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"Viaggiando" nella Bibbia..cosa si "Scopre"?..cosa dicono gli Esegeti?

Ultimo Aggiornamento: 27/06/2013 17:09
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mauro.68, 08/10/2009 20.14:

Sono rimasto al quarto capitolo, aspetto il seguito!



Anch'io. Questo libro è veramente molto avvincente. Non solo perchè ci informa sull'approccio e la comprensione corretta del Testo Sacro ma anche perchè lo fa in maniera semplice e comprensibile per tutti.

E' un modo di approccarsi al Testo Sacro decisamente diverso dalla maniera fondamentalista e letteralista di gruppi radical-protestanti come i TdG. Finalmente la Bibbia la si comprende davvero. [SM=g6828]




La verità non è qualcosa di statico ma è basata su una conoscenza progressiva, in grado di mettere in discussione anche i precedenti concetti raggiunti usando il modello del metodo scientifico
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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VI (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]





dal re Ezechia al re Giosia: storia di una riforma


«Ho trovato il libro della legge nel tempio di Jahvé» (II Re 22, 8).
Il grido cadde come una pietra in un lago tranquillo:
in pochi momenti tutta la superficie è in movimento.

Come il colpo di cannone nel silenzio della valle:
in pochi secondi l'eco riempie la valle come il tuono di mille cannoni.

Nel corso della storia si verificano situazioni del genere, in cui tutto converge verso uno stesso punto ma nessuno può sapere quale sia, perché sta al di là dell'orizzonte.

L'aria è pregna.
Qualcosa sta per succedere.

Nessuno sa che cosa, ma tutti ne hanno il presentimento;
qualcosa succederà inevitabilmente.

E quando succede è come l'energia elettrica che finalmente arriva e nel buio della notte illumina d'improvviso tutti i lampioni della città perché l'impianto era già pronto e si aspettava solo l'arrivo della corrente.
Tutto cambia.

Successe così quando il sacerdote Kilkia scoperse il libro della legge nel tempio di Jahvé e lanciò quel grido fatidico.
Era l'anno XVIII del regno del re Giosia (II Re 22, 3) l'anno 622 a.C.

Non si conoscono con esattezza le circostanze storiche della scoperta della legge e neppure si sa perché andò a finire proprio nel tempio. Sappiamo però la ripercussione che ebbe il fatto.
È questo che ci interessa.

I movimenti storici sono come i grandi alberi dalle radici umili e nascoste nei secoli anteriori.
Per questo sono irreversibili. Nessuno riesce a sbarrarne il passo.

Sono più forti degli uomini, i quali però possono influirvi sia in bene che in male. Possono far sì che il voltaggio della corrente che arriva dalla centrale elettrica superi quello dell'impianto, che scoppia e va in aria.

Allora accadde proprio così. Tutto andò in malora.



1. Le radici da cui nacque l'albero

Esattamente cento anni prima, nel 721 a.C., accadde la grande catastrofe del regno di Israele situato a Nord della Palestina.
Salmaneser, re della Siria, la grande potenza mondiale dell'epoca, invase il territorio (II Re 17, 3-5), distrusse la capitale Samaria (II Re 17, 6), rase al suolo l'interno del paese, deportò il popolo (II Re 17,6.20.23; 18, 11) e trapiantò al suo posto altre popolazioni (II Re 17, 24). Mise fine definitivamente a qualunque focolare di rivolta e di sovversione.

Si chiuse la storia del regno del Nord.
Ma la guerra continuò.
Gli eserciti dell’Assiria continuarono a marciare verso il Sud circondando le montagne del regno di Giuda e andarono a combattere contro gli Egiziani nel territorio di Gaza.

La distruzione di Samaria fu un avviso molto serio per il piccolo regno di Giuda, che nella guerra tra le due grandi potenze (Assiria ed Egitto) si trovò completamente isolato, imbottigliato in alta montagna.

Il popolo del Nord si disintegrò e cessò di esistere, perché aveva abbandonato il centro che unificava la vita nazionale.

Aveva smesso di essere fedele all' Alleanza e aveva lasciato da parte la costituzione del popolo che era la legge di Dio (II Re 17, 7-18; 18, 12).

Però in Giuda non era differente l'infedeltà e il cancro della decomposizione era identico (II Re 17, 19). Il territorio non fu invaso, ma più per un caso che per essersi meritato di scampare.
Si salvò perché poco prima il re Acaz si era fatto amico dei potenti.

Non volle entrare nell'alleanza di Israele contro l'Assiria (II Re 16, 5-6) e andò lui stesso a cercare il re Salmaneser pagando un pesante tributo affinché questi venisse ad aiutarlo contro la minaccia di Israele (II Re 16, 7-18).

E adesso che fare?
Quale posizione prendere?
Farsi amico della Siria?

No di certo! Sarebbe come sconfessare tutto un passato di fede e di lotta.
Anzi la stessa Assiria, anche quando aiutava gli altri, aveva di mira solo il suo interesse, il suo potere e la sua sicurezza.

Al di fuori la minaccia dell' Assiria cresceva, e al di dentro, senza incontrare alcuna resistenza, si formava un vuoto dilagante.
Acaz era un condottiero impotente.
Non sapeva come affrontare la situazione divenuta drammatica.

Il profeta Isaia aveva già tentato di rianimarlo con la fede nel futuro che Dio riservava al suo popolo (Is. 7, 1-25), ma non aveva trovato eco in quest'uomo mediocre che in un momento di disperazione era arrivato al punto di sacrificare il suo stesso figlio per propiziarsi altre divinità (II Re 16, 3).

Non c'era più spirito combattivo; la speranza veniva meno insieme alla capacità di resistere.
Avevano perduto il senso dell'esistenza.

Il vuoto interiore cresceva a dismisura. Aveva ragione Isaia:
«Se non avete fede non potete resistere» (Is. 7, 9).
Come risvegliare la fede?

Acaz morì. Il governo fu assunto dal giovane Ezechia, abile politico che aveva 25 anni di età.
Regnò quasi 30 anni (II Re 18,2).

Era un uomo di fede che «collocava in Dio la sua speranza» (II Re 18, 5). Aveva fede nel futuro di Dio e seppe comunicarla agli altri.
Suscitò un desiderio generale di riforme di cui lui stesso si fece portavoce e strumento.

Un soffio di vita nuova pervase l'intera nazione e tutti si sentirono rianimare.
L'apatia era vinta, il vuoto colmato.
Cominciò a nascere una nuova mentalità:
idee nuove su Dio, sul culto, sul passato, sul destino della nazione.

Erano solo idee, ma idee forti e ardenti che misero subito le ali e cominciarono a circolare nella testa del popolo.

Proprio qui, in questo movimento di rinnovazione provocato da Ezechia, in queste idee nuove, nasce la radice di quella legge che fu scoperta nel tempio quasi cento anni dopo dal sacerdote Kilkia.



2. I primi passi della riforma

La riforma prese corpo e entrò in tutti i settori della vita nazionale. La fede ne uscì purificata e i fuochi di magia e superstizione furono estinti (II Re 18, 3-4; II Cron. 29, 3-11);
le ingiustizie furono eliminate e la legge di Dio adottata come costituzione del popolo nella solenne celebrazione della Pasqua (II Cron. 30, 1-27);

si ricercarono e si raccolsero le tradizioni antiche (Prov. 25-1); Gerusalemme fu restaurata e le sue mura furono fortificate per qualunque eventualità (II Cron. 32, 1-5);

Ezechia si incaricò del rifornimento di acqua in caso di assedio o di assalto alla città e scavò un acquedotto nella roccia viva che tutt'oggi desta meraviglia (II Re 20, 20); combatté e sconfisse i Filistei nemici tradizionali dei Giudei (II Re 18,8);
purificò il tempio, (II Cron. 29, 12-17) riformò il culto e il sacerdozio (II Cron. 31.1-21).

Dalle ceneri rinasceva un popolo nuovo.
Ezechia scoprì il punto nevralgico attraverso cui far breccia per dare nuova speranza a un popolo avvilito e disperso.

Il perno della riforma consisteva nella rinnovazione spirituale e religiosa del popolo.

Una vera conversione del popolo al fulcro da cui partiva la rigenerazione della vita nazionale;
una conversione cioè alla sua vita con Dio" perché il ricordo del passato era ancora vivo in lui (cf. II Cron. 30, 5-9.13-20).

Tornarono a fiorire la speranza e la volontà. di lottare e di vivere in forza di questa nuova fede.

Ezechia riuscì a sfondare la porta del futuro che minacciava di chiudersi per sempre. Ci riuscì soprattutto perché la riforma liturgica, espressione autentica della vita del popolo, aprì uno sbocco alle forze vive che in esso esistevano, aiutandolo così a riscoprire la sua identità di «popolo di Dio».

Fu il grande merito di Ezechia che resterà immortale:
«Tra tutti i re di Giuda nessuno fu come lui né prima né dopo» (II Re 18, 5).

L'opera sua però non si restrinse alle frontiere della sua nazione.
Da buon politico illuminò l'orizzonte della situazione internazionale, tanto più che sarebbe stato impossibile che una nazione piccola come la sua, in una situazione come quella, si rinchiudesse in un nazionalismo ostinato e cieco.

In Egitto il Faraone Sabaka si rifaceva dalla sconfitta subita.
Aveva riunito tutte le forze della nazione ristabilendo così l'equilibrio internazionale rotto prima di lui dall'invasione degli Assiri.

Subito da tutte le parti sorse il tentativo di un fronte internazionale anti Assiria appoggiato all'Egitto, che anzi lo fomentava.
In seno al governo di Ezechia crebbe la corrente a favore dell'Egitto che tentava di avere anche il re dalla sua parte.

Il profeta Isaia, consigliere del re in materia religiosa e politica, che aveva già in precedenza sconsigliato Acaz di appoggiarsi all'Egitto, conservava ancora la stessa linea politica.

L'Egitto non dava affidamento (v. Is. 30, 1-7; 31, 1-3).
Ma Ezechia non ascoltò il] consiglio.
Entrò in campo e partecipò attivamente al gioco (II Re 18, 21).

L'Assiria non si fece aspettare.
Piombò sulla resistenza e la sconfisse.
Giuda fu invasa, le città capitolarono una ad una (II Re 18, 13).
Restò solo Gerusalemme che Ezechia aveva attentamente preparato alla difesa lavorando in silenzio per anni ed anni.

Non si sa perché, ma il fatto è che Gerusalemme non fu presa.
Non fu neppure assalita.
Ezechia ne usciva vittorioso.

Come succede sempre in battaglia, le due parti in campo danno due differenti versioni dei fatti e ciascuna li interpreta a modo suo.

La Bibbia dice che le cose andarono così:
Sennacherib, generale assiro, arrivò con quattrocento mila uomini;
il popolo ne fu atterrito, ma intervenne l'angelo del Signore e decimò l'esercito nemico; il generale fu costretto alla ritirata. (II Re 18, 13-19.37; II Cron. 32,9-23).

L'altra versione dei fatti scoperta dagli archeologi nella città di Ninive dice una cosa del tutto differente.
Comunque siano andate le vicende, la ritirata di Sennacherib fu motivo di grande euforia che contaminò lo stesso re Ezechia:
si ingolfò nel gioco politico della cospirazione internazionale contro l'Assiria (II Re 20, 12-19).

Il popolo sentì crescere la fiducia in sé e nei suoi sforzi e non stava in sé dalla gratitudine (II Cron. 32,23). Il fatto contribuì alla rinnovazione interna del paese.



3. Sorgono forze contrarie e paralizzano il movimento

Ma il vento della sorte può cambiare direzione, ed infatti le cambiò.
Il successore di Ezechia, suo figlio Manasse, fu una delusione per il popolo e una nullità per il governo.
Era un inetto e perciò non dette nessun impulso alla riforma iniziata con tanta buona volontà e speranza.

Era un politicante e non si interessò né della religione né della giustizia (II Re 21,1-16).
Si ritornò al punto di partenza.

E tutto questo durò la bellezza di 50 anni e più.

Manasse cominciò a governare a 12 anni di età e morì al governo già vecchio di 60 anni (II Re 21, 1).

Nonostante tutto però, nel popolo rimase una certa nostalgia e la certezza che quando tutti lo vogliono davvero qualcosa si può e si deve fare, come attestano i fatti che seguono.

I politicanti s'impadronirono del governo.
Non si curavano affatto né della legge di Dio né del popolo (II Re 21, 16). Accadde quello che si temeva.

Amon, successore di Manasse, fu assassinato (II Re 31, 33).
Bisognava togliere di mezzo il re e mettere al governo chi difendesse meglio gli interessi di un gruppo di militari, ufficiali dello stesso Amon (II Re 21, 23).

Ma l'assassinio fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Il popolo si ribellò, perché nonostante le disgrazie e le delusioni sofferte a causa del re, si identificava ancora con la monarchia della famiglia di David.

Se qualcuno avesse osato toccarla avrebbe offeso il popolo e poteva aspettarsi immediata vendetta.

Il popolo fece giustizia:
prese e condannò i militari che avevano cospirato contro il re impossessandosi ingiustamente del governo (II Re 21, 24).
Il regime fu salvo.

Andò al governo il legittimo discendente di David ancora bambino di otto anni, Giosia (II Re 22, 1).
A quanto sembra il sacerdote Elkia assunse la reggenza fino a che il ragazzo avesse raggiunto un'età sufficiente per prendere in mano le redini del governo.
Era l'anno 640 a.C.



4. L'ansia di riforme si raddoppia

La violenza degli avvenimenti scosse il popolo e gli dette una nuova coscienza del suo potere.
Fu come ricominciare tutto da capo. Ricuperarono il ritardo sofferto per colpa di Manasse.

La voglia di fare riforme, e riforme di base, tornò raddoppiata.
Tutto contribuiva a questo clima dentro e fuori della nazione.

Fuori: l'Assiria era governata da Assurbanipal da oltre 28 anni.
Il tiranno aveva dato pace al mondo ma la pace del cimitero.

Fece azzittire i popoli davanti alla sua violenza assassina:
un'infinità di massacri, di deportazioni, di torture, di sangue.
Perciò a metà del suo governo poté diminuire la censura e la repressione e dedicarsi tranquillamente allo studio e alla caccia.

Lasciò ai posteri una biblioteca colossale ritrovata recentemente, ed altorilievi rappresentanti scene di caccia di rara bellezza. Il suo apogeo fu anche il principio della sconfitta finale.

A poco a poco l'Assiria languiva per eccesso di potere.
L'Egitto a sua volta, pur minacciando un'altra ribellione, non costituiva ancora un vero pericolo.
Babilonia, la terza potenza mondiale di allora, non era ancora cresciuta abbastanza per significare una minaccia, ed era vista con simpatia dai popoli oppressi.

Ezechia al tempo suo aveva già scambiato idee segretamente con un emissario della Babilonia (II Re 20, 12-15).

Nacque così all'interno del paese un movimento nazionalista.
Con la violenta eliminazione dei cospiratori e degli assassini del re Amon tutti passarono in blocco dalla parte del nuovo re ancora bambino, creatura del popolo.

In questo frattempo apparvero due grandi profeti, Geremia e Sofonia, che predicavano al popolo la riforma e il cambiamento.

Il movimento rinnovatore s'impose e dilagò. Invase tutto il paese.
Era appoggiato da tutti e anche in campo internazionale sembrava realizzabile.

Cominciò l'avanzata:
il re in testa e tutti dietro a lui.
Ma cominciò senza sapere bene da che parte orientarsi.
Tutto era pronto e tuttavia mancava ancora qualche cosa.

Secondo il libro dei Re passarono altri 18 anni prima che fosse dato il passo definitivo (II Re 22, 3).

Il libro delle Cronache ricorda alcuni tentativi anteriori (II Cron. 34, 37).

L'impianto elettrico era pronto ma dalla centrale non arrivava ancora l'energia.
C'era un intoppo.
Come quando si aspetta che l'acqua raggiunga i cento gradi per bollire.

Ma se sotto la pentola c'è il fuoco, non c'è pericolo:
l'acqua bollirà.E il fuoco c'era.

L'attesa durò fino al momento in cui echeggiò il grido:
«Ho trovato il libro della Legge nel tempio di Jahvé!»• (II Re 22, 8).

Tutta la città s'illuminò perché era arrivata la luce.
Il cannone tuonò nel silenzio della valle.
Si era trovato quello che mancava.
Echeggiò il grido e cominciò l'avanzata.

D'improvviso si aprì nitidamente una strada e tutti (re, profeti, sacerdoti, funzionari e popolo) vi entrarono dentro.
Avevano davanti a sé un futuro pieno di ottimismo.
Era l'anno 622 a.C., esattamente 100 anni dopo la caduta di Samaria.



5. La «Magna Charta» della riforma trovata nel tempio: la sua storia

La legge trovata nel tempio era l'antica legge di Dio, ma riveduta e corretta in una edizione nuova adatta ai tempi nuovi.

Le idee lanciate da Ezechia e soffocate durante il lungo governo di Manasse vi incontravano una formulazione concreta e operativa.
Quelle idee non erano scomparse, ma erano state ruminate da alcuni idealisti che le conservarono, le formularono e le misero per scritto (idealisti che pensavano al futuro e non si lasciarono vincere dal marasma politico e religioso provocato dall'incapacità di Manasse).

Non si sa come né perché il loro scritto andò a finire nel tempio.
Là fu trovato da Elkia in occasione delle riforme che si stavano facendo nella costruzione (II Re 22, 3-10).

Portato al re e letto alla presenza di lui, il libro provocò una reazione inaspettata di paura e di confusione:
«Grande deve essere la collera del Signore contro di noi, perché i nostri padri non hanno obbedito alle parole di questo libro e non hanno messo in pratica tutto ciò che vi è scritto» (Il Re 22, 13).

Ebbero l'impressione che all'improvviso la nebbia si dileguasse e lo orizzonte si delineasse limpido ai loro occhi.

Il libro era lì ad indicare il cammino da tutti desiderato ma che nessuno riusciva a definire.

La legge trovata nel tempio diceva come fare.
Veniva a formulare con esattezza ciò che era confuso nelle aspirazioni di tutti.
Offriva loro una strategia dell'azione.

Tutti presero coscienza della crisi che stavano vivendo (cf. II Re 22, 14-17). All'istante il popolo fu convocato, la legge fu letta in assemblea plenaria e tutti s'impegnarono a metterla in pratica (II Re 23, 1-3).
La riforma aveva adesso la sua «Magna Charta».

Si poteva mettere mano all'opera.
Il popolo aderiva in pieno (II Re 23, 3).
Lo scopo consisteva nell'applicare integralmente le esigenze di Dio nella situazione nuova in cui si trovavano.

A dire il vero, una riforma drastica della vita nazionale era più che necessaria. Tutti se ne rendevano conto.
La religione, così come era praticata, era piena di superstizioni.

Una delle cause era l'infiltrazione e la mescolanza di elementi pagani nel culto di Jahvé e l'abbondanza di piccoli santuari sparsi per tutto il territorio, dove si praticava un culto affatto differente dal culto magico dei Cananei.

I profeti non si stancavano di denunciarlo.
Ma non serviva quasi a niente.

Bastò per esempio che morisse Ezechia perché Manasse ripristinasse tutto l'apparato pagano del culto (II Re 21, 3-7).
Segno che nella vita del popolo c'era tutta una ricerca e un vuoto nascosto, che trovavano risposta concreta solo in questi elementi magici.

C'era il pericolo di una perversione lenta e progressiva dell'idea di Dio, seguita dalla perversione del senso della vita della nazione.

Proprio così 100 anni prima era incominciata la caduta della Samaria.
Se lo ricordavano tutti e avevano paura che la cosa si ripetesse.
Il popolo del Nord si disintegrò e cessò di esistere per non sapere più chi era né perché esisteva.

Era meglio prevenire che rimediare.

Ma non c'era re né profeta capace di strappare il male con la radice e tutto.
La coscienza del popolo non era chiara.
Il problema si presentava assai complesso.

Fin dal 722, quando la Samaria fu distrutta, i teorici del governo avevano incominciato ad analizzare il problema più da vicino, arrivando a conclusioni pratiche radicali di grande importanza per la vita del popolo. Redarono un documento o manifesto in cui si diceva come applicare la legge di Dio.

Stesero anche un piano d'azione. Elkia lo trovò molto tempo dopo nel tempio.



6. La «Magna Charta» della riforma trovata nel tempio:
il suo contenuto


Esaminiamo i punti principali del manifesto o legge contenuti nel Deuteronomio.

Il documento presenta Mosè che parla al popolo poco prima di prendere possesso) della terra.
A dire il vero il popolo cui Mosè parlava non era quello che visse al suo tempo verso l'anno 1200 a.C. ma era il popolo che camminava per le strade di Gerusalemme' e nell'interno della Palestina, un popolo dedito alla superstizione al tempo di Manasse e Giosia.

Mosè espone la legge in modo molto diretto e personale sotto forma di un discorso.
Si propone di arrivare alla coscienza del popolo e fargli sentire la sua responsabilità in quel particolare momento storico della sua vita.

Attraverso la lettura del manifesto il popolo avrebbe dovuto riscoprire la sua identità di «popolo di Dio», il suo impegno urgente con questo Dio e le esigenze di vita' che ne derivavano.
Col re il manifesto raggiunse'il suo scopo.

Basta vedere la reazione appena finì di ascoltarne la lettura (II Re 22, 13).
Il Deuteronomio ragiona così:
il popolo non può avere altra divinità all'infuori di Jahvé, unico Dio e Signore del popolo (cf.Dt. 6, 4-25).

Tutto il resto che porta il nome di Dio non ha alcun valore.
Deve essere sradicato (Dt. 6, 14-15; 7, 25-26).
L'impegno del popolo con Jahvé non deriva da quello che il popolo ha fatto per Jahvé, ma da quello che Jahvé ha fatto per il popolo (Dt. 6, 20-7, 6): è un dovere di riconoscenza e di amore (Dt.
7, 7-11).

Per il fatto di essere stati scelti da Jahvé, hanno il dovere di osservare i suoi comandamenti per potere un giorno godere delle sue promesse.
È l'idea fondamentale e occupa tutta la prima parte del libro del Deuteronomio (capp. I-II).
Segue l'applicazione pratica della nuova maniera di concepire la vita nazionale.

L'unico santuario sarà espressione della fede nell'unico Dio.
Tutti gli altri luoghi di culto saranno distrutti.
Jahvé, il Dio del popolo, può essere adorato solo nel luogo da lui scelto per il culto (Dt. 12, 5).

Si capisce che questo unico luogo sarà Gerusalemme.
Solo li andranno a fare offerte ed olocausti (Dt. 12;
6-7). Ogni pratica di culto è prescritta fino nei più insignificanti particolari.

Tutto è centralizzato. Niente resta al caso o all'iniziativa personale. Bisogna farla finita con la situazione in cui «ciascuno si regola come meglio crede» (Dt. 12, 3). La grande preoccupazione consiste nel circuire la liturgia in modo da escludere una volta per tutte la pratica della magia (cf. Dt. capp. 12, 18).

Una delle più importanti. norme concrete era l'obbligo di fare tre pellegrinaggi all' anno al tempio di Gerusalemme in occasione delle tre grandi feste nazionali (Dt. 16, 16).

Sarebbe bastato a promuovere la coscienza di unità nazionale e sarebbe stata un’occasione propizia per istruire e aggiornare il popolo su Dio e sulle esigenze della Legge.

Conviene leggere il libro del Deuteronomio per farsi un'idea dell'appello vibrante rivolto alla coscienza del popolo, in quello stile diretto e suggestivo che gli è proprio, e per capire la rigidità della riforma liturgica che non lasciava niente di indefinito.




SEGUE..


una stretta di [SM=g1902224]


Pierino








[Modificato da mlp-plp 09/10/2009 23:09]
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non ti arrabbbiare, ma un c'è la fo a leggerlo al pc.
ora l inchiostrino è finito, appena "trasfondo" la stampate, li stampo e li leggo e ti dirò di più...


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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VI (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]








dal re Ezechia al re Giosia: storia di una riforma




7. Il problema della manutenzione del clero:
pietra d'inciampo alla rinnovazione


Al problema della riforma del culto si legava quello della manutenzione del clero dell'interno.
Tutti quei santuari, sia degli dèi falsi che del vero Dio, avevano i loro sacerdoti.

I poveretti trovavano nei santuari l'unico mezzo di sussistenza. Decretando l'abolizione dei santuari il clero di Gerusalemme decretava la fame e la miseria dei colleghi dell'interno. Problema insolubile circolo vizioso; Ezechia aveva tentato già una riforma del clero senza nessun risultato (II Cron. 31, 2).

Col governo di Manasse tutto era tornato al punto di partenza.
Senza prima dare una soluzione ragionevole al problema concreto del clero, qualunque altra soluzione per promuovere la riforma sarebbe stata come un innesto su un ramo secco.

Per quanto possano essere belli gli ideali, nessuno vuol morire di fame per loro amore.

Gli autori del libro del Deuteronomio si proposero di risolvere il problema del clero e trovarono la soluzione di cui si parla nel libro di Giosia:
una parte del clero dell'interno fu trasferito a Gerusalemme, dove ottenne un impiego di seconda categoria nel tempio (Il Re 23, 8; cf. Dt. 18, 6-8);

un'altra parte ricevette la proibizione di stabilirsi a Gerusalemme (II Re 23, 9) e fu affidata alla carità del popolo (cf. Dt. 14, 27-29).

Affiora la rivalità tra i due cleri e la lotta che si facevano da tempo per conquistare una maggiore influenza sul popolo.

Il clero della capitale voleva guadagnarsi una influenza maggiore nella nazione e voleva centralizzare il culto nelle sue mani.
E ne aveva il mezzo dal momento che il pericolo della magia era grande.

D'altra parte il trasferimento di tutto il clero nella capitale poteva marginalizzare lo stesso clero della capitale.

Il clero dell'interno si vide privato delle sue normali fonti di guadagno. Abbandonato alla carità del popolo o ridotto a un impiego di seconda categoria nel tempio, non vedeva di buon occhio l'azione centralizzatrice dei suoi colleghi di Gerusalemme che godevano condizioni di vantaggio.

Non è poi molto piacevole essere messo di punto in bianco alla stregua dello «straniero, dell'orfano e della vedova» (Dt. 14, 29)!
La previdenza sociale del clero fin da quel tempo costituì un problema e un problema cruciale per l'esito della riforma che si doveva fare.

Sembra proprio che tutta la legislazione corrispondesse soltanto al modo come gli agenti centrali di coordinamento a Gerusalemme sentivano ed affrontavano il problema, in quanto erano persone che da molto tempo pensavano a queste cose e avevano una coscienza illuminata.

Non era certo espressione del problema così come lo sentiva e lo viveva la base, il popolo e il clero dell'interno. Qui si situa la causa del fallimento della riforma.



8. L'esecuzione della riforma e la sua tragica fine

Il re Giosia assunse la riforma come sua missione personale.
Fece di tutto per metterla in pratica.
Corse tutta la nazione da nord a sud (II Re 23, 4-14).
Entrò perfino nel territorio di Israele (II Re 15-20).

Voleva farla finita con tutti i santuari, sia di Jahvé sia degli altri dèi, per purificare la religione dal cancro della superstizione e della magia.

Usò la violenza e arrivò ad uccidere i sacerdoti degli dèi falsi bruciandoli vivi insieme ai loro altari (II Re 23, 20).

