «Questo è il figlio mio!»

Infine il racconto rafforzava l'autorità di Gesù Cristo:
era Lui la Legge e la norma del cristiano:
«Ascoltatelo!»

Questa è la storia della Trasfigurazione.

Uno studio attento di un episodio molto noto della vita di Gesù ce ne ha rivelato aspetti sconosciuti.

Ci ha dimostrato quanto sia giusta la verità che professiamo:
Dio si incarnò in Cristo e si fece uomo come noi.

Forse da oggi saremo capaci di fissare con più attenzione lo sguardo sull'autore della nostra fede, Gesù, che invece di accettare
la felicità che gli veniva offerta «sofferse la croce» (Ebr. 12, 1-2).



SEGUE..

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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XVI [SM=g6198] [SM=g6198]

la libertà del cristiano:
prassi pluralista della stessa fede in Gesù Cristo





1. Una situazione di conflitto nella Chiesa, sintomo di un male occulto


Paolo non se la intendeva molto con la comunità di Gerusalemme.

Non era colpa sua.

Alcuni cristiani di là non confidavano in lui.

Oltre a conservare il ricordo doloroso della persecuzione che Paolo aveva
fatto contro di loro (Atti 9, 13-26), lo giudicavano troppo avanzato.

Correva voce che avesse fatto piazza pulita di tutte le tradizioni e che incitasse i giudei del mondo intero a mettere da parte l'osservanza della legge di Mosè (Atti 18, 13; 21, 28) .

Avrebbe detto che la circoncisione non valeva più niente (Atti 21, 21).

Più o meno come se oggi qualcuno dicesse che il precetto domenicale, il celibato, il digiuno eucaristico, i nastri, la corona alla Madonna ecc. non valgono più niente.

Paolo sentiva fino in fondo la mancanza di fiducia dei suoi fratelli nella fede.

Proprio contro di lui, che aveva dato tutto se stesso per amore di Cristo nel quale anche loro credevano (Gal. 2, 20; II Cor. 10, 1; 11, 22-23; Fil. 3, 5-8).

Oltre ad essere falsa, l'accusa contro di lui era sintomo di un male occulto.

Rivelava una divergenza molto profonda tra Paolo e i suoi colleghi di Gerusalemme.

Le loro idee sul Vangelo e sulla funzione e il posto di Gesù nella vita degli uomini erano radicalmente opposte.

Paolo giudicava del tutto compatibile con l'unità della fede un certo pluralismo nella maniera di viverla.

I Giudei convertiti vivevano la fede nella sincerità e nel dono di sé, seguendo le prescrizioni di Mosè: (Atti 21,20; cf. 10, 14-28; 11, 3; 1,46). Paolo non era contrario a questo.

Anche lui, quando lo credeva opportuno, osservava la legge (I Cor. 9,20).

Non per questo potevano accusarlo di opportunismo, giacché non cercava il suo interesse.

Non poteva sopportare la pretesa di certi colleghi di Gerusalemme, che volevano addurre la maniera giudaica di vivere il vangelo come l'unica valida e autentica, imponendola a tutti come passaggio obbligatorio per entrare a far parte della salvezza di Cristo. (Atti 15, 1.5.24).

Paolo diceva che un pagano convertito al cristianesimo doveva poter vivere la stessa fede a modo suo, differente dai giudei ma con la stessa sincerità e con lo stesso dono totale di sé.

Ed era proprio qui il punto di divergenza.

Gli altri non avevano la stessa apertura di spirito e contestavano la tesi di Paolo.

Forse non agivano neppure con malizia, ma spinti da una coscienza
deformata.

Paolo però aveva i suoi dubbi sulla sincerità di costoro (cf. Gal. 2,45; 4, 17; 6,12; Fil. 3, 2).

Comunque fosse, essi si davano molto da fare e si organizzavano per raggiungere il loro fine.





2. Dubbi e dissidi interni generati dal conflitto


Ne venne una grande confusione all'interno della Chiesa (Atti 15, 2).

Nessuno sapeva più dov'era la Verità.

Chi aveva ragione?

Paolo o il gruppo di Gerusalemme, che si nascondeva dietro il nome dell'Apostolo Giacomo? (GaI. 2, 12).

Perfino Pietro, capo della Chiesa, stava in dubbio, non riuscendo a distinguere il cammino giusto, a causa del carattere eminentemente pratico del problema, e subì l'influenza del gruppo di Gerusalemme
(Gal. 2, 11-14).

La Chiesa si trovava al bivio e nessuno sapeva quale fosse il cammino giusto che bisognava prendere.

Non era stato previsto.

Cristo non aveva lasciato niente di scritto:
le norme precedenti non erano capaci di equilibrare il problema totalmente nuovo, che richiedeva creatività, La scelta era difficile: continuando sulla strada dei più moderati non sarebbero caduti nel pericolo della persecuzione, però nessun pagano sarebbe più entrato nella Chiesa per non sottomettersi al rito della circoncisione;
la Chiesa si sarebbe ridotta ad una setta giudaica che il tempo avrebbe inghiottito.

Continuando sul cammino di Paolo, il mondo giudeo e romano si sarebbero abbattuti sul cristianesimo, (cf. Atti 13, 45; 13, 50; 14, 2.5; 16, 20) ma la fede si sarebbe aperta a tutti gli uomini indistintamente.

Che fare?

Attirare su di sé l'ira di tutti e mettere in pericolo la sopravvivenza della fede per eccesso di velocità, o procedere con più calma e mettere in pericolo la sopravvivenza della fede per morte prematura?

Paolo era della prima idea e si batté per sostenerla.

Soffrì molto a causa della sua convinzione.

I suoi avversari fecero di tutto per screditarlo.

Tentarono di contestare la sua autorità:
il Vangelo che predicava era roba sua, non era il Vangelo degli Apostoli Pietro e Giacomo (cf. Gal. 2, 6-9; 1, 19-23).

Una volta distrutta la sua autorità, tutta la base del suo lavoro sarebbe stata minata.

Paolo fu costretto a difendersi dimostrando che non c'era nessuna divergenza fra lui e i due grandi apostoli (Gal. 2, 1-10).

Fece di tutto per sfatare l'impressione che lui fosse un demolitore della legge e della tradizione (cf. II Cor. 11, 21-23; 12, 11; Atti 25,8; 24.14-16; I Cor. 9,20; Rom. 3,31;10, 4).

È ben possibile che la reazione degli altri contro Paolo fosse causata solo dalla paura della persecuzione.

È difficile dare un giudizio a distanza di tanto tempo.

Paolo almeno la pensava così:
«lo fanno solo per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo!» (Gal. 6, 12). E li chiamava «falsi frate11i,> (Gal. 2, 4;
II Cor. 11, 26.12-13).






3. La convinzione di Paolo tradotta in gesti concreti


Poco importava a Paolo che uno fosse circonciso o no, che fosse un cristiano venuto dal giudaismo o dal paganesimo
(Gal.6, 15; 5, 6; I Cor. 9, 20).

A nessuno era proibito di osservare la legge di Mosè.

Ma allo stesso tempo non sopportava la pretesa addotta da altri, che la legge fosse indispensabile per essere cristiani.

La salvezza portata da Gesù era aperta a tutti, perché Paolo diceva che bastava la fede in Gesù Cristo, intesa come adesione totale a lui
(Gal. 3, 22; 2, 15-19.21).

Di fronte a Cristo tutti siamo uguali.

Le osservanze, le prescrizioni e quella enormità di norme, tutto passa in secondo piano come mezzo e strumento.

Perciò quando lo riteneva utile, per farsi cioè giudeo con i giudei, Paolo osservava la legge di Mosè (I Cor. 9, 20).

Arrivò perfino a circoncidere Timoteo per facilitare il rapporto con i Giudei (Atti 16, 3).

Ma si oppose energicamente a fare lo stesso con Tito, quando gli altri ne volevano fare una questione di principio (Gal. 2, 3-5; 5, 2).

Lo stesso si dica delle osservanze giudaiche rispetto al bere e al mangiare.

Paolo credeva che in tutte queste cose quello che vale è la coscienza (Rom. 14, 1-5).

Facesse pure ciascuno quello che gli pareva meglio, purché seguisse sempre la sua coscienza e facesse tutto per il Signore (Rom. 14, 6-9), perché alla fine «il regno di Dio non è una questione di mangiare e di bere» (Rom.14, 17).

Che fossero liberi davvero! (Gal. 5, 1).

Quando però gli altri pretendevano fare di cose secondarie una questione di principio, allora Paolo reagiva con forza perfino contro lo stesso Pietro (Gal. 2, 11-14) e protestava che le pretese di lui erano contrarie alla volontà di Dio, adatte solo a «fomentare l'orgoglio» (Col. 2, 23).

Niente di più che semplici prescrizioni umane (Col. 2, 12).

Paolo aveva orrore dell'uniformità dell'agire imposta in nome della fede.

Non gli piacevano coloro che non capivano niente di quello che è essenziale e assumevano il ruolo di difensori delle cose secondarie, pretendendo di definire con la loro misura l'ortodossia di un altro.

Come egli diceva:
«il regno di Dio non è una questione di mangiare o di bere»;

noi oggi potremmo dire:
«il regno di Dio non è questione di comunione data in mano o in bocca, di prete sposato o no, di colore dei paramenti, di veste bianca o marrone, di confessione una volta al mese o una volta all'anno, di Messa con una lettura o tre, di digiuno eucaristico di 50 o 60 minuti, di «e con il tuo spirito» o «egli sta in mezzo a noi», e di una infinità di altre quisquiglie che offuscano la chiarezza della visione.

Il Regno di Dio è «giustizia e pace allegria nello Spirito Santo» (Rom. 14, 17).

Quello che vale davvero è «la fede che opera e si manifesta nell'amore» (Gal. 5, 6).

Tutto il resto è buono valido ed utile in quanto ha la capacità di portarmi a questo e di questo è l'espressione.

Altrimenti non vale niente; «certamente non viene da Colui che vi chiamò» (Gal. 5, 8).

In un'altra occasione Paolo arrivò a prendere un atteggiamento che gli deve essere costato molto.

Tornando a Gerusalemme dopo il III viaggio missionario nel mondo pagano, accettò di portare alcuni uomini al tempio per sciogliere una promessa fatta secondo la legge di Mosè.

Si trattava di una manovra tattica messa su da alcuni suoi colleghi di Gerusalemme, per dare agli altri l'impressione che Paolo non era contrario alla legge.(Atti 21, 20-24).

Ma in altri casi, quando era solo problema di convenienze a tavola, Paolo arrivò a scontrarsi con Pietro in pubblico (Gal. 2, 11-14).

Per motivi di tradizioni e convenienze giudaiche, Pietro si lasciò coinvolgere dal gruppo di Gerusalemme e abbandonò la convivenza con i pagani convertiti mangiando solo con i giudei convertiti.

Per questa ragione i pagani si sentirono ridotti ad una categoria di cristiani inferiori e si sentirono costretti dalla situazione ad osservare le stesse convenzioni.

Di fronte a ciò Paolo reagì fortemente:
«Se tu, pur essendo giudeo, vivi come uno che non è giudeo, come puoi costringere i non-giudei a vivere come i giudei?»
«Disse questo alla presenza di tutti». (Gal. 2, 14).

Si vede bene che nonostante fossero in gioco interessi così importanti, la lotta ieri come oggi nasce sempre dalle cose più comuni della vita, cose irritanti, di nessuna importanza; eppure la battaglia si decide proprio là.

