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Conoscere la Bibbia

Ultimo Aggiornamento: 10/04/2010 00:58
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Quelli che seguiranno sono dei commenti interessanti della Bibbia di Gianfranco Ravasi, tratti da "La Bibbia di Gerusalemme", ripercorreremo tutta la Bibbia a partire da Genesi.

1.Uomo dove sei?

Entriamo quindi nell’argomento. Come sempre, bisogna camminare attorno al testo, prima di entrarvi. Lo faremo in maniera però molto semplice, quasi didattica, tenendo presente che ora io devo offrire alcuni strumenti essenziali per cominciare ad entrare in questo testo ricchissimo, particolarmente carico e connotato.

Prima considerazione: io ho messo come titolo la domanda: "UOMO, DOVE SEI?", non "ADAMO, DOVE SEI?". Questa considerazione è indispensabile perché siamo troppo abituati da una tradizione che ci sta dietro le spalle, a considerare questi primi tre capitoli della Genesi come i capitoli di ADAMO. E Adamo è lontano da noi, è troppo lontano. Cercheremo di parlare anche di questo ipotetico Adamo: Chi esso sia secondo la scienza; potremmo fare un cenno anche a questo problema. Però questo problema, tutto sommato, è marginale. Il protagonista che la Bibbia ci presenta, non è questo ADAMO, lontanissimo nel tempo e nello spazio.
Se guardiamo con attenzione il testo biblico, non siamo legittimi a tradurre così. E giustamente la Bibbia, nella versione della CEI, ha voluto evitare che si introduca questo nome proprio, Adamo. Perché in ebraico c’è una parola che è frutto della fusione di due elementi: un articolo (in ebraico l’articolo è ha) e un’altra parola: ‘adam. Questa è una parola che probabilmente si ricollega alla radice , anche al colore della terra d’oriente, un colore di fanghiglia, rossastro. Quindi abbiamo più corretta è semplicemente L’UOMO.
Naturalmente l’UOMO in questione è agli occhi dell’autore una persona sola, un singolo, è la tipizzazione di una condizione. In Adamo ci rispecchiamo tutti. Ecco che quell’uomo non ha un nome: Adamo, cioè egli si chiama L’UOMO PER ECCELLENZA. E io direi che lo potremmo scrivere con la “U” maiuscola. Dobbiamo anche qui richiamare quella fulgidissima e tanto ripetuta dichiarazione attribuita a Pascal:

"Adamo è mio padre, sono io, ed è mio figlio"

Adamo è questo filo ininterrotto genealogico: Là dove sulla faccia della terra appare l’umanità, là abbiamo Adamo.
E allora questa storia non è così lontana né riguarda un personaggio assolutamente remoto, collegato a noi con un filo così esile, da essere quasi irrilevante. Si tratta invece di noi; la questione è nostra; il protagonista è quel primo uomo, ma anche l’ultimo uomo. E’ un po’ quello che avviene sulla scena di un teatro quando appare un personaggio, il quale magari ha un nome e cognome, però in realtà quel personaggio non ha volto, perché riflette migliaia di altre persone e situazioni. E’ suggestivo che nel teatro greco si impedisse che gli attori fossero riconosciuti. Essi recitavano con la maschera, perché rappresentavano non il tale attore, ma quel tale personaggio, essi rappresentavano continuamente l’eterno risplendere dell’uomo, l’eterno piangere e ridere dell’uomo.
Ritroviamo allora questo vero protagonista. Leggeremo una nostra autobiografia, non una paleo biografia, ma avremo davanti a noi un attore che continuamente è sotto le nostre mani perché sono le stesse nostre mani.
A questo proposito vorrei riferirmi a un film che è stato presentato nel 1984 alla mostra di Venezia. E’ un film ungherese, il regista si chiama Adras Jeles, il titolo è Annunciazione. La fonte del film è un grande poema dal titolo emblematico: La tragedia dell’uomo, opera di un autore ungherese, composto nel 1861. L’autore si chiama Irme Madach. Questo film è recitato – e questo forse è un vero e proprio simbolo da decifrare – tutto da bambini tra gli 8 e i 12 anni.
Protagonista è naturalmente Adamo – il quale dopo essere stato creato, uscito dalle mani di Dio, entrato nel mondo, una sera, dopo aver vissuto con la sua donna, è colpito da un sonno profondissimo, e in questo sonno il tentatore gli fa vedere, come in una specie di filmato sul futuro, tutto ciò che egli sarà. Questo Adamo, generando, sarà Milziade, sarà Tancredi, sarà Danton, sarà anche tutti i dittatori della storia. Adamo – ed è questa la tentazione – vedendo il prodotto che egli risveglia, Lucifero ha raggiunto veramente il suo scopo.
Adamo decide di suicidarsi; uccidendosi finalmente libererà questa terra dalla miseria dell’uomo. Ma prima di compiere questo gesto, egli guarda per l’ultima volta la sua donna, e guardando Eva, egli si accorge che Eva è già incinta. Ed è questo il messaggio di speranza – forse per questo affidato ai bambini – che fa sì che Adamo decida di vivere anche lui e di correre questo rischio della storia.