Attuò la riforma del clero (II Re 23, 8-9).
Fu molto elogiato:
«Ha fatto ciò che piace a Dio e in tutto ha imitato la condotta di David suo padre senza deviare né a destra né a sinistra» (II Re 22, 2).

È difficile dare un giudizio sul movimento di riforma messo in opera da Giosia.
La morte inattesa e immatura gli impedì di portarla a termine.

Dopo di lui andarono al governo uomini incapaci.
Tutto restò a metà.

Giosia abbatté la vecchia casa e non fece in tempo a costruirne una nuova.

Ancora una volta sarà la situazione internazionale ad influire sull'andamento dei fatti interni del paese dando loro una direzione imprevista.

Nabopolassar, re di Babilonia, la terza potenza mondiale dell'epoca, ereditò dai suoi antenati lo spirito di lotta e di indipendenza e dette inizio alla rivolta contro il potere secolare degli Assiri.

Con battaglie fulminee riuscì a frantumare in pochi anni un potere immenso costruito durante secoli.
L'Assiria agonizzava.

Nel 612, cioè dieci anni dopo la scoperta del libro della Legge nel tempio, quando Giosia correva il paese distruggendo i santuari e trasferendo il clero, Ninive, la grande capitale degli Assiri, fu presa dai Babilonesi e rasa al suolo.


Questo fatto è simile all'esplosione della prima bomba atomica di Hiroshima:
finisce un'epoca e ne incomincia un'altra.

L'Assiria si ritirò con le truppe che le restavano verso il nord nell'attuale Siria e là si barricò in un ultimo tentativo di difesa disperata.

E come può accadere, quando la Cina diventa troppo forte, l'America e la Russia diventano amiche;

così l'Egitto, eterno nemico dell' Assiria, si mise a fianco di questa per l'equilibrio del Medio Oriente.

Inviò un esercito di rinforzo per raccogliere i resti dell'esercito assiro barricato nel nord dell'Assiria.
Per arrivare fino là doveva passare per la terra di Giosia.

Giosia, forse spinto dalla presunzione, pensò di cogliere il momento buono per contribuire in qualche modo alla politica internazionale.
Riunì i soldati e andò 'ad aspettare gli Egiziani dietro la gola di Megiddo sul monte Carmelo.
Voleva impedirne il passaggio affrettando così la sconfitta sia degli assiri che degli egiziani.

Aprì il fuoco contro il Faraone per vincerlo in battaglia.
Fece male i calcoli e fu sconfitto nel primo scontro (II Re 23, 29).
Ferito a morte, fu raccolto e portato a Gerusalemme dove morì e fu sepolto tra il compianto generale del popolo che lo considerava un grande amico (II Cron. 35, 23-24).

Si dice che lo stesso profeta Geremia fece l'elogio funebre del re la cui morte uccise l'ultima speranza del popolo (II Cron. 35, 25).
Giosia aveva solo 39 anni.
Morì giovane (cf. II Re 22, 1).

Siamo nell'anno 609. Dodici anni di lavoro intenso per la riforma si chiudevano con una morte stupida ed inattesa.

Il Faraone, di ritorno dalla missione militare a nord della Siria, passò da Gerusalemme e sottomise il regno di Giuda mettendovi a capo l'uomo di sua fiducia (II Cron. 36, 1-4).

Da quel momento tutto andò male;
22 anni più tardi, nel 587, la città fu presa da Nabucodonosor, successore di quel re a cui Giosia aveva dato appoggio pagando con la vita.

Nabucodonosor re di Babilonia, prese la città, la rase al suolo e fece piazza pulita per sempre dell'indipendenza del popolo, che la riconquistò solo nel 1947 d.C., quando si formò lo stato di Israele che oggi deve sostenere le stesse lotte, facendo lo stesso gioco di politica internazionale delle grandi potenze.



9. Bilancio della riforma

La riforma morì con la morte di chi l'aveva promossa.
Come si spiega?
Dove stava lo sbaglio?
A chi attribuirne la causa?

Alla politica interna?
Alla incompetenza dei successori di Giosia?
Allo stesso Giosia?
Alla «Magna Charta» della Riforma?

Se la riforma era stata promossa proprio per evitare il disastro che si realizzò, perché allora non riuscì ad evitare la china che la portò fin là?

Fu troppo debole o troppo forte?
Fu uno sforzo vano senza prospettive di futuro?

C'è un fatto curioso in tutta questa storia.
Geremia, la grande figura religiosa di quel tempo, che fin dal principio ne accompagnò tutti i passi, che predicò la conversione, che pianse amaramente la morte del giovane re, non sembra con le sue profezie aver dato tutto l'appoggio a quanto si faceva in nome della riforma.

Non si identificò col movimento di riforma che il re Giosia portò alle ultime conseguenze.
Perché?

La riforma affrettò o ritardò la catastrofe che sopravvenne così rapidamente nel giro di soli 20 anni, quando i cambiamenti solevano realizzarsi, molto più lentamente che al tempo d'oggi?

È difficile dare un giudizio, perché ce ne mancano gli elementi.
Cercheremo solo di formulare una ipotesi, dal momento che i fatti ci stanno davanti ed esigono risposta e la questione ci interessa perché
anche oggi la Chiesa è coinvolta in un gigantesco sforzo di riforma segnato da avvenimenti di ogni tipo, sia interni che esterni, nazionali e internazionali.

Davanti ad un'opera d'arte si possono fare studi di diverso tipo per cogliere tutta la portata del messaggio che vuole comunicarci:
tuttavia il messaggio colto dal critico d'arte può non essere quello dell'artista.

Ma lo sforzo fatto dal critico di arte rientra nella prospettiva dell'artista:
l'artista vuole che la sua opera susciti la riflessione degli uomini e li metta davanti alla loro coscienza.

Allo stesso modo, nella spiegazione della Bibbia e dei fatti raccontati dalla Bibbia, la parola dell'esegeta non è importante.

Anzi è molto relativa.
L’importante è che l'esegeta, secondo le sue capacità d'interprete, riesca a sprigionare la forza e la luce della parola di Dio perché operi sulle coscienze degli uomini.

Le conclusioni saranno forse differenti da quelle proposte dall'esegeta.
Non ha molta importanza.

È importante che gli uomini si siano fermati, abbiano riflettuto, abbiano confrontato la vita e l'attività con la parola di Dio, abbiano scelto e si siano resi conto alla luce di Dio del perché delle loro posizioni.




lO. L'errore di calcolo che ha fatto crollare la casa in costruzione

Il nuovo modo di vedere la fede sintetizzato nel Deuteronomio sotto forma di progetto concreto di azione era una risposta nata dalle esigenze della realtà, ma in quel momento era pure l'espressione di una piccola minoranza che improvvisamente volle imporsi a tutti.

Si mise in marcia col segnale rosso e contribuì ad accelerare il disastro che aveva intenzione di evitare.
Bisogna aspettare che il semaforo dia il segnale verde, anche se ci mette un po' di tempo, soprattutto quando si tratta di portare il popolo a riformare la mentalità e le pratiche religiose.
Altrimenti si causano disastri.

La riforma drastica che bruciò le tappe del progetto dei teologi di Gerusalemme, anche se era in profonda sintonia con la vita del popolo, fu soltanto teorica, e in pratica rimase senza effetti fino a molto tempo dopo, fino all'epoca che seguì l'esilio.

Si trattò di una riforma imposta dall'alto su schema prestabilito.
Il popolo non riconosceva le sue aspirazioni nella riforma promossa con tanto zelo.

Per questo non la fece sua.

Per questo la riforma morì con l'uomo che la promosse senza lasciare traccia.

Il popolo ha difficoltà a ragionare, né si lascia convincere dalle idee, per quanto chiare e nobili possano essere.

Quando un problema di fede si colloca in termini troppo pratici, come fu nel caso della riforma di Giosia, la teoria applicata drasticamente non approda a nessuna soluzione.
Dà i suoi frutti a distanza di tempo come elemento di coscientizzazione.

Le soluzioni drastiche che tutto ad un tratto applicano un progetto teorico, senza tenere conto della realtà, non funzionano, perché nessun popolo le capisce. Presto o tardi finiscono col fallire.

Il re Giosia non agì con molta comprensione nei riguardi della situazione concreta del clero rurale e del popolo.

Seguiva le norme stabilite da un progetto già pronto, senza chiedersi se era possibile attuarlo in quella forma.
Un carro pesante, quando è tirato d'improvviso con uno strattone, anche se da molto tempo stava aspettando la sua ora, non cammina perché il timone si spezza.

Quando il re volle risolvere il problema non si dette molta pena di consultare il popolo, mentre il buon esito della riforma dipendeva proprio dalla collaborazione del popolo.


Era il popolo che doveva mantenere il clero, che doveva pagare le decime per il tempio, che doveva fare i tre viaggi a Gerusalemme, che doveva osservare tutte le prescrizioni.

Ogni forma di culto pubblico a Dio fu centralizzata in Gerusalemme.
Tutto il resto fu proibito e controllato.
Le prescrizioni prevedevano anche i più piccoli dettagli.

Anche se con retta intenzione, una simile riforma improvvisa privò il popolo da un momento all'altro dell'unico appoggio che aveva per la sua vita in tempi tumultuosi;
appoggio tradizionale che lo aiutava a incontrarsi con se stesso e con Dio, anche se fosse falso.

Da quel giorno in poi chiunque continuasse a praticare qualsiasi altra forma di culto si sentiva come un fuorilegge, su una falsa strada. Privato della sua maniera concreta di adorare Dio, col quale si era identificato durante secoli di vita, e ignorando il raziocinio delle nuove forme di adorazione, il popolo non si ritrova più né con se stesso né con Dio.

In pratica non era sempre possibile andare a Gerusalemme e le tre visite per anno non bastavano a saziare l'intenso desiderio religioso del popolo.
Molto più tardi l'istituzione della sinagoga supplì a questa grave mancanza e rese possibile l'esecuzione della riforma contenuta nel libro del Deuteronomio.

In conclusione il popolo si vedeva collocato al margine del culto ufficiale. Si fece un gran vuoto, senza nulla che potesse riempirlo:
solo forse un'idea.

La vita del popolo diventò una vita senza Dio, almeno di fronte alla legge ufficiale.

Eccolo li, senza più nessun orientamento, in mezzo alla confusione religiosa e politica di quei tempi disastrosi.
Lo choc generato dalla riforma fu troppo forte e il popolo non aveva né criteri né sostegno per sopportare l'applicazione rigorosa delle nuove regole traendone profitto.

Il popolo fu privato del suo diritto.


La morte prematura del re ruppe le dighe e le pratiche pagane dilagarono più numerose di prima per colmare il vuoto scavato dalla riforma.

È significativo che Geremia, uomo del popolo e grande condottiero religioso di quel tempo, per quello che si sa,non abbia dato completo appoggio al movimento.

Eppure se c'era uno che aveva avuto coraggio di criticare gli abusi della religione, questi era proprio Geremia.

Ma quando tutto è confuso non è facile prendere una posizione netta e chiara per dire con certezza che cosa si debba fare.

Sarebbe come un paese che basasse tutta la sua economia sopra un unico prodotto.
Per quanto ricco possa essere, quando arriva l'ora della crisi di quell'unico prodotto, il paese cade in miseria.

Di chi è allora la colpa?

In tempi simili è sempre più facile e più sicuro dire come non dovrebbe essere piuttosto che come deve essere, escludendo ufficialmente altri cammini, altri tentativi, altre esperienze.

Non si tratta di essere fedeli solo a Dio.
La fedeltà a Dio vuole che siamo fedeli anche al popolo.

Il che vuol dire:
la preoccupazione più importante di Dio è il benessere e la felicità degli uomini, il loro sviluppo e la loro piena realizzazione.
Ridurla ad una preoccupazione legalista normativa in nome della purezza della fede, per quanto meravigliosa e giusta possa essere, non è sempre quello che Dio vuole.

Ad un babbo importa anzitutto non tanto che il figlio possegga idee esatte sopra suo padre, ma che riesca nella vita e sia felice.

Quando sarà felice grazie alla bontà di suo padre, avrà pure idee giuste su di lui.

La gloria di Dio non si distingue dalla felicità degli uomini.
Non basta domandarsi soltanto che cosa Dio vuole che io faccia.

Bisogna domandarsi come Dio vuole che io realizzi le cose che aspetta da me. I più grandi sbagli generalmente si fanno non contro la prima esigenza ma contro la seconda.
Siamo fedeli ad una dottrina astratta ma non seguiamo il modo di Dio nel viverla e nel metterla in pratica.

La legge del Deuteronomio conteneva e contiene la giusta dottrina perché la Bibbia ne è depositaria e i cristiani continuano a leggerla fino ad oggi.

Ma il modo con cui gli uomini mettono in pratica e applicano la legge impedisce la sua stessa esecuzione e applicazione.
Tutti hanno agito con la migliore delle intenzioni, nella perfetta obbedienza, ma questo non basta.




11. Conclusione

La Bibbia, portando fino a noi questa storia complicata di riforma, suscita una luce molto grande per orientare la critica.

Ci fa intuire che la Parola di Dio si inserisce nella storia degli uomini in modo tale da rimanere sottoposta alle libere decisioni umane, fino a correre il rischio di non raggiungere il suo fine.

È tutto qui il grande mistero della storia che la Bibbia registra, ma non spiega.

Troviamo nella Bibbia la fede incrollabile che la storia, sostanziata, dinamizzata, orientata dalla Parola di Dio, è sempre una storia vittoriosa.

Tale certezza porta il popolo a prendere decisioni, ad agire.
D'altra parte però queste stesse decisioni e questo agire umano arrivano ad oscurare a volte la presenza della Parola e ad annullarne l'effetto; così almeno sembra, entro i limiti delle nostre possibilità di osservazione e di giudizio.

Quanto successe al tempo di Giosia è preludio di quello che succederà quando «la Parola fatta carne» sarà eliminata dal consorzio umano, uccisa su di una croce, manifestando nella sconfitta la sua forza invincibile.

Tutto ciò serve ad aumentare in coloro che credono in Dio il senso della loro responsabilità.

La complicata storia di una riforma cominciata bene e finita male, perché non rispettò il popolo, dimostra che quel popolo ebbe una storia uguale a quella di qualunque altro popolo.

In mezzo alla confusione generale camminarono i profeti con le loro angustie e le loro speranze, a tastoni, scrutando gli orizzonti per scoprire gli appelli di Dio.

Non sempre indovinarono, non sempre riuscirono a vederci chiaro.
Ma nell'insieme il popolo ha camminato fra alti e bassi ed è arrivato là dove Dio lo voleva.

Il popolo non aveva la linea telefonica che lo mettesse in diretta comunicazione con Dio.
Ma aveva la coscienza che in tutto quello che succede Dio è presente.

La sua storia tormentosa un'impressionante ricerca di Dio.



SEGUE..


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Pierino




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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VII (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

Geremia: la fuga non è mai soluzione





Benché sia vissuto in un tempo totalmente differente dal nostro, qualcosa tuttavia ci unisce a quest'uomo.

Ci risveglia a certi aspetti della nostra realtà, nei quali non eravamo soliti vedere o percepire gli appelli di Dio.
Ci si presenta come un uomo concreto, non più un uomo solo del passato, ma del tutto inserito nel nostro presente.

Potremmo trovarcelo davanti in qualunque angolo della strada.

Attenzione!



1. La realtà: la condizione umana del popolo al tempo di Geremia


Situazione internazionale:
È il tempo che va dalla morte del re Giosia (609) fino alla distruzione di Gerusalemme e alla deportazione del popolo verso l'esilio di Babilonia (587).

Il quadro della politica internazionale è completamente cambiato:
le due grandi potenze mondiali, Assiria e Egitto, hanno perduto l'egemonia coloniale.

Si profila all'orizzonte una terza potenza, terribile e che incute spavento: Babilonia.

Nell'anno 612, Babilonia distrusse la capitale dell'Assiria, Ninive.
Fu uno choc internazionale, simile a quello della bomba atomica cinese a Washington.

Il piccolo popolo di Giuda vedeva di buon occhio il cambiamento e cercava di dare il suo contributo (a suo proprio vantaggio).
Il re Giosia, nell'anno 609, inviò il suo esercito per impedire il passaggio del Faraone di Egitto, Nekao, che si recava a dare aiuto agli ultimi resti delle forze dell’Assiria (un tempo nemica, ma adesso amica, a causa della minaccia di Babilonia), rifugiate nel nord della Siria.

Giosia fu sconfitto e perse la vita in battaglia (lutto nazionaIe).
Le forze alleate dell'Egitto e dell' Assiria furono sgominate e annientate a partire dall'anno 609;
il cammino dell'avanzata dI Babilonia era aperto.

Ripercussione della situazione internazionale sul piano nazionale:
Due erano le correnti politiche del governo di Giuda:
alcuni erano a favore di Babilonia, altri a favore dell'Egitto.
Per cui, tre mesi dopo la morte di Giosia (che era a favore di Babilonia), il Faraone d'Egitto riuscì a deporre dal trono il successore Gioacaz, anch'esso favorevole a Babilonia, e a mettere al suo posto un nuovo re, Gioacchino (609-598), favorevole all'Egitto.

Adesso, era Babilonia il grande pericolo!

Con la vittoria di Babilonia su Nekao, nell'anno 605, Giuda diventò vassalla di Babilonia.
Intrighi dei filoegiziani suscitarono una rivolta che fu schiacciata.

Dal tempo di questa rivolta (602) fino alla distruzione (587) si ebbe una situazione confusa.

Lentamente si andava creando una vera psicosi contro Babilonia, chiamata «il pericolo del nord». (cf. Ger. 1, 14-15).
Intrighi, politica sporca, sabotaggi.

Nessuno più pensava onestamente.
Per limitare il pericolo, si suggerivano soluzioni assurde.

Situazione nazionale:
La morte inattesa e prematura del giovane re Giosia, condottiero amato dal popolo, fu un duro colpo che soffocò le speranze nel cuore di molti.

La riforma incominciata (vedi capp. 4 e 6) non andò avanti.
Ebbe inizio la decadenza.

Il trono era occupato da re inetti.

Nella generale incertezza, ciascuno si difendeva come meglio poteva e dilagava la più nefasta ingiustizia.

Si cercava sicurezza nelle alleanze militari con l'Egitto;
era la politica dello struzzo, che nascondeva o ignorava il pericolo dicendo: «Va tutto bene!

Va tutto bene!» Mentre tutto andava male. (Ger. 6, 14).
Si parlava solo di felicità per nascondere le piaghe del terrore (cf. 8, 11). E si tentava rifugiarsi in una politica fiacca e falsa, sotto il manto protettore della religione ufficiale.

Si pensava di trovare la fonte della sicurezza nel fedele adempimento della liturgia, con tutte le sue feste e cerimonie:
«Siamo salvi!» (7, 10). E non era difficile trovare profeti e sacerdoti che legittimassero un processo del genere e che rassicurassero i capi circa le soluzioni da loro suggerite per superare la crisi (8, 10).

La religione diventò cosi, un «vero oppio del popolo» che credeva in questi falsi profeti quando dicevano:
«Vi sarà dato tutto il bene! Non vi succederà alcun male!» (23, 17).

Ma non si combatte un esercito con riti vuoti, con cerimonie senza vita e con promesse senza garanzia.

La disgrazia si avvicina inesorabilmente.

La religione era strumentalizzata per difendere gli interessi dei gruppi.





2. Riflessione critica sulla situazione: nasce la vocazione del profeta


Nel villaggio di Anatot, circa sei km. a nord di Gerusalemme, abitava un ragazzetto, Geremia, di stirpe sacerdotale (Ger; 1, 1), forse discendente di Ebiatar, sommo sacerdote al tempo di David, destituito dei suoi diritti da Salomone (cf. 1 Re 2, 26-27).

Era, dunque, un ragazzo che aveva nelle vene la tradizione del popolo, che viveva molto intensamente il dramma della sua nazione e si accorgeva dell'inutilità delle soluzioni ufficiali, che non coglievano il fondo del problema.

Da quello che si può dedurre dagli scritti posteriori del profeta, egli vedeva la situazione con occhio critico, illuminato dalle esigenze della sua fede in Dio.

Era una visione molto semplice e quasi semplicista, ma di grande portata.

La situazione attuale provava ad oltranza che il popolo aveva abbandonato il cammino di Dio.
L'ingiustizia si era installata nel potere, a cominciare dallo stesso Re (cf. Ger. 22, 13, 19).

Geremia arrivò perfino a dubitare che in Gerusalemme ci fosse ancora un solo uomo capace di praticare la giustizia (5, 1).
«Passano di delitto in delitto e non mi riconoscono più, dice il Signore» (9, 2).

Causa di tutto era l'abbandono di Dio (2, 13).
Invece di servire Dio, che esigeva la pratica della giustizia (7, 5-6), ciascuno seguiva il suo Dio.

Tanti dèi quante erano le città di Giuda, e tanti altari quante erano le strade di Gerusalemme (11, 13 ).
Per questo, la nazione camminava verso la sua totale disintegrazione.
In una situazione del genere, era inutile la politica dello struzzo, che si sottraeva alla responsabilità e cercava protezione e sicurezza in una religione vuota di senso o in alleanze militari equivoche.

Bisognava attaccare il male alla radice:
«Praticate la giustizia fin dall'aurora, liberate l'oppresso dalle mani dell'oppressore, affinché la mia ira non divampi, come le fiamme di un braciere ardente che non si spegne mai» (21, 12).

Qualsiasi altra soluzione sarebbe stata solo un innesto su un ramo morto. Invece di allontanare il «pericolo del nord», queste soluzioni l'avrebbero avvicinato sempre più.

Si scavavano la fossa con le loro stesse mani.

Sembrava che nessuno avesse coscienza delle sbaglio:
mentre si sforzavano per risolvere la crisi, affrettavano l'epilogo della disgrazia.

La visione critica della realtà segnava la responsabilità di Geremia. Bisognava fare qualche cosa.

Dio lo voleva.

Era diventata un'ossessione.


Un giorno, in cucina, vede la pentola rovesciarsi dalla parte del sud:
« Vedo una pentola che bolle;
il suo contenuto trasborda da nord a sud» (1, 13).

E il fatto comincia a parlare, a partire dal momento in cui si lega al problema che lo interessa:
«La malizia ferve a nord, e ricade su tutti gli abitanti di questo paese» (1, 15).

Così nacque la sua vocazione.

Con una coscienza chiara, si accorge che Dio lo chiama per parlare al popolo.
Si accorge che questa è la sua missione, per la quale fu destinato fin dal seno di sua madre (1, 5).

E ha paura:
«Oh, Signore, vedi, io non ho forze per portare il peso della tua parola; sono appena un ragazzo» (1, 6).
Ma la paura non ha senso, perché la forza di Dio sarà con lui:
«non aver paura davanti al popolo, perché io starò con te e ti proteggerò» (1, 8).

Diventerà «come una città fortificata, una colonna di ferro, una muraglia di bronzo» (1, 18), cioè, nessuno lo potrà vincere, perché la verità e la ragione staranno con lui.

È invincibile.

«Si proveranno a lottare contro di te, per vincerti e sgominarti, ma non ci riusciranno, perché io sto con te per liberarti» (1, 19).

Geremia partì.

Si investì della missione che si era maturata lentamente in lui, diventando convinzione personale, inalienabile e sicura, venuta da Dio, Signore del suo popolo.



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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VII (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Geremia: la fuga non è mai soluzione



3. Prassi del profeta Geremia


In mezzo all'angustia generale.
Geremia ragionava a mente fredda.

Denunciava con chiarezza la falsità della politica ufficiale, non si preoccupava delle dicerie dei profeti opportunisti (28, 117; 23,9-40), ma seguiva la sua strada, smascherando uno per uno i punti essenziali di quella falsa sicurezza, generata dalla paura del popolo e dalla presunzione dei condottieri.

Il culto:
non piace a Dio, anche se profuma di incenso comprato All’estero (6, 20); è un culto falso e disonesto (7, 2126); non offre nessuna protezione.

Il tempio:
è un inganno tragico volersi appoggiare all'esistenza del tempio.

Dio non abita più là dentro, ma è diventato straniero nella sua propria terra (14, 8), e il tempio sarà distrutto come una casa qualunque (7, 12-14).

Dio non ne vuol più sapere degli Israeliti (7,15).
La circoncisione (9,24), i sacrifici (14, 12), il digiuno (14, 12), la preghiera (11, 14), in cui riponevano la loro fiducia, non servono più a niente;
neppure i grandi uomini del passato, Mosè e Samuele, potranno far sì che Dio abbia pietà del popolo (15, 1).

La legge non li protegge più, perché hanno fatto della legge uno strumento di oppressione e di inganno (8, 8-9).

Il re, che era la pupilla degli occhi di Dio, è diventato inefficiente: «Anche se il re fosse un anello della mia mano destra, me lo strapperei, dice il Signore» (22, 24).

Non avrà discendenza (22, 30).

Conclusione logica: «Dio non abita più a Gerusalemme (8,19 )>>.

È inutile gridare: «Va tutto bene! Perché tutto va di male in peggio» (8, 11).
È inutile pensare che l'Egitto si interessi di soccorrerti (37, 7).

«Sarai ingannata dall'Egitto come lo fosti dall'Assiria.
Anche di là uscirai con la testa fra le mani» (2, 36, 37), (cioè, prigioniero).

Qualunque soluzione tu prenda, sarà solo una fuga, e la fuga non è mai soluzione! Sarebbe come invocare il pericolo, invece di allontanarlo.

Ma insomma, Geremia, tu che critichi tutto, quale soluzione suggerisci?

Non c'è soluzione!
Tutto è marcio; questa istituzione qui deve sparire:
«Sono così abituati a fare il male che non riescono più a fare il bene>~ (13, 23).

La conversione del popolo è impossibile, come è impossibile che un negro diventi bianco (13,23).
Il peccato ha pervaso ogni cosa (17,1-2).

Neppure se volessimo, potremmo cambiare stile di vita (18, 11-12).
La fedeltà è sparita in mezzo a loro (7, 27-28); perciò:
«Spezzerò questo popolo e questa città come si frantuma un vaso di argilla, che non si può più mettere insieme» (19, Il).

«Allora, dove andremo?».

«Alla peste, quelli che sono destinati a morire di peste!
Alla spada, quelli che sono destinati a morire di spada!
Alla fame, quelli che sono destinati a morire di fame!
Alla schiavitù, quelli che sono destinati alla schiavitù» (15, 2).

Resta una sola possibilità di uscire vivo dalla terribile minaccia:
consegnarsi al nemico che avanza (27, 12; 58, 17-18).

Era i1 consiglio di Geremia a chi volesse ascoltarlo.

Gli altri consigli, che spronavano alla pratica del bene e della giustizia, sembravano cadere nel vuoto.
Un uomo che parlava così era pericoloso e sovversivo.

I suoi discorsi provocavano rivolta, demoralizzavano il popolo e toglievano il coraggio ai soldati, che non avevano più animo per combattere contro Babilonia (38, 4).

Un uomo di questo tipo doveva essere eliminato (28, 4).
Sapeva solo parlare di terrore (20, lO).

Combinarono d'imprigionarlo e, in un pomeriggio relativamente çalmo, dopo un prolungato assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, Geremia fu catturato, mentre usciva dalla città (37, 1116).

«Tu stai passando dalla parte dei Caldei cioè dei Babilonesi».
«Bugiardi! lo non sto passando dalla parte dei Caldei» (37, 14).