Si avanza di un chilometro conquistandoselo centimetro per centimetro.






4. La libertà in Cristo


Quello che stava a cuore a Paolo era soprattutto la sua libertà.

Libero dalla legge (Gal. 3, 13) libero da tutto per poter in tutto seguire la sua coscienza nuova, nata in lui dal giorno della sua adesione a Cristo (Gal. 5, 1; 2, 4).

L'obbligatorietà non si impone dal di fuori, nasce dal di dentro.

Per niente avrebbe cambiato la sua libertà (Fil. 3, 7-9) e non avrebbe permesso che altri impedissero ai pagani di vivere la sua stessa libertà (Gal. 2, 4-5).

Neppure Pietro, il capo supremo della Chiesa, aveva l'autorità per farlo (Gal. 2, 14).

Neppure quei «capoccioni»' o «superapostoli» di Gerusalemme (II Cor. 11, 5; 12, 11).

Li affrontava coraggiosamente perché scriveva:
«non mi sento affatto inferiore a loro» (II Cor. 12, 11) perché «lo Spirito di Dio sta in me come in loro» (I Cor. 7, 40).

Partendo da questo punto di vista, Paolo prendeva le sue decisioni non senza consultare gli altri apostoli (Gal. 2, 1-2), che anzi non trovavano niente da ridire di lui, per lo meno in linea di massima (Gal. 2, 6-9).

Forse nella pratica non riuscivano a capire del tutto perché Paolo agisse così.

Molta gente infatti non riusciva a seguire l'apertura di Paolo, perché non era passata per la stessa lotta e per la stessa esperienza per cui era passato lui... Paolo, da parte sua, non esigeva che tutti la pensassero come lui.

Sapeva rispettare la coscienza degli altri.
Proprio perché era davvero libero, si rendeva schiavo degli altri
(I Cor. 9, 19).

Era capace di vedere nell'altro, per quanto debole e tradizionalista egli fosse, un «fratello per cui Gesù è morto» (I Cor. 8, Il).

E se per caso il suo libero modo di agire fosse una pietra d'inciampo per l'altro, era disposto a non mangiare carne per tutta la vita pur di aiutare il fratello (I Cor. 8, 13).

Mise in pratica quello che aveva scritto ai Galati:
«Fratelli, siete stati chiamati alla libertà, non a una libertà che scatena la carne;
anzi siate schiavi gli uni degli altri per amore» (Gal. 5,13);
l'amore lo portava a rispettare la coscienza degli altri.

Chiedeva solo che non gli rendessero più difficile il compito, imponendo restrizioni che non avevano niente a che vedere con la fede in Cristo, e che non nascondessero sotto il manto della fede, e del buon ordine la loro mancanza di coraggio ad affrontare la realtà e le persecuzioni (Gal. 6, 12).

È importante notare che tutto ciò per Paolo non restava nel campo della teoria o sulla pagina scritta.

Aveva il coraggio di insegnarlo agli altri mettendolo lui stesso in pratica e assumendo il rischio delle conseguenze.

Aveva il coraggio di dire ai Galati, popolo semplice e senza molta cultura:
«Lasciatevi guidare dallo Spirito Santo e non servirete più ai desideri della carne» (GaI. 5, 16).

I «desideri della carne» erano tutte quelle preoccupazioni circa le osservanze materiali sul mangiare e sul bere, sulle feste e sulle norme e soprattutto sulla circoncisione che doveva farsi nella carne.

Ma Paolo non si fermava qui.

Dopo avere indicato agli altri la strada, non si risparmiava quando sorgevano difficoltà con le altre autorità.

L'impegno di Paolo con Cristo si traduceva concretamente nel suo impegno con gli altri.

Non stava a fare tante distinzioni teologiche.

Non faceva tante distinzioni tra teoria e pratica.

Si appellava alla prassi del suo impegno reale:
«Da oggi in poi non mi date più gioia, perché io porto nel mio corpo le impronte di Gesù» (Gal. 6, 17).

Alludeva alla sofferenza e alle torture sopportate per amore degli altri.







5. Soluzione del problema: accettazione del pluralismo


Il tempo passava e nella Chiesa aumentava la confusione.

La convivenza tra i cristiani venuti dal paganesimo e i cristiani venuti dal giudaismo diventava sempre più difficile (Atti 15, 1-5).

Era urgente risolvere il problema e raggiungere una visione più chiara del Vangelo.

Convocarono una riunione a Gerusalemme, registrata nella storia come il primo Concilio ecumenico (Atti 15, 6).

Si discusse a lungo (Atti 15, 7).

Alla fine parlò Pietro e chiuse il dibattito:
ciò che salva davvero e libera l'uomo è la sua fede in Gesù Cristo (Atti 15, 11).

Disse questo non per fare cosa gradita a Paolo, ma perché lui stesso aveva visto e capito per esperienza personale e per luce divina che questo era il cammino giusto (Atti 15, 7-9; 10,44-48).

Si schiarì l'orizzonte.

Non fu proibita l'osservanza della legge di Mosè.

Fu solo condannato il carattere obbligatorio dell'osservanza per i pagani convertiti (Atti 15, 10).

Giacomo appoggiò la decisione di Pietro (Atti 15, 13-19) e tutti e due si allontanarono definitivamente da quelli che andavano dicendo il contrario (Atti 15, 24).

Si preoccuparono di lasciare ben chiaro nel comunicato finale della riunione che:
«Essendo stati informati che alcuni dei nostri, senza nessuna autorizzazione, sono venuti a mettervi sottosopra con certe affermazioni, lanciando la confusione nei vostri cuori, abbiamo deciso all'unanimità di designare alcuni uomini e mandarli a voi insieme ai carissimi Barnaba e Paolo, che hanno messo a repentaglio la loro vita per il nome di nostro Signore Gesù Cristo». (Atti 15, 24-26).

Accettata la tesi del pluralismo nel modo di vivere la fede in Gesù Cristo, si cercò di concretarla nella pratica, dando le una certa struttura. La tesi è una cosa, la pratica è un altro paio di maniche.

Nell'applicare la norma generica, gli apostoli seguirono il buon senso.

Non si poteva esigere, per esempio, da un giudeo convinto, come nel caso di Pietro e Giacomo, che andasse a vivere con i cristiani venuti dal paganesimo.

Non era neppure necessario.

Non si poteva esigere da Paolo che si adattasse alle norme della convivenza giudaica.

Per questo lasciarono a Paolo e Barnaba la cura delle comunità esistenti nel mondo pagano.

Pietro e Giacomo si sarebbero incaricati delle comunità del mondo giudaico. (Gal. 2, 7-9).

Tutti però avevano il diritto di vivere la fede in Cristo nella santa libertà della loro coscienza.

Tuttavia, in vista della reciproca convivenza, i pagani convertiti dovevano osservare quattro norme proposte da Giacomo (Atti 15, 20; 21, 25).

Tornò la pace (almeno come possibilità reale), fondata sul rispetto e
sull'accettazione mutua delle divergenze.

I cristiani riuscirono a scoprire e ad accettare la volontà di Dio in mezzo alla confusione generale.

Per quanto possa sembrare assurdo, la accettazione realista delle reciproche divergenze lanciò le basi di un riavvicinamento e di una comunione molto più intima e reale di quella che gli altri avrebbero preteso di raggiungere, imponendo a tutti gli stessi legalismi nel modo di vivere la fede in Gesù Cristo.

Nel Concilio i cristiani conservatori di Gerusalemme, rinunciando alle loro esigenze, tagliarono per così dire il cordone ombelicale e permisero che Cristo nascesse davvero per il mondo intero.

Proprio a causa della loro magnanimità, che certamente non fu facile, raccolsero la gratitudine e il riconoscimento dei cristiani venuti dal paganesimo.

Da questa gratitudine nacque alcun tempo dopo una delle più belle iniziative di unità:
la grande colletta nelle chiese del mondo pagano a favore dei poveri della comunità di Gerusalemme.








6. Dal pluralismo nasce l'iniziativa dell'unità


I cristiani di Gerusalemme, con quella concessione piuttosto sofferta, sbarazzarono la strada del messaggio cristiano al mondo pagano.

Dal mondo pagano, forse a Corinto (II Cor. 8, l0), partì l'iniziativa di retribuire il bene ricevuto (Rom. 15, 27).

Organizzarono una campagna di fraternità che guadagnò la simpatia e la collaborazione di tutte le comunità della Galazia nell' Asia Minore (I Cor. 16, 1); della Macedonia a nord della Grecia (II Coro 8, 1) e dall'Acaia a sud della Grecia (II Cor. 9, 2).

Si verificò perfino una certa concorrenza tra di loro per vedere chi dava più denaro (II Cor. 9, 2).

Furono generosi, nonostante la loro povertà (II Cor. 8, 2-3), perché si parla di una «somma importante» (II Cor. 8, 20).

Fu una mobilitazione generale delle chiese pagane a favore dei fratelli bisognosi di Gerusalemme.

Paolo si fece in quattro per questo lavoro.

Diventò abile mendicante per poter convincere gli altri a dare con generosità (cf.II Cor. cap. 8-9).

Non dobbiamo confondere questa campagna di fraternità con una delle solite collette.

Era segno eloquente che lo Spirito Santo non si lascia mai sconfiggere dai fatti nuovi.

Mai resta prigioniero delle idee degli uomini.

È Creatore e sa suscitare cose nuove quando gli uomini si arrendono per mancanza di idee, sopraffatti dalla realtà.

Divenuta ufficiale la divergenza tra i pagani e i giudei, accettati i fatti, riconosciuta la realtà nel primo concilio, questa stessa realtà nuova appena nata (come succede sempre) suscitò subito un altro problema: come mantenere l'unità nelle condizioni nuove?

Ma c'era di più:
dal momento in cui i cristiani di Gerusalemme riconoscevano e accettavano gli appelli di Dio negli avvenimenti, furono costretti ad assistere al lento spostamento dell'asse della Chiesa verso il mondo pagano.

Sapevano oramai che loro sarebbero diventati una piccola minoranza.

Qual era il loro posto e il loro futuro nella Chiesa?


Avevano tutti lo stesso Cristo, la stessa fede, lo stesso Padre, lo stesso battesimo, lo stesso Spirito Santo (Ef. 4, 4-6), ma la vita era pluriforme.

Da uno stesso tronco stavano spuntando i rami più disparati, sempre più differenti gli uni dagli altri a misura che crescevano.

Però nei rami, per quanto svariati e differenti, scorreva la stessa linfa, che faceva nascere in tutti le stesse foglie e gli stessi frutti:
frutti di carità divenuta concreta nella vasta campagna di fraternità.

L'iniziativa, al dire di tutti:
fu spontanea e non imposta (II Cor. 8, 3.10) e unì le comunità pagane più
di prima e dette ai fratelli di Gerusalemme una coscienza ben più grande di appartenere alla Chiesa più di prima.

La campagna faceva perfino parte del movimento per rendere ufficiale il pluralismo esistente nella Chiesa (Gal. 2, lO).

Era una forma come un'altra di rendere concrete le decisioni del Concilio.

La campagna non serviva tanto per dare agli altri l'impressione di unità, perché non c'era il pubblico del mondo che battesse le mani all'iniziativa dei cristiani.

Non si trattava di una facciata per nascondere la più profonda disunione.

Anzi nacque proprio dall'accettazione realista delle divergenze;
crebbe proprio in seno al pluralismo.

Fu la risposta grata dei cristiani pagani alla magnanimità dei colleghi di Gerusalemme, cui dovevano la libertà di vivere la loro fede secondo la loro ispirazione e la loro realtà (cf. Rom. 15, 26-27).