Ora direi che nell’interno di questo film c’è un po’ la parabola anche del libro Genesi, di questi capitoli che noi leggeremo; è un po’ il messaggio sceneggiato di queste pagine che presentano l’uomo in tutta la sua terribile, sconfinata, sconcertante miseria e in tutta la sua grandezza.
L’autore esprime questo dato attraverso una serie di immagini che noi decifreremo. Sono immagini che purtroppo sono state così inflazionate da diventare quasi come una specie di testo ironico. In realtà per l’autore antico erano immagini particolarmente sanguinanti e drammatiche che significavano la distruzione che l’uomo continua a creare. Potremmo dire che da queste pagine emerge un uomo che è quello tante volte dipinto dalla Bibbia.
Io vorrei adesso, attraverso la Bibbia, rifare il ritratto dell’Uomo – che poi ceselleremo quasi fin nei particolari, col testo di Genesi 3 – con la testimonianza di un autore al di sopra di ogni sospetto, un autore biblico, ottimista, abbastanza sereno, anzi, compassato, il quale vede il mondo soprattutto some un tessuto di armonie, un uomo che tutto sommato è più sul versante dell’illusione che non della delusione. Questo autore è il Siracide, vissuto nel II secolo a.C. Ascoltiamo alcune battute del suo libro dal c. 40, 1-11; è un ritratto dell’uomo, nel quale, io penso, ci ritroviamo tutti, e ritroviamo soprattutto la storia di secoli e secoli di umanità.

"Una sorte penosa è disposta per ogni uomo,
un giogo pesante grava sui figli di Adamo
dal giorno della loro nascita dal grembo materno
al giorno del loro ritorno alla madre comune.
Materia alle loro riflessioni e ansietà per il loro cuore,
offrono il pensiero di ciò che li attende
e il giorno della fine.
Da chi siede su un trono glorioso
Fino al misero che giace sulla terra e sualla cenere;
da chi indossa porpora e corona
fino a chi è ricoperto di un panno grossolano,
non c’è sdegno, invidia, spavento, agitazione,
paura della morte, contese, liti.
Durante il riposo nel letto
Il sogno notturno turba le sue cognizioni.
Per un poco, un istante, riposa;
quindi nel sonno, come in un giorno di guardia,
è sconvolto dai fantasmi del suo cuore,
come chi è scampato da una battaglia.
Mentre sta per mettersi in salvo, si sveglia,
meravigliandosi di questo timore irreale.
E’ sorte di ogni essere vivente, dall’uomo alla bestia,
ma per i peccatori sette volte tanto".

Ed ecco questa sorte, un rosario di iniquità, di miserie:

"Morte, sangue, contese, spada,
disgrazie, fame, calamità, flagelli.
Questi mali sono stati creati per i malvagi,
per la loro casua si ebbe anche il diluvio.
Quanto è dalla terra, alla terra ritorna;
quanto è dalle acque rifluisce nel mare".

Una vita piena di amarezza, piena di miseria e di tristezza, Ecco, questa lettura così aspra dell’esistere d’altra parte è continuamente confermata anche dalla nostra esperienza.
Però nell’interno di queste pagine, noi ci incontriamo anche con lo splendore dell’uomo. Se un capitolo, il terzo, è dedicato al peccato, due sono dedicati alla felicità e alla gioia. L’uomo è prima di tutto possibilità di splendore, è prima di tutto meraviglia.
Nella tradizione coranica, si descrive in maniera molto poetica, qual è stato il peccato dei demoni, Iblis. Egli era prima un grande angelo proteso alla lode di Dio, ma fu condannato e precipitato negli abissi perché si era rifiutato di riconoscere che l’uomo è ancora più bello degli angeli, è ancora più mirabile.. Non aveva avuto onorare quest’opera mirabile della creazione di dio. Quindi