Le sue proteste non valsero a niente.
Fu preso, malmenato, e gettato in prigione (37, 15).
Un sotterraneo, che lo soffocava e gli faceva sentire la paura della morte (37, 20).

Ma la prigione non valse a nulla.
Un uomo come Geremia è sempre scomodo, sia in carcere, sia a piede libero.

Invece di migliorare, la situazione peggiorò sempre di più, perché la prigione causò divisioni fra gli stessi capi del popolo (leggere i capp. 37, 38).

Tanto chi era a favore come chi era contro, tutti avevano paura di lui, come risultò dall'intervista segreta del re con Geremia.
Il re non voleva che si sapesse che era stato lui a chiamarlo per parlare (38, 24-26).

Geremia era un uomo per il quale «fede in Dio» non era alienazione; consisteva nel vivere bene la sua vita umana.

Scopriva gli appelli di Dio negli avvenimenti, sia nazionali che internazionali.
Lui faceva parlare i fatti, «interpretava la vita».

Visto che tutti dicevano di aver fede in Dio, Geremia esigeva l'adempimento dell'impegno e metteva in evidenza le incongruenze della fede con la vita.
Proprio per questo la sua parola feriva.

Non si voleva vedere la luce della verità, che Geremia metteva in evidenza con le parole e i gesti chiari, scultorei.
Tentarono con ogni mezzo di soffocare la sua voce.





4. Conseguenze di un impegno: sofferenza e persecuzione

A guardarla da lontano, la figura di Geremia è ammirevole.
Vista da vicino, impressiona e fa paura per la violenza del dolore e per la imperturbabile fedeltà a una missione che non aveva mai desiderato, ma che nacque e crebbe in lui come appello di Dio (cf. 20, 7-9).

Bisogna aver sofferto tanto per arrivare a dire:
«Maledetto il giorno in cui sono nato, non può essere benedetto il giorno in cui sono nato, non può essere benedetto il giorno in cui fui dato alla luce... Perché non sono morto ancora prima di nascere?

Che bellezza se il ventre di mia madre fosse stato la mia tomba!
Perché sono uscito vivo dal seno materno?» (20, 14-17).

Fu vittima di cospirazioni e attentati (15, 10).
Lottò e lavorò per 30 anni continui senza ottenere il minimo risultato (25, 3).

Il suo lamento è tragico: «Ho lasciato la famiglia, ho abbandonato l'eredità e ho consegnato alle mani dei nemici ciò che di più caro aveva il mio cuore (sua madre).
Il mio popolo mi è venuto contro come un leone che rugge nella foresta» (12, 7-8).

Restò solo col suo dolore.
Li aveva tutti contro:
il fratello e i suoi stessi familiari lo tradirono (12, 6), gli abitanti di Anatot, suoi conterranei, cercarono di ucciderlo (11, 18-21), i sacerdoti e gli altri profeti e il popolo intero si lanciarono contro di lui gridando: «a morte!» (26, 8).

Alla fine, fu gettato in un pozzo in rovina e fetido, da cui fu tolto per intercessione di alcuni amici, tra i pochi che gli restavano (38, 1-13).

E tutto ciò gli sembrò una sofferenza assurda e inutile.
Infatti, 23 anni di lavoro senza alcun risultato, farebbero perdere il coraggio a chiunque!

E, tuttavia, in mezzo a tante sofferenze, lo sosteneva una forza che nessuno avrebbe potuto vincere, e faceva di lui «una città fortificata, una colonna di ferro, un muro di bronzo» (1, 18).

Era la certezza:
«Il Signore mi accompagna, come un guerriero invincibile» (20, 11).
Per quanto dura fosse la sua sorte e per quanto tentasse di rivoltarsi contro di essa, in fondo voleva essere così e ne era contento.

Sapeva che questo era il suo cammino.
E anche se la sua missione lo faceva soffrire tanto, ricordava con gioia il momento della sua vocazione, quando dice:
«Tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre.

Mi hai vinto e hai trionfato su di me» (20, 7).
Per lasciarsi sedurre bisogna pur trovare qualcosa che piaccia davvero!

Sempre disprezzato in vita, quest'uomo, dopo la morte, diventa l'immagine del futuro Messia «Uomo dei dolori che portò su di sé le nostre colpe» (Mt. 8, 17; Is. 53, 3-4).
Succede sempre così;
chi in vita sembrava soffocare la speranza di tutti, dopo la morte diventa simbolo di speranza universale.





5. Geremia contribuì alla realizzazione del progetto di Dio

Geremia non aveva nessuno con cui sfogarsi, si sfogava con Dio.
Contribuì così ad interiorizzare la religione e ne fece la religione «del cuore» cioè, qualcosa di molto personale che entra nell'intimo dell'uomo e non si limita ad alcuni gesti esteriori.

Geremia riuscì a farlo, non solo col suo insegnamento, molto più con la sua vita.
Per riuscire nella vita, per superare e combattere le difficoltà della sua missione, dovette soffrire: vinse, perché nella sofferenza riuscì ad incarnare, nella sua vita personale, tutti i valori collettivi della fede del popolo.

La sofferenza lo portò ad interiorizzare la religione e fece crescere in lui l'uomo.

Quando pregava, ed è frequente nel suo libro, non era artificiale, ma diceva tutto quello che gli veniva dalla mente e dal cuore:
vendetta, disperazione.

Vivendo il suo dramma personale, la sua solitudine (non si sposò per essere fedele alla sua vocazione) maturò in lui l'esperienza della fede.


Riuscì ad assimilare tutti i valori del passato, personalizzandoli nella sua vita.
Sarebbe utile leggere. i passi più significativi delle così dette «Confessioni di Geremia»:, (cap. 11, 18-12,6; 15, 10-21; 17, 14-18; 18, 18-23; 20,7-18; 12, 7-13) Dalla sofferenza emerge la coscienza personale dell'uomo di fronte alla coscienza collettiva.

L'uomo si incontra con se stesso;
perché si è incontrato coll'Io assoluto di Dio.
In Geremia, la religione diventa più matura, più adulta.

Incomincia con lui il movimento di rinnovazione dei così detti «Hassidim» e dei «poveri di Jahvé», dei quali facevano parte la Madonna e Elisabetta.

Un altro punto alto, negli scritti e nella vita di Geremia è l'aspetto concreto della religione, il coraggio che aveva questo uomo di indicare gli appelli di Dio nella vita.

La religione, per lui, non era un sistema, erano uomini che camminano animati dalla fede, in direzione del futuro.

È evidente che ci vuole coraggio per indicare gli appelli di Dio, perfino negli avvenimenti internazionali;
segno della fede che Dio ha in mano il mondo e il suo destino.

Si intravede anche la convinzione che il mondo sarà quello che gli uomini lo faranno con la loro libertà:
è inutile riferirsi a Dio, come pretesto per giustificare il malessere.

Da questo aspetto concreto della sua missione, si capisce che Geremia non intendeva davvero rinchiudersi nella 'sacrestia', come oggi si finisce col fare.

Insomma, come abbiamo visto, la figura di Geremia, così discussa in vita, diventò simbolo di speranza. Quando, più tardi, Isaia descrive la figura del futuro Messia (Is. 53), ha davanti agli occhi l'immagine di Geremia.





SEGUE..


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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..




Con il presente capitolo entriamo in un settore nuovo dell'Antico Testamento.
Abbiamo già parlato, in parte, dei libri storici nei capp. 1-4, e dei libri profetici nei capp. da 5 a 7.

Vediamo, adesso, qual è il significato dei così detti libri sapienziali.

Il titolo «ansia di vivere - necessità di morire» serve solo a polarizzare la nostra riflessione intorno ad un tema che ha preoccupato gli autori dei libri sapienziali, dal principio alla fine.

Un altro tema assillante era la sofferenza e la cattiveria che esistono nel mondo.
Ne parleremo nel cap. 9, a riguardo di Giobbe.

Prima, però, di entrare nell'argomento specifico, è necessario fare alcune riflessioni sull'origine dei libri sapienziali.




1. Origine, natura e senso dei libri sapienziali

Una parte della Bibbia è dedicata ai libri così detti sapienziali.
Essi sono:
Proverbi.
Ecclesiastico.
Ecclesiaste.
Cantico dei Cantici.
Giobbe e Sapienza.


C'è chi include nella lista anche il libro dei Salmi.
Però, parleremo dei Salmi in un capitolo a parte, nel cap. X.

Grande è la differenza fra i libri storici e profetici, da un lato, e i libri sapienziali dall'altro.

I primi sono espressione di un pensiero nuovo che i capi religiosi si preoccupavano di trasmettere al popolo e di innestare nella vita, per trasformare, attraverso di essi, l'esistenza umana.

I secondi esprimono il pensiero del popolo, già in atto, che attraverso di essi diventa parola e si organizza allo scopo di migliorare la vita.

Sono due differenti modi di pensare:
uno che ragiona dal di fuori verso il dentro, dall'alto in basso;
l'altro che ragiona dal di dentro verso il fuori, dal basso in alto.

Queste due maniere di pensare esistono anche oggi.


Ai libri profetici corrisponde la dottrina della Chiesa, esposta e formulata nei catechismi e nei documenti conciliari e pontifici;
quella che ci hanno insegnato e che ci serve per orientarci nella vita.

Ai libri sapienziali corrisponde la ricerca dell'uomo di oggi che, partendo dai dati concreti della vita, vuol trovare un cammino per migliorare la sua esistenza:
antropologia, psicologia, sociologia, economia, filosofia, medicina ecc. o, in parole povere, la sapienza popolare e l'esperienza della vita.

Fino ad oggi, i libri sapienziali sono quelli che più piacciono al popolo e i meno studiati dal clero.

Forse un incosciente preconcetto di classe ha portato il clero, di cui fanno parte gli esegeti e i teologi, a preferire i libri storici e profetici (quasi tutti scritti dai colleghi della stessa casta privilegiata) ai libri sapienziali, nati dalla bocca del popolo.

E non è possibile farlo senza nuocere alla rivelazione divina, che si esprime anche nel pensiero del popolo e nelle sentenze dei libri sapienziali.

Oggi, però, si nota un ritardo nello studio dei libri della sapienza.

La Sapienza non dà la priorità ad una virtù intellettuale, ad una conoscenza, ma alla capacità di orientarsi bene nella vita e di agire con buon senso.

Sarebbe quello che oggi si chiama «filosofia della vita».

Si tratta di una certa maniera di affrontare la vita, comune a quei popoli, che, per se stessa, ha poco a che vedere con la religione, così come, al tempo d'oggi, le radici del pensiero dell'antropologo o dell'economista poco hanno a che vedere con le loro convinzioni religiose.

Non per il fatto di essere protestante o cattolico, il ragioniere sarà più bravo nella contabilità, o il contadino saprà meglio coltivare i campi.

La convinzione religiosa non ha nessuna influenza sulle radici del pensiero di questa gente.
Però, può influire sul ‘come' mettere un sostegno alla pianta, perché cresca dritta.

In questo senso anche la fede influisce, sia sul nostro mondo che sul mondo della Bibbia.
Si spiega così la direzione nuova che la Sapienza prese nella Bibbia, e la differente applicazione che un capitalista o un comunista fanno dei risultati della scienza.

In questo caso il popolo della Bibbia è uguale agli altri popoli e riflette sulla vita con gli stessi loro criteri.

Arriva perfino a prendere in prestito alcuni passi dalla Sapienza dell'Egitto (Prov. 22, 17-23, 11).

Anche al giorno d'oggi:
la sociologia in Brasile (esempio) soffre molto l'influenza dei sociologhi dell'America del Nord.

All'origine della Sapienza troviamo il popolo che riflette sulla vita e cerca una risposta alla domanda:
come vivere?
Come fare per riuscire bene nella vita?
Come comportarsi?

Sono domande che rivelano la preoccupazione di chi cerca il segreto per orientarsi concretamente nella vita, per non essere vinto dalla vita.

La ricerca della Sapienza è la ricerca dei valori e delle leggi che regolano la vita umana;
ci si propone di scoprire questi valori e queste leggi per integrarli nella vita e così progredire e stare meglio.

La ricerca incomincia umilmente, insieme al popolo semplice, attraverso i Proverbi, che anche oggi si leggono sui camion che corrono per le nostre strade.

Diventa complicata e scientifica, tanto nei libri di Giobbe e della Sapienza come nei progetti e nelle conclusioni complesse della scienza moderna.

La più importante conclusione della Sapienza è quella di affrontare i mali della vita, di formare la nuova generazione che cresce, contribuendo così al governo della vita.

La Sapienza si caratterizza per il metodo induttivo.
Accetta solo quelle soluzioni la cui efficacia è stata verificata nella pratica della vita.

Un esempio tipico lo troviamo nel libro dell'Ecclesiastico, che ci dà un vero ritratto di come procede il sapiente nelle sue ricerche.

L'ambiente da cui trae origine la Sapienza è quello dell'educazione familiare:
i genitori cercano con ogni mezzo che i figli aprano gli occhi sulla realtà e vedano con oggettività le cose della vita.

È tutto un capitale di esperienza accumulato attraverso il susseguirsi delle generazioni, trasmesso di padre in figlio, con un metodo pedagogico molto interessante.

Sapiente, anticamente, era colui che sapeva formulare meglio una determinata esperienza di vita, compendiandola in un proverbio incisivo.
Sorsero così i proverbi o detti popolari, simili a pezzi di vita, che esprimono i valori scoperti dal popolo.


Ecco alcuni esempi, scritti nella Bibbia:

«L'animo allegro fa buon sangue e lo spirito triste secca le ossa» (Prov. 17, 22)

«Chi risponde prima di avere ascoltato si mostra sciocco e degno di biasimo» (Prov. 18, 13)

«Il povero supplicando parlerà . e il ricco risponderà arrogantemente» (Prov. 18, 23)

«Le ricchezze attirano amici in abbondanza e dal povero, anche gli amici che aveva, si scostano» (Prov. 19, 4)

«Tutti i giorni del povero sono brutti, però, un animo tranquillo è come un banchetto perpetuo» (Prov. 15, 15)

«Anche lo stolto, se tacerà, sarà creduto saggio e intelligente se chiuderà le labbra» (Prov. 17, 28)

«Il pigro tuffa le mani nel piatto e neppure per portarsele alla bocca le tira fuori»(Prov. 19, 24)

«Un monile d'oro al naso di un porco è la bellezza di una donna sciocca» (Prov. 11, 22)

Ed altri ancora.

Il proverbio esprime un'esperienza elementare di vita, tramandata sotto forma di mashal (cioè di paragone).

Esprimono tutti buon senso e scaturiscono là dove pulsa il cuore della vita, nell'ambiente familiare, nell'educazione dei figli, nel circolo degli amici.

Sono familiari e servono come indicazioni lungo il cammino dei figli, non già come ricette pronte e come precetti tassativi, ma in quanto mettono in evidenza i valori.

Si preoccupano delle cose della vita, del comportamento e del rapporto con gli altri, insomma degli interessi immediati.

La Sapienza popolare, qualunque ne sia la fonte, è caratterizzata da poca speculazione filosofica ma da molta profondità.

Ecco, per esempio, alcuni argomenti trovati nel libro dell'Ecclesiastico, a rispetto dei quali l'esperienza ci è tramandata sotto forma di proverbio:
pazienza,
elemosina,
falsa sicurezza,
lingua e suo controllo,
amicizia,
lutto,
libertà,
relazioni sociali,
rispetto della donna,
timore di Dio,
galateo a tavola,
saper dubitare,
prudenza con i potenti,
uso delle ricchezze,
vino e donne,
lussuria e adulterio,
malizia della donna,
dovere del segreto tra amici,
prestiti,
educazione dei figli ecc.






2. Istituzionalizzazione della Sapienza e formazione dei libri sapienziali


A poco a poco, però, la Sapienza che era stata accumulata dilaga e penetra in tutti i settori della vita umana.

Esce dallo stretto ambito della famiglia, diventa oggetto di ricerca, perde un po' di spontaneità e di familiarità e diventa una istituzione, al fianco delle istituzioni del sacerdozio e del profetismo, in vista dell'organizzazione della società.

Nella mano del re, l'istituzione della Sapienza diventa ora uno strumento di governo e comincia ad essere associata alla figura del re Salomone, il sapiente per antonomasia (cf. I Re 4, 27-54).

Come prima la Sapienza contribuiva ad organizzare e dirigere la vita personale e familiare, adesso contribuisce all'organizzazione e al governo del popolo.

Così trasformata, uscita dall'ambiente familiare e entrata nell'ambiente ufficiale del governo, la Sapienza comincia ad essere oggetto di approfondimento e di studio.

Al posto dei proverbi brevi e popolari, sorgono trattati e studi profondi sullo stesso argomento.
L'aspetto concreto cede il posto alle ricerche e si incomincia a investigare intorno alla filosofia e alla concezione della vita, che si nascondevano dietro il movimento della Sapienza.

Come al giorno d'oggi:
da secoli gli uomini esercitano la politica:
solo oggi, però, si comincia a studiare la politica in sé e per sé e cominciano a sorgere scuole di scienze politiche.

La pratica della Sapienza subì, dunque, una evoluzione, come si può constatare nei vari libri sapienziali contenuti nella Bibbia, che registrano le epoche e i diversi aspetti di questa evoluzione.

Proverbi.
Questo libretto contiene un complesso di proverbi antichi e molto popolari.
Gli autori compilarono una specie di prefazione che va dal cap. I al cap. IX, in cui spiegano che cos'è la sapienza e quale ne sia l'origine.
I primi nove capp. sono molto posteriori e, perciò stesso, molto più teorici e molto più profondi che il resto del libro (derivato da incontri familiari, cioè da genitori preoccupati per l'educazione dei figli e per i problemi della vita).

Cantico dei cantici.
A quanto sembra, si tratta qui di una compilazione di canti popolari che parlano di amore.
Un saggio pensò che questi canti potevano molto bene essere espressione concreta dell'amore di Dio verso gli uomini e dell'amore degli uomini verso Dio.
Mise insieme 12 di questi canti popolari e compose il libro che adesso si trova nella Bibbia e che fu sempre uno dei più commentati.

Ecclesiastico.
Rappresenta la pratica della Sapienza, nel momento in cui uscì fuori dall'ambiente familiare. Contiene tanti piccoli trattati sui più svariati argomenti.
Si nota una sistematizzazione dei proverbi, in diverse categorie.
Ma, con questo libro, non si arriva ancora alla riflessione filosofica sull'origine della sapienza.
La concretezza predomina in tutti i settori.

Ecclesiaste.
Fu scritto da uno dei saggi ufficiali del governo, che esprime così la sua profonda frustrazione di fronte ai differenti atteggiamenti degli uomini nella vita.
Nessuno lo soddisfa.
Li esamina, uno per uno, e arriva alla conclusione che tutto è assurdo. Introduce qua e là proverbi sull'intervento di Dio nella vita degli uomini, per dire che non avevano perso del tutto la fede nella vita e nell'autore della vita: Dio.

Giobbe.
È la più alta espressione letteraria della Sapienza e tratta di argomento che sempre ha preoccupato, più di ogni altro, i sapienti:
il problema della sofferenza del giusto.
Sembra un copione di teatro.
Non ha più nulla dell'antico proverbio, ma è quasi la forma classica del dramma.
Rappresenta l'esperienza viva di un uomo che soffre.

Sapienza.
È l'ultimo dei libri sapienziali, scritto verso il 60 a.c.
È il più profondo trattato sull'origine della Sapienza che viene da Dio. Risente molto l'influenza della filosofia greca, almeno nel modo di esprimersi.
È stato scritto in Egitto.





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Sapienza:

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Necessità di morire..




3. Messaggio dei libri sapienziali

A chi legge i libri della sapienza, soprattutto quelli che contengono materiale più antico (Proverbi ed Ecclesiastico) viene spontaneo un'osservazione:
parlano poco di Dio e quasi soltanto parlano della vita.

E ancora:
la maggior parte di quello che vi è scritto poteva molto bene essere scoperto da chiunque si fosse messo a pensare un po' sulla vita.

Sembra proprio che non dicano niente di straordinario.
Trattano solo delle cose comuni e della vita quotidiana.

Perché si trovano nella Bibbia?
Perché Dio si dette pena di ispirare tali cose?

Nei libri sapienziali dell'Egitto e della Babilonia si leggono molte cose del genere, spesso anche più belle di quelle raccontate nella Bibbia.

Che senso ha tutto questo?

Il clima sapienziale determinava la mentalità e il modo di pensare del popolo, come ogni giorno accade alla mentalità scientifica.

Proprio in questa terra lavorata dalla sapienza, fu piantato il seme della Parola di Dio e germogliò l'albero della Rivelazione.

Passò molto tempo prima che i sapienti si accorgessero del valore della rivelazione, rispetto alla stessa sapienza.
E non per questo cessarono di essere uomini di fede.

Ma la fede non influiva affatto sulle fonti e sugli schemi della ricerca che la sapienza faceva circa il senso della vita.

Oggi un antropologo può essere un uomo di molta fede, ma la sua convinzione religiosa non influisce affatto sui principi della sua scienza.

A poco a poco però, a misura che la Sapienza prendeva coscienza dei limiti delle soluzioni da lei proposte ai problemi umani, si apriva sempre più alla Parola della Rivelazione, trasmessa dai profeti e dai sacerdoti e contenuta nei libri profetici e storici.

I sapienti incominciavano, così, ad accorgersi del valore della Rivelazione per la loro ricerca sulla vita e cominciavano a prendere la Parola di Dio come fattore e strumento per la scoperta della Sapienza.

Senza sacrificare i suoi principi logici, la Sapienza recepì una influenza molto profonda per opera dei profeti e dei sacerdoti che la aiutò ad orientare la riflessione sulla sua origine e sulla direzione da prendere.

Arrivò a scoprire in Dio l'origine e il fine ultimo di tutta la sapienza che governa la vita umana.

Non si trattava di un Dio qualunque, ma del Dio di Abramo, del Dio dei suoi padri che fin dall'inizio, aveva orientato la storia del popolo.

Lo stesso Dio che stava alla origine delle leggi e dei valori che regolano la vita.
Allora, tutto diventò trasparente.

La legge si identificava con la Sapienza.
Lo dice il salmo 118.
Il campo delle ricerche si allarga.

Non solo la vita presente, con i suoi problemi, merita di essere analizzata, ma anche la storia del passato, dove questo Dio ha lasciato le impronte della sua Sapienza.

Nei libri dell'Ecclesiastico (cap. 44-50) e della Sapienza (cap. 10-19) affiorano considerazioni sulla storia.

La storia, vista non già con gli occhi del profeta e del sacerdote, ma con gli occhi propri del popolo, che sono gli occhi segnati dalla mentalità della Sapienza.

Giovanni ne fa la sintesi nel prologo del suo Vangelo, dove dimostra che la Parola creatrice, all'origine della vita, è la stessa parola salvatrice, che guida la storia.
Tutte due hanno la stessa radice in Dio e trovano la loro espressione concreta in Gesù Cristo «parola incarnata» (Gv. 1, 1-14).

La scoperta di Dio origine e fine della Sapienza, illuminò di luce nuova gli antichi proverbi.
Ci appaiono come il primo gradino umile e semplice della lunga scala che dalla vita sale fino a Dio.

Perciò i libri sapienziali, contenuti nella Bibbia, testimoniano una visione ottimistica della vita:
per chi ha occhi per vedere, la vita e tutta la realtà possono diventare specchio di Dio.

Questi libri sono la testimonianza eterna che il luogo di incontro dell'uomo con Dio è nella vita, nel povero quotidiano, nelle cose che scaturiscono dalla più profonda esperienza umana.

Rivelano che il più grande valore di ogni uomo è possedere la vita che vive.

Sono un invito a non cercare Dio fuori della vita:
né nella candela,
né nella promessa,
né nel pellegrinaggio,
né nel rito o nella cerimonia,
ma anzitutto nella vita.

A partire dalla vita vissuta così, il rito, la cerimonia, la promessa e il pellegrinaggio possono acquistare un senso reale.
Sono sempre un appello a non lasciarsi mai vincere dalle contraddizioni della vita;
sono gli incroci lungo il cammino, che può portare fino a Dio.

Il senso è sempre lo stesso:
quel popolo crebbe, riflettendo sul significato della vita, e ne scoprì valori e non valori.

Li sintetizzò in proverbi e li comunicò agli altri, i quali, a loro volta, approfondirono le origini di questa esperienza e così, poco a poco, arrivarono fino a Dio, autore di tutto quello 'che avevano e che vivevano.

Per questo i libri posteriori sono più profondi e parlano di Dio più dei primi.
In tutti, però, si sente la stessa aderenza costante alla vita.

Come i libri storici e profetici registrano la marcia verso Dio, attraverso la storia, così i libri sapienziali registrano la marcia verso Dio, attraverso un progressivo approfondimento della vita.

Un cammino non si fa senza l'altro, si completano a vicenda.

Insomma, benché la sapienza degli Ebrei fosse sotto molti aspetti uguale a quella degli altri popoli, nella misura in cui cresceva la riflessione sulle loro origini, sorgevano le distanze.

La Parola, venuta dal di fuori, orientava la ricerca della Parola, nata dal di dentro.
Si spiega così l'originalità della Sapienza di questo popolo.
Non degenerò nel fatalismo e nel dualismo caratteristico dei sapienti degli altri popoli.

In breve, possiamo dire così:
nei libri della Sapienza parla la voce del popolo.
Il popolo che riflette sulla sua esperienza di vita.
Il popolo esprime il suo gusto di sapere e di vivere e rifiuta di essere sconfitto dalla vita.
Il popolo rivela tutta la sua smisurata ricchezza, la sua ricerca di Dio, il suo incontro con la verità.

Nel cammino della Sapienza, la Rivelazione divina non si realizza, per' così dire, dall'alto in basso, ma dal basso in alto.

Partendo dalle radici della vita, gli uomini sono risaliti, hanno scoperto il loro creatore e lo hanno adorato.

Lo stesso cammino potrebbe essere ripetuto, oggi, perché già una volta ha avuto successo far pensare il popolo, farlo riflettere, farlo parlare e dire quello che sente;

far partecipare il popolo in modo che trovi il suo cammino verso la Verità, verso Dio;
non imporre, ma orientare e «educare», lasciandolo scoprire da sé, la sua ricchezza, e la sua esperienza di vita.

Mettere il motore in moto e non trascinarlo a rimorchio, come si fa con chi non ha arbitrio né opinione propria.
Ricordare sempre che la sintesi finale nella storia della salvezza, contenuta nei libri dell'Ecclesiastico e in quello della Sapienza, fu fatta non con i criteri del clero, ma della Sapienza, cioè del popolo.

Con questa visione della storia della salvezza fu varcata la soglia del Nuovo Testamento.

Oggi diremmo:
fondere la verità rivelata con le categorie usate dal popolo e con le quali il popolo orienta e governa la sua vita, e non con le categorie del clero.
Sarebbe questa la più alta funzione del clero in mezzo al popolo.





4. Ansia di vivere - necessità di morire

Da quanto abbiamo potuto verificare fin qui, la caratteristica degli autori dei libri della Sapienza è data dalla loro riflessione sulla vita.

L'accento cade sul buon senso e sul realismo.
Per cui si capisce bene come il problema della morte (che mette fine alla vita) e della sofferenza (che rende difficile la vita) occupassero gran parte della riflessione dei sapienti.