La disunione era stata vinta perché avevano saputo trovare il senso dell'unità al livello più profondo e più solido del pluralismo, in cui l'amore è libero di dar prova della sua creatività.

Sarebbe stata impossibile una campagna del genere prima del Concilio di Gerusalemme, quando si litigava ancora sulle idee e ognuno voleva imporre all'altro la propria opinione.

A quel tempo la campagna sarebbe stata nelle mani di un gruppo uno strumento di più per dominare l'altro gruppo.

Accettate le diversità e partendo da esse, fiorì l'unità e ogni fiore sbocciò nel suo ambiente con il suo concime e fece bella mostra delle sue qualità e dei suoi colori nella vetrina della Chiesa per rallegrare lo sguardo di tutti i fratelli.

La campagna provò fino a dove arrivasse l'impegno di ciascuno con Cristo e con i frate11i;
era il termometro della sua fede, della sua speranza e della sua carità.

Non era una forma di elemosina da quattro soldi, fatta per mettere a tacere la propria coscienza.







7. Conclusione


Non tutti i giudei convertiti riuscirono a vedere le cose in questo modo.

Non capirono l'immensa apertura del Concilio e continuarono anche dopo a difendere la loro posizione, dando noia a Paolo il più possibile.

Ma chi vince una guerra non si cura di una piccola scaramuccia.

Le discussioni, per quanto dolorose, non arrivarono a togliere a Paolo un profondo sentimento di gratitudine.

Sapeva discernere chiaramente tra l'iniziativa di pochi, anche se pericolosissima e molto sgradevole, e l'iniziativa della Chiesa.

Tutti questi fatti successero nel passato e non tornano più.

Oggi però esiste nella Chiesa una situazione di conflitto, che a quanto sembra è sintomo di una profonda divergenza circa il significato del Vangelo.

Non saremo proprio noi (oggi come allora) ad impedire la venuta al mondo di Cristo, mantenendoci attaccati a schemi e a modi di
pensare e di vivere che poco o niente hanno a che fare con la fede?

Non ci è richiesta forse una prova di magnanimità come ai primi cristiani?

Non dovremmo forse essere realisti e accettare il pluralismo nel modo di vivere la stessa fede in Gesù Cristo?

O abbiamo paura di affrontare la realtà e le persecuzioni?



SEGUE..





[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XVII [SM=g6198] [SM=g6198] (ULTIMO)




fede nella resurrezione:
«se dio è con noi chi sarà contro di noi?»

Abbiamo parlato tanto di resurrezione fin dalla prima pagina.
Ci è venuta una curiosità:
«che cosa significa per noi la fede nella resurrezione?»

Tante cose si possono dire, e in tante maniere, a rispetto della resurrezione.
Non diremo tutto e neppure ne saremmo capaci.

Diremo solo quanto basta per rispondere alla domanda che è sorta:
«che cosa significa per noi oggi fede nella resurrezione?»




1. Posizioni che ci rendono difficile capire la resurrezione.


Oggigiorno si parla molto di resurrezione.

Molte sono le domande:
che farà Dio nel giorno della resurrezione?

Il corpo sarà lo stesso di ora?

Grande così?

Chi è brutto, brutto rimane?

E i bambini che muoiono?

Restano sempre bambini?

Se tutti risorgeranno in età matura, chissà che monotonia sarà la vita eterna senza la grazia dei bambini!

E quell'uomo che è morto bruciato e del suo corpo non è rimasto neppure un pezzettino?
Come se la caverà Dio con lui?

Tante domande sorgono e provocano discussioni inutili e insolubili.

Una domanda ne suscita un'altra.

Come il bimbo che va dietro ad un fiore dopo l'altro, e intanto si allontana sempre più da casa.

Quando finalmente si ferma, già si è perduto e non sa più da dove è venuto né dove sta andando.

Scoppia in un pianto dirotto.

Le domande sulla resurrezione sono simili al pianto di quel bambino.

Ci dicono che ci siamo perduti lontano da casa nostra, lontani dal vero senso della verità.

Ci siamo perduti non lungo i difficili sentieri della fede ma nella tela di ragno dei nostri pensieri che
hanno travisato del tutto il senso della resurrezione.

Non sappiamo più che farcene per vivere.

Il buon senso ha fatto capire a tanta gente che certe difficoltà non possono venire da Dio.

Non servono ad altro che a complicare sempre di più la vita già di per sé tanto difficile.

Altri non credono nella resurrezione perché non trovano prove sufficienti, capaci di convincerli.

Dicono che è impossibile provare con la scienza storica il fatto della resurrezione di Cristo, essendo troppi
i problemi implicati nella questione.

Altri ancora si mettono a studiare la resurrezione e vogliono sapere per filo e per segno cosa accadde
in quella domenica di Pasqua, come era il corpo glorioso di Gesù, come si dettero le apparizioni e come si spiegano le contraddizioni registrate nei Vangeli a questo proposito.

Altri infine studiano la resurrezione cercando di difenderla dalle difficoltà.

Cercano insomma di rendere la verità della resurrezione un po' più accettabile per l'uomo di oggi.






2. Come abbordare lo studio sulla fede nella resurrezione?


Credo che con un cristiano, che afferma di aver fede non si debba incominciare da un'esposizione sulla
resurrezione, tentando di documentare il fatto della resurrezione di Gesù con argomenti scientifici e cercando di sfatare gli argomenti contrari.

La resurrezione è una realtà che incide così profondamente nella vita ed ha ripercussioni così profonde su tutto
quello che facciamo che non è possibile farla dipendere da alcuni argomenti incerti, neppure tutti accettabili.

Bisogna partire da una base più solida.

Inoltre chi si mette in questa posizione già va al di sopra della resurrezione, almeno dal punto di vista psicologico,
perché essa viene a dipendere dalla spiegazione che lui darà.



Quando la verità della resurrezione viene a dipendere dalla mia spiegazione io per un momento divento padrone della verità.

La verità esiste e continua ad esistere in forza dei miei argomenti. Difficilmente permetterò allora che la resurrezione,
che è stata sotto il mio dominio e dipende da me, passi al di sopra di me con le esigenze radicali che comporta nella mia vita.

Anzi la Bibbia non colloca affatto la difesa della resurrezione come punto di partenza della sua dimostrazione.

Cominciare lo studio della resurrezione dall'analisi di quello che successe nella domenica di Pasqua ci sembra che
sarebbe come entrare per la porta che non ci introduce in casa.

Così facendo ridurremmo a priori la resurrezione ad un fatto isolato del passato, di un tempo completamente finito.

Ci allontaneremmo sempre di più dalla resurrezione.

Difficilmente si potrebbe in seguito capire che cosa essa significhi nella nostra vita.

I primi cristiani non fecero così.

Nelle lettere di Paolo, che sono anteriori ai Vangeli, si parla quasi ad ogni pagina della resurrezione.. ma quasi mai si parla,
ad eccezione di una sola volta(I Cor. 15, 1-4) delle circostanze storiche in cui si realizzarono le apparizioni e gli avvenimenti della domenica di Pasqua.

Quanto alle domande che siamo soliti fare oggi sulla resurrezione, Paolo risponderebbe così:
«Idiota! Quando mai si è visto un albero o una pianta uguale ad un seme?

Hai visto mai seminare piante ed alberi?

Si semina il seme da cui nasceranno piante ed alberi!
Così tu, che vivi oggi con la tua vita, sei come un seme dal quale, quando muore, nascerà un corpo nuovo, differente,
spirituale per virtù di Dio.

Tu incaricati del seme e al resto ci penserà Dio» (citazione sintetica e libera della I Cor. 15, 35-50).

Resta ancora una domanda:
«Ma allora che significava per Paolo fede nella resurrezione?».






3. Differenza tra noi e i primi cristiani


Molto grande è la differenza tra la nostra maniera di situarci oggi davanti alla resurrezione e la maniera dei primi cristiani
che incarnavano nella vita la stessa verità.


Per la maggior parte di coloro che credono nella resurrezione la fede nella resurrezione si riferisce tanto al passato
come al futuro.

Al passato:
perché diciamo nel «Credo»:
«credo che Gesù Cristo fu crocefisso morì e fu sepolto;

scese nella regione dei morti e risuscitò il terzo giorno».

In forza della fede nella resurrezione accettiamo che quasi 2.000 anni fa un sepolcro fu trovato vuoto e che Gesù risuscitò
apparendo molte volte agli apostoli.

Al futuro:
perché recitiamo nel «Credo»:
«credo nella resurrezione della carne».

In forza della fede nella resurrezione ammettiamo che un giorno, non si sa quando, i morti risusciteranno tutti.

La fede nella resurrezione tiene i piedi ben saldi su questi due pilastri, uno nel passato e uno nel futuro.

E il presente?

C'è qualche filo che leghi un palo all'altro passando sul nostro presente, che illumini la lampada della vita,
che ci faccia vedere la strada dove mettiamo i piedi e metta in marcia il motore dell'esistenza?

Chi vive oggi, che se ne fa della sua fede nella resurrezione?

Esiste qualche resurrezione nella sua vita?

Per la maggior parte di noi cristiani di oggi, sembra che la resurrezione abbia poco a che vedere col presente che viviamo.

È uno di quei misteri della fede difficili e nascosti nella voragine del passato e del futuro, del quale non sappiamo
bene che uso fare nella vita di ogni giorno.

Il modo di esprimere questa stessa verità nel Nuovo Testamento è molto differente.

La prospettiva è un'altra.

Perché io possa parlare della vita devo pur averla questa vita, devo pur essere vivo!
Un marziano, ammesso che esista, potrebbe benissimo studiare la nostra vita terrestre, ma la sua sarebbe sempre
una conoscenza di chi sta al di fuori di quello che studia.

Per quanto intelligente fosse quel marziano, un qualsiasi contadino della più abbandonata regione saprebbe parlare della
vita umana sul globo terrestre con più autorità di lui.

Un cieco che non ha mai visto la luce può ben immaginar si che cosa sia la luce, fare calcoli esatti e complicati,
ma il bambino che ha gli occhi per vedere la luce del giorno ne sa più del cieco, anche se non riesce a dire tutto quello che vive e sente a rispetto della luce.

La stessa cosa succede nel Nuovo Testamento quando si parla di resurrezione.

La fede nella resurrezione era la condizione necessaria per parlare della vita che ne deriva.

I primi cristiani non si mettevano al di sopra della resurrezione per arrivare a dimostrarla né se ne distanziavano
per meglio apprezzarla.

Non si preoccupavano, almeno nei primi tempi, di sapere esattamente quello che successe la domenica di Pasqua
e neppure cominciavano a studiare la resurrezione difendendola.

Chi vive non ha bisogno di dimostrare che è nato.

E neppure ha bisogno di dimostrare che i suoi genitori sono esistiti.

La resurrezione non ha bisogno di difesa.

Era la luce che faceva vedere e leggere la vita.

La fede nella resurrezione era l'ambiente della vita nel quale si viveva e si parlava.

Era come l'aria che respiravano.

Tanto chi parlava di resurrezione come chi ne sentiva parlare, tutti vivevano immersi nella stessa atmosfera nuova.

La fede nella resurrezione era la radice di tutto, come la vita che abbiamo è la radice di tutto quello che si fa nella vita.

Un ramo non può staccarsi dall'albero per vederlo meglio da lontano.

Sarebbe lo stesso che morire.

E neppure gli è necessario dimostrare agli altri che è unito al tronco.

Basta che dia frutti.

Sono questi la prova della sua unione col tronco e con la radice.

Quando il sole è alto nel cielo, nessuno si preoccupa di dimostrare e di difendere l'esistenza del sole.

Si preoccuperà piuttosto, questo si, di godere della sua luce e del suo calore, per migliorare la sua salute.

Da questa seconda preoccupazione è nato il Nuovo Testamento.

Sono due modi molto differenti di affrontare e di vivere la stessa verità.

Noi oggi collochiamo l'oggetto della nostra fede nella resurrezione nel passato e nel futuro.

I primi cristiani lo mettevano nel presente.



Se riflettiamo come il Nuovo Testamento parla della resurrezione, troviamo molti argomenti che possono aiutarci a fare
una revisione della nostra maniera di vedere e vivere la resurrezione.

L'irrompere della fede nella resurrezione è qualcosa di cosi nuovo che non entra nelle nostre teste.

Per cui, prima di studiare questa verità, prima di criticarla e di porle interrogativi, prima ancora di volerla difendere con i
nostri argomenti, conviene dare la parola al Nuovo Testamento ed ascoltare da esso che cosa intenda per fede nella resurrezione e come si incarni nella vita.

Altrimenti potremmo creare difficoltà dove non esistono e potremmo difendere cose che non hanno bisogno di difesa,
perché non hanno niente a che fare con la fede nella resurrezione.






4. Punto di partenza della fede nella resurrezione:

percepire i limiti dell'esistenza, barriere che uccidono la vita e la speranza dell'uomo


Per cogliere tutta la portata della novità di una cosa che irrompe nella vita, bisogna anzitutto esaminare la situazione precedente.

Proprio nel confronto tra il «prima» e il «dopo» si fa evidente il valore della cosa nuova che si è fatta presente.

Perciò ci proponiamo di esaminare prima la terra dove fu piantato e crebbe il seme della fede nella resurrezione, per vedere poi
se questa terra esiste ancora oggi in mezzo a noi.

Quei due tali discepoli di Gesù, Cleofa e il suo collega, che camminavano per la strada di Emmaus (Lc. 24, 13 seg.),
erano l'espressione di quello che accadde nella vita degli apostoli dopo la morte di Gesù.

Essi erano anche espressione di quello che si verificava nella vita dei cristiani che camminavano lungo la strada della storia nel tempo in cui
Luca registrò questo episodio nel suo vangelo, gente perseguitata che non riusciva più ad integrare nella sua vita la fede nella resurrezione,
perché la morte uccideva in loro la speranza e non incontravano più quel Cristo vivo in cui credevano.

Espressione di quello che accade anche oggi nella vita di molta gente.

«Speravamo che fosse il liberatore ma oggi è già il terzo giorno...»
(Lc. 24, 21).

Questo l'amaro lamento dei due.

Con la morte di Gesù qualcosa morì nella vita degli apostoli, qualcosa che aveva importanza fondamentale.

La vita per loro era ormai senza senso.


Prima di allora era cresciuta tanto la loro unione con Gesù che non avrebbero potuto concepire l'esistenza senza di Lui (cf. Gv. 6, 68-69).

Erano disposti a morire con Lui (cf. Mc. 14, 31), a soffrire per Lui, a morire per Lui, perché senza di Lui nulla avrebbe avuto più senso.

Per amore di Lui avevano abbandonato tutto quanto possedevano
(cf. Mt. 10, 28).

Gesù era l'asse della ruota nella loro vita.

La morte di,Gesù spezzò l'asse.

Si impose tragicamente come una barriera intrasponibile tra la situazione presente e l'ideale futuro che avevano alimentato.

Era meglio uscire da Gerusalemme (cf. Lc. 14, 13) e tornarsene ciascuno al suo lavoro ed al suo buco.

Niente più da fare.

Era stata un'illusione, un'utopia, una alienazione credere a questo Gesù e al messaggio che Lui predicava.
È finito tutto;. «... era già il terzo giorno...».

La Sua morte li riportò alla dura terra della realtà.

D'altra parte, poiché il velo del futuro era stato alzato ed essi avevano potuto intravedere le immense possibilità della vita umana
durante i tre anni di convivenza con Gesù, il desiderio non si spegneva.

Da quando si era chiuso il futuro con la morte di Gesù, la realtà si era fatta ancora più buia di prima.

Un altro futuro non li attraeva.

La morte aveva distrutto tutti i desideri uccidendo radicalmente qualunque aspirazione verso l'avvenire.

La morte di cui si parla non era solo la morte della croce.

Era tutta una situazione che culminava nella croce e che portava alla croce chi volesse fare lo stesso cammino di Gesù.

Le forze della morte erano più vive di sempre:
l'imperialismo romano, che con una sola parola ratificò la condanna a morte;

i soldati, che misero in atto la sentenza del governatore Pilato senza che vi fosse nessuna possibilità di impedirlo;

gli scribi, che se ne rallegrarono;

i farisei e il farisaismo, che la provocarono manipolando l'opinione pubblica;

la mentalità fluttuante del popolo e tanti altri fattori.

Tutto questo si unì in un 'unica forza contro Gesù (cf. Atti 4, 24-28) e riuscì a vincerlo.

Uccidendo Cristo, uccisero il futuro nel cuore degli apostoli.

La morte era personificata in questa situazione come una forza orribile che minacciava qualsiasi eventuale tentativo degli apostoli
di continuare a fare quello che faceva Gesù.

Tutto era finito.

Le ombre della morte erano sulla vita, soffocando qualsiasi speranza e minacciando e opprimendo' tutto e tutti.

Gli apostoli ebbero paura di fronte a questa forza, e fuggirono.
(Mc. 14, 50-52).

Sprangarono perfino le porte di casa. (Gv.20, 19).

Contro uomini atterriti nessuno poteva pensare di far nulla.

Erano stati sconfitti dalla realtà che li schiacciava.

La morte di Gesù uccise qualcosa negli apostoli, come la morte del marito uccide qualcosa nella moglie.

Come la morte dell'amico uccide qualcosa nell'amico che sopravvive.

Gli apostoli erano morti più dello stesso Cristo.

Si era inaridita la fonte e l'acqua era finita.

Avevano distrutto la turbina e si era spenta la luce.

Questa era anche la situazione dei cristiani che camminavano lungo la strada della vita verso l'anno 75, quando Luca scrisse il suo vangelo.

Avevano in cuore una grande frustrazione.

Avevano creduto per molto tempo a Gesù Cristo.

Si diceva che era vivo, che stava in mezzo alla comunità.

Avrebbe riportato vittoria sulla morte, e chi credesse in lui avrebbe partecipato della forza che vince la morte.

Ma dove era Gesù?

Dove questa vittoria?

L'impero romano continuava a perseguitare coloro che credevano in Cristo.

Non permetteva che i cristiani aprissero una nuova strada verso il futuro, dando un nuovo senso alla vita umana.

I cristiani stavano morendo come criminali comuni nelle prigioni e nell'arena.

Dov'era il Cristo?


«Pensavamo che lui fosse il Liberatore, ma oramai...».
Tra la realtà e il futuro si alzava una barriera insuperabile.

La morte, personificata nelle strutture dell'impero romano, uccideva la speranza nel cuore dei cristiani.

Perché continuare a credere?

Anche oggi molta gente se ne va per le strade della vita:
gente senza speranza, sconfitta dalla realtà che soffoca e uccide la speranza e distrugge il futuro.

Forze davanti alle quali l'individuo si sente impotente, che non riesce a dominare che lo superano di molto e mantengono la vita
in catene senza possibilità di espandersi.

Sembrano trascinare tutta l'umanità verso una totale schiavitù.

Qual è l'individuo che può fare qualcosa contro il potere economico, contro il potere della propaganda e dell'opinione pubblica,
contro il potere dell'ideologia e dello stato totalitario?

contro il potere della mentalità fluttuante del popolo, contro il potere della moda e delle convenzioni sociali,
contro il potere dell'ironia e del sarcasmo, contro il potere dell'organizzazione che ad alcuni accorda privilegi ed emargina altri, contro il potere della mistica dello
sviluppo molte volte contraddittoria?

Si fa tutto per l'uomo'.

«L'uomo è la meta» si va dicendo, mentre nel cuore dell'uomo muore la speranza:
innumerevoli sono le barriere ed i limiti contro i quali sbarra la vita sia personale che familiare, sociale ed internazionale.

Cresce la coscienza ma allo stesso tempo cresce il torpore.

Cresce la gente, ma aumenta il vuoto, la disperazione, la solitudine.

Quanto più aumenta il potere delle acque, tanto più aumenta la resistenza della diga che cerca di dominarle.

Queste ed altre sono oggi le sentinelle avanzate della morte che stende le sue braccia sulla vita, tutto coprendo
col suo velo di lutto e tutto minacciando di oppressione.

Non abbiamo forze per affrontare una simile realtà.

La morte, questa morte personificata nella situazione concreta, ci supera.

Si spegne all'orizzonte l'ultima lampada che ancora brillava.

Ognuno si arrangia come meglio può per non essere inghiottito dal niente e dalla totale frustrazione.

Ciascuno si cerca un posticino al sole.

Tanta gente non crede più a niente e a nessuno.

Giudicano ridicole ed infantili le timide iniziative che si fanno per spezzare il cerchio di ferro dentro il quale la vita muore asfissiata.

Si accomodano e diventano schiavi soddisfatti, contenti, tranquilli, chiusi in una gabbia d'oro, ma senza coscienza.

Si ripete oggi, benché a livello più elevato e più civilizzato l'antica «lotta per la vita».

Sopravvivere a qualunque costo... Ha ancora senso credere a qualcosa?

In mezzo a tutto ciò cammina il cristiano con la sua fede nella resurrezione, legata a un fatto del passato e ad uno del futuro.

Che se ne fa della sua fede per suscitare la speranza nel cuore degli uomini?

La nostra situazione attuale non è poi tanto differente da quella degli apostoli dopo la morte di Cristo.

Come al tempo di Luca, ce ne andiamo con la fede sotto il braccio, senza sapere bene che farcene.

Non troviamo una breccia per innestarla nella vita per cui... una muda tanto preziosa finisce col morire anche lei senza dare frutti.

Il fatto è che non abbiamo coscienza dei limiti e dell'oppressione in cui viviamo.

C'è chi risolve il problema così:
la resurrezione si riferisce solo alla situazione che verrà dopo la morte.

Cercando di lavorare in questa vita per garantirsi la resurrezione in cielo dopo la morte.

Vedono il mondo solo come una grande officina, dove si aggiustano le macchine della vita perché possano entrare in cielo.

Ma in un'officina non si può vivere, non è nata per questo!
Neppure passa loro per la testa che la fede possa influire su qualche aspetto della vita che viviamo oggi qui.






5. Il nuovo che nasce tra gli uomini per la fede nella resurrezione


Ma, e qui sta la novità assoluta della resurrezione, il terzo giorno dopo la morte di Gesù, quegli 11 uomini fecero l'esperienza sicura ed
inconfondibile che Gesù era vivo (Lc. 24, 5.34).

Era proprio Lui, Lui in persona, quel Gesù col quale avevano convissuto durante tre anni (Atti l0, 40-41).

Le apparizioni lo confermavano (Lc. 16, 9-14; I Cor. 15, 1-4).

Era Lui!

Gesù superò una barriera che nessun uomo mai aveva superato.

Il Cristo vittorioso sulla morte stava adesso con loro, come un amico!