Affrontano la morte con una mentalità realista.

Da principio l'ideale di vita era:
vivere tanti anni, avere tanti figli, vedere i nipoti.
La morte tranquilla del vecchio realizzato era il coronamento della esistenza.

Non c'era nessun altro problema.
La morte era accettata tranquillamente, come un dato che faceva parte della vita.
Diveniva interrogativo angoscioso quando appariva prematura e violenta, e stroncava la vita e lasciava incompiuta l'esistenza.
Questo accadeva spesso.

I Caino uccidevano gli Abele.
Perché?

Nel capitolo sul Paradiso terrestre abbiamo visto come l'autore, che faceva parte dei circoli dei sapienti, risolse il problema:
la morte violenta è entrata nel mondo, l'uomo uccide il fratello perché, prima di farlo, si era già separato da Dio.

Ma poco a poco, il problema riguarda la morte in se stessa, la morte che esige una spiegazione.
Perché l'uomo deve morire se in lui arde la volontà indomita di vivere e di vivere sempre?

Il motivo di questa nuova problematica deriva dal fatto che, coscientizzato dalla lunga e secolare riflessione sulla vita, ìl sapiente comincia ad assumere un atteggiamento critico di fronte alla realtà, e non è più disposto ad accettare le cose con la facilità di prima.

Inoltre, la riflessione sulla realtà della vita ha dimostrato che neppure una morte tranquilla, dopo una vita lunga e felice, può essere considerata naturale e non è la suprema realizzazione dell'uomo.

Il libro dell'Ecclesiaste} soprattutto, dette un passo enorme nella storia di questa riflessione.

Davanti allo spettacolo del presente, l'autore finì col non credere più a tutto ciò che si diceva nel passato (più o meno come oggi).
Niente più valeva la pena.
Tutto era «vanità», e vanità della vanità «cioè, in termini popolari la vita è una grande sciocchezza che non vale la pena di essere vissuta» ( Eccle. 1, 2).

Per lui la vita era un tormento, proprio a causa della morte.
A che serve lavorare tanto e ammazzarsi di stanchezza, se poi un giorno si deve morire e lasciare agli altri quello che avevi messo insieme; senza sapere che cosa faranno di quello che tu hai conquistato con tanta fatica? (Eccle. 2, 18-19).

«È uscito nudo dal ventre di sua madre, nudo, come è venuto, uscirà pure da questa vita e non porterà con sé nessuna ricompensa del suo lavoro» (Eccle. 5, 14).

Tutte le possibili soluzioni date al problema della vita vengono sottoposte ad una critica serrata.

In questo modo niente vale la pena, e, dopo la morte, non t'importa più di niente, «perché il destino degli uomini è come quello degli animali; li aspetta uno stesso fine.

La morte di uno è la morte dell'altro.
Tutti e due ricevettero lo stesso soffio di vita e il vantaggio dell'uomo sull'animale è nullo, perché tutto è vanità (sciocchezza).

Tutti camminano verso uno stesso destino; tutti escono dalla polvere e ritornano alla polvere.

Chi sa dire se il soffio della vita degli uomini sale verso l'alto e il soffio della vita dei bruti scende verso la terra? (Eccle.3, 19,21).

Nessuno sa quello che succederà dopo la vita, al momento della morte.
Con questa riflessione l'autore del libro Ecclesiaste si risvegliò all'ipotesi di un futuro dopo la morte.

Oh se esistesse davvero! Ma con la sua scettica ironia egli stesso uccise, subito dopo, la speranza di incontrare qualche cosa nell'Aldilà.
L'ansia di vivere è messa a faccia a faccia con la barriera di una vita senza senso e di una morte che le ruba ogni speranza.

A questo punto la Sapienza scopre i suoi limiti, sbarra in un problema senza soluzione.
Guidata solo dai risultati delle sue conclusioni empiriche, arriva necessariamente alla costatazione dell'assurdo.

Ma la disperazione dell'assurdo, provocata dall'Ecclesiaste, svegliò nell'uomo il bisogno di sapere di più sulla morte e sulla vita.

L'Ecclesiaste ha creato problemi, là dove, prima di lui, nessuno li incontrava (più o meno come i nostri contadini del Sud e delle isole; una volta coscientizzati sui problemi della loro vita, incominciano a vedere la realtà della loro situazione con altri occhi, e non l'accettano più come prima).





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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (terza parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..





5. La fede in Dio squarcia il velo che nasconde il futur
o

La coscienza critica della realtà cresce e il problema diventa sempre più grave:
qual è il futuro che ci aspetta?
La morte o la vita?

Le promesse del passato, dirette ad Abramo, si concretizzavano in proposte di felicità terrena:
popolo, terra, benedizione (Gen. 12, 1-3).

Dio lo aveva promesso e nessuno dubitava della sua fedeltà nel compiere le promesse.

Ma la realtà era proprio l'opposto;
invece di raggiungere il futuro promesso da Dio, i giusti soffrivano sempre più l'oppressione (Eccle. 4, 1-2), mentre quelli che non si curavano di Dio se la passavano bene (Eccle. 8, 10).

La situazione concreta di ogni giorno sembrava negare la giustizia di Dio e contraddire la sua fedeltà.

L'Ecclesiaste aveva dunque ragione.
Perché allora continuare a credere in questo Dio?

Il conflitto fra fede e realtà, che ne derivava, li minacciava di disperazione totale.

Metteva in dubbio la vita, la morte, Dio, e ogni altra cosa.

Il problema si presentava in questi termini:
il bene presente non totalizza né colma il desiderio di vita e di felicità suscitato dalla promessa.

Invece di vita e di felicità, la promessa aveva portato la frustrazione e la delusione.

L'espressione della crisi è vivamente descritta nel libro dell'Ecclesiastico.

Ma la situazione di conflitto tra fede e realtà, espressa e accresciuta dalle riflessioni dell'Ecclesiaste) sboccò in una nuova conquista.

La crisi fu causa del loro bene, perché li spinse a cercare nuove soluzioni.

La nostalgia di Dio e la fede nella sua fedeltà e giustizia furono più forti dell'apparente contraddizione della realtà.

Se Dio ha promesso, deve pure esistere un mezzo per vedere la promessa realizzata.

Se la vita presente nega la promessa, a causa delle contraddizioni e della morte, Dio deve pure essere più forte della morte, deve pure avere una potenza tale da conservare la vita degli uomini anche dentro la morte.

L'audacia della fede portò a spezzare la barriera della morte che stava soffocando la speranza.

A causa della loro fede nel Dio forte e fedele, riuscirono a rompere il circolo chiuso delle riflessioni e si aprirono alla realtà più vasta di una vita con Dio, per sempre, garantita dalla potenza e dalla fedeltà di Dio.

Nasce la fede nella resurrezione dei morti e nella vita con Dio dopo la morte.

Non fu un decreto a rivelare questa verità, ma la dolorosa riflessione dell'uomo, dal tempo di Abramo fino agli ultimi secoli prima di Gesù Cristo.

Le prime timide espressioni di speranza in una vita senza fine appaiono nei Salmi lO, 7; 16, 15; 22, 6; 26, 4.

Soprattutto il Salmo72 offre una formulazione più nitida di quello che cominciava a delinearsi nella mente dei sapienti:
veramente in mezzo alla mia amara rivolta, io mi comportavo come un animale, senza la coscienza di stare vicino a Te:
la tua mano mi difende, la tua provvidenza mi guida, e mi introduce nella felicità.

Perché, di fatto, che cosa può bastarmi sia in cielo come in terra, se io sto lontano da te, Signore?
Possono assalire il mio corpo e spezzarmi il cuore.

Ben altro è il fondamento della mia vita!
Il futuro che mi aspetta è Dio eterno.

Lontano da te non mi riesce vivere.
L'infedeltà verso di te è l'inizio della morte.
La felicità s'incontra camminando verso il Signore.

La certezza della mia vita è Dio per sempre» (Sal. 72, 21-28).

La fede infonde il coraggio di affrontare la realtà presente, e la pretesa sembra a prima vista assurda, ma alla fine, s'illumina:
è giusto sperare, perché Dio risuscita l'uomo.

L'espressione chiara di questa verità la incontriamo nel libro della Sapienza (capp. 1-5), là dove parla del destino degli uomini:
Le anime dei giusti (che sono morti) stanno nelle mani di Dio e nessun tormento le raggiungerà.

Sembra che siano morti agli occhi degli insensati; il loro passaggio è giudicato una disgrazia e la loro morte una distruzione, ma essi stanno veramente nella pace... Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé (Sap. 3, 1-3.5).
Si tratta di una importantissima conquista, lungo la strada della vita.


Più tardi nel Nuovo Testamento, Cristo verrà a completare ciò che i sapienti avevano insegnato della vita dopo la morte, sulla vita che non muore, ma vince con la forza della fede e con la speranza.

A causa della fede, la vita che non muore e che vince la morte è già una realtà.

Il futuro è già in atto, già si trasforma, fa risorgere il mondo e l'umanità dai disastri del male e della morte.

Credere nella vita che non muore è credere alla possibilità di rinnovamento del mondo:
da vecchio diventerà nuovo.




6. Considerazioni finali

Da tutto quanto abbiamo detto, traspare un'esperienza umana molto profonda e molto nostra.
Nessuno riesce a vivere solo.

Ogni uomo ha bisogno di far dipendere il suo Io da qualcuno che lo sostiene e che gli dà coscienza del suo valore e gli fa sentire la soddisfazione di fare qualcosa di utile.

Le sue forze ne sono motivate.

Molti fanno dipendere il loro lo dalla forza dell'amicizia che «e-duca» e dalla forza dell'amore umano.
Ma, pensandoci bene, ogni uomo sa che un giorno l'altro uomo morirà.

Se cade il sostegno, cade pure chi a lui si appoggiava.
L'amicizia e l'amore umano non sono così forti da poter vincere la morte.

Chi prende coscienza dei suoi limiti cerca di far dipendere il suo lo da qualcosa che oltrepassi la morte e lo faccia 'sopravvivere:

1/ dal lavoro e dal contributo al bene comune, perché il suo contributo continua ad esistere ed anche dopo la morte può essere una maniera di sopravvivere, ma l'Io sparisce nella collettività del gruppo e non esiste più.
Così pensavano anticamente i vecchi egizi ani e fu proprio la forza della speranza in una sopravvivenza nell'opera realizzata in vita che li portò a costruire le piramidi, ancora oggi in piedi.
Senza dubbio è un modo di sopravvivere.

2/ Dalla razionalità, che fa della vita un assurdo e chiede all'uomo di accettarla così; sarebbe davvero uomo colui che riuscisse a conformarsi all'assurdo della vita, accettando di vivere per poi sparire, tranquillamente nell'ora della morte.

3/ Dai figli, che continuano la vita e prolungano il nome del padre;
è un'occasione di sopravvivenza, in cui però l'Io sparisce.
La conquista della vita attraverso la procreazione è arrivata a degenerare nel culto della fertilità, praticato dai popoli della Palestina nei tempi antichi.


Tutte queste forme di sostenere l'Io e dargli continuità, perché la vita abbia un senso, con l'andare del tempo non soddisfano più, perché l'Io, la persona che interroga e vuol vivere, sparisce.

Nella Bibbia, questo circolo chiuso, dentro il quale l'uomo non trova via d'uscita per sopravvivere, si spezza.

Una Voce gratuita raggiunge l'uomo, voce che viene da una sfera di vita che non è più soggetta alla morte.
Una voce di amore, che stabilisce un dialogo.

La voce di Dio, che chiama ciascuno per nome, sveglia l'uomo e gli fa intuire una forza che lo fa vivere e che è capace di restituirgli la viti nell'ora della morte.

È la forza dell'amore e dell'amicizia, che chiama l'altro per nome e lo valorizza; questa forza sarà sempre vitale, perché l'amore, intuito e vissuto, è un amore eterno.

L'uomo si e messo a parlare con Dio e Dio ha svegliato in lui la volontà di vivere, e adesso che è aperto e mosso dall'amore di Dio, vuole andare oltre la morte e vivere sempre.

Desiderio giusto e normale, confermato più tardi dalla risurrezione di Cristo.

Solo questa amicizia e questo amore sono capaci di dare valore di eternità ad ogni amore e ad ogni amicizia umana.

Niente si perde.
Tutto diventa espressione della fede e della speranza, che fanno vivere per sempre.




SEGUE..



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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. IX (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]



un prologo al libro di Giobbe:
il dramma di tutti noi



Sta per cominciare il dramma.
Nel teatro si fa silenzio.
Il telone però non si apre.
Esce fuori un presentatore e, a tela chiusa, legge il prologo.
Presenta all'uditorio, nel nostro caso al lettore, il problema che sarà svolto e approfondito nel dramma imminente, il problema concreto della vita di un uomo e del suo destino.







1. Che dice il prologo


Il presentatore esordisce raccontando una storia:
«C'era una volta, nella lontana regione di Uz, un uomo chiamato Giobbe, integro, onesto, che temeva Iddio e fuggiva il male» (Giob. 1, 1).

Era un uomo pio, ricco, celebre, stimato da tutti, felice (Giob.
1, 2-5).

Il prologo continua e gli spettatori si sentono trasportati dietro le quinte del destino degli uomini, là dove si decide il perché delle cose che succedono nella vita e che ci sono sconosciute, perché superano le possibilità della nostra indagine.

Immagina una riunione nell'alto dei cieli.

Racconta che Dio convocò la corte celeste per discutere e decidere il destino degli uomini.
Satana era uno dei membri della riunione (Giob. 1, 6).

La parte di Satana, in questo caso, sarebbe quella dell' «avvocato del diavolo» nel processo dell'umanità, o meglio del Pubblico Ministero, che accusa gli uomini davanti a Dio.

Quando Satana prese la parola, Dio aveva richiamato la sua attenzione sulla vita esemplare di Giobbe:
«integro, onesto, che temeva Iddio e fuggiva il male» (Giob. 1, 7-8).

Ma Satana non ci aveva creduto.
Contestava.
Diceva che tutto ciò dipendeva solo dal fatto che Giobbe viveva nel benessere ed era ricco:

«Giobbe teme Dio perché non gli costa niente.
Non hai tu forse difeso come con una muraglia la sua casa, la sua persona e tutti i suoi beni?
Hai sempre benedetto ogni sua opera» (Giob. 1, 9-10).

La tanto decantata pietà di Giobbe era solo una facciata apparente.
«Stendi la tua mano e prova a levargli tutto quello che possiede.
Vedrai che ti getterà in faccia insulti e maledizioni» (Giob. 1, 11).

Dio accettò la sfida:
«sta bene; ti do potere su tutto quello che possiede» (Giob. 1, 12).

Col permesso di Dio Satana mise alla prova la rettitudine e l'onestà di Giobbe.
Poteva fare tutto quello che voleva, purché non toccasse la persona di lui.

Fu così che, d'improvviso, senza sapere perché, Giobbe vide cadere sopra i suoi beni una catena di disastri.

Finì col perdere tutto, da un'ora all'altra.
Dal disastro si salvarono solo Giobbe e sua moglie.
Anche i figli morirono tutti, in una tempesta (Giob. 1, 13-19).

Era troppo! Disperato, Giobbe si strappa di dosso i vestiti e grida «nudo sono uscito dal ventre di mia madre; nudo tornerò alla terra!» (Giob. 1, 21).

Ma, nonostante tutto, Giobbe non si ribellò, «né bestemmiò il nome di Dio» (Giob. 1, 22).

Al contrario, la sua reazione fu questa:
«il Signore mi ha dato, il Signore mi ha tolto.
Benedetto il nome del Signore» (Giob. 1,21).

Perciò, nella riunione seguente, Dio mostrò a Satana che si era sbagliato a rispetto di Giobbe (Giob. 2, 1-3).
Non era solo apparenza.
Era proprio virtù.

Ma Satana non si dette per vinto:
«pelle per pelle! L'uomo è capace di dare tutti 1 suoi beni, pur di salvare la sua vita.

Stendi la tua mano e tocca le sue ossa e la sua carne; giuro che ti rinnegherà sul viso» (Giob. 2, 4-5).

Dio gli dette il permesso: «sta bene. Te lo consegno».

Gli chiese solo di non ucciderlo.

Per il resto, poteva fare di lui quello che voleva.
Satana mise in opera il suo piano.

D'improvviso, senza sapere perché, Giobbe diventò lebbroso, orribile (Giob. 2, 7).
Con un coccio si grattava le ferite.
Andò a stare su un letamaio (Giob. 1, 8).

Sua moglie non volle più aver niente a che fare con lui, non sopportava neppure l'alito fetido di Giobbe nel suo letto. (Giob. 19, 17).

Arrivò a istigarlo a maledire Iddio.

«Perché restare fedele a un Dio che non ti protegge e ti castiga così?
E tu ancora persisti nella tua onestà?
Scemo! Manda una maledizione a Dio, e falla finita con la vita!» (Giob. 2, 9).

Giobbe le rispose:
«scema sei tu, che parli così! Se abbiamo accettato da Dio la felicità, come non accetteremo da lui anche l'infelicità?» (Giob. 2, 10).

E Giobbe, nonostante tutta la sofferenza, non si ribellò contro Dio (Giob. 2, 10).

E il peggio era che non sapeva il perché di tanta sofferenza.

Non aveva partecipato alle riunioni, in cui si decise del destino degli uomini, anzi, non sapeva neppure che si facessero.
Esperimentava solo, nella sua carne, l'effetto doloroso delle decisioni prese.

Secondo la mentalità del popolo di quel tempo, un dolore e una sofferenza tanto grandi potevano solo spiegarsi così:
castigo di Dio.

Giobbe doveva essere un grande peccatore.

Tre amici di Giobbe vennero a sapere delle disgrazie che lo avevano colpito e si mossero da lontano per partecipare al suo dolore, per portargli un po' di conforto e manifestargli simpatia e solidarietà. (Giob. 2, 11).

Ma Giobbe era così sfigurato, che quasi non lo riconobbero (Giob. 2, 12). Furono schiacciati dalla pena.

Si sedettero presso di lui, piansero, e non furono capaci di dire una parola. Un silenzio di «sette giorni e sette notti, tanto era grande il dolore da cui lo vedevano oppresso» (Giob. 2, 13).

La sofferenza del giusto chi la può spiegare?
La sofferenza del giusto!
È questo il problema che sarà discusso nel dramma.

Il prologo ha presentato un caso ben concreto, uno tra mille, simili a questo.
Ha compiuto la sua missione, e si ritira.
L'attesa è generale.





2. Tema del dramma:
la sofferenza del giusto, chi la può spiegare?



Il silenzio di 7 giorni e di 7 notti arriva fino al pubblico, che sta nel teatro, fino al lettore.
La tela, che è rimasta chiusa fino a questo momento, si apre lentamente.

Sulla scena, Giobbe sopra un letamaio.
Vicino a lui, i tre amici.

Nessuno dei 4 parla... Il silenzio del dolore si prolunga, invade i secoli, invade il mondo e arriva fino a noi, oggi, che leggiamo il libro di Giobbe.

Questo silenzio esprime la nostra incapacità a spiegare la sofferenza; avvolge tutti, e tutti ci unisce in uno stesso tentativo di ricerca:

Giobbe, i tre amici, il pubblico della sala, il lettore, noi, oggi, qui, tutti gli uomini. Nessuno parla...

D'improvviso, un urlo squarcia il silenzio.
Un lamento di dolore.

Il pubblico sussulta e, allo stesso tempo si rallegra, perché Giobbe, finalmente, ha trovato il coraggio di esprimere con parole e di gridare ai quattro venti ciò che prova il giusto che soffre, senza sapere perché.

Quel grido diventa portavoce di molti che lo ascoltano:
«Maledetto il giorno in cui sono nato e la notte in cui fu detto:
un figlio maschio è venuto al mondo!
Che quel giorno si cambi in tenebre!
Che Dio, dall'alto, ignori quel giorno! ... Perché non sono morto nel seno di mia madre, perché non sono rimasto soffocato uscendo dalle sue viscere?

Perché ebbi un grembo che mi accolse e due seni che mi allattarono? Riposerei in pace e dormirei... Perché far conoscere la luce agli infelici e la vita a chi ha il cuore sepolto nell'angoscia?

Non ho pace né riposo, né conforto, ho soltanto un infinito tormento» (Giob. 3, 4.11-13.20.26).

Giobbe aprì il dibattito.
Mise le carte in tavola.

Ebbe inizio la dura marcia dell'uomo in cerca di un senso per le cose che succedono durante la vita, in cerca di un senso per il dolore e la pena che lo avvolgono.

Sul palco, in tutta la sua nuda crudezza, c'è il problema degli uomini, di noi tutti, identificati nella persona di Giobbe, personaggio centrale del dramma che si rappresenta:
quando nascemmo, non chiedemmo di nascere e, ciò nonostante, già c'era chi si preparava ad accoglierci;
siamo nati, e adesso dobbiamo soffrire e morire, stupidamente, senza sapere il perché né della vita né del dolore.

Sulla scena sono rappresentati anche i tentativi che cercano di spiegare il perché della sofferenza, identificati nella persona dei 3 amici di Giobbe e nel quarto, un giovane amico che entra in scena più tardi (capp.
32-37).

Ignorano tutti, Giobbe e gli amici, la decisione presa da Dio e dalla corte celeste, e non sanno perché succedono tutte quelle cose.

Sono come il pubblico, che ha portato con sé, nel teatro, il suo dolore e, adesso, lo vede incarnato nella persona di Giobbe;
ogni giorno cerca nuove spiegazioni al suo dolore, e ricorre a razionalizzazioni di ogni specie, per rendere la vita più sopportabile.

I 3 amici di Giobbe sono anche gli amici del pubblico, perché incarnano le spiegazioni che comunemente si danno ai dolori della vita.

Ma in Giobbe, il pubblico è costretto ad ammirare il coraggio di uno che contesta quello che tutti considerano santo e consacrato;
il coraggio di chi, partendo da una esperienza di vita, affronta ed abbatte tutta una tradizione secolare, perché, essa, mentre dice di difendere Dio, inventa menzogne sulla vita umana (Giob. 13, 7-8).

Man mano che il dramma si svolge, il pubblico si rende conto quanto valgano i suoi argomenti, le sue consolazioni e la sua simpatia.

Si accorge fino a che punto le sue idee riescono a spiegare il dolore, se è capace di resistere agli attacchi violenti che sgorgano dalla coscienza tormentata e realista di un uomo come Giobbe.

I 3 amici, che rimasero in silenzio 7 giorni e 7 notti, rappresentano la difesa degli argomenti che il popolo era abituato ad usare:
cercano di difendere il popolo e la tradizione contro gli attacchi di Giobbe.

Non permetteranno che un uomo, disperato e addolorato, attacchi la solida pietà tradizionale e infranga la stessa sicurezza della sua vita.

Chi vincerà?
La tradizione o la coscienza?

Il dialogo tra Giobbe e i suoi tre amici è anche il dialogo interiore che ogni uomo fa dentro di sé, quando si trova di fronte al dolore e alla sofferenza.

Lo stesso dialogo che oggi si verifica fra la generazione antica e quella nuova:

la generazione antica, che si aggrappa a quanto ha ricevuto dagli antepassati;

la generazione nuova, che vuol partire decisamente dall'esperienza della vita, perché nella tradizione degli antichi non trova nessuna spiegazione ai suoi problemi, nessuna risposta alle sue domande.




SEGUE..




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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. IX (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


un prologo al libro di Giobbe:
il dramma di tutti noi





3. Il problema esistenziale che ha provocato il libro di Giobbe e che in esso si esprime.


Per molto tempo questa fu la situazione culturale del popolo:
viveva nella struttura tribale, in cui tutto era di tutti, in cui ciascuno partecipava al destino dell'altro, in cui tutti erano o poveri o ricchi, in cui non esisteva nessuna differenza, ma un grande senso di solidarietà sia nel bene come nel male.

A questo livello di cultura, era la cosa più naturale del mondo che uno soffrisse per il male commesso dall'altro (cf. Gios. 7, 1-26).

C'era anche un proverbio che diceva:
«i genitori hanno mangiato erbe amare, ma i denti dei figli si sono infiammati» (Ez.18, 2).

Inoltre, a quel tempo, non sapevano ancora niente sul futuro.. Credevano che, dopo la morte, il destino dei buoni e dei cattivi fosse identico (Eccle. 9, 1-2);
sarebbero sopravvissuti in un luogo detto Sheol, che, a loro modo di vedere, stava sottoterra.

Impregnato di questa cultura, il popolo tentò di dare una espressione alla sua fede in un Dio personale e giusto, che castiga i cattivi e premia i buoni; tutto il male del mondo deve essere considerato un castigo mandato da Dio.

Se tu stai soffrendo e sei giusto, la tua sofferenza è il castigo dei peccati e delle disobbedienze fatte da altri.

Se tu stai bene, la tua felicità è il premio di Dio per la giustizia tua e di altri.

Non arrivavano a pensare ad un premio o ad un castigo, dopo la morte.

Queste spiegazioni soddisfacevano il popolo e risolvevano il problema della sofferenza del giusto.

Si trattava di una spiegazione naturale, d'accordo con la cultura del tempo, l'unica da cui potevano ricevere l'idea della giustizia di Dio.

Ma quando il popolo nomade diventò agricoltore, si ebbero profondi cambiamenti.
La coscienza individuale crebbe.

Abitando in borgate ed in città, coltivando ciascuno il suo campicello, partecipando attivamente al commercio, superarono l'antico concetto della solidarietà nel bene e nel male.

Capirono che ciascuno riceve quello che ha piantato.
Il frutto del suo lavoro.
Non accettano più di soffrire per il male commesso da un altro;

il profeta Ezechiele cerca di esprimere la giustizia di Dio all'altezza dei nuovi concetti culturali (Ez. 18, 2 seg.);

Non si può più dire che Dio castiga i figli per i peccati dei genitori; ciascuno riceve da Dio quello che si è meritato.
Altrimenti, Dio sarebbe ingiusto.

Ma che succede?
Si cerca di esprimere nuovi concetti, usando il criterio di prima: il male è castigo di Dio.

Se tu soffri, e non soffri a causa dei peccati degli altri, resta una sola spiegazione:
tu soffri perché tu sei peccatore.

La ricchezza e la felicità sono segni della ricompensa divina:
il ricco è l'uomo giusto.

La povertà e la disgrazia sono segni del castigo divino:
il povero è il peccatore.

In questo modo la teologia cercò di salvare i dati della tradizione circa la giustizia divina.

Giobbe aveva ragione:
per difendere Dio, inventavano un sacco di bugie sulla vita umana (Giob. 13, 7-8).

Da tutto questo nacque il problema esistenziale che provocò il libro di Giobbe e che in esso si esprime.

Il libro traduce l'angoscia di un uomo che soffre.

La tradizione:
cioè tutta la struttura della vita organizzata, tutta la mentalità operante, lui stesso Giobbe, in quanto formato in questa mentalità, diceva:
sei un peccatore, sei un essere rigettato da Dio; la grandezza della tua sofferenza rivela la grandezza del tuo peccato.

Allo stesso tempo però la coscienza gli diceva:
io sono innocente (Giob. 6, 29):
Dio è crudele, trattandomi così (Giob. 31, 21).

Fa soffrire molto sentirsi rigettato da Qualcuno, che amavo tanto e che mi sono impegnato a servire con tutto il cuore (Giob. 16, 17).

Sembrava che Dio si fosse allontanato da Giobbe, perché era peccatore, mentre in realtà, Giobbe, scandagliando il suo cuore e facendo l'esame di coscienza, non trovava niente che potesse avere offeso Dio (Giob. 27, 5-6; 31, 1-40).

Perché Dio lo trattava così?
«Le freccie dell'Onnipotente mi hanno crivellato» (Giob. 6,4).

Nel suo cuore scoppia una rivolta contro Dio (Giob.23, 2).

E d'altra parte Giobbe crede nella giustizia di Dio.

Dio è giusto, più giusto dell'uomo.

Ci doveva essere, dunque, un motivo per cui Dio lo castigava così, trattandolo come un nemico (Giob. 19, 11).
Ma la coscienza gli diceva il contrario.

Chi aveva ragione:
Dio, così come la tradizione e lo stesso Giobbe lo concepivano, o la coscienza?

Qui stava la soluzione del problema che il libro di Giobbe si propone:
come fare per essere fedele alla coscienza e a Dio contemporaneamente?

Nell'esperienza dell'autore del libro di Giobbe la crisi collettiva del popolo, che si andava allargando e provocava in tutti una sensazione di malessere, scoppiò in una crisi personale.

Giobbe esprime con parole quello che, in modo vago, stava nel cuore di tutti.

Proprio per questo il libro possedeva una immensa forza di coscientizzazione.





4. La tecnica del dramma: far partecipare gli altri e portarli a scoprire


Il dramma ha la sua tecnica:
Giobbe e i suoi amici ignoravano quello che il pubblico già sapeva, perché non avevano ascoltato il prologo.

Il pubblico ha in mano il criterio per accompagnare e giudicare con esattezza gli argomenti usati dai personaggi del dramma, nell'impressionante ricerca del perché del dolore.

Nella discussione che ne seguì, Giobbe rappresenta la coscienza nuova che nasce, gli amici rappresentano la tradizione, che si preoccupa di difendere il valore ricevuto dagli antenati.

Il pubblico riconosce l'eco dei suoi desideri, sia in Giobbe che nei tre amici.

Giobbe rappresenta il pubblico, quando è tentato di ribellarsi alla situazione.

Gli amici rappresentano il pubblico, in quanto tutti vorrebbero andare dietro a quello che gli altri pensano, per non crearsi nuovi problemi.

Giobbe è amico del pubblico quando minaccia di smascherare uno schema di sicurezza tradizionale, che garantiva una certa pace, anche se fittizia; smaschera la falsità dietro cui l'uomo si nasconde.

Gli amici di Giobbe sono amici del pubblico in quanto rappresentano il dominio sulle coscienze, che ne impedisce la crescita; in quanto sono capaci, in nome di Dio e della tradizione, di «mettere all'asta l'orfano e vendere un amico» (Giob. 6, 27).

La discussione fra Giobbe e i tre amici è lenta e rivela l'uomo così com'è: fragile e orgoglioso, debole e superbo, ignorante e cosciente, indifeso e sicuro.

La riflessione del dramma cresce e va avanti; poi ritorna al punto di partenza.

Proprio come la discussione della vita:
lenta, dolorosa, va avanti e indietro, fino a che, là in fondo all'orizzonte, si accende una lucina, quanto basta per ravvivare la fiamma della speranza di un uomo come Giobbe, che soffre, disperato, perché secondo
la credenza dell'epoca, si considerava condannato da Dio, castigato per i suoi innumerevoli peccati, di cui però non aveva memoria né coscienza.

Il pubblico ha già capito che, nel caso di Giobbe, non si può applicare l'opinione tradizionale.

Ma Giobbe non lo sa affatto, e neppure i suoi tre amici; come Giobbe, tanta gente si trova nelle stesse condizioni.

Forse è proprio il caso di uno o di un altro che sta nella sala, assistendo allo spettacolo.

Applicare in questo modo, matematicamente, il criterio della tradizione, sarebbe partecipare alla più nera delle ingiustizie e delle menzogne.

Ma come confutare gli argomenti della tradizione?

Se lo propone l'autore del dramma, mettendo in scena Giobbe e i suoi tre amici.

La lotta di Giobbe consiste nello sfatare gli argomenti della tradizione, basandosi sulla testimonianza della sua coscienza;
Giobbe non ha chi lo difenda;
né la struttura, né la società.

Ha solo la testimonianza e la voce della sua coscienza.
Nient'altro.

Cionostante, man mano che la discussione cresce, la coscienza acquista vantaggio sulla tradizione e riduce gli argomenti presentati dai tre amici a «sentenze di cenere» (Giob. 13, 12) «gettate al vento» (Giob. 16, 3) «ingannatrici» (Giob. 6, 18).

«Dimostratemi che ho sbagliato e io mi azzittirò» (Giob. 6, 24).
« Voi siete gente molto furba.
Ma, proprio voi, ucciderete la Sapienza!
Anch'io ho una testa per pensare, come voi pensate.

Non sono affatto inferiore a voi.
Chi ignora quello che voi sapete?» (Giob. 12, 2-3).






5. Il fondo del problema: l'idea sbagliata che gli uomini hanno di Dio


L'autore non si limita a sfatare gli argomenti della tradizione.
Il problema è ben più profondo.

Non si tratta di dire solo quello che non è.
Bisogna trovare una via d'uscita, che ancora non si trova, con la semplice confutazione degli argomenti dell'altro.

Il vero problema si colloca ad un altro livello.

Il vero conflitto di Giobbe non è tanto con i tre amici o con la tradizione, ma è proprio con Dio!

«Quello che sapete voi lo so anche io, non sono inferiore a voi.
Ma io vorrei parlare coll'Onnipotente; vorrei discutere con Dio» (Giob. 13, 2-3).
« Voi non siete altro che impostori, medici che non servono a niente.

Almeno se stessero zitti, potrei scambiarli per sapienti... Per difendere Dio, dite un sacco di bugie.

Possibile che per difendere Dio sia indispensabile ingannare?

Voi avete su Dio idee preconcette.

Fate silenzio!
Lasciatemi in pace!
Voglio parlare anch'io!
Succeda quello che succeda.. Metto la mia vita nelle mie mani.

Se Dio vuole uccidermi non mi resta altra speranza, ma anche così voglio difendere la mia causa davanti a Lui.

Facendo questo sono già salvo, perché un empio non sarebbe ammesso alla sua presenza» (Giob. 13, 4-5, 7-8, 13-16).

Subito dopo, Giobbe si mette a discutere con Dio:
«allontana da me la tua mano, metti fine alla paura che ho della tua ira.

Chiamami e io ti risponderò; oppure lasciami parlare e tu mi risponderai.

Quali sono i peccati e gli sbagli che ho commesso?» (Giob. 13, 21-23).

Prima di incominciare a parlare, Giobbe aveva detto:
«Sono pronto a difendere la mia causa, perché so bene che la ragione è mia» (Giob. 13-18).

Il dramma è una specie di tribunale mascherato.
Imbastisce un processo, in cui compaiono Dio e l'uomo per misurare la loro ragione e risolvere il conflitto che li divide.

Giobbe vuole aprire un processo contro Dio, esporre le sue ragioni e difendere la sua causa (Giob. 23, 4), sicuro di essere assolto una volta per tutte (Giob. 23, 7).

Non bastano i pareri degli amici, né a favore né contro; Dio stesso dovrà pronunciare il giudizio fra Dio e gli uomini (Giob. 16, 21).

Con questo proposito Giobbe si allontana dagli amici, dalla società e da tutto ciò che prima determinava la sua vita.

Va per un cammino nuovo, temerario, un cammino solitario.
Si mette in marcia.

Per nessuna cosa al mondo lascerebbe insoluto il problema che lo affligge e che, essendo il problema di un uomo, diventa il problema della presenza di Dio nella vita degli uomini.

E Dio accetta la proposta di Giobbe.
La voce di Dio si fa udire in un lungo discorso sulla Sapienza divina, che riempie l'immensità della terra (Giob. cap. 38-41);
Giobbe ha interrogato Dio e gli ha esposto il problema della sua vita.
Adesso è Dio che interroga Giobbe:
«Cingiti i fianchi come un uomo, voglio interrogarti e tu mi risponderai» (Giob.
38, 3).

Segue la descrizione delle meraviglie dell'universo, pieno di tanti misteri, che Giobbe non conosce e non sa spiegare, ma che hanno tutti un senso e un fulcro comune, governato dalla Sapienza divina.

Alla fine del discorso, Giobbe trae questa conclusione:
«I miei orecchi avevano sentito parlare di Te, ma ora i miei occhi Ti hanno visto.
Per questo mi ritratto e mi pento, nella polvere e nella cenere» (Giob. 42, 5-6).

L'immagine di Dio, ricevuta dal passato, per aver sentito parlare di Dio, si frantuma in mille pezzi.

Nella mente di Giobbe nacque una nuova immagine di Dio, a partire dalla sua esperienza personale.

Giobbe vide una luce sull'orizzonte della vita.
La pace e la tranquillità ritornarono.

Il problema della vita non veniva da Dio, ma da una immagine falsa di Dio, che si era andata formando nella testa di Giobbe, per sentir parlare di Dio.

Abbattuta l'immagine falsa che gli veniva dal passato e dalla tradizione, Giobbe si ritrovò con Dio e squarciò un orizzonte nuovo di vita, per sé e per gli altri.

L'autore non dice chiaramente quale sia stata la soluzione trovata da Giobbe, ma offre al lettore e al pubblico tutti gli elementi perché essi stessi possano dedurre la conclusione a cui arrivò Giobbe.

Questa è la tecnica del dramma, la tecnica propria dei sapienti:
non si curano di dare una soluzione astratta; l'importante è che il lettore partecipi alla ricerca e arrivi, da sé, a scoprire la verità.

Il pubblico, il lettore sono chiamati a pensare e a riflettere, per vedere se riescono ad identificarsi con Giobbe e a scoprire, Ciascuno per conto suo, la soluzione che Giobbe scoperse.

Il dramma è finito.

Cala la tela.

Riappare il presentatore e pronuncia la sentenza:
gli amici di Giobbe hanno perduto la discussione.

Interpretando il pensiero di Dio, egli dice agli amici di Giobbe:
«voi non avete parlato bène di me, come il mio serve Giobbe» (Giob. 42, 7).

Difendendo con vecchi argomenti una posizione già superata, si sono resi colpevoli, e adesso devono chiedere perdono a Giobbe, che ha avuto il coraggio di affrontare Dio, la realtà, la tradizione, appoggiandosi solo alla testimonianza della sua coscienza (Giob. 42, 7-9).

Il presentatore conclude dicendo che Giobbe tornò ad essere felice, esprimendo così la pace interiore che ritorna quando ci si ritrova con Dio (Giob. 42, 10-17).






6. Conclusione


Il dramma rappresentato nel libro di Giobbe è la storia di una vita, è il risultato di un'esperienza e di una ricerca.

Ci viene offerto dall'autore come esempio di un cammino possibile a molti altri uomini, chiamati ad affrontare, come Giobbe, il mistero del dolore, abbattendo gli antichi preconcetti, che non reggono più al confronto con la realtà e al crescere di una coscienza nuova.

Giobbe e i suoi amici sono tutta l'umanità che cammina per la strada dolorosa della vita, discutendo insieme, curvi e umiliati, sotto il peso enorme della sofferenza.

Conflitto permanente tra rivelazione e realtà;
rivelazione, così come la intende la cultura umana;
realtà, così come si presenta in ogni epoca alla coscienza degli uomini, mettendo in discussione tutto quello che viene dal passato.

Anche oggi, la forza della coscienza sale sul palco della storia, su un monte di sterco, emarginata in mille modi, discute con i tre amici che difendono la posizione tradizionale e che usufruiscono del potere.

Il pubblico assiste al dramma, attraverso i giornali e la televisione.
La discussione procede lentamente, va avanti e indietro, ma nel complesso guadagna terreno:
la coscienza è più forte.

Alla fine, chi difendeva e conservava il vero valore della tradizione non erano i tre amici, ma lo stesso Giobbe, che inaugurò il cammino per un nuovo incontro con Dio, sbarrato dagli schemi della tradizione incarnata dai tre amici.

Il libro di Giobbe ha fatto cambiare tutta una teologia, ha fatto piazza pulita.

Ma non ha risolto il problema definitivamente.
Neppure pretendeva di farlo.

Voleva solo rimuovere una grossa pietra, che ostruiva il cammino.
E ci è riuscito.

I tre amici sono rimasti con le pive nel sacco.
Giobbe ha scoperto ed ha conservato il midollo della tradizione.

Il libro di Giobbe rivela e mostra quanto bisogno abbia il popolo di Dio di essere davvero criticato e contestato.

Giobbe non ebbe paura di battersi, quando si accorse che la coscienza non poteva accettare e assimilare la posizione tradizionale.

Escludere la possibilità della contestazione e della critica, o volerla incamminare e orientare, sarebbe come scavare la fossa alla posizione che si vuole difendere contro la critica.

Là dove la coscienza non è libera di esprimersi, lo si deve esigere, mettendo a tacere gli altri:
«Zitti tutti! Lasciatemi libero!
Voglio parlare!
Quello che voi sapete lo so anch'io.
Non sono affatto inferiore a Voi!» (Giob. 13.2).

I tre amici di oggi devono ricordarsi sempre che Dio, alla fine, dette ragione a Giobbe, perché aveva parlato bene di Dio, anche se tutti pensavano che avesse sbagliato.

Il libro di Giobbe rappresenta una grande apertura umana.

L'autore del libro, membro del popolo eletto, nasconde la sua esperienza col Dio del suo popolo dietro la figura leggendaria di Giobbe, che non apparteneva al popolo, ma era una figura internazionale.

Come quando un cristiano descrive la sua esperienza con Cristo, nascondendola sotto la figura ormai leggendaria di Gandhi.

Il libro di Giobbe esprime l'atteggiamento proprio della vita dei saggi.

La loro riflessione partiva dalla coscienza, dalla decisione di non farsi vincere dalla vita; il tema è sempre la vita e i suoi problemi.

L'obbiettivo e il metodo sono:
Non imporre, ma far pensare, far scoprire un cammino.
Nuova caratteristica è il realismo.
L'ambiente in cui si discute è il circolo di amici.

Sul palco, 5 persone: Giobbe, i tre amici e più tardi Eliù, il quarto amico giovane.

Una riunione di sapienti, una di quelle riunioni che si facevano sempre e dappertutto, per discutere i problemi della vita.

È difficile capire il libro di Giobbe, perché il linguaggio letterario è complicato e insolito alle nostre orecchie; ma il problema messo in discussione è così vicino a noi e così vissuto oggi che, nonostante la difficoltà di comunicazione causata dal linguaggio, la vita è più forte e rende possibile la vera comunicazione.





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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. X (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]



riassunto dell' Antico Testamento:
i Salmi «verso la certezza, camminando nella storia»




I Salmi sono un riassunto dell'Antico Testamento, non perché contengano di tutto un po', ma perché esprimono in mille modi l'atteggiamento proprio dell'uomo che si dispone a vivere la vita come risposta all'appello di Dio:
camminare verso la certezza, immersi nella storia.



1. Difficoltà dei Salmi come preghiera


I Salmi parlano di Dio come di Qualcuno sempre pronto a manifestarsi, in diretta comunicazione con gli uomini;
che interviene nei momenti critici della vita, vince le guerre, cura le malattie, guida il popolo e arriva perfino a modificare il normale corso degli eventi, pur di realizzare il suo impegno con gli uomini.

Oggigiorno Dio non si vede.

La sua azione sfugge a qualsiasi osservazione empirica.

Per gli uomini di oggi, soprattutto per quelli che vivono nelle grandi città, Dio non è più un elemento naturale della vita, anzi, per molti di loro è diventato un argomento inutile.

L'ateismo è un atteggiamento pratico, fuori di discussione, per un numero di uomini sempre più grande.

Due modi completamente differenti.

Sembra impossibile pregare con i Salmi e, allo stesso tempo, prendere sul serio la vita e la realtà di oggi.

Già di per sé, pregare è difficile.

Non è facile raccogliersi davanti ad uno che non si vede.

Il contatto con gli altri, è sempre difficile.
È molto duro arrivare ad una vera apertura; mettere a tacere tutto il resto, e tenere gli occhi fissi in colui col quale stiamo parlando.

In genere i nostri contatti sono superficiali.
Sono conversazioni, non sono dialogo.

Tanto più sarà difficile mettersi in contatto con l'Altro, che è invisibile.

I Salmi ci si presentano come antiche preghiere formulate con termini di una cultura totalmente differenti;
il linguaggio ci suona strano.

Frasi incomprensibili, simbolismi e immagini che, a] giorno d'oggi, non dicono più niente.

Ignoriamo il contesto a cui si riferiscono.

Trattano di situazioni che non abbiamo vissuto.

Per questo è difficile arrivare a riconoscersi nei Salmi, con tutti i nostri problemi e la nostra realtà di vita.

Alcuni Salmi, poi, sono imperfetti, perché insultano e maledicono. Esprimono il desiderio di vendetta, di odio, di violenza.
Come pregare, oggi, con preghiere così imperfette?





2. I Salmi e il movimento secolare della preghiera degli uomini

I Salmi non sono la più perfetta espressione della preghiera.

Ci sono Salmi belli e Salmi imperfetti.
Salmi meravigliosi dal punto di vista letterario, e Salmi che sono soltanto un plagio.

Non dobbiamo neppure considerare i Salmi come un blocco monolitico, caduto dal cielo, già pronto.

Il libro dei Salmi non è nato da un giorno all'altro.

Per scrivere il libro dei Salmi, ci volle più tempo che per qualsiasi altro.

Cominciò ad essere composto verso il 1000 a.C. (al tempo di David) e sembra che fosse finito verso il 300.

Anche dopo che il libro fu scritto, la fonte dei Salmi non si inaridì.

Per esempio:
1/ Nella traduzione greca dell'Antico Testamento (detta dei Settanta), troviamo 14 Salmi o ‘odi’, che non si incontrano nell'originale ebraico.

2/ Negli scritti del Mar Morto (scoperti tra i] 1947 e il 1956), che vanno dall'anno 100 a.c. fino verso l'anno 60 d.C., troviamo un gran numero di Salmi, che non sono contenuti nel libro dei Salmi.

3/ In molti altri libri della Bibbia, sia in quelli storici come nei sapienziali e profetici, troviamo Salmi e orazioni che non sono registrati nel libro dei Salmi.

Perciò il libro dei Salmi raccoglie e trasmette solo alcune delle preghiere usate a quel tempo.

È un contributo limitato al movimento secolare della preghiera, un esempio soltanto di come si pregava e si cantava allora.

Non si pretende dare ai Salmi il monopolio della preghiera.
Non escludono altre preghiere, anzi, le suscitano e le incamminano.

L'importante non sta nei Salmi in sé e per sé, ma nel movimento di preghiera da cui sgorgano e verso cui ci vogliono riportare.

I Salmi riflettono la storia millenaria della lenta ascesa dell'uomo verso Dio e della nostra progressiva liberazione, quando ci incontriamo con Dio.

Nei Salmi troviamo tutto quanto si dice a rispetto di questa ascesa, sia le cose buone come le cattive.

Le imperfezioni (vendetta, odio, autosufficienza) spariscono mentre l'uomo cammina.
Sono più evidenti nei Salmi più antichi.

Perché i Salmi testimoniano lo sforzo dell'uomo per essere fedele a Dio e a se stesso.
Sono preghiera di gente che, come noi, cammina verso la meta che Dio ci propone.

Le imperfezioni ci dicono che Dio accetta la preghiera, così come l'uomo è capace di farla.

Altrimenti non gliel'avrebbe ispirata.
L'importante è che sia sincero.





3. Origine dei Salmi e lenta formazione del libro dei Salmi

Il libro dei Salmi è un insieme artificiale di 150 Salmi, raccolti in un unico manuale, a fini liturgici.

Il titolo ebraico è «Sefer Tehillim» che vuoI dire «libro degli inni» mentre, se teniamo conto del sottotitolo di alcuni Salmi, solo uno ha le caratteristiche del «Tehila», 'Inno' (Sal. 144).

Il titolo più comune è «Libro dei Salmi». 'Salmo', in ebraico Mismor, significa una determinata maniera di cantare.

Noi, oggi, abbiamo:
la samba, il valzer, la marcia ecc., così a quel tempo, avevano gli 'Inni' (Tehillin) i 'Salmi' (Mismor), i 'Cantici' (Shirim) ecc.

Si suole fare una certa confusione, quando un titolo dice:
'Inni' e un altro 'Salmi'.

In realtà, il libro contiene Inni, Salmi, Cantici, Lamentazioni e molte altre forme di canto e di preghiera.

Il fatto è che non si sa bene come classificare il contenuto del libro. Perché l'origine degli elementi che lo compongono, è varia.

È sempre difficile unificare la vita sotto un unico denominatore o un unico titolo.

I Salmi sono 150.
Anche il numero è artificiale.

Si pensò ad un numero tondo, come si usa fare quando si mette insieme un «libro di Canti» liturgici per il popolo.

Era, più o meno, uno dei tanti manualetti di «canti e inni liturgici» come quelli che si usano anche oggi, di origine varia, raccolti qua e là, tradotti, adattati, completati perché possano servire alla celebrazione della liturgia popolare.

Prima che uscisse il libro dei Salmi, esistevano varie collezioni di canti e di preghiere, come esistono, anche oggi, raccolte di canti per la Messa, per le processioni, per la benedizione del Santissimo Sacramento.

Esisteva una raccolta di canti e Salmi per i 'pellegrinaggi' (Sal. 119-133) detti: Salmi 'graduali'.

Un'altra per i canti della cena pasquale, detta «gruppo Hallel» (Sal. 104-106.110-117.134-135.145-150), di autori vari, come oggi abbiamo i dischi di Roberto Carlos, di Gianni Morandi, di Fabrizio de André, di Geraldo Vandré ecc.

La fine del Salmo 71 dice così:
«qui finiscono i Salmi di David» ma, non tutti i Salmi sono di David, neppure il Salmo 71.

Alcuni Salmi sono attribuiti a Salomone, a Mosè, ai figli di Corè ecc.

Alla fine, si tentò di riunire tutto quello che si trovava sul mercato del canto in un'unica raccolta.

Si mise insieme ogni cosa, da qualsiasi parte venisse.

Per questo, si verificarono ripetizioni:
il Sal. 13 è uguale al Sal. 52, il Sal. 39, 14-18 è uguale al Sal. 79.

Alcuni Salmi si trovano ripetuti in due raccolte differenti, soltanto con variazioni insignificanti.

Misero insieme tutto, e ne derivò una certa confusione.

Per esempio, il testo ebraico, alla fine del Sal. 71, dice così:
«qui finiscono i Salmi di David», ma ci sono Salmi non Davidici prima del Sal. 71 e Sal. di David dopo il Sal. 71.

L'autore della redazione finale mise tutto insieme e compilò 5 raccolte, che terminano tutte allo stesso modo:
«Benedetto sia il Signore Dio di Israele, per i secoli dei secoli» e il popolo doveva rispondere:
«Amen, amen,> (v. la fine dei Sal. 40, 71, 88, 85).

Il Sal. 150, l'ultimo di tutti, è un'elaborazione diluita di questa acclamazione.

La genesi del salterio rivela, pertanto, il suo carattere popolare.

Sono canti sgorgati dalla vita, che riflettono la vita.

Il popolo riconosceva in quei canti il riflesso della sua stessa vita.

Per questo, fu il libro più divulgato e più noto.



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riassunto dell' Antico Testamento:
i Salmi «verso la certezza, camminando nella storia»







4. La maniera popolare di pregare e di cantare Salmi


Un altro mezzo importante per conoscere il luogo esatto che i Salmi occupavano nella vita del popolo, lo troviamo nella maniera con cui erano usati e cantati, per pregare.

Molto simile a come noi facciamo, oggi.

Diversi Salmi hanno un breve titolo e una breve spiegazione, circa l'origine e le modalità del canto:

1/ Molti salmi venivano accompagnati da strumenti.
Il Sal. 150 descrive alcuni strumenti e ci dice che si usavano strumenti popolari.
Sarebbe come dire, oggi: il violino, la chitarra, il mandolino, la fisarmonica ecc.

2/ Il popolo vi partecipava in modo primitivo e semplice, con acclamazioni: «Amen, Amen» e «Allelu-Ja» «Amen» (cf. Sal. 105, 48), come dire:
«Bene» «Viva». «Allelu-Ja» è «Hallelu-Ja» cioè «Gloria a Jahvé».

3/ C'era un Salmo simile a una litania.
Invece di dire come oggi:
«Prega per noi», il popolo diceva:
«Ci ad elam besdò» cioè:
«Perché il suo amore è eterno» (Sal. 145).

4/ Spesso ,il popolo partecipava, ritmando le parole di risposta e ripetendo il nome di Dio, cadenzato col battito delle mani:
«Jabù-Jabù-Jabù» (cf. I Cron. 29, 20).

Quanto alla melodia, si faceva come si fa oggi:
«questo canto deve essere adattato alla musica di «Ruota Viva» di Chico Buarque di Olanda.

Per esempio, il Sal. 21 doveva essere cantato con la melodia di un canto molto noto, sotto il titolo:
«il cervo all'aurora».

C'era un canto chiamato «non distruggere», la cui melodia doveva essere usata nel tempio per recitare i Sal. 56, 57, 58 (cf. anche i titoli dei Sal. 17,44,45, 52, 55, 59, 68, 74, 79, 80, 83).

Se oggi si adattano le parole alle melodie di Ruota viva) La banda) C'era un ragazzo} Un fiume amaro ecc., la cosa non è poi tanto nuova, anzi è molto antica.

I sotto titoli, ancora oggi, sono avvisi per il coro.

Toccava al «Maestro del coro» intonare alcuni Salmi. (cf. Sal. 13, 20, 30, ecc.).
Il Sal. 87 doveva essere cantato in tono triste.
Il Sal.6 doveva essere cantato <
Tutte queste indicazioni, fornite dal libro dei Salmi, dicono la sua origine popolare.






5. Davide autore dei Salmi?

Secondo il testo ebraico, dei 150 Salmi, 73 sono di Davide, 12 di Asaf, 11 dei Figli di Corè, uno di Heman, uno di Etnan, uno di Mosè, alcuni di Salomone e 35 anonimi.

La traduzione greca attribuisce a Davide 85 Salmi.

Il continuo riferimento dei Salmi a Davide e l'attribuzione a lui del salterio in blocco, hanno un significato teologico più che storico.

È evidente che Davide compose molti Salmi, ma non tutti sono suoi.

Come Mosè è messo all'origine della legislazione e Salomone all'origine della Sapienza, così Davide sta all'origine del movimento di preghiera.

Era una personalità forte e, con la forza della sua pietà sincera, promosse e intensificò la preghiera.

Poter attribuire il Salmo a Davide e metterlo in rapporto con lui, significava dire che il Salmo occupava un posto ufficiale nella liturgia. Cioè, che il Salmo aveva valore per la vita.







6. Lo studio attuale dei Salmi e la loro interpretazione


Nella storia della Chiesa sempre si pregò con i Salmi; sempre ci fu chi cercò di spiegarli e interpretarli per uso del popolo.

Uno dei più celebri commenti è quello di S. Agostino.

Una sola era la sua preoccupazione:
interpretarli in modo tale che il popolo (sec. IV) riuscisse a scoprire nei Salmi l'eco della sua vita e della sua fede.