L'evidenza era lampante, anche se avevano incontrato qualche difficoltà nel credere subito all'avvenimento nuovo e inatteso
(Lc. 24, 10-11.37-43; Gv. 20, 25).

Non c'era più nessun motivo per sentirsi sconfitti dalla realtà.

Anche loro erano risuscitati.

Il velo del futuro si squarciò di nuovo per non chiudersi mai più.

Nacque una speranza nuova.

Nella loro vita entrò una forza nuova, la forza di Dio, una forza così grande che riuscì a far nascere la vita dalla morte (Ef. 1, 19-20).

Forza legata alla persona viva di Gesù Cristo, invisibile in sé ma visibile nei suoi effetti.

Forza più forte di tutto quello che prima era capace di uccidere in loro la speranza.

Tutte le barriere che impedivano la vita e soffocavano la speranza, tutte erano vinte per sempre:
la forza dell'imperialismo romano; del farisaismo, dell'opinione pubblica, della mentalità fluttuante del popolo.

Le forze della morte furono sconfitte.

La guerra era debellata, anche se la battaglia continuava ancora.

Era solo questione di tempo.

Niente più avrebbe oramai potuto spaventarli:
affrontavano il popolo, i giudei, il sinedrio, i romani, i farisei, la tortura, la prigione. (cf. Atti 2, 14; 4, 8.19.23-31; 5, 29.41; ecc.).

La vita che era nata in loro già aveva passato le frontiere della morte, era una vita nuova e vittoriosa. (cf. Ef. 2, 6).

Anche se fossero caduti sotto i colpi della morte, la vita non poteva oramai più morire (cf. I Cor. 15, 54-58).

Ora sì aveva senso resistere, non conformarsi alla situazione e far qualcosa per trasformarla!

I cristiani, camminando lungo la strada della vita, perseguitati dall'impero romano, lanciavano la domanda:
«Dove incontrare questo Cristo vivo?

Dove scoprire la forza che Lui ci comunica?»

Risponde Luca col racconto dei due Tizi che se ne andavano lungo la strada di Emmaus.

Scoprirono il Cristo e lo «riconobbero allo spezzar del pane»
(Lc. 24.35).

Nell'ora in cui i cristiani si riuniscono intorno all'eucarestia, quando il pane è spezzato e distribuito, quando celebrano
e fanno memoria della morte e resurrezione del Signore (I Cor. 11, 26), proprio lì sta la fonte da dove sgorga o dovrebbe sgorgare l'acqua nuova che irriga l'albero della vita
e lo rende capace di dare frutti.

Questa convivenza intorno alla mensa apre gli occhi (Lc. 24, 31) e fa sentire la voce di Cristo sia nella parola della Bibbia
(Lc. 24, 32) sia in quella del compagno anonimo che cammina con me lungo la strada della vita (Lc. 24; 15-16.35).

Luca indica questi tre canali di comunicazione con Cristo e con la forza che emana di Lui:
il fratello che cammina con noi, la parola di Dio e il convivio degli amici intorno alla stessa fede e allo stesso ideale, nell'Eucarestia.

Si capisce allora quanto cammino manchi ancora prima che la rinnovazione liturgica in corso possa realmente raggiungere il suo fine.

Servendosi di questi tre canali, i cristiani troveranno il modo di vincere la crisi e scoprire nella loro vita il senso della loro
fede nella resurrezione, ossia del1a loro fede in Cristo vivo in mezzo a loro. Credere nella resurrezione non è solo accettare un fatto del passato ed un altro del futuro, ma è anzitutto
un modo di vivere che nasce dalla scoperta di un amico vivo nella mia vita per la forza di Dio.







6. La resurrezione non è solo avvenuta ma avviene ed avverrà


La resurrezione di Gesù Cristo non è un fatto che circa 2000 anni fa dette corda ad un motore che funziona fino ad oggi.

La resurrezione non è un fatto che è successo e poi è finito.

Potremmo dire che Gesù ad ogni istante ascolta la voce di Dio che lo chiama alla vita (cf. Gv. 19-21; 6, 57).

Dio lo risuscita e gli dà una vita nuova con un agire incessante.

È come la luce:
funziona mentre la turbina del generatore continua a girare.

Nel momento in cui la turbina si ferma, la luce si spegne nelle case del popolo.

Nel momento in cui Dio, per ipotesi assurda e impossibile, cessasse di chiamare alla vita Gesù Cristo, luce del mondo,
(cf. Gv. 9, 5) si spegnerebbe la Chiesa, il popolo di Dio, i Sacramenti, la Fede; tutto cesserebbe di esistere.


L'azione di Dio che risuscita Gesù Cristo si può paragonare alla sua azione creatrice:
il giorno in cui cessasse di pronunciare la parola creatrice, noi tutti cadremmo nel nulla, sapendolo o no.

Il giorno in cui Dio cessasse di pronunciare la sua parola di salvezza che culmina nella resurrezione, la nostra fede non avrebbe più senso.
(cf. I Cor. 15, 14-15.17-19).

L'azione di Dio che risuscita Gesù Cristo non è come l'azione che dà corda all'orologio o accende il motore.

L'orologio o il motore, una volta messi in moto, camminano da soli, indipendenti dal loro padrone.

Ma è come il campanello, che suona se io premo il dito sul pulsante.
È come l'antenna trascontinentale via satellite, che capta le onde di altri continenti.

Se la trasmittente tace, l'antenna non capta più niente non trasmette più, e il video della televisione diventa nero.

Nel momento in cui Dio smettesse di dire la parola che risuscita Gesù Cristo, Cristo finirebbe.

Non sarebbe più niente, non rivelerebbe più niente e lo schermo della nostra fede si oscurerebbe, la nostra parola e la nostra
testimonianza di fede sarebbero vuote ed atone.

Una menzogna, uno chèque a vuoto (cf. I Cor. 15, 15).

In questo caso meglio sarebbe «mangiare e bere perché domani moriremo». (I Cor. 15, 32).

Ma Dio non leva il dito dal pulsante del campanello, non interrompe la trasmissione, non cesserà mai di chiamare alla vita Gesù.

Dio non inganna, non frustra.

Dio è fedele ed è abbastanza forte per continuare a fare quello che ha incominciato.

Non c'è forza che glielo impedisca.
Lui sempre vince.

È la nostra convinzione di fede.
Su che cosa si basa?






7. L'ultimo fondamento della fede nella resurrezione


L'ultimo fondamento, la radice stessa della nostra fede nella resurrezione è la buona volontà di Dio, la buona volontà di
Qualcuno che si è impegnato con noi in modo irrevocabile.

La fede nella resurrezione non dipende da una legge cieca e impersonale, non ha niente a che vedere con gli argomenti
filosofici che difendono l'immortalità dèll'anima, non si basa sul dinamismo irresistibile dell'evoluzione dell'universo che tende
al bene, e neppure si fonda su un calcolo nostro, basato in ricerche storiche che riescano a provare la storicità della resurrezione
di Gesù, e neppure dipende dalle prove che confutano gli argomenti contrari.

La fede nella resurrezione nasce dalla parola amica che Qualcuno pronuncia in nostro favore.

Così come la parola dell'amico può confermare una persona, restituirle la coscienza di sé e rianimarla ad una nuova speranza,
la parola amica di Dio raggiunge la persona umana alla radice, le ridà la coscienza di sé, la risuscita ad una nuova vita e la fa vivere per sempre.

Risuscitando Gesù dai morti, Dio dimostrò concretamente la sua buona volontà con gli uomini, espresse il potere irresistibile
della sua volontà di salvezza e di liberazione, ne affermò la fedeltà e ci fece sapere fino a che punto nel nostro agire possiamo confidare nella sua buona volontà verso di noi:

fino al punto di diventare capaci di fare l'impossibile, ossia fino al punto di sperare che dalla morte possa nascere la vita.

Dio ha cominciato a dimostrare la sua buona volontà fin da quando cominciò a lavorare con gli uomini, chiamando Abramo e liberando il popolo dall'Egitto.

Ci ha dimostrato, lungo il corso della storia, che l'uomo, quando ha il coraggio di impegnarsi con lui, trova quello che cerca, trova la felicità.

Il contenuto pieno della parola che cominciò a risuonare alle orecchie di Abramo e la forza totale che essa possiede apparvero nella resurrezione di Cristo.

In Cristo, un uomo come noi, che visse nella totale apertura e obbedienza al Padre e raggiunse la meta finale nella sua resurrezione;

Dio non solo lo risuscitò ma lo mise a parte della sua vita, dandogli tutto il potere, e gli consegnò il destino dell'umanità
(cf. Fil. 2, 8-11).

D'ora in poi, per sempre, un nostro fratello si trova presso Dio,
come prova capitale e definitiva che Dio prende sul serio la parola che ci ha dato un giorno (cf. Is. 40, 7-8) e che si può davvero contare su ciò che Lui dice e promette (cf. Ebr. 4, 14-16; 5, 5-10).

La risurrezione di Cristo è l'espressione permanente dell'impegno irrevocabile di Dio con noi.

È la prova permanente e suprema della garanzia che segue la promessa.

È la «nuova e eterna alleanza» di Dio con gli uomini.

Pertanto credere alla resurrezione non è credere a una cosa, non è credere ad argomenti, ma credere a Qualcuno che opera
in noi e per noi con potere immenso, capace di far uscire la vita dalla morte, di far diventare nuovo quello che è vecchio, orientandoci verso un futuro di dimensioni smisurate.

Credere nella resurrezione vuol dire:
oltrepassare fin d'ora con la speranza che anticipa il futuro i limiti già superati e abbattuti dalla resurrezione di Gesù crocefisso.

Nessun limite, nessuna barriera, nessuna difficoltà, nessuna cosa di questo mondo sarà capace di uccidere la vita e la
speranza che è nata nel cuore dell'uomo.

Credere nella resurrezione non ha niente a che vedere con fuga o alienazione dal mondo verso l'aldilà, o con un cristallizzarsi
intorno ad un fatto del passato già chiuso del tutto.

L'oggetto della fede nella resurrezione non sta né nell'eternità del cielo né nell'impenetrabilità del passato, ma nel futuro
della terra su cui fu piantata ed è piantata fino ad oggi la croce di Cristo.

Il fatto del passato testimoniato dagli apostoli ne è il fondamento.

Ma su queste fondamenta si alza l'immensa costruzione della vita che non muore e che rinasce dalle ceneri della morte,
anticipando il nuovo che sboccia sotto le mani di chi crede in lei.

Credere nella resurrezione è ciò che Paolo sintetizza con le parole.
«Se Dio è a nostro favore, chi sarà contro di noi?..

Chi potrà separarci dall'amore di Cristo?

Tribolazione?

Angustia?

Persecuzione?

Fame?

Nudità?

Pericolo?

Spada? ...

In tutte queste cose noi siamo più che vincitori, a causa della forza di Colui che ci amò.

Sono convinto davvero che né la morte né la vita né gli angeli né i principati né le cose presenti né le future, né le potestà
né le altezze né gli abissi né qualsiasi altra creatura potrà separarci dall'amore di Dio che sta in Cristo Gesù» (Rom. 8, 31.35-39).

L'enumerazione è completa:
niente può separare l'uomo da Dio e dal suo futuro, perché Cristo, che per la resurrezione vinse tutte le forze, sta a fianco di Dio
e intercede per l'uomo che crede in Lui (Rom. 8, 32-34; Ebr. 5, 7-9).






8. Conclusione: una sfida


La visione che i primi cristiani avevano della resurrezione dimostra che il problema fondamentale della fede nella resurrezione
non si trova fuori di noi, in possibili difficoltà di ordine scientifico.