Partiva, quindi dalle esigenze concrete della vita dei fedeli e cercava di darvi una risposta.

Al sorgere dell'era moderna, si verificò una separazione tra la vita e la fede.
I Salmi trovarono posto a fianco della vita, col fine di sostenere una fede, molto spesso irreale.

Perciò, l'esegesi entrò per cammini nuovi, cercando di venire incontro alla nuova problematica, allo scopo di reintegrare la fede con la vita.

L'esegeta tedesco Herman Gunkel applicò ai Salmi il metodo «dei generi letterari», per arrivare a scoprire quale sia il posto dei Salmi nella vita del popolo.

Prima di lui i Salmi si presentavano in blocco, come il corso di un fiume di grande portata, senza differenziazioni.

Gli studi di Gunkel ci permisero di risalire la corrente e raggiungere i veri affluenti, che si uniscono per formare il fiume.

In altre parole, il blocco monolitico di 150 Salmi si distingue in vari tipi di preghiere (generi letterari):
inni, lamentazioni, suppliche, storia meditata ecc.

Ogni tipo suppone un determinato ambiente, come lo studio della samba rivela tutto un modo di vivere e di sentire.

Lo studio permise di fare un passo enorme, perché, da allora, i Salmi cominciarono a riflettere aspetti concreti della vita del popolo.
Ma gli affluenti non sono la sorgente.

Per quanto sia importante lo studio di Gunkel, non possiamo fermarci lì.

E’ curioso il fatto che, quando gli esegeti cercarono con i loro commenti di catalogare i diversi' tipi dei Salmi, non si trovarono mai d'accordo.

Perché?

Secondo noi, il perché sta nel fatto che la vita è anteriore a tutte le forme e a tutti i tipi di orazione e non si lascia determinare da loro.

Non si può classificare la vita.
Bisogna andare oltre tutte le forme letterarie e risalire gli affluenti, fino alla sorgente da cui hanno origine.

Questa fonte è più vicina a noi di quanto possiamo pensare e sospettare, perché è la nostra vita umana, illuminata dall'appello di Dio che ci chiama.

Scavando nei Salmi, scopriamo la vita, quella stessa che noi tutti viviamo, e nei Salmi ritroviamo noi stessi.

Solo così i Salmi potranno essere espressione autentica di quello che ci vive nell'animo.

I Salmi, così intesi, ci mettono davanti alla vita nuda e cruda, come scaturisce dentro di noi, ci portano a interrogarci sulla vita, a farci sentire le sue gioie e le sue pene, le sue speranze e le sue angoscie e, perciò, a sentirci inquieti, coscientemente e deliberatamente, di quella inquietudine che faceva esclamare a S. Agostino:
«ci hai fatto per te, e il nostro cuore è inquieto, fino a che non riposa in Te».

In questo modo i Salmi raggiungono il fine per cui sono stati ispirati, ci fanno scoprire chi siamo e quale sia la nostra responsabilità.

Ci scomodano, ci infondono speranza e ci fanno camminare sempre verso la meta che Dio ci propone.

Sono lo specchio fedele della vita, che riflettono criticamente la nostra vera identità.




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7. La più grande difficoltà e la più importante esigenza per la interpretazione dei Salmi



La principale difficoltà nella recita dei Salmi, origine di tutte le altre già dette, è la seguente:
i Salmi, per le ragioni che abbiamo visto, restano fuori del nostro campo di interesse.

Sembra che non abbiano niente da dirci sulla nostra vita:
problemi differenti, linguaggio differente, cultura differente, situazione differente, storia differente.

Senza contatto di affinità sul piano della vita, ogni discussione, ogni spiegazione dei Salmi cade nel vuoto e non rappresenta per noi un valore autentico né richiama il nostro vero interesse.

Non accendono in noi una luce.

Ci lasciano al buio a rispetto di noi stessi, dal momento che non parlano di noi e, di conseguenza, ci lasciano all'oscuro anche su Dio, che parla per mezzo di loro.

Ma la difficoltà nasce da un equivoco.

Anzitutto ci è mancato un sufficiente approfondimento della nostra vita e perciò non riusciamo a coglierne la vibrazione presente nei Salmi.

Inoltre, non abbiamo approfondito abbastanza la conoscenza dei Salmi, per cui non vi scopriamo la nostra vita umana, unica fonte da cui scaturiscono tutte quelle preghiere.

Se scavassimo in profondità, sia nei Salmi come nella nostra vita, ci renderemmo conto che si tratta di vasi comunicanti la cui base è comune: l'uomo che cerca il senso della vita, l'uomo che si confronta con il problema dell'Assoluto, riflesso nei mille problemi del suo quotidiano.

Non riuscirà a raggiungere la radice dei Salmi, non riuscirà a pregare con i Salmi chi, allo stesso tempo, non prende coscienza che anche lui, dentro di sé, incontra la stessa radice.

Benché ci siano estranei, i Salmi sono nati dalle mille situazioni esistenziali, che oggi potrebbero essere la nostra:

allegria, gratitudine, tristezza, angoscia, disperazione, frustrazione, abbandono, sconfitta, vittoria, dubbio, crisi, pace, guerra, incomprensione, fedeltà, amicizia, tradimento, malattia, vecchiaia, persecuzione, ingiustizia, oppressione, esperienza di apparente contraddizione e assurdo della vita.

Chi non è passato attraverso situazioni del genere, non potrà davvero capire i Salmi e, difficilmente, arriverà a fame la sua preghiera.

Per cui, l'esigenza principale per una buona interpretazione dei Salmi è l'esperienza della propria vita, in tutta la sua ampiezza e profondità, con tutti i problemi e sentimenti che ne derivano.

È il ponte che ci unisce, nel tempo e nello spazio, all'autore dei Salmi.

Solo allora, i Salmi diventeranno per noi espressione autentica della nostra vita.
Riacquisteranno oggi, per noi, tutta la forza di una espressione umana che si rivolge a Dio.

Diventeranno capaci anche di ispirarci nuove preghiere, vigorose e sincere, per sostenerci nell'ascensione progressiva che riporta l’uomo a Dio, in una incessante ricerca di Pace:
«Pace, è tutto quanto desidero!» (Sal. 119).







8. I Salmi: espressione della ricerca di Dio nella vita


Oggi sembra proprio che per molti non ci sia più posto per Dio.

Non sanno che farsene di Lui, nella vita.

Credono che esiste.
Niente altro.
Non sanno bene a che serve.

Il problema non è tanto che Dio esista o no, ma:
«Che senso ha Dio nella vita?»

Leggendo la Bibbia ci imbattiamo nello stesso problema.

Si crede all'esistenza di Dio, ma si vuol sapere dove incontrarlo e si mette in dubbio la sua presenza salvifica:
«Signore, possibile che tu non ti ricordi mai più di me?

Quando sentirò di nuovo su di me la dolcezza del tuo sguardo?» (Sal. 12. 2).

«Oggi tu ci rigetti e ci svergogni!...

Sì, hai venduto a poco prezzo il tuo popolo, senza neppure interessarti del guadagno» (Sal. 43, lO.13).

Lo stato di abbandono in cui a volte eravamo ridotti era una prova dell'assenza di Dio e un motivo di orribili crisi di fede:
«Oltre ad essere schiacciato dal peso della tristezza, devo anche sentire gli insulti di chi mi provoca tutto il giorno, dicendomi:
'Dov'è il tuo Dio?'» (Sal. 41, 11).

Le mamme, al giorno d'oggi si lamentano:
«Non so più cosa dire ai miei figli a riguardo di Dio».

«Dov'è dunque il vostro Dio?» (Sal. 41; 4.11; 78.10; 113, lO).

La domanda ritorna sempre e non ha risposta, come non l'aveva per gli ebrei.

Avere un Dio e non poterlo chiamare per testimone è senza dubbio scomodo e spinge alla ribellione.

Che razza di Dio è mai questo?
Era il loro problema, ed è anche il nostro.

La Bibbia non è altro che una risposta viva alla problematica che, in ultima analisi, è la stessa dell'uomo moderno.

Oggi, molti prescindono dal problema teorico, ma si pongono il problema pratico:
Che senso ha Dio nella mia vita?

Visto che il concetto di Dio, come l'hanno ereditato dal passato, non offre più, secondo loro, nessuna risposta sostanziale per l'esistenza,
oggi Dio viene messo da parte, come qualcosa che non interessa, come 'oppio', come contrario al progresso, come causa di alienazione, come una cosa che non ha più senso di esistere:
Dio è morto (per loro).

Viva l'uomo.

Il problema è vecchio, anche se è sempre nuovo:
«Che c'entra Dio con tutto questo, ammesso che sappia quello che ci succede?» (Sal. 72, 11).

Molta gente ha tirato la conclusione:
«Dio non esiste» (Sal. 13, 1) perciò «Spezziamo le catene con cui ci lega, e liberiamoci dal peso del suo dominio» (Sal. 2, 3).

Chi può vincerci?

Siamo superiori con le nostre parole inganniamo tutti (Sal. 11, 5). «Ognuno viva per sé e si arrangi come meglio può».

Di fatto tolto di mezzo Dio la vita sembra più facile.

L'uomo si sbarazza di una inutile angustia ed è più libero di progredire e di crescere:
«Ecco come vive la gente senza Dio:
tranquilla e felice aumentando sempre più il capitale» (Sal. 72, 12) mentre, chi porta il peso del problema di Dio sembra infelice.

Bisogna avere molta fede per resistere alla tentazione di lasciare tutto:
«alla fine, che mi vale vivere onestamente?

A che mi serve conservar pulite le mani?

Solo a ricevere insulti, dalla mattina alla sera, e ad essere sempre condannato?

Molte volte, sono arrivato al punto di dire:
la faccio finita, seguirò l'esempio dei senza Dio» (Sal. 72, 13-15).

Ma sempre qualcosa diceva all'uomo che una simile decisione non avrebbe risolto niente.

Sarebbe stata solo una fuga:
«Dire così, sarebbe farla finita con te, Signore, e rinnegare la fede dei miei fratelli» (Sal. 72, 15).

Allora egli sceglie di portare il peso della contraddizione di Dio.
Non accetta di condurre una vita più facile e più conforme ai criteri della maggioranza.

Perché, allora?

Il fatto è che questo strano Dio è coinvolto nella vita umana.

Senza di Lui la vita non ha senso:
«Lontano da Te, è impossibile la vita!

Esserti infedele è incominciare a morire.

La felicità io la trovo soltanto se cammino verso il Signore.
La sicurezza della mia vita è Dio, per sempre!» (Sal. 72, 27 -28).
È il problema della sicurezza che tutti cerchiamo, durante tutta la vita.

L'autore del salmo sembra avere incontrato una sicurezza così grande che è capace di vivere tranquillo e sereno in mezzo all'insicurezza ed alle incertezze della vita.

«Possono assalire il mio corpo e farmi anche a pezzi il cuore.

La mia vita ha un altro fondamento.

Il futuro che mi aspetta è Dio eterno» (Sal. 72, 26).

Dio, fondamento e futuro della vita, è capace di darci una indipendenza, una fermezza, una libertà e una sicurezza tali, come di rado si incontrano, ma che, in fondo, sono il desiderio concreto e il supremo ideale di tutti.

Un Dio di questo genere ha davvero qualcosa di comune con la vita dell'uomo.

L'umanità, il realismo e la testimonianza della vita, che traspaiono dai Salmi, confermano che questo Dio non è frutto di autosuggestione, ma è una realtà gratuita, per il bene dell'uomo, Credere in questo Dio porta l'uomo a essere più uomo.

Nel suo cuore sbocciano grandi virtù, quando l'uomo si incontra con questo Dio:

1/ coraggio di vivere: «La mia vita ha il suo
fondamento nel Signore.
Chi potrà scuotermi?

Anche se venisse un esercito contro di me, non avrò paura.
Anche se mi sfideranno a battaglia, non cesserò di sperare» (Sal. 26, 1-3).
Così dice l'uomo maturo, che sa quello che vuole.
Ha trovato la sua sicurezza in Dio.



2/ Tranquillità da fare invidia:
(La gioia che ha invaso il mio cuore è più grande della loro, in mezzo a tante ricchezze.

Tranquillamente vado a dormire e subito mi addormento, perché la pace del mio cuore viene da Te solo, Signore!» (Sal. 4, 8-9).



3/ Nitida percezione delle esigenze della giustizia.
«Chi può avvicinarsi davvero a questo Dio?

Che si esige per vivere alla sua santa presenza?
Le mani pure e il cuore innocente, non attaccarsi alle apparenze, non giurare il falso.

Chi vive in questo modo, avrà la benedizione del Signore».

«Signore, chi potrà ospitarsi nella tua casa?

Chi cammina nell'integrità, realizza la giustizia, dice la verità, non calunnia, non nuoce al suo prossimo, non offende il vicino, disprezza quello che Dio disprezza e stima quelli che amano Dio, giura e non si ritratta, anche se gliene viene danno, non impresta denaro ad usura, non si fa corrompere a danno dell'innocente» (Sal. 14).



4/ Coraggio per denunciare le ingiustizie dei potenti:
«Capi del popolo!
È proprio giusto quello che fate?

State davvero governando gli uomini con rettitudine?
Mi pare proprio di no...

Con malizia preparate i vostri piani, e fate pesare sulla terra la violenza delle vostre mani» (Sal. 57, 2-3).



5/ Chiara percezione della giustizia di Dio, che ispira fiducia sulla sorte di coloro che soffrono ingiustizia:
(Stiano tranquilli i giusti, la giustizia sarà vendicata, i colpevoli pagheranno le opere loro.

E tutti diranno:
Sì, la giustizia non rimarrà senza ricompensa, perché c'è un Dio che giudica gli uomini». (Sal. 57, 11-12).



6/ Rigetto di una religione fatta solo di riti e di norme, senza contenuto:
«A che ti serve ripetere come un pappagallo tutti i miei comandamenti e parlare di religione il giorno intero?

Tu che non hai preso la responsabilità del tuo impegno di vita e hai messo da parte i miei appelli?» (Sal. 49, 16-17).

Conoscere questo Dio e convivere con Lui è il dono più prezioso che un uomo possa ricevere:
«La tua amicizia mi è più cara della mia stessa vita» (Sal. 62, 4), giacché a causa del contatto con questo Dio, l'uomo ha incominciato a svegliarsi ai veri valori della vita.

È risorto alla gioia di una nuova speranza, ed ha attinto alla fonte nascosta da cui sgorga incessantemente la vera preghiera, con inni, cantici, ringraziamenti, lodi, suppliche.

Si capisce allora il grido:
«Che cosa può bastarmi, sia in cielo che in terra, se sto lontano da Te, Signore?» (Sal. 72, 25).

Il pernio della sua vita è il costante camminare verso questo Dio:
«La felicità, io la trovo camminando sempre verso il Signore» Tutto quanto un uomo fa, in questo senso, risponde ad un appello, che nasce dal più profondo dell'essere:
«Dentro di me una voce mi diceva:
continua a cercare la presenza di Dio.

Per questo vado in cerca di te, Signore, non ti nascondere alla mia ricerca» (Sal. 26, 8-9). Seguire questa voce porta l'uomo là, dove neppure lui può pensare, né prevedere.

Dio è sempre una sorpresa e un imprevisto.

L'immediata conseguenza della sua venuta, è sempre la tenebra.

Cresce e progredisce solo chi ha il coraggio di accettare nella sua vita questo Dio, senza venir meno, nella ferma fiducia che Lui è più forte di qualunque crisi, è capace di sostenerlo e di fargli vincere le difficoltà:
«Grande è la mia fiducia nel Signore; da lui aspetto una parola amica» (Sal.129).

«Ah! Se non avessi la certezza assoluta di arrivare a gustare, un giorno, la bontà del Signore nella terra dei viventi...» (Sal. 26, 13).

Quando tutto crolla, resta solo il sostegno di Dio, che sta con noi, adesso invisibile, ma davvero presente:
«Sei il mio sostegno, Signore, l'unica parte che mi resta nella vita» (Sal.141, 6).

Con questa certezza, l'uomo cammina, dando tempo al tempo, sperando di sentire di nuovo, un giorno, la voce del suo Dio.

Mentre dura la crisi, il suo atteggiamento è quello espresso nel Sal. 62: «Mi aggrappo a te, Signore, e tu mi tieni saldo con le tue mani» (Sal. 62, 9).

L'uomo sa e conosce la legge della vita:
«chi cammina, piange mentre semina la sua semente.

Quando ritorna, tornerà cantando, col carico del suo frumento» (Sal. 125, 6).

Chi non cammina non si accorge di nulla.

Camminando verso la certezza, immersi nella storia, ci si accorge, alla luce di Dio, che tutte le cose sono relative, tutte le forme di vita, le incertezze, i limiti e le insicurezze.

Con questo, l'uomo è capace di lasciare ogni falso sostegno, ogni certezza fallace, e si sveglia ai veri valori, e cerca il suo appoggio e la sua sicurezza nel fondamento e nel futuro della sua vita, che è Dio.

Chi ha provato questo fondamento e questo futuro, ha trovato la vera pace, la pace di Dio, e può dire:
«dentro di me si è fatta una grande pace.

La pace e la serenità sono venute per rimanere.

Come il bambino dopo la poppata:
dorme tranquillo, tra le braccia della mamma» (Sal: 130).
Questo ci dicono' i Salmi, su Dio e su noi stessi.

Toccano il fondo della problematica umana.

Se ben tradotti, possono davvero essere usati come espressione concreta della nostra speranza.

Ci possono perfino aiutare a svegliarci a certi aspetti della vita, ai quali ancora non diamo sufficiente attenzione:



9. Il materiale per l'orazione

Dove trovare il materiale per pregare?

Una sola parola dice tutto:
la vita, la vita che viviamo.

Per gli autori dei Salmi le cose della vita servono da svegliarini.

Vedendo e vivendo la vita, si ricordano di un'altra cosa.

Si ricordano di Qualcuno, che è più grande di tutti:
Dio.

Per loro, la vita, con tutte le cose belle e tristi, la natura, con tutte le sue meraviglie e le sue minacce, la storia e la vita, con tutte le loro peripezie, insomma tutto quello che ti fa ridere e piangere, tutto è diventato trasparente come cristallo, capace di svelarti e ricordarti Dio, tuo amico, che ti chiama, ti interroga, ti incoraggia e ti critica.

Quasi senza saperlo, le cose della vita diventano per loro il materiale e l'argomento di una conversazione, bisbigliata all'orecchio di Dio, l'amico.

Così sono nati i Salmi.

Sono sbocciati dalla vita con Dio.

Se non legassimo tutte le cose alla vita, il discorso sui Salmi sarebbe inutile.

Sarebbe come installare una bellissima televisione, senza legarla alla presa di corrente.

Non serve a niente, sarà un mobile per abbellire la casa;
ma la televisione non è nata per questo.

I Salmi sono serviti per documentare come pregavano un tempo, ma non furono ispirati per essere catalogati nell'archivio.

Furono ispirati, per pregare e per suscitare la preghiera



SEGUE..



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Pierino




[Modificato da mlp-plp 05/11/2009 14:52]
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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XI (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

origine dei quattro vangeli:
dal «vangelo» ai quattro «vangeli»





1. A che serve indagare sull'origine dei Vangeli?


Se apro un comune dizionario linguistico, che corre nelle mani del popolo e ne riflette la mentalità, alla voce «Vangelo» leggo più o meno così:
1/ dottrina di Cristo;
2/ ciascuno del quattro libri principali del Nuovo Testamento;
3/ passi del libro che si legge durante la celebrazione della Messa;
4/ cose che si ritengono vere;
5/ insieme di precetti che regolano la vita di una setta.

Secondo ciascuna di queste definizioni, la parola V angelo significa, o può significare:

dottrina, libro, cerimonia o rito, verità, codice morale.

Quale delle cinque definizioni, è quella giusta?
Inoltre siamo soliti identificare il Vangelo con la vita di Gesù, e in questo caso Vangelo è sinonimo di Storia, in quanto ci dà le notizie sulla vita di Gesù, sulle cose che Egli disse e fece.

Perché tanta differenza?
A causa dei Vangeli o del nostro modo di vedere?
I primi cristiani pensavano proprio così?
Facevano anche loro la stessa confusione che facciamo noi?

Di fatto, è molto differente, nella pratica della vita, considerare i Vangeli solo come libri o come semplice storia, come norma morale di vita, o come criterio di verità, o come teste di dottrina;
oppure come una semplice lettura, da farsi durante la cerimonia della messa.

Saranno, invece, un'altra cosa ancora, che sta alla radice di tutti i differenti aspetti enumerati sopra, e da cui derivano e prendono la vita?

Per questa ragione, sarà molto utile investigare liberamente come sono nati i Vangeli, quale fu la loro origine.

Noi passiamo sopra a molte cose, che sono scritte nei Vangeli, proprio perché non abbiamo occhi per vedere.

Quando conosceremo meglio come nacquero i Vangeli, saremo in grado di scoprire e correggere il nostro sbaglio.

Sarà una ricchezza in più, per la nostra vita.
oggi.





2. Alcune domande la cui risposta rivela un'altra mentalità


Elenchiamo una serie di domande, le cui risposte devono essere cercate nei Vangeli;
il risultato della ricerca sarà impressionante:

nessuna domanda troverà una risposta sicura.

E’difficile che i quattro Vangeli si mettano d'accordo su uno stesso argomento.

1. Quanti anni durò la vita apostolica di Gesù, dal battesimo di Giovanni Battista in poi?

2. Quali furono le precise parole della consacrazione del vino, usate nell'ultima cena?

3. A chi apparve, per primo, Gesù dopo la sua risurrezione, e dove apparve?

4. Quali furono le parole del centurione, ai piedi della croce, dopo la morte di Gesù?

5. Quale fu l'itinerario seguito da Gesù, nei suoi viaggi attraverso la Palestina?

6. Quante beatitudini Gesù proclamò, all'inizio del Discorso della Montagna?

7. Quanti giorni Gesù visse sulla terra dalla risurrezione all'ascensione?

Le risposte devono essere cercate simultaneamente nei quattro Vangeli.

Chi si metterà al lavoro, scoprirà che, secondo quanto dice l'evangelista, la vita apostolica durò meno di un anno, più di due anni, e fino a tre anni.

Vedrà che Matteo dice una cosa e Marco un'altra, che Luca dice questo e Giovanni quello.

Si accorgerà che, a rispetto di certe questioni, solo uno o due, dei quattro, sanno dirci qualcosa.

Ci rimane, pertanto, un certo dubbio sugli argomenti più importanti parole dell'ultima cena.

Padre Nostro, durata della vita di Gesù, itinerario dei viaggi, apparizioni, discorsi, fatti e miracoli.

Tutto ciò dà l'impressione che i quattro evangelisti non si interessassero delle stesse cose che interessano a noi.

Sembra che non importasse loro di tramandarci una descrizione minuziosa ed esatta delle cose, altrimenti non ci sarebbe una così grande divergenza in materia tanto importante.


Quando scrivevano i fatti della vita di Gesù, lo facevano con una mentalità molto differente da quella che abbiamo noi quando leggiamo i Vangeli.

Per questo non scopriamo, fino in fondo, il messaggio che gli evangelisti racchiusero nel testo, perché non ci mettiamo dallo stesso punto di vista loro, rispetto al contenuto dei Vangeli.





3. Paragone che ci mostra un'altra dimensione, nei quattro evangelisti


I Vangeli furono scritti molto tempo dopo le lettere di Paolo.

Per capire bene uno scritto, bisogna avere una certa familiarità con l'ambiente che lo ha generato.

L'ambiente da cui nacquero i quattro Vangeli è quello stesso delle lettere di Paolo, cioè l'ambiente delle comunità piene di fervore, formate dai cristiani che vivevano nella Palestina, nell'Asia Minore, nella Grecia e nell'Italia.

Più o meno come succede alla musica popolare:
per capire bene una certa musica, bisogna conoscerne il popolo, l'epoca, e la regione d'origine.

Vogliamo parlare proprio di questo.
Il grafico vuol stabilire un paragone tra le lettere di Paolo e i quattro Vangeli.

Si vede bene che le cose hanno subìto una certa evoluzione:

Le lettere di Paolo focalizzano soprattutto il «mistero pasquale», cioè gli avvenimenti della passione, morte e resurrezione di Gesù.

Parlano di Gesù e del Vangelo, quasi ad ogni pagina.

Poco dicono, però, di quello che Gesù visse, prima della sua passione, morte e resurrezione.

Parlano di Gesù, come di Qualcuno che sta in mezzo ai fedeli, come di Qualcuno che vive.

Questa presenza viva e attuante di Cristo in mezzo alla comunità è per loro il «Vangelo», la grande «Buona Notizia».

II fondamento della sua presenza è la passione, morte, e resurrezione.

II Vangelo di Marco, per esempio, si interessa soltanto di quello che è successo a Gesù prima della passione, perché comincia con la narrazione dal battesimo di Giovanni Battista, il che vuol dire, dall'inizio della vita apostolica di Gesù.

I vangeli di Matteo e Luca, scritti dopo quello di Marco, allargano il loro campo d'interesse e cominciano dall'infanzia e dalla nascita di Gesù.

II vangelo di Giovanni, l'ultimo di tutti risale alle origini del mondo, e si apre con la frase: «In principio era il Verbo...
(Gv. 1, 1).

Questo verbo di Dio è Gesù Cristo, che si fece carne» (Gv. 1, 14).

Pertanto, man mano che andiamo verso il futuro, l'interesse per Gesù Cristo si spinge sempre più dentro il passato.

Ne deriva una conclusione:
la radice dell'interesse degli evangelisti non fu la dottrina, né la storia, né la verità, né la morale, né la redazione del libro, né la cerimonia, ma la persona di Gesù risuscitato, vivo in mezzo a loro.

Per i primi cristiani, Cristo non è Qualcuno che è morto, è risuscitato e poi se ne è andato in cielo.

I primi cristiani, quando parlavano di Cristo, non pensavano al passato.

Per loro Cristo era presente, stava lì con loro, nella loro vita, vivo come loro erano vivi, grazie alla forza di Lui.

L'interesse fondamentale si fermava qui:
in questa presenza amica di Cristo nella vita: «Per me vivere è Cristo» (Fil.1, 21).

Se poi, nei Vangeli scritti, cercavano di informarsi sulle cose, sui fatti, sui discorsi, sugli avvenimenti del passato, era solo per approfondire attraverso queste notizie la conoscenza di Cristo, vivo in mezzo a loro.

Lo stesso succede quando si fa amicizia con qualcuno.
Quello che ci interessa è la persona dell'Altro.

Ma, col crescere dell'amicizia, cresce anche il desiderio di conoscere meglio l'amico.

Ed allora, è molto naturale che si entri in contatto con la sua famiglia, con i suoi genitori, che si cerchi di sapere come viveva, che studi ha fatto, quale sia stata la sua infanzia.

Tutto questo, però, ha un solo scopo:
conoscere meglio l'amico, le sue esigenze, le sue aspirazioni, per rendere più intensa l'amicizia con lui, 'oggi'.

Perciò le lettere di san Paolo e gli Atti degli Apostoli, che ci tramandano il modo di vivere dei primi cristiani, nei primi tempi, rispetto a Cristo, ci dicono che si polarizzavano in Cristo e nella sua presenza, viva in mezzo a loro.

Per loro era sufficiente questa presenza viva e amica, che conquistava il cuore di tutti.