È proprio dentro di noi:
siamo o non siamo capaci di aver coraggio di credere che Dio libera e salva con un potere superiore alle forze della morte?

La forza della resurrezione si caratterizza per il fatto che opera e si manifesta soltanto nella misura della fede che si ha in lei.

Non esiste un tasto automatico per mettere in moto il potere di Dio, potere gratuito a nostra disposizione.

È come il potere dell'amicizia:
funziona solo in forza della fiducia reciproca e della fede che l'uno ha nell'altro.

Paolo, volendo che i cristiani ne prendano coscienza, prega per loro e chiede al Padre che tutti arrivino a comprendere
«qual’è la suprema grandezza del suo potere che agisce in noi uomini di fede, l'efficacia della sua forza che Egli dimostrò in Cristo, risuscitandolo
dai morti e facendolo sedere alla sua destra in cielo, al di sopra di ogni principato, virtù, dominazione e di ogni altro nome, sia di questo che di quell'altro mondo» (Ef. 1, 19-21).

Quando nell'uomo nasce una coscienza simile, si mette in moto un potere irresistibile che non cesserà di agire, finché le forze
della morte non saranno sconfitte dalle forze della vita.

Il momento alto della fede nella resurrezione non è nel passato, né nel futuro, ma nel presente.

È l'albero che è nato dal seme piantato nel passato che oggi promette un raccolto copioso per il futuro.

Radica la vita dell'uomo in una pace profonda, ma agita i suoi rami in un non-conformismo intransigente a rispetto della situazione
del mondo attuale, non-conformismo che non riesce a far pace col mondo dove si è installato il potere della morte che opprime.

La chiave di volta della fede nella resurrezione sta nell'uomo, che scopre nella sua vita la forza attuante e permanente di Dio, che è il Dio dei viventi.

Solo così l'uomo, proprio lui in persona, risuscita e risuscitando si accorge della portata della sua fede nella resurrezione.

Non saranno certo gli argomenti scientifici che daranno valore alla fede nella resurrezione, ma sarà l'esperienza concreta della resurrezione
che darà valore agli argomenti che possono difenderla.

L'unica prova reale della resurrezione, quella che convince, è la vita che oggi risuscita e si rinnova, che oggi vince le forze della morte,
facendo sì che le forze represse e oppresse della vita siano scoperte e liberate per la gioia e la speranza di tutti.

Ciò prova che nell'uomo agisce una forza più forte della morte, la forza di Cristo risuscitato.

Dove sono i segni di resurrezione nella nostra vita, per cui la nostra parola sulla resurrezione di Cristo possa esserne confermata?

Molte altre cose potrebbero e dovrebbero dirsi per una esposizione completa sulla resurrezione.

Basta per tutte la finestra che abbiamo aperto, anche se piccola, per farci un'idea della tremenda portata della fede
nella resurrezione che trasforma la vita degli uomini.



FINE.


Seguirà un’introduzione “iniziale”, appena possibile.

Ringrazio tutti per l’attenzione.




Una stretta di [SM=g1902224]


Piero



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[SM=g6198] [SM=g6198] INTRODUZIONE [SM=g6198] [SM=g6198]



parte prima:



La gioia nasce dalla vita del popolo.

Uno studioso di bibbia riscopre la buona novella entrando a far parte dell'allegria del popolo, e si incarica di raccontarlo a chi non lo sa.






LA STORIA DEL LIBRO SOTTO FORMA DI PARABOLA

La parabola della porta:


Nel paese c'era una casa.

Era molto antica e ben costruita.

La porta era bella, larga e si apriva sulla strada, dove passava la gente.

Era una porta strana.

La soglia confondeva la strada con la casa, tanto che chi entrava aveva l'impressione di stare ancora fuori.

A chiunque passasse per quella strada sembrava di entrare e di essere accolto in quella casa.

Mai nessuno si era preoccupato di questo fatto, naturale come la luce quando il sole brilla in cielo.

La casa faceva parte della vita del popolo, grazie a quella porta che univa la casa al paese e la gente del paese alla casa.

Era come il crocicchio dove si svolge la vita, dove ci si ferma a discutere e la gente si incontra.

Quella porta restava sempre aperta, giorno e notte.

La soglia era consumata dall'uso.

Tanta gente, anzi tutti, passavano di lì.

Un bel giorno ci arrivarono due studiosi.
Venivano da lontano.
Erano stranieri.
Non conoscevano la casa.

Avevano sentito dire che era antica e bella.

Erano professoroni che si intendevano di cose antiche.

Appena videro la casa la giudicarono di grande valore.

Cercarono la porta e ne trovarono una laterale.

Di lì cominciarono ad entrare ed uscire per ragioni di studio.

Non volevano che il rumore li disturbasse;
il rumore che faceva il popolo sulla porta della strada.

Volevano starsene in pace per riflettere.

Se ne stavano dentro casa, lontani dalla porta del popolo, in un angolo buio, tutti assorti a studiare il passato di quella casa.

Il popolo, entrando nella sua casa, vedeva quei due con i loro libroni e con le loro macchine complicate.

Vicino a loro la povera gente ammutoliva.

Se ne stava zitta per non disturbarli.

Li ammirava tanto e diceva:
«Stanno studiando la bellezza e la storia di casa nostra.
Sono scienziati! ».

Gli studi progredivano.
I due scoprivano cose che il popolo ignorava (anche se tutti i giorni le vedeva nella sua casa).

Ottennero il permesso di raschiare qualche parete e scoprirono pitture antiche che illustravano la storia e la vita del popolo, una storia che il popolo ignorava.

Scavarono vicino alle colonne e riuscirono a ricostruire la storia della casa, una storia di cui nessuno si ricordava.

Il popolo non conosceva la storia della sua vita e della sua casa, perché il suo passato se lo portava dentro, nel fondo degli occhi che non possono vedere se stessi, ma che vedono tutto il resto, orientando ogni cosa verso la direzione giusta:
in avanti.

Quando, di notte, il popolo si riuniva a veglia, i due studiosi si univano alla gente per raccontare le loro scoperte.

Il popolo ammirava sempre più i due studiosi e il loro lavoro.

I due circolavano per la casa.

Il popolo, oramai, quando entrava in casa, ammutoliva.

Una casa cosi nobile e ricca meritava rispetto.

La vita povera della strada che le passava accanto, era tutt'altra cosa.

Là dentro non si poteva vociare e danzare.
Lo dicevano tutti.
Tutti oramai pensavano così.


C'era gente del popolo che non entrava nemmeno più per la porta chiassosa che dava sulla strada! Preferivano il silenzio della porta laterale, quella degli studiosi.

Schivavano il chiasso del popolo.

Adesso entravano in casa non più per incontrarsi, per parlare tra di loro, ma per conoscere meglio la bellezza della loro casa, la casa del popolo.

Ricevevano spiegazioni dagli studiosi sulla casa che pur conoscevano cosi bene (era loro!), e che tuttavia avevano l'impressione di non aver mai conosciuto.

A poco a poco la casa del popolo non fu più del popolo.

Tutto il popolo preferiva la porta degli scienziati.

All'ingresso, ciascuno riceveva una piccola guida con tutte le spiegazioni sulle rarità e scoperte della casa.

Il popolo si convinse di essere proprio ignorante.

Gli scienziati - quelli si - sapevano conoscere le cose del popolo meglio dello stesso popolo.

Tutti finirono col pensare così.

Oramai, entrando nella casa, che era sua, il popolo restava muto e vergognoso.

Come se stesse in casa d'altri e di altri tempi a lui sconosciuti.

Guardava e studiava, seguendo la guida, in piccoli gruppi, aggirandosi per la casa, nella semioscurità.

Non si ricordava più dei bei tempi passati, quando tutti insieme giocavano e danzavano, proprio lì dove adesso si studiava soltanto, con cipiglio, alla maniera degli scienziati, col libro in mano, recitando la lezione.

A poco a poco nessuno più si ricordò della porta sulla strada.

Un turbine di vento addirittura la chiuse.

Nessuno se ne accorse.

Ma non la chiuse del tutto.

Ci rimase una fessura.

L'erba ci crebbe davanti.

Le erbacce si fecero alte fino a coprirne l'entrata;
oramai non ci passava più nessuno.

Perfino la strada cambiò d'aspetto.

Adesso era solo strada, niente altro.

Una strada triste e deserta, un vicolo senza uscita, senza gente del popolo che passando di lì si potesse incontrare.

La porta laterale accoglieva il popolo che andava a visitare la casa e ne restava estasiato.

Quante ricchezze che non conosceva!

L'interno si fece sempre più buio perché mancava la luce che veniva dalla strada.

Fu necessario accendere le candele.

Ma la luce artificiale alterava i colori.

Il tempo passava.

L'euforia della scoperta si afflosciava.

Diventava sempre più rara la processione della gente che andava a visitare la casa entrando dalla porta laterale.

La porta del popolo che dava sulla strada non esisteva più.

Nessuno più se ne ricordava.

Il popolo sapiente, un ristretto gruppo di persone e qualche illustre visitatore venuto di fuori, continuava a frequentare la casa del popolo, passando dalla porta dei dottoroni.

Là dentro teneva le sue riunioni, discutendo sulle cose antiche della casa, cose che appartenevano al passato.

La casa del popolo non era più del popolo.

Il popolo dei poveracci passava soltanto per la strada, divenuta deserta e triste.

A loro non interessavano le antichità.

Il popolo viveva la vita:
ecco tutto.

Eppure qualcosa sembrava mancargli.

Non avrebbe saputo dire che cosa, perché non se lo ricordava.

Gli mancava una casa che fosse del popolo.

I due studiosi, felici per la scoperta, continuavano a studiare.

Aprirono perfino una scuola per educare i bambini del paese, insegnando loro le cose del passato.

Ma uno dei due studiosi incominciò a preoccuparsi per la crescente mancanza d'interesse del popolo.

Non si vedeva quasi più nessuno.

Si accorse che la vita del paese non era più quella.

Erano tutti meno contenti.

Non era come quando loro erano arrivati lì.

Adesso ognuno pensava solo per sé.

Non c'erano più gli incontri di allora.

È vero che c'erano stati dei tentativi di incontrarsi in altri luoghi.
Ma tutto era finito in una bolla di sapone.

Gli incontri programmati si erano insabbiati, perché non c'era intesa tra loro...
Qualcosa, evidentemente, ci mancava.

Neppure lui sapeva quale.
Si propose di scoprirlo.
Si chiedeva fra sé:

«Chissà perché il popolo non viene più nella sua casa?

Chissà perché non vengono più qui a conoscere le cose che noi due abbiamo scoperto per loro?

Perché mai non vengono più in questa casa per conversare, incontrarsi, danzare e giocare, parlare e cantare? ».

E non trovava risposta ai suoi interrogativi.

L'altro studioso non aveva notato niente di tutto ciò, assorto com'era nei suoi studi sul passato.

Anzi rimproverava il suo collega dicendo:
«Ma tu ti distrai troppo!».

Voleva che si applicasse di più allo studio del passato e si curasse meno del popolo della strada.

Alla fine, poi, chi comandava la spedizione era lui!

Un bel giorno un poverello, senza casa né tetto, si rifugiò tra i cespugli che crescevano al margine della strada, in cerca di riparo.

Tutt'a un tratto si accorse che c'era una fenditura, come una porta, e vi entrò. Davanti a lui apparve una' casa enorme.

Una casa così accogliente che si sentì subito a suo agio.