Era la Buona Novella, il Vangelo.

Mano a mano, però, che l'esperienza di fede in Cristo si faceva più profonda, vollero sapere di più su di lui e incominciarono a ricercare, nel passato, quello che lui aveva detto, aveva fatto e insegnato.

Erano spinti a farlo dalle difficoltà della vita cristiana, dal momento che l'incontro con Cristo vivo aveva imposto alla vita una nuova direzione, trasformando tutto e provocando in loro una vera e propria 'conversione'.

Avevano bisogno di sapere come comportarsi nella vita nuova.

Incominciarono allora a spingersi nel passato di Cristo, non a causa del passato in se stesso, ma a causa del presente, in cui si scontravano con tante difficoltà e condividevano la vita con Cristo.

Era il bisogno di sapere meglio che cosa Cristo volesse, chi fosse, da dove venisse e che cosa promettesse.

Questa indagine sul passato ebbe il suo momento alto nel vangelo di san Giovanni, che andò a ritroso, fino a prima della creazione del mondo (Gv. 1, 1), illuminando il significato di quel Gesù, vivo in mezzo a loro, non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini e per l'universo intero.

Chi si mette a leggere i Vangeli, con il solo scopo di trovarvi storia, dottrina, verità, morale e alcuni elementi per le cerimonie, non li sta leggendo con la stessa ottica con cui furono scritti.

La lettura dei vangeli esige, in coloro che li leggono, una disposizione fondamentale:
la convinzione dell'amicizia con Cristo vivo, oggi, in pieno secolo XXI. Per conoscere questo Cristo, per sapere che cosa lui vuole da me, ho bisogno di leggere i Vangeli.

Il Vangelo, o «Buona Notizia», non è anzitutto dottrina, non è cerimonia, non è un libro, non è morale, non è storia, non è un insieme di verità, ma è Qualcuno:
Gesù Cristo; «per me, vivere è' Cristo», questa è la radice, il resto è ramo e fiore.

Senza la radice, tutto il resto secca e imputridisce.

Ma, anche una radice senza ramo e senza fiore, non esiste!

La dottrina ha senso solo in rapporto con la persona di Cristo, da cui è nata.
Altrimenti, diventa un insieme astratto di verità, imparate a memoria, senza sapere a che servano.

La morale cristiana ha senso ed è cristiana, solo se sta in rapporto con questo amico, vivo e presente nella nostra vita.

Altrimenti, diventa un insieme di odiosi precetti.

Perché si è impegnato con Cristo, il cristiano compie il suo dovere.

La storia suscita interesse solo quando parla di un amico.

Chi si interessa, per esempio, di insegnare a tutti la storia di Giulio Cesare?

La cerimonia ha senso, solo se siamo amici di quella persona.

Non si festeggia il compleanno di uno sconosciuto.

Ma, se si tratta di un amico, non manca nessuno.

Il libro ha senso, solo se parla di una persona conosciuta.

Non si conservano fotografie di uno sconosciuto.

Infine la verità interessa soltanto quando mi rivela qualche cosa che si riferisce a un amico.
Conferma l'amicizia che ci lega.

La radice e il tronco da cui deriva tutto il resto, è la persona di Gesù Cristo.
L'interesse lo provoca lui.

Soltanto la persona è capace di portare alla conversione ed alla trasformazione, non la dottrina astratta.

Il Vangelo, prima ancora di essere un libro scritto, è una realtà viva e personale.

Gli scritti di Matteo, Marco, Luca e Giovanni si propongono soltanto di illuminare il Vangelo vivente.

Se il Vangelo non è vivo nella vita, a poco o niente servono i quattro vangeli.

Sarebbero come le corde della chitarra senza la cassa di risonanza, come la carta geografica che segnasse i contorni di una regione inesistente.

Sarebbero una cosa fittizia.

Forse, sta proprio qui la ragione dell'attuale crisi:
ci manca l’esperienza della radice; insistiamo troppo sui rami, dei quali non si vede chiaro il punto d'innesto sulla radice.

Una 'notizia' diventa 'buona', quando corrisponde ad una speranza, viva dentro di noi.

Chi ha tutto, chi non ha bisogno di niente, chi è pienamente soddisfatto, per costui nessuna notizia è buona, perché non aspetta più nulla.

Non è capace di vibrare con niente.

Forse il fatto di vivere tranquilli e accomodati, in una religione che ci va a genio, pensando che va tutto bene, è proprio la causa per cui la 'notizia' di Cristo, vivo tra noi, non è più, per noi, la «buona notizia».

Anzi, diventa 'scomoda', perché mette in evidenza, deficienze e limitazioni nella vita personale e sociale, che preferiremmo ignorare.

In questo caso, la «Buona Nuova» si rivolta contro di noi e diventa causa di giudizio, come lo fu per i Farisei (cf. Gv. 3, 19, 21).



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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XI (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

origine dei quattro vangeli:
dal «vangelo» ai quattro «vangeli»







4. Paragone tra i quattro Vangeli


Un altro aspetto curioso dei quattro Vangeli merita la nostra attenzione e può aiutarci a capirne meglio la finalità, rispetto alla nostra vita.

Molte frasi, discorsi, fatti e miracoli di Gesù sono raccontati contemporaneamente nei quattro Vangeli o, almeno, nei tre così detti sinottici (Mt. Mc. Lc.).

Mettendo a confronto queste descrizioni, si notano molte differenze, come abbiamo detto sopra.

Alcuni esempi!

II Padre nostro:
Matteo lo considera parte del Sermone della Montagna (Mt. 6, 9-13), mentre Luca lo riferisce ad un'altra occasione (Lc. 11, 1-4).

Chi ha ragione?
In Matteo prevale la preoccupazione catechetica.
Si potrebbe dire che scrive per aiutare i professori di religione.

Per questo ha facilitato le cose, ed ha riunito, in un unico discorso, tutto quello che si riferisce alla preghiera (Mt. 6, 5-150).

La parabola della pecorella smarrita è raccontata da Matteo,come espressione dello zelo apostolico (Mt. 18, 12-14) e, da Luca, come espressione dell'amore misericordioso di Dio, che va in cerca dei peccatori (Le. 15, 3-7).

La Trasfigurazione:
Matteo parla di volto splendente come il sole e di nuvola luminosa (cf. Mt. 17, 2-5).

Ci ricorda Mosè quando, sul Monte Sinai, avvolto da una nuvola luminosa, aveva il volto splendente e dettava al popolo la legge antica.

Matteo, dunque, presenta Gesù come un nuovo Mosè, che dà agli uomini la legge nuova.

La legge è Gesù Cristo, presentato dal Padre, che dice:
«questo è il mio Figlio amato:
ascoltatelo!» (Mt. 9, 31).

Luca, invece, a proposito della trasfigurazione, dice che Elia e Mosè parlavano con Gesù della passione e morte (Lc. 9, 31) e racconta il sonno degli apostoli (Lc. 9, 32).

Pensa all'agonia del Getsemani, quando Gesù si confrontava con la passione e gli apostoli se la dormivano (cf. Lc. 22, 40-46).

La passione di Cristo ebbe inizio quando Egli stesso decise di soffrire, al momento della trasfigurazione.

E potremmo continuare, moltiplicando gli esempi.

Ma l'importante è che gli evangelisti non si propongono di tramandarci letteralmente le parole di Gesù.

A loro importano, soprattutto, i lettori, che leggeranno le parole di Gesù.

La vita di questi deve essere raggiunta dalla Parola di Dio!
Perciò ogni evangelista presenta le cose nel modo che crede più efficace, per raggiungerli.

Per conseguenza non è possibile leggere i Vangeli, come se non avessero niente a che vedere con la nostra vita.

Non possiamo limitarci a spiegare i testi e fermarci lì.
Bisogna legarli alla vita che viviamo.

C'è chi pensa che la fedeltà consista nel conservare la verità cosi come sta, senza cambiare nulla.

Basta ripetere sempre le stesse cose.

Se, poi, la verità corrisponde o no alle esigenze della vita, poco importa.
A loro interessa solo di conservare la verità ortodossa.

Si perdono in discussioni, il più delle volte inutili. Non servono a niente, se non riflettono la verità della vita!

Per gli evangelisti, professare la vera fede significava:
essere sempre pronti a cambiare la vita, se Gesù lo avesse chiesto.

Fedeltà, non era solo il contenuto del 'credo', con cui si faceva
la professione di fede.

Proprio per questo, agli evangelisti non importa tanto di copiare, scrupolosamente, alla lettera, le parole e i fatti della vita di Gesù, ma di presentarli in modo tale che il lettore possa capire che questo fatto o questa parola sta in stretto rapporto con la vita.

Chi legge i Vangeli per istruirsi e non per viverli, si trova fuori dalle finalità del Vangelo.

La prima preoccupazione degli evangelisti è stata inserire il messaggio di Cristo nella vita del lettori.

E poiché i lettori dell' Asia sono differenti da quelli dell'Italia o della Palestina, ogni evangelista esponeva i fatti della vita di Gesù in modo differente.

Non si preoccupavano della storia o del passato, ma della vita presente dei cristiani.

Non ebbero, certo, molti scrupoli nel modificare un po' il senso letterale delle parole di Gesù, purché i lettori arrivassero a coglierne il messaggio.

Come loro, misero in costante collegamento la 'realtà' di chi leggerà e il «messaggio del Vangelo»;
così chi oggi vuole leggere i Vangeli deve necessariamente avere la stessa preoccupazione:
collegare «la realtà di chi legge» e il «messaggio dato dai Vangeli».

Altrimenti, saremo come colui che «ascolta la parola di Dio e non la mette in pratica» (Mt. 7, 26).






5. Origine dei Vangeli: dal Vangelo ai quattro Vangeli


Dopo tutto quello che abbiamo visto fin qui, possiamo, con più facilità, descrivere l'origine dei vangeli.

Non si deve pensare che un bel giorno lo Spirito Santo sia sceso giù e abbia chiamato quei quattro uomini, perché scrivessero, sotto dettatura.

Tutto il contrario.

Gesù ordinò loro di non scrivere niente, ma li inviò a predicare e ad annunciare la Buona Novella della sua morte e resurrezione:
si fece uomo come noi, amico ,di tutti, per portare tutti sulla strada della vita e manifestare a tutti il vero senso della vita quotidiana.

Ne abbiamo certezza, perché Lui risuscitò e vive in quelli che credono in lui.

Questa è la Buona Notizia, è questo il Vangelo.

Gli apostoli lo predicavano e lo annunciavano a tutti:
Cristo è vivo in mezzo a noi, per aiutarci a scoprire il senso della vita.

La predicazione cominciò con la Pentecoste.

Basta scorrere appena gli Atti degli Apostoli per farsi un'idea di come andarono le cose.

Molta gente aderiva al messaggio, aderiva alla persona di Gesù Cristo che apriva una prospettiva nuova di vita.

Si manifestava concretamente nell'esperienza dell'amore e della carità.

Da ogni parte sorgevano comunità ferventi di persone chiamate «cristiani» (Atti 1l, 26) perché credevano in Cristo.

I ‘cristiani' si trasformarono, radicalmente, nel modo di affrontare la vita.

Proprio per questo erano carichi di un'infinità di problemi e di necessità:
come fare per comunicare la fede agli altri (perché chi scopre una cosa buona sente il bisogno di comunicarla agli altri)?

Come giustificare la fede, di fronte alle accuse degli altri giudei e pagani?

Possiamo continuare ancora ad osservare l'antica legge?

Come risolvere i problemi interni della comunità:
possiamo ricorrere ai tribunali civili?

Come organizzare il nostro culto?

Come celebrare, in comune, le cose che ci interessano e che costituiscono, adesso, la gioia della nostra vita?

Quale deve essere il rapporto fra i membri della comunità?

Soprattutto, dal giorno in cui aderirono a Cristo, nacque in loro un grande amore per lui e un bisogno di conoscerlo meglio, per scoprire, sempre di più, la sua funzione nel piano di Dio.

Cercavano risposte a tutte queste domande ben concrete, che si riferivano alla vita concreta di ogni giorno.

Ricorrevano agli apostoli, e questi si ricordavano delle cose che Gesù diceva e faceva.

Fu così che, dentro la comunità dei cristiani, incominciarono a circolare un gran numero di racconti su Gesù:
pezzi di discorsi, storie di miracoli, descrizioni di fatti della vita di lui e frasi isolate, che Lui aveva detto, in differenti occasioni.

Con questi racconti, fatti dagli apostoli, in risposta alle loro domande, i cristiani cercavano di orientarsi nella vita nuova.

Poco a poco, come succede sempre, ci fu chi mise insieme le frasi di Gesù, per facilitarne la memorizzazione e per conservarle.

Qualcuno fece la collezione dei miracoli, altri cercarono di catalogare le discussioni di Gesù con i farisei (servivano da falsa-riga, per risolvere le loro discussioni con i giudei).

Più tardi, quando gli apostoli incominciarono a sparire, morendo, uno dopo l'altro, i cristiani sentirono il bisogno di fissare sulla carta quello che correva, di bocca in bocca, sulla vita di Gesù, tramandata
dagli apostoli.

Fino a che, finalmente, quattro persone, in luoghi ed epoche differenti, (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) decisero di mettere insieme, ciascuno per conto suo, in un solo volume, tutto, quello che potevano raccogliere e ricordarsi a riguardo di Gesù (cf. Lc. 1, 1-4).

Nel loro lavoro, la nostra fede riconosce l'azione dello Spirito Santo, fino al punto di vedere, nella parola dei Vangeli, la Parola di Dio.

Si deduce, allora, che gli evangelisti non solo descrivono i fatti della vita di Gesù, ma riflettono, allo stesso tempo, la preoccupazione dei primi cristiani, che cercavano risposte ai loro problemi di ogni giorno, riguardanti la testimonianza della fede.

Senza l'interesse, che i primi cristiani avevano di vivere la loro fede nella pratica della vita, i Vangeli non sarebbero mai stati scritti.






6. Risposta alla domanda iniziale


Le informazioni del dizionarietto popolare hanno ragione o no?

Come definire il Vangelo?

Dottrina?

Libro?

Cerimonia?

Morale?

Verità o Storia?

La risposta è già stata data e possiamo riassumerla così:
il Vangelo è, anzitutto, una vita nuova, sbocciata nell'uomo dalla sua adesione a Cristo.

Questa è la grande verità che provoca una conversione, da cui deriva un nuovo comportamento morale.

Dalla riflessione su questa realtà deriva la dottrina, che, messa per scritto, genera il libro e, dalla celebrazione della vita comunitaria, sorge il culto con la cerimonia.

Fondamento di tutto è la storia di Gesù di Nazareth, che nacque e visse durante 33 anni, morì assassinato e risuscitò.

Continua oggi, presente e attuante in coloro che si aprono a Lui
con la fede.

La storia è il fondamento, ma non solo la storia di Gesù.

Anche la nostra storia oggi, qui.

La nostra storia attesta la veracità del Vangelo in cui crediamo.
Non occorre parlare molto, se poi, nella vita, non si vede niente, se poi noi non risuscitiamo ad una vita nuova, che tutti possono vedere.




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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XII (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

il discorso della montagna:
consiglio, legge o ideale?







1. Alcune notizie per ambientare il discorso di Gesù


Il cosiddetto «discorso della montagna» si trova nei capitoli 5, 6, 7 del Vangelo di Matteo.

Si chiama «discorso della montagna» perché, secondo Matteo, Gesù usò come pulpito un'altura che si trovava in quei paraggi.

Dice il Vangelo:
«Gesù, vedendo la folla, salì sulla montagnola.

Si sedette, e i discepoli gli si strinsero intorno.

Prese allora la parola, e li educava dicendo...» (Mt. 5, 1).
Con queste poche parole l'evangelista dipinge lo sfondo del quadro, su cui si stagliano le lettere luminose del discorso rivoluzionario.

«Il discorso della montagna», che invita tutti a leggerlo, ad ascoltarlo, meditarlo.

Il discorso della montagna è il primo dei 5 grandi discorsi di Gesù, nel Vangelo di Matteo.

Matteo vi ha raccolto tutto quanto si riferisce all'entrata nel regno di Dio:
chi può entrare nel Regno, a quali condizioni, come ci si deve comportare per appartenervi.

Gli altri discorsi trattano rispettivamente della diffusione del Regno attraverso la predicazione apostolica (Mt. 10), del «Mistero del Regno» nascosto nelle parabole (Mt. 13), della convivenza reciproca nel Regno (Mt. 18) e della manifestazione finale del Regno (Mt. 24-25).

Il discorso della montagna si divide in tre parti:

1/ Le Beatitudini (Mt. 5,1-12), che definiscono i membri del Regno di Dio.

2/ Il modo di vivere degli uomini, che fanno parte del Regno (Mt. 5, 13 fino 7, 2).

3/ Le conclusioni finali (Mt. 7, 13-27), in cui Gesù insiste molto sulla prassi e non solo sulla mentalità e l'intenzione.

Quanto al modo di vivere, descritto nella seconda parte, si distingue così:

1/ funzione dei membri del Regno, in mezzo al mondo: essere sale della terra e luce del mondo (Mt. 5, 13-16).

2/ Lo spirito che li muove dev'essere differente dallo spirito che anima i farisei (Mt. 5, 17-20).

3/ Con 6 esempi contrari, Gesù definisce la vita del cristiano, rispetto all'Antico Testamento (Mt. 5, 21-48).

4/ Gesù precisa quale spirito deve animare i 3 grandi esercizi di pietà: elemosina, preghiera, digiuno (Mt. 6, -1-18).

5/ Spiega come ci si deve comportare rispetto ai beni di questo mondo (Mt. 6, 19-34).

6/ Descrive i rapporti reciproci (Mt. 7, 1-5) con quelli che «non sono niente» (Mt. 7, 6) e con Dio (MI. 7, 1-5).

Finisce con la cosiddetta «regola d'oro» (MI. 7, 12).






2. Tre difficoltà per chi legge il discorso della montagna


1/Sembra che Gesù metta tutto a testa in giù:
per Lui la felicità è dei poveri e degli afflitti, degli umili e dei perseguitati.(Mt. 5, 3-12).

Dice che è venuto per completare la legge (Mt.5, 17) e allo stesso tempo ordina cose impossibili (cf. Mt. 5, 22.48).

2/ Se è vero che il discorso della montagna indica la strada della felicità, possiamo pure rinunciarci:

non arrabbiarsi mai con gli altri (Mt. 5, 22);

non offendere mai il fratello (Mt. 5, 22);

non rimanere alla messa se un altro ha qualcosa contro di me ma, prima, fare la pace (Mt. 5, 23-24);

non guardare mai una donna con desiderio di possederla (Mt. 5, 28);

non giurare mai (Mt. 5, 37);

non opporre resistenza al malvagio e, se ti dà, uno schiaffo sulla guancia destra, presentagli l'altra guancia (MI. 5, 39);

dare anche la camicia a chi vuol portarti via la giacca (Mt.
5, 40);

amare i nemici (Mt. 5, 44);

perdonare sempre (Mt. 6, 12);

non fare niente per essere visto dagli altri (Mt. 6, 1);

avere tanta fiducia in Dio che diventino superflue perfino le parole della preghiera (Mt. 6, 5-8);

non mettere da parte denaro (Mt. 6.19);

scegliere tra Dio e il denaro (Mt. 6, 24);

non preoccuparsi del cibo, della bevanda e del vestito e vivere come i passerotti, senza alcuna preoccupazione (Mt. 6, 25-31);

non giudicare mai nessuno (Mt. 7, 1-2);

fare agli altri quello che vorresti che fosse fatto a te (Mt. 7, 12);

insomma essere perfetto come è perfetto il Padre che sta nel cielo
(Mt.5, 48).

È mai possibile osservare tutto questo?

È possibile che si arrivi al punto di dire:
«ho fatto tutto.
Sono perfetto, come è perfetto il mio Padre?».

3/Luca riferisce lo stesso discorso.
Ma in modo molto differente da Matteo.

Leggiamo nel Vangelo di Luca 6,20-49:

1/ Non fu su di una collina, ma in pianura (Lc. 6, 17).

2/ Le beatitudini sono 4 e non 8, come dice Matteo (Lc. 6, 20.22).

3/ Inoltre, ci sono 4 maledizioni, che mancano in Matteo (Lc. 6.24, 26).

4/ Molte cose che Matteo registra, Luca le omette, per esempio:
manca il Padre Nostro e non ci sono neppure certi esempi che si esprimono per contrasto, non dice niente del sale della terra e della luce del mondo (ne parla altrove) ecc.


Si tratta proprio dello stesso discorso?

In caso affermativo, quale dei due evangelisti ha ragione?







3. Soluzioni proposte


Prima difficoltà:
«Gesù colloca tutto a testa in giù».

Non solo nel discorso della montagna, ma in molte altre cose dette da Gesù:

gli ultimi saranno i primi, i primi saranno gli ultimi (Mc.10, 13);

il più piccolo è il più grande (Lc. 9, 4-8);

perdere la vita per guadagnarla, ma perde la vita chi vuol guadagnarla (Mt. 16, 25);

peccatori, pubblicani e prostitute, alle porte del Regno, hanno la precedenza sui farisei, sui giusti (Mt. 21, 31) ecc.

Siamo così abituati a queste espressioni, che neppure ci accorgiamo della minaccia che nascondono contro la nostra sicurezza, che si appoggia su cose e valori, da noi stessi creati e tenuti in piedi.

Le abbiamo già sentite tante volte, e così poca gente le prende sul serio!

Sembra perfino che non siano vere!

Conservano la parola di Gesù, come si conservano nei musei spade e cannoni:
belli a vedersi e ad ammirarsi, ma, oramai, non fanno più paura a nessuno.

Sono stati messi fuori combattimento.

La stessa cosa succede al crocifisso.

Sta dappertutto;
case, bar, negozi, uffici, distributori di benzina, parlamento, luoghi dove si fa la giustizia e l'ingiustizia.

Fa parte dell'arredamento, come fa parte del pranzo il caffè espresso che si usa prendere alla fine.

Non ci accorgiamo nemmeno più che si tratta di un uomo torturato e legalmente assassinato, per un ideale che non ha voluto rinnegare.

Anche le parole del discorso della montagna sono incorniciate ad arte e riposte nel cotone.

La parola di Dio, questa spada a due tagli (Ebr. 4, 12), non ferisce più.

La sua azione è controllata e neutralizzata.

La nostra coscienza non si scomoda per lei.

Facciamo della parola di Dio quello che la pubblicità, al giorno d'oggi, fa delle idee nuove che sorgono:
se ne impadronisce e poi le butta sul mercato.

In questo esatto momento l'idea nuova non scomoda più, perché è stata messa a servizio degli interessi di coloro che non vogliono essere scomodati.

Soluzione facile e frequente, che riduce la parola di Dio alle dimensioni della nostra.

Quanto alla seconda difficoltà:

è possibile osservare il discorso della montagna?

Non è da oggi che i cristiani vedono il problema e cercano di risolverlo.

Ecco alcune delle risoluzioni proposte, dai tempi antichi fino ad oggi.

1/Il discorso della montagna è solo per una piccola élite.

C'è chi pensa così:
«quello che Gesù dice nel discorso della montagna non può essere per tutti!

È impossibile».

Ne deducono che il discorso della montagna deve essere inteso, non come legge universale, valida per tutti, ma come consiglio diretto ai più generosi, a quelli che ne sentono la vocazione.

Il gruppo scelto si limiterebbe ai vescovi, ai preti, ai religiosi e a qualche laico di azione cattolica.

Per la grande massa della gente comune basterebbero i dieci comandamenti, che sono anche troppo.

Non si dovrebbe esigere dai laici quello che Gesù propone nel suo discorso.

Opinione molto comune tra i cattolici, non come teoria ufficiale, ma come pratica della vita.

2/Il sermone della montagna deve essere spiegato e osservato} come qualunque altra legge.

Gesù è un Dottore della Legge.

Sarebbe venuto per codificare, in un modo nuovo, i comandamenti della Legge di Dio.

Anzi, Lui stesso disse che era venuto, non per annullare la legge, ma per completarla (Mt. 5, 17).

Il discorso della montagna è una legge} e deve essere applicata come un'altra qualunque.

Davanti ad una legge è proprio inutile lamentarsi e dire:
«è troppo difficile per me».

Davanti al tribunale, non vale la scusa:
«io non sapevo che questa legge esistesse».

Oppure:
«non l'ho osservata, perché una legge del genere,per me, è impossibile».

Tutti i cittadini devono agire in modo da stare sempre nella legge e la legge dalla parte del cittadino.

Perché, così, chi giudica non può procedere contro di lui;
e lui, con l'osservanza della legge, ha di che difendersi contro chi giudica.

L'osservanza del discorso della montagna cominciò ad essere, per molti, un mezzo di difesa contro Dio legislatore.

Si fecero studi profondi:
come fare, perché il cristiano non si senta condannato dal discorso della montagna?

Come fare per osservarlo integralmente?

Come fare perché il cristiano possa avere sempre la coscienza tranquilla e sentirsi nella legge, ed essere difeso dalla legge?

L'eccesso del raziocinio fece cadere molta gente nel cosiddetto legalismo, o casistica.

Il discorso della montagna sarebbe come il programma della televisione, che fa propaganda dell'utilitaria a rate:

«l'automobile è tua!
portatela a casa, oggi stesso!»
ossia, «il Regno di Dio è tuo!
beati i poveri!» (Mt. 5, 3).

Ma, sia nell'uno che nell'altro caso, le cose sono così difficili che né l'utilitaria né il Regno usciranno mai dalla vetrina.

Si tratta solo di una réclame (o promessa) o nient'altro.

3/Il discorso della montagna si propone di provocare alla penitenza.

Lutero tentò di osservare il discorso della montagna come se fosse una legge, ma non ci riuscì e finì col domandarsi...
alla fine, perché Cristo è venuto?

Per facilitare o per complicare la salvezza?


Per aprirci alla speranza o per precipitarci nella disperazione?

Lutero si accorse che mai e poi mai un uomo, per quanto si sforzasse, sarebbe stato capace di osservare quello che Cristo propone nel discorso della montagna.

Ma allora, perché il Cristo pronunciò il discorso della montagna?

Lutero si rispose così:
col discorso della montagna Gesù cercò di convincere gli uomini, una volta per tutte, che noi, con le nostre forze, non riusciremo mai a realizzare quello che Lui ci chiede.

Se Dio si fosse messo a esigere da noi tutto quello che doveva, avremmo potuto rinunciare definitivamente alla salvezza e andarcene diretti alla dannazione, senza biglietto di ritorno.

Perché ce lo mettessimo bene in testa, Cristo usò la pedagogia del discorso della montagna.

Là sta scritto quello che avremmo dovuto essere, ma che non saremo mai, né potremmo esserlo.

Gesù, a bella posta, ci ha proposto un ideale divino, assolutamente impossibile a noi.

Il discorso della montagna servirebbe per farla finita con l'orgoglio dell'uomo, di fronte a Dio.

Il fine sarebbe duplice:

anzitutto, l'uomo posto davanti a tali esigenze, dispera di poter raggiungere la salvezza con le sue sole forze;

è costretto a riconoscere la sua miseria e la sua radicale impotenza a salire, da solo, la scala del cielo.

In secondo luogo, il discorso della montagna serve a portare l'uomo a gettarsi nelle braccia della misericordia di Dio e a dire col pubblicano:

«Signore, abbi pietà di me, che sono solo un povero peccatore» (Lc. 18, 13).