Gli sembrava di stare per la strada e intanto stava al riparo.

Il giorno dopo ci tornò.
Ci tornò sempre.
Lo raccontò agli amici, poveri come lui.

Confidava loro la scoperta come fosse un segreto.
Altri poveri andarono con lui.

Entrarono tutti, in fila indiana, attraverso la stretta fenditura della porta che dava sulla strada, quella porta che un giorno il vento aveva sbatacchiato senza chiudere del tutto.

Quell'andirivieni di entrare e uscire per la porta della strada fece seccare l'erba calpestata.

Per terra si formò un sentiero stretto, battuto.
Si aprì un nuovo cammino.

Erano così numerosi oramai gli amici che volevano entrare che un giorno dettero una spallata alla porta e quella cedette.

L'entrata diventò un po' più larga di prima, e il popolo e la luce inondarono la casa.

La casa si illuminò tutta, diventò anche più bella.
Ci si stava anche meglio.
Il popolo ne era felice.

La scoperta corse di bocca in bocca e tutti i poveri ne parlavano.

Ma il segreto se lo tenevano per sé.
Riguardava solo la gente umile.

«Quella casa è nostra» andavano dicendo.

La cosa non poteva tuttavia restare nascosta.

L'avrebbe potuto supporre solo il popolo ingenuo e semplice che riflette poco e non ha malizia.

Ogni mattina, quando l'orologio scoccava l'ora di apertura della porta laterale per ricevere gli illustri visitatori, gli spazzini trovavano là dentro i segni della presenza dei poveri.

Si udivano perfino le loro risatone e i loro discorsi;
discorsi di gente contenta, realizzata, che non si interessava né delle pitture né dell'arte, e che per entrare non pagava niente;

risatone di gente che si sentiva bene in casa sua, in quella casa che ricominciava ad essere la «casa del popolo».

La notizia arrivò all'orecchio dei due studiosi.

Uno di loro si adirò, l'altro tacque.

Il primo gridò:
«Ma quando mai si è vista tanta ignoranza!
Finiranno col profanare e rovinare la nostra casa!
Dove va a finire tutto il nostro lavoro?

Lo studio di tanti anni andrà dunque perduto?».

Parlava come se il padrone della casa fosse lui!...

L'altro rimbeccò:
«La casa non è tua»!
I due litigarono a causa del popolo.


Una notte, il secondo studioso si nascose in un angolo della casa.

Vide il popolo che entrava senza domandare il permesso a nessuno e si metteva a parlare, a danzare, a giocare e tutti si sentivano a loro agio e si incontravano tra loro.

Gli fece tanto piacere la loro allegria che si scordò delle ricchezze.

Si entusiasmò tanto che entrò anche lui nel circolo dei poveri e si mise a danzare con loro.

Danzò, giocò, conversò tutta la notte.

Quanto tempo era che non faceva più simili cose!
Mai si era sentito casi felice di vivere!

Per lui, poi, la gioia era ancora maggiore, perché lui sapeva qual fosse il valore e la bellezza della casa.

Aveva scoperto solo allora che tutto quello che lui aveva studiato era nato dal popolo, ed era nato affinché il popolo sentisse la gioia di vivere.

Si accorse che erano queste le risposte alle domande che si era posto prima.

Lo sbaglio stava nella porta' laterale che aveva sviato il popolo dalla porta della strada, separando la strada dalla casa e la casa dalla strada;

quella porta aveva reso la casa più scura, più triste, sconosciuta al popolo;
aveva reso la strada un vicolo cieco, deserto e triste.

Anche lui, adesso, entrava dalla porta della strada.

E cosi continuò a fare tutte le notti.

Il popolo lo accoglieva e già incominciava a conoscerlo, perché il popolo non fa distinzione di persona tra quelli che si uniscono a lui.

Anche lui era uno del popolo.

Ogni volta che entrava dalla porta della strada, vedeva la ricchezza e la bellezza della casa sotto una luce che non aveva mai conosciuto fino ad allora;

quella che veniva dalla strada. La gioia del popolo, la bellezza e la ricchezza della casa gli rivelavano quello che i libri non gli avevano insegnato mai.

Era come quando, sul finir del giorno, il sole che tramonta
improvvisamente lancia i suoi raggi gratuiti, rosso-d'oro sul dorso
maestoso di una montagna, bagnandola di luce smagliante.

Tutto era cambiato per lui, anche se tutto continuava come prima.

Niente era cambiato.


Ma da quel giorno studiava i suoi libri con occhi nuovi e vi scopriva cose che il suo collega non si sognava neppure.

Stava in mezzo al popolo, partecipava alla sua allegria, via via che gli se ne offriva l'opportunità.

Parlava col popolo delle ricchezze della casa, viste alla luce che veniva dalla strada e dalla gioia del popolo.

La sua voce non era pesante e non umiliava nessuno.

Non faceva azzittire la gente col peso della scienza e del sapere.

Educava il popolo, tra la gioia di tutti e faceva crescere in tutti il gusto di vivere.

Era l'anno ????.

Che cosa speriamo per il futuro:

... che si riscopra la porta della strada, abbattendo le erbacce che l'hanno sepolta, che se ne spalanchino i battenti, che si restituisca al popolo la gioia perduta, che si restituisca al popolo quello che era suo.

... che torni a cambiare l'aspetto della strada, che la porta spalancata le restituisca la bellezza di un tempo, che la luce della strada ritorni ad invadere la Casa del Popolo perché riappaia la sua autentica bellezza, e svanisca ogni colore artificiale.

... che si chiuda la porta laterale, non perché sia cattiva, ma perché tutti, studiosi e visitatori, popolo sofferente e sapiente, tutti insieme, possano gustare la vera gioia di una casa, che è casa di tutti.

... che si entri di nuovo dalla strada, che gli studiosi passino da questa entrata, insieme al popolo, mescolati col popolo, affinché la conoscenza delle ricchezze della casa non allontani il popolo, e gli alunni educati alla scuola dei dottori non si dimentichino di appartenere al pOpolo e sappiano restituire al popolo la vita e la gioia che hanno ricevuto da lui.

...che si facciano pure studi più profondi sulla bellezza e sulla ricchezza della casa del popolo, ma che si facciano alla luce che viene dalla strada e dalla gioia del popolo, in modo che contribuiscano ad aumentare ancora di più l'allegria che nasce dalla vita di oggi, dalla vita che il popolo vive, dalla vita di ieri, studiata dagli scienziati, dalla vita di domani che tutti speriamo.


Ci resta un solo problema:
lo studioso che si è arrabbiato col popolo e che si crede il padrone della casa.

Il collega che è entrato a far parte dell'allegria del popolo si è impegnato ad andarci a parlare per dirgli: «... senza il popolo, tu non saresti nato...».

Questa è la parabola della porta che racconta la storia del libro, facendo vedere come è nato e dove sono le sue fonti di informazione.


È nato di notte, tra la gioia del popolo.
È nato di giorno, sulla strada triste e deserta.

È nato di notte e di giorno, insieme ai libri e alle macchine complicate, nell'angolo oscuro della casa del popolo.


Carlos Mesters 7 marzo 1972 Festa di San Tommaso D'Aquino


SEGUE....


[SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198] INTRODUZIONE [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198]

parte finale





Dio dove sei?



La domanda non è solo di oggi.

Molta gente se l'è posta prima di noi.

La risposta decide della direzione che si dà alla vita.

Ecco perché non è superfluo trovare qualcuno che ci orienti nella ricerca della risposta giusta.

Tra le molte che sono state date fino ad oggi, ce n'è una che la storia ha registrato e che sempre ci impressiona.

È la risposta della Bibbia, tradotta in più di mille idiomi, «best-seller» mondiale, con più di un miliardo di copie vendute.





1


La Bibbia è come l'album di fotografie di una famiglia;
c'è un po' di tutto.

Le fotografie importanti del matrimonio, del battesimo dei figli, della
casa nuova, ed anche fotografie a prima vista senza alcuna importanza, come quelle di una scampagnata occasionale, in un sabato qualsiasi, perfino senza data.

I criteri per cui una fotografia è importante e un' altra no sono sempre
relativi.

La fotografia, scattata con una macchinetta da quattro soldi, del ragazzino tutto sporco ma sorridente, può essere più importante di un'altra fotografia ufficiale, molto costosa, fatta nello studio di un fotografo.

Nessuna delle due, del resto, serve per il libretto di lavoro.

Sarebbero proprio inutili.

Mentre per l'album di famiglia tutto è importante, tutto ha valore.

Là dentro c'è di tutto, in un disordine intenzionale che segue il ritmo della vita di famiglia, di cui la raccolta ti dà il ritratto fedele.

Che allegria per i figli e per i nipoti sfogliare quelle pagine!
imparano chi sono e da dove vengono.

Ecco perché tutte le fotografie sono importanti, anche quelle che non lo sembrano affatto.

Così succede per la Bibbia.

C'è dentro di tutto:
fotografie ufficiali e di rito, fotografie occasionali di episodi insignificanti senza neppure la data.

Alcune furono fatte con lo scopo di documentare gli avvenimenti, altre servono solo a strappare un sorriso dalle labbra di chi le guarda.

È il ritratto fedele di un popolo, conservato in un disordine intenzionale.

I figli e i nipoti sfogliano, via via, quelle pagine ingiallite dal tempo per sapere chi sono e per prendere coscienza di appartenere a un popolo.






2


Ma perché un album di questo genere è così importante per noi?

Non ci basta la storia d'Italia così simile ad un album pieno di contrasti?

Certo!

Solo che nessuno ci leva dalla testa una domanda fondamentale, alla quale nessuna pagina del nostro album è capace di rispondere esaurientemente:

Dio dove sta?

Che c'entra Dio con la storia d'Italia?

Se Dio è presente in tutta questa storia, quali sono i criteri per riconoscerlo?

Come fare per dare una direzione sicura alla rotta della storia che noi stessi costruiamo?

Ognuno di noi ha le sue idee sul futuro.

Dove troveremo il criterio per il discernimento degli spiriti, affinché possiamo essere sicuri di quello che vogliamo costruire?

Sono queste le domande che martellano in testa a chi riflette sulla vita, e sono domande serie.

Dalla risposta che daremo, dipenderà tutto il senso della vita.

Le stesse domande se le pose il popolo della Bibbia, rispetto alla propria situazione storica, e tentò di rispondervi.

Le risposte che trovò determinarono la direzione della sua vita.

Così si mise in cammino e - incredibile a dirsi - arrivò al termine del suo pellegrinaggio:

la Risurrezione di Cristo.

Le fotografie conservate nell'album della Bibbia documentano il percorso di questo cammino, dandocene la traccia, dal principio alla fine.

Molta gente (e siamo noi cristiani) crede che il cammino fatto dal popolo della Bibbia sia proprio quello giusto, quello di Dio.

Ecco perché i cristiani presentano e leggono la Bibbia come sussidio
indispensabile alla riflessione, all'analisi della realtà e alla ricerca di risposta per gli interrogativi che nascono dalla vita.

Noi consideriamo la storia del popolo biblico quasi come modello di una azione bene indirizzata e che ha ricevuto la conferma di Dio.

Studiamo, quindi, la Bibbia non solo per sapere come andarono le cose,
là, in quel tempo antichissimo, ma anche e soprattutto per penetrare,
attraverso le informazioni che la Bibbia ci offre, il senso e il valore
di quello che sta succedendo oggi, qui, intorno a noi, dentro la nostra storia.

È questo il carattere dello studio biblico che si sta affermando oggi, con sempre maggiore evidenza.






3

Gli studi storici per spiegare la Bibbia non sono stati mai così profondi come negli ultimi cento anni.

Possiamo dire addirittura che non c'è frase né parola che non sia stata sottoposta ad un'accurata analisi per svelarne il senso, fino in fondo.

Ne è risultata una letteratura così vasta che si è sentito il bisogno di specializzazione in questo o in quel settore dell'esegesi.

Esistono, per esempio, specialisti solo per spiegare il libro del profeta Isaia.

Eppure, questo colossale tesoro scientifico, con tutti i suoi rami di specializzazioni, accumulato durante più di un secolo, ci si presenta, a volte, come un calcolatore elettronico che non funziona, a causa di certi difetti che i tecnici non riescono a identificare.






4

Si formulavano le domande, si spingeva il bottone, ma il calcolatore non dava la risposta.

In realtà il difetto era semplice.

Il calcolatore era slegato dalla presa di corrente.

Ma non passava neppure per la testa dei tecnici che il guasto si riducesse solo a un difetto così elementare e così essenziale allo stesso tempo!

Esaminarono tutti i congegni.

Non restava più nulla da controllare, eppure non si riusciva a scoprire il guasto.

Lo scoprì l'uomo di fatica, mentre scopava la stanza, la mattina di un giorno nuovo.

Lo stesso è accaduto alla spiegazione della Bibbia.

C'è qualcosa che non funziona bene nella macchina complicata.

Si spinge il bottone, ma la risposta "alla domanda della vita non viene fuori.

I tecnici si mettono alla ricerca del guasto;
basta vedere l'inflazione dei libri che oggi si stampano su:
«Come leggere la Bibbia».

E tuttavia, qui, come là, il difetto è elementare ed essenziale allo stesso tempo:

la spiegazione della Bibbia è slegata dalla vita, quasi esclusivamente preoccupata del passato, preoccupata di raccontarci i fatti per filo e per segno, senza rivelarcene il senso, in rapporto a quello che oggi succede a noi.

È come se un tale avesse avuto in regalo un microscopio e passasse tutta la vita ad esaminare come funziona, senza mai analizzare neppure un microbo.

Se si trattasse solo di conoscere il passato, non ci sarebbe bisogno della Bibbia, perché tante cose sono successe nel passato e nessuno se le ricorda.

Se ci interessa quello che successe al popolo della Bibbia è perché quel popolo lì, per la sua esperienza di vita, ha qualcosa da dire a noi, oggi, sulla nostra vita.

Questo mi sembra il fine specifico della spiegazione della Bibbia:
studiare il passato in modo tale da coglierne il messaggio latente, affinché eserciti la sua influenza sulla vita di oggi e presti il servizio che gli è proprio, nella ricerca di risposta alle domande che ci poniamo sull'esistenza.







5

Come nel caso del calcolatore elettronico, in quello analogo della spiegazione della Bibbia il guasto lo sta scoprendo il popolo semplice, mentre scopa la stanza della vita, la mattina di un giorno nuovo, con le osservazioni scaturite dalla sua sapienza, dimostrandoci così che a poco o nulla serve per la vita limitare la spiegazione della Bibbia esclusivamente allo studio del passato.

Spetta al popolo collocare all'esegesi la domanda, così semplice e così importante allo stesso tempo:
«che c'entra tutto questo con la nostra vita oggi?».

Infila, così, la spina nella presa, e lega la macchina alla corrente della vita.

Perciò la preoccupazione principale di “questo libro” non sarà tanto illustrare i fatti che sono accaduti, quanto cercare attraverso uno studio dei fatti accaduti una risposta alle domande che oggi ci poniamo sulla vita;

restituire alla parola di Dio la funzione di luce ai nostri passi che deve e vuole avere, offrire un sussidio per l'analisi della nostra complessa realtà;

contribuire, nei limiti del possibile, perché la vita si orienti verso la resurrezione, in cui crediamo e la cui forza opera in coloro che in essa credono (cf. Ef. 1,19-23).







6

Constatiamo che oggi esiste una mancanza di comunicazione, una specie di corto circuito fra noi e la Bibbia.

Non ci capiamo più!

La Bibbia parla e la sua parola ci suona estranea.

Di chi la colpa?

Nostra o della Bibbia?

Quando due persone non si intendono più succede sempre che una butta sull'altra la colpa della mancata comunicazione.

Lo stesso facciamo noi con la Bibbia.

I metodi in circolazione partono, generalmente, dal preconcetto che la colpa è della Bibbia e non nostra.

Dal momento che la Bibbia, è un libro tanto difficile, è lei che provoca la nostra ignoranza e la nostra incapacità a capirla.

Stando così le cose, l'iniziazione alla lettura della Bibbia dovrebbe proporsi, anzi tutto, di illuminare il popolo sulle cose difficili che la Bibbia racconta, per ristabilire così la comunicazione interrotta.

Ma noi pensiamo proprio l'opposto.

La colpa principale non è della Bibbia, ma nostra, della nostra maniera di intendere la Bibbia.

Noi non ci proponiamo di illuminare il lettore sulle cose difficili raccontate dalla Bibbia.

Ci sono tanti buoni libri che lo possono fare.

Noi ci proponiamo di correggere i difetti della nostra ottica:
si tratta di cambiare il colore delle lenti con cui leggiamo la Bibbia, Si tratta di togliere la trave che sta nei nostri occhi e dimostrare che quella trave che attribuivamo alla Bibbia, cioè quelle cose difficili raccontate dalla Bibbia, sono soltanto una pagliuzza (cf. Mt. 7, 3).







7

Abbiamo fatto l'esperienza della persona timida ed inibita che attribuiva la causa della sua timidezza alla resistenza aggressiva degli altri.

Poco per volta, l'esperienza quotidiana e la convivenza con gli altri le hanno fatto capire che la causa di tutto era proprio lei.

Così la realtà della vita e la convivenza con gli altri ci hanno portato a scoprire che la causa della mancanza di comunicazione tra noi e la Bibbia non risiede soltanto né anzitutto nella Bibbia, ma anche e soprattutto in noi.

L'abbiamo imparato' dal popolo e al popolo lo restituiamo con infinita gratitudine, in “questo libro”.

C'è successa una cosa curiosa:
siamo entrati nel mondo della Bibbia per la porta che ci hanno insegnato durante lunghi anni di studio.

Ma la convivenza col popolo ce ne ha indicata un'altra, molto antica,
molto usata dai Santi Padri della Chiesa;
oggi però, per lo più è chiusa e dimenticata.

Questa porta ci introduce direttamente a scoprire quello che la Bibbia ci vuole rivelare.

Con “questo libro” vorremmo riuscire a consegnarne la chiave al lettore.

La soglia di questa porta è corrosa dall'uso di tante generazioni cristiane, nei tempi passati.

A noi questa porta ha rimesso in luce tutto quello che abbiamo studiato, dandogli un valore nuovo.

Niente è andato perduto.

Lo studio fatto in passato era valido.

Aveva solo un difetto:
la grande stanza della vita era buia;
oggi, invece, è irradiata dalla vita e dalla fede di un popolo.

Noi abbiamo avuto poco da fare:
solo aprire gli occhi, le orecchie, tutti i nostri sensi, per sentire, ascoltare, guardare, convivere, lasciando entrare liberamente la realtà,
così com'è, sia quella del nostro mondo e della nostra vita, come quella del mondo e della vita del popolo della Bibbia.

Ci siamo accorti che, nonostante le differenze, la radice è la stessa e le domande che ne derivano sono le stesse.

La vita ci ha aiutato a capire meglio la Bibbia e la Bibbia ci ha fatto capire meglio la vita.

Abbiamo cercato di filtrare le informazioni della vita di oggi alla luce che scaturisce dalla vita del popolo biblico.

Ne è risultato “questo libro”.
Esso è nato da molti incontri e riflessioni col popolo.








8

«Dio dove sei?» - «Io sono qui. Noi siamo qui».

Prima di sapere qualcosa su Dio, cerchiamo di sapere un po' chi siamo noi.

Cerchiamo di conoscere la zolla di terra che calpestiamo;
di indagare la situazione concreta che suscita le domande:
«Noi siamo qui» provoca la domanda: «Dio dove sei?».

Il dialogo con Dio parte da questa nostra realtà concreta;
ed anche la riflessione contenuta in “questo libro”.

Nei diciassette capitoli abbiamo passato in rivista diciassette aspetti della realtà viva di «quel» popolo, che sono pure gli aspetti reali della nostra vita.

Ci rendiamo conto che il popolo, benché con i piedi affondati nella melma e la testa perduta fra le nuvole, ha saputo entrare in sintonia e cogliere gli appelli di Dio, latenti nella realtà.

E li ha tradotti in vita.

Ne ha fatto la sua bussola, dando alla vita una direzione sicura, ed è arrivato alla risurrezione.

L'esempio può servire ad aiutarci ad entrare in sintonia anche noi con l'appello di Dio, che si sprigiona oggi da questa nostra realtà e che, se diventa la nostra vita, possiede la forza di portarci ad una vera risurrezione;

garantita dalla risurrezione di Gesù Cristo.

Elenchiamo i diversi aspetti della realtà contenuti in “questo libro”.

Posero degli interrogativi al popolo della Bibbia e li pongono tutt'oggi, anche a noi.

Quel popolo seppe dare una risposta valida;
anche noi siamo sfidati a rispondervi.


1) Ambivalenza di tutto ciò che esiste e oppressione in ogni aspetto della vita.

2) Ricerca di un valore assoluto e impegno di trovare il cammino giusto della vita.

3) Coscienza progressiva dell'oppressione in cui viviamo, da cui si scatena il processo che tenta la liberazione.

4) Persone contraddittorie niente affatto sante, che si distinguono sulla scena del mondo, esaltate da molti e da molti calunniate.

5) Inversione dei valori, che mette la religione al servizio della sicurezza umana.

6) Sforzo di riformare e rinnovare la vita del popolo secondo un progetto che non tiene conto e non rispetta l'opinione del popolo.

7) Uomini solitari, attaccati da tutti che, in una lotta senza precedenti, si sono messi al servizio del popolo.

8) La scienza che interpella la religione pretendendo risolvere i problemi della vita.

9) Il conflitto tra quello che la coscienza detta e quello che ordina la tradizione.

10) La preghiera e la ricerca di comunicarsi con Dio.

11) Strutture senza vita, ridotte a vuote convenzioni soociali, perché strappate dalla radice da cui ebbero origine.

12) Fede in Dio e in Cristo: che cosa è?

13) Come scoprire il divino nell'umano?

14) Dove trovare un barlume del futuro che speriamo e per il quale lottiamo?

15) Qual è il senso delle crisi che incontriamo lungo la vita?

16) Le contraddizioni della Chiesa rinnovata; chi agisce in un modo chi in un altro.

17) La forza che vince, che sostiene la fede, suscita speranza e provoca il dono di sé.







THE END…..


con questo termino di postare il:

"lungo viaggio" all'interno delle Sacre Scritture, partendo dalla
cosidetta Creazione Adamica!


[SM=g7958] [SM=g7958] fatene Buon Uso... [SM=g7958] [SM=g7958]

Ringrazio tutti..


ciao con una stretta di [SM=g1902224]



Piero




[SM=x2515800] [SM=x2515801] [SM=x2515802] [SM=x2515800] [SM=x2515801] [SM=x2515800] [SM=x2515802] [SM=x2515800] [SM=x2515801] [SM=x2515800]







contatto skype: missoltino 1
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