L'uomo deve aspettarsi la salvezza esclusivamente da Dio e non dai suoi sforzi.

Dio gliel'ha promessa, perciò, si è compromesso a dargliela.

Dio non inganna.

Perciò l'uomo non deve fidarsi delle sue forze, perché le sue forze non sono capaci di conquistare niente.

Il discorso della montagna servirebbe solo a condurre l'uomo a Cristo, riconoscendo in Lui l'unico salvatore.

4/ Gesù non ha dato una legge) ma ha insegnato una mentalità.

L'opinione è oggi accettata da molti.

Attraverso un insegnamento molto concreto, servendosi di esempi e di fatti, Gesù ci starebbe educando ad una nuova mentalità.

Per esempio:
«Chi si adira col suo fratello, dovrà comparire davanti al tribunale,) (Mt. 5, 22) non sarebbe una legge che proibisce, anzi, non arriverebbe neppure a essere una legge, ma appena una maniera concreta di dire che chi crede in Gesù dovrebbe avere una mentalità tale che gli fosse impossibile anche la più piccola mancanza contro la carità.

È molto differente considerare il discorso della montagna come legge, come consiglio, come mentalità, o come esigenza reale ma impossibile.

La differenza che esiste fra le varie opinioni dice chiaramente che non si tratta di un problema di facile soluzione.

Vedremo, più avanti, che pensare di tutto ciò.

Il fatto è che le diverse opinioni ebbero grande influenza nella vita dei cristiani e, fino a oggi, influiscono sulla vita di molta gente.

Si disse:
«È una legge».

Ne risultò quell'infinità di regole e osservanze, tutte imposte in nome di Cristo, che misero tanta gente in angustia, in ribellione, per tutta la vita, senza capire un'acca dell'amore di Dio e del senso della vita.

Per loro, il Vangelo - che vuol dire «felice notizia» - di «felice notizia» aveva solo il nome.

Invece di pace e tranquillità, causava, e causa tuttora, angustia e disperazione di coscienza.

Per questo, molta gente non ne vuol più sapere di religione.

Si disse:
«è un consiglio».

Ne risultò quell'abitudine di predicare al popolo solo la morale dei l0 comandamenti.


Poco o niente ne sa il popolo dell'ideale del Regno di Dio.

La promessa del Vangelo non lo attraeva.

Agiva più per interesse e per paura.

Per non perdere il cielo, dopo la morte.

Si disse:
«È un mezzo per chiamare a penitenza».

Ne derivò quell'atteggiamento cristiano che non vede la terra che ha sotto i piedi e guarda solo al cielo, aspettando che le cose succedano senza la sua partecipazione.

Dio faceva tutto da sé;
l'opera dell'uomo era inutile;
Dio diventa il fac-totum.

Molti cristiani non vedevano neppure il rapporto tra Vangelo e lavoro, per trasformare il mondo e renderlo migliore.

Per loro il mondo è una porcheria, non serve a niente, neppure per comprarsi il cielo.

Non si disse, ma si pensò:
«sono soltanto belle parole! ».

E la religione e la fede furono soltanto una bella cornice messa intorno alla vita.

Restarono al margine, dove realmente scomodavano la coscienza degli uomini.

Fede e vita si separarono definitivamente.

Si disse «È una mentalità».

Ne derivò un atteggiamento vago, che non significa niente.

Ciascuno va dietro al suo capriccio, con piena libertà.

Si nega il bisogno della Scrittura e delle norme;
il Vangelo è tutt'altra cosa.

Non è facile trovare il punto giusto, da cui si possa valutare e capire tutta la profondità del messaggio racchiuso nel discorso della montagna.

Quanto alla terza difficoltà:

«perché Luca fa un discorso tanto differente?»

la risposta è stata data, in parte, nel capitolo precedente.

Basta fare alcune osservazioni.

Matteo scrive per i giudei convertiti.
Per questo, mise insieme frasi e discorsi di Gesù, che formassero una sintesi del messaggio del Vangelo, accessibile a loro.

Si capisce, allora, il continuo confronto tra l'Antico e il Nuovo, nel capitolo V.
Interessava i giudei convertiti.

Luca scrive per i pagani convertiti.
Ad essi non interessava tanto il confronto tra la morale instaurata da Gesù e la morale dell'Antico Testamento, per cui Luca lo omette del tutto, e conserva appena quello che interessa ai suoi lettori.

Segue l'esempio di Matteo:
sintetizza il pensiero di Gesù, non per i giudei convertiti,
ma per i pagani convertiti.

Ambedue cercano di essere fedeli al Vangelo:
il Vangelo si propone di «convertire» e provocare un cambiamento nella vita.

La fedeltà al Vangelo esige che il messaggio di Cristo sia presentato in modo tale che raggiunga la persona nella sua vita concreta.

La vita concreta dei pagani convertiti era differente da quella dei giudei convertiti.

In nome della fedeltà, le parole di Gesù dovevano essere presentate in modo differente all'una e all'altra categoria di persone.

Inoltre, bisogna ricordarsi che Matteo aveva di mira i «professori di religione».

I professori di religione, in generale, non hanno né tempo né modo di fare una sintesi della materia.

Vanno sempre in cerca di un manuale, dove possano trovare raccolto tutto quello che si può dire su uno stesso argomento.

Matteo si incaricò di farlo, e riunì, sotto forma di discorso, tutto quello che si riferiva al comportamento necessario per entrare a far parte del Regno.


SEGUE..




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[Modificato da mlp-plp 26/11/2009 15:47]
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il discorso della montagna:
consiglio, legge o ideale?






4. La vita di una persona spiega e dà senso alle parole che dice



In mezzo a tante opinioni contrastanti, non è facile definire quale fu il genuino pensiero di Gesù!

L'esegeta corre sempre il rischio di presentare le sue idee personali, come se fossero di Gesù.

Tuttavia è pur necessario fissare dei criteri che ci aiutino a vedere con chiarezza come orientare la nostra vita.

Perché quello che diremo non sia soltanto il nostro pensiero, ma corrisponda davvero a quello che il Vangelo ci dice di Gesù, credo che sia indispensabile situare il discorso della montagna dentro l’ambiente generale della vita di Gesù e vedere come Lui viveva e praticava ciò che insegnava e proponeva agli altri.

La vita di Gesù ci darà la chiave per aprire la porta che ci introduce dentro il discorso della montagna.

Per esempio:
Gesù disse che non ci si deve arrabbiare (Mt. 5, 22), ma Lui andò su tutte le furie e non una sola volta (Mt.3, 5).

Arrivò al punto di fare una frusta e cacciare i venditori dal tempio (Gv. 2, 5).

Gesù disse che non si possono insultare gli altri ma Lui stesso insultò e usò parole molto forti contro gli altri:
«Ipocriti» (Mt. 23, 27),
«Figli di assassini» (Mt. 23, 31),
«Sepolcri imbiancati» (Mt. 23, 27),
«Serpenti! Razza di vipere» (Mt. 23, 33).

Disse che bisogna dare la guancia destra a chi ti percuote sulla sinistra (Mt. 5, 39).

Ma Lui stesso, quando ricevette uno schiaffo, non offerse l'altra guancia.

Anzi, protestò energicamente e reagì con decisione:
«se ho parlato male, dimostramelo;
e se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv. 18, 23).

Disse che non dobbiamo preoccuparci col mangiare, col bere, col vestire, ma Lui aveva con sé i 12 apostoli che pensavano a tutto (Mt. 16, 7).

E anche un gruppo di «pie donne» che «gli davano assistenza con le loro sostanze» (Lc. 8, 3).

Disse che non si devono giudicare gli altri (Mt. 7, 1), ma Lui li giudicò quando disse al popolo:
«Fate tutto quello che i Farisei vi dicono, ma non imitate le loro opere, perché loro dicono, ma non fanno» (Mt. 23, 3).

Non si può ignorare questo modo di vivere di Gesù, quando vogliamo spiegare il vero senso delle sue parole.

Dalla vita ci vengono gli elementi per spiegare il vero senso delle parole.

Vita vissuta e parola pronunciata sono come la cassa di risonanza e le corde:
formano un tutto inscindibile, l'unità della chitarra che trasmette la musica e il messaggio del discorso della montagna che arriva fino a noi.

Inoltre, succede oggi al discorso della montagna, lo stesso fenomeno che si verificò con la persona di Gesù Cristo:
si danno molte opinioni, tra le più disparate, ma nessuna riesce ad esprimere tutta la realtà.

Tutti si sentono in dovere di dare pareri ma nessuno coglie nel segno: non è una legge, non è per una é1ite, non è per gettarci nella disperazione, non è solo una cornice, né soltanto una mentalità... Ma, allora, che è?

La stessa cosa accadde anche a Gesù.

Tutti lo conoscevano, l'avevano sentito parlare e davano pareri su di Lui.

Alcuni erano perfino molto belli, ma erano come le bolle di sapone dai mille colori:
appena le tocchi, svaniscono.

Una volta Gesù riunì i suoi discepoli, per fare un'indagine sull'opinione del popolo a suo riguardo:
«Chi dicono che io sia
?» (Mc. 8, 23).

Risultato spaventoso:
nessuno ci indovinava.

Chi diceva che era Giovanni Battista o Elia, chi pensava che fosse un profeta (Mc. 8, 28).

Mettendo insieme le opinioni, sparse lungo i vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento, si nota la grande varietà dei giudizi dati su Gesù e sul suo messaggio:
«uomo di Dio» (Gv. 3, 2),
«agitatore che sovverte il popolo» (Lc. 3, 2),
«il profeta Geremia» (Mt. 16, 14),
«il profeta promesso e atteso» (Gv. 6, 14),
«un pericolo permanente per il popolo» (cf. Gv. Il, 47-50),
«un distruttore delle sante tradizioni» (Mt. 26, 61),
«un uomo che non viene da Dio, perché non osserva il sabato» (Gv. 9, 16), «pazzia e scandalo» (1 Cor. 1, 18.23),
«mangione e beone, amico dei pubblicani e peccatori» (Mt.11, 19),
«il Messia o Cristo» (Mc. 8, 29).

In fondo in fondo, ciascuno giudica Gesù da quello che ne sa, da quello che è e che vuole.

Lo riducono alle dimensioni dei loro pensieri.

Cristo, là dentro, ci sta stretto.

Sta stretto negli schemi inventati da noi.

Prima o poi, li fa crollare tutti, con la forza del Nuovo, che è Lui.

Come si vede, accadde a Gesù quello che sta accadendo al discorso della montagna.

Ma perché nessuno ci indovina?

Forse un esempio popolare, preso dalla vita quotidiana, può aiutarci a capire il problema:

Cento anni fa, un povero contadino, un giorno, andò in città e per la prima volta vide un aereo:

«una grande carcassa di ferro lucente, con due grandi ali, che si alzava da solo da terra e volava».

Tornando al suo paesetto, dove nessuno ancora aveva visto, né aveva sentito parlare di aereo, cercò di spiegare che cosa era un aereo.

Quando ebbe finito di parlare, ognuno cercò di dire la sua, per spiegare quello che aveva capito:
«Vola?»
«Vola sì, ma non batte le ali»;

«Fa chiasso?»,
«Altro che!
Ma la voce non esce dal becco»!

«Ha il becco?»
«Sì, ma non lo apre».

«Mangia e beve?»
«Beve la benzina, ma non ha stomaco»

«Digerisce?»
«Sembra di sì, perché tutto il liquido sparisce nel suo ventre, ma non ha intestino»

«Vola da solo?»
«Vola, ma non è vivo» «Ma come è possibile una simile cosa, amico mio! ».

Nessuno riuscì a farsi un'idea esatta di quello che fosse un aereo.

Il poveretto cercò di paragonare l'aereo a tante cose, che i suoi amici conoscevano.

Ma l'aereo era una cosa così nuova, che non c'era verso di paragonarlo, costringendolo ad entrare nelle categorie familiari a quel popolo.

Solo vedendolo con i propri occhi e toccandolo con le proprie mani, avrebbero potuto capire e rendersi conto che cosa fosse quella carcassa meravigliosa, di cui il loro amico parlava con tanto stupore.

Successe così a Gesù e così succede anche oggi al discorso della montagna.

La persona, la vita, le parole di Gesù furono così nuove e differenti che non entravano nella testa del popolo di quel tempo e neppure del tempo nostro.

Cercarono e cerchiamo ancora di paragonarlo a cose e persone di nostra conoscenza:
Giovanni Battista,
profeta,
uomo di Dio,
legge,
causa di disperazione,
consiglio,
mentalità,
cornice.

Ma, tutti i nostri concetti messi insieme non sono capaci di arrivare alla radice, là dove Gesù pensa e agisce.

Non c'è verso di capire chi è Cristo e che senso abbia il discorso della montagna, usando solo le idee, che nascono da noi.

Sputiamo sentenze e non cogliamo nel segno.

Perché, prima di Gesù, Dio mai si è fatto così piccolo, così vicino?

Così umano, così nascosto dentro la vita?

Era così nuovo, che soltanto vedendo e toccando da vicino Gesù in persona, convivendo con Lui, poteva darsi che la mente del popolo si aprisse per capire chi fosse Lui e che senso avesse il discorso della montagna.

Qui sta la chiave per capire il discorso della montagna.

Dove mai ci porterà il «nuovo», incarnato nella vita di Gesù?

SEGUE..



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Pierino



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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XII (terza parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

il discorso della montagna:
consiglio, legge o ideale?






5. Il nuovo che si rivela nella vita e nella parola di Gesù



Esaminiamo tre aspetti, per avere un'idea dell'ambiente in cui situare
il discorso della montagna.

1/L'arrivo di Gesù: la forza dell'amore che trasforma.

Con la venuta di Gesù tra gli uomini le cose sono cambiate.

È' accaduto qualcosa di assolutamente nuovo.
Gesù arriva come il padrone:
caccia l'usurpatore (Lc. 11, 22),
spazza la casa (Lc. 11, 25),
pulisce l'aia (Mt. 3, 12).

La famiglia umana ritrova la pace e il benessere;
i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi odono (Mt. 11, 5),
la gioia, la felicità ritornano a brillare sul viso dei poveri (Lc. 6, 20.21),

gli emarginati, prostitute, peccatori, pubblicani, sono riammessi nel consorzio umano (Mc. 2, 16; Lc. 7, 36-50),
le malattie sono curate (Mt. 8, 16-17; Mc. 6, 56),
la natura non è più una minaccia (Mt. 8, 23-27) e serve l'uomo (Lc. 7, 1-17; Mc. 5, 41-43),

i peccati vengono accusati (Mt. 23, 13-31; Gv. 16, 8-9) e sono perdonati (Mc. 2, 5; Lc. 7, 48),
i deboli sono accolti, senza essere condannati (Gv.8, 1-11),
la giustizia è proclamata (Mt. 5, 10-20; 6, 33),
la sincerità è Proclamata (Mt. 6, 1-6; Mc. 7, 17-23),
la verità è annunciata (Gv. 8, 46),

le barriere cadono, gli uomini si uniscono, un soffio di amore rinfresca la vita (Gv. 13, 34-35; Mt. 11, 28-30) e fa risuscitare le ossa spolpate (cf. Ez. 37, 1-14).

Come la terra secca, nel deserto, rinasce sotto la pioggia, così l'umanità si rinnova, sotto l'azione benefica di Gesù Cristo.

Qualcosa è cambiato fin dalla radice:
il mondo è liberato dal peccato e dall'errore (Gv. 1, 29), che vengono sradicati, perché la colpa è confessata (cf. Mc. 1, 5) e perdonata.

Si spezza la forza del male e agonizza, ferita a morte, perché il demonio è espulso, (Lc. 11, 20; Gv. 12, 31; Atti l0, 38 ecc.)
gli uomini sono liberati da ogni forma di oppressione (Lc. 4, 18), rinascono al bene, la cui vittoria già si fa sentire (Gv. 16, 33).

La venuta di Gesù fu davvero una festa per tutto il popolo (Lc. 2, 10), la trasformazione incominciò con la sua venuta;
era il semaforo verde, aspettato da secoli.

Segno che il Regno di Dio era venuto (Lc. 11,20;
17, 21; Mc. 1, 15).

2/ L'arrivo di Gesù: luce che confonde e provoca:

col bene e l'amore appaiono anche il male e l'odio.

Gesù arriva e divide gli uomini (Gv. 7,43; l0, 19).

Tutti si sentono raggiunti da Lui e prendono posizione.

Nessuno rimane neutrale (Lc. 11, 23).

Il suo arrivo è come un giudizio (Gv. 3, 19-21):

quelli che affrontano la vita, senza preconcetti e senza interessi egoistici, quelli che amano la verità, si dichiarano dalla parte di Gesù e riconoscono in Lui la voce di Dio (Gv. 8, 32; 18, 37; Mt. 11,25).

Ma coloro, cui manca l'amore alla verità, resistono alla voce di Cristo (Gv. 8,43. 44), la imbavagliano (cf. Gv. 11, 57), la marginalizzano (cf. Gv. 9, 22) e, alla fine, la soffocano nel sangue di un assassinio, ratificato ufficialmente dalla legge (Gv. 19, 7).

Davanti a Dio, gli uomini si definiscono.

Gesù non fa niente che provochi resistenza:
è solo una presenza umile e decisa di amore e di verità (Gv. 8, 39-40), e ne fa brillare la luce in tutti i nascondigli, in cui gli uomini si rifugiano.

Ne rivela, pertanto, tutte le debolezze e i difetti e, soprattutto, denuncia la mancanza di autenticità e di sincerità (Gv. 8,45-47; 3, 19-21; 12,46-50).

Risveglia negli uomini la voce della coscienza addormentata sotto il cumulo delle leggi e dei precetti umani.

Chi ha paura della sua coscienza reagisce e cerca di soffocare la voce di Cristo.

Chi è sincero, accetta il giudizio di Cristo e vi aderisce. (Gv. 3,21;
6, 68).

Le acque si rischiarano, perché si fa più nitida la separazione tra buoni e cattivi.

Il giudizio è in corso (Lc. 22, 51; Mt.l0, 35).

Nonostante la forza della resistenza, Gesù non è raggiunto né vinto dagli attacchi dei suoi avversari, che lo trascinano a morte, proprio perché Lui è libero (cf. Gv. lO, 18).

3/ L'arrivo di Gesù: esigenza di un cambiamento radicale di vita.

Gesù provoca una reazione, perché non chiede permesso per agire e per parlare, ma parla e agisce con una libertà spaventosa.

Si presenta proprio come il padrone della situazione.

Colloca delle esigenze che nessun uomo, prima di Lui, neppure si sognò di porre agli altri.

Fa di se stesso la norma, il criterio, il fine di tutto l'agire umano.

Solo Lui possiede la chiave della vita, che apre la porta della felicità.

E non solo ce l'ha, ma dice che la chiave è Lui.

Basta esaminare le sue affermazioni:
«Io sono la porta» (Gv. lO, 9),
non esiste un'altra porta di entrata per la salvezza.

«Io sono la luce del mondo» (Gv. 8, 12), fuori di Lui tutto è tenebra.

«Io sono la verità» (Gv. 14, 6), tutto il resto è menzogna. (Prov. 8, 44).

«Io sono la vita» (Gv. 14, 6), non c'è altra via per sfuggire alla morte (Gv. 11, 25-26).

«Io sono il cammino» (Gv. 14, 6), senza di Lui l'uomo si perde (Lc. 11, 23).

«Io sono il pane della vita» (Gv. 6, 35), senza di Lui abbiamo fame (Gv. 6, 35).

Lui è la fonte dell'acqua (Gv. 7, 37.38), senza di Lui l'uomo non riesce a spegnere la sua sete (Gv. 4, 13-14).

Per amore di Lui gli uomini devono essere pronti a rinnegare tutto
(Lc. 14, 33), altrimenti non possono essere suoi discepoli.

Per amore suo, bisogna essere pronto a perdere la vita (Mc. 8, .35), altrimenti non si può avere la vita.

Chi va dietro a Lui, deve portare la croce tutti i giorni (Lc. 9, 23).

Lui si mette al di sopra dei genitori e dei fratelli e non permette che si preferisca la famiglia a Lui (Lc. 14, 16).

Dice che solo Lui sa qualcosa su Dio (Mt. 11, 27) e che nessuno va a Dio se non attraverso di Lui (Gv. 14, 6).

Il maggior peccato consiste nel non credere alla sua parola (Gv. 16, 9).

Nel porre questa esigenza, non dà spiegazioni, né si giustifica.

Quando gli chiedono soddisfazione, non ,risponde (Mc. 8, 11-12).

Parla con autorità (Mc. 1, 27), ma non è autoritario, perché è sempre «mite ed umile di cuore» (Mt. 11, 29).




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il discorso della montagna:
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6. Il discorso della montagna nella vita di Gesù



Chi volesse spiegare il discorso della montagna, senza fare i conti con quanto abbiamo costatato nella vita di Gesù, non riuscirebbe a capirci nulla.

Con Gesù è veramente apparsa una cosa nuova, che i giudei, con tutto il loro Antico Testamento, non riuscirono a capire.

Gesù definisce il nuovo col dire che è il Regno di Dio:
«è suonata l'ora!

il Regno di Dio è arrivato!

cambiate vita!

credete alla buona notizia!» (Mc. 1, 15).

La buona notizia, il vangelo, non consiste solo in parole, non consiste solo nel discorso della montagna, per quanto meraviglioso esso sia.

La buona notizia è, anzitutto, la persona di Gesù.

Lui è il Regno di Dio, ossia in Lui, Dio è re.

In Lui si esprime ciò che succede agli uomini quando decidono di aprirsi a Dio, lasciando che Dio sia Dio nella loro vita.

Cambia tutto e si trasforma in meglio, fin dalle radici.
Così fece Gesù.

Con la sua vita ci ha dimostrato che l'uomo può essere davvero uomo, pienamente umano, solo quando permette a Dio di essere Dio nella sua vita, quando si apre al Regno di Dio, perché solo allora l'uomo arriva ad essere pienamente quello che deve essere secondo il progetto del suo creatore.

Solo Dio conosce l'uomo, fino in fondo, e solo Lui riesce a far funzionare l'uomo, al cento per cento.

Ci è riuscito attraverso Gesù Cristo.

Per questo, Gesù è Buona Notizia per tutti gli uomini, perché corrisponde esattamente a tutto quanto gli uomini possano desiderare.


Chi vede e ascolta il messaggio sente nascere in sé un desiderio spontaneo:
come vorrei farne parte anch'io!
come devo vivere, che devo fare per parteciparvi?

La risposta è data dal discorso della montagna, in cui Matteo ha messo insieme tutto quello che Gesù disse di concreto, sull'esperienza e sul comportamento di quelli che si decidono a lasciare che Dio sia Dio nella loro vita e entrano, decisamente, a far parte del Regno di Dio.

Il discorso della montagna è l'espressione di quel bisogno di cambiamento radicale, che la presenza di Gesù annuncia.

Il discorso della montagna mostra fino a che punto l'uomo può arrivare, quando l'energia dell' Amore incomincia a trasformare effettivamente la sua vita.

Il discorso della montagna è espressione di quella luce che abbaglia e provoca, perché mette gli uomini a confronto con la loro coscienza e mostra loro la causa dei loro mali.

Perciò suscita le più contrastanti opinioni.

Il discorso della montagna manifesta il nuovo, che è entrato nella vita degli 'uomini, quando si aprono a Dio.

Espressione concreta della conversione che si opera in coloro che aderiscono a Gesù Cristo.

Nessuno riesce, con le sue sole forze, a osservare il discorso della montagna, come nessuno riesce, con le sue sole forze, a mettersi in contatto con Dio.

A che serve, allora, proporsi una cosa impossibile, che non sta in me osservare?

un paragone servirà a chiarire.

La nostra vita è come un'automobile, che decidiamo di comprare, e su cui sta scritto:

massima velocità 200 all'ora.
Il padrone si siede al volante e cerca di fare i suoi 200 all'ora, ma non ci riesce, neppure sul rettilineo, né in discesa, neppure se spinge a tutta forza l'acceleratore.

Non gli è possibile raggiungere la velocità massima, segnata dall'indicatore.

Se la macchina è fatta per 200 all'ora, al massimo arriva a fare 130 km. Così è la vita.

Il discorso della montagna segna la velocità massima della vita:

«essere perfetto come è perfetto il Padre che sta nel cielo» (Mt.
5, 48).

Noi, però, con tutta la buona volontà, anche se lanciamo la macchina a tutta velocità, anche se corriamo in quarta, lungo una discesa diritta e larga, si e no, arriviamo a fare 130 km orari.

Dobbiamo concludere che è proprio impossibile arrivare ai 200 km orari, indicati dal discorso della montagna.

Ma perché allora scrivere sulla macchina della vita:
velocità massima: 200 all'ora?

Il fatto è che, là dove Dio stesso entra nella vita dell'uomo e l'uomo si apre a Dio e si mette in contatto con Gesù Cristo, aderendo a Lui, solo a questo punto, per così dire, l'uomo scopre che la sua macchina possiede una quinta marcia, che gli permette di correre più veloce di prima e arrivare, finalmente, ai 200 km orari.

Dentro di noi uomini, esistono possibilità e forze addormentate, che neppure noi conosciamo.

Dio, che ci conosce fino in fondo, quando entra nella nostra vita, riesce a portare l'uomo al massimo delle sue possibilità.

Quello che, umanamente parlando, sembrava impossibile - e di fatto lo era, in modo assoluto - proprio questo diventa possibile e reale.

Cose del genere succedono tutti i giorni.

Una semplice amicizia può far si che una persona scopra, dentro di sé, forze e possibilità che gli erano del tutto sconosciute e che non avrebbe scoperto mai se, nella sua vita, non fosse sorta quell'amicizia.

A contatto con Cristo, amico, ossia, entrando nel Regno di Dio, l’uomo perfora il fondo roccioso della sua coscienza e scopre, dentro di sé, nuovi strati di petrolio, che generano nuova e ignorata energia.

La vita intera si mette in moto e prende un senso nuovo.
Si crea un ambiente nuovo.

Il discorso della montagna appartiene a questa nuova vita.

Dentro questo ambiente siamo capaci di leggerlo, spiegarlo e capirlo, perché solo là può essere vissuto.

Chi resta fuori di questo ambiente, non ci capisce niente e sbaglia sempre nelle sue opinioni, come fecero i giudei, a rispetto di Gesù.

Ci sembra, quindi, assurdo esigere l'osservanza del discorso della montagna, da parte di chi non sa chi sia Gesù Cristo, da parte di coloro per i quali s. Antonio e Gesù Cristo sono la stessa cosa, e Gesù Cristo è soltanto un'idea.

Solo chi ha conosciuto Gesù Cristo e ha aderito a Lui, ossia chi, di fatto, ha fede, può osservare il discorso della montagna.

Siccome un'amicizia infonde un certo dinamismo, la trasformazione che genera nella vita, le scoperte nuove che rivela e le nuove forze che sveglia, tutto ciò sarà pure progressivo e dinamico.

Il discorso della montagna non si osserva da un giorno all'altro.
È un programma di vita.

Esprime, in modo sempre più chiaro e definito, l'adesione interiore dell'uomo a Gesù Cristo.

Aderendo a Cristo, l'uomo apre una porta d'ingresso a Dio e, con la forza di Dio, la vita si trasforma, progressivamente, nei termini segnati dal discorso della montagna.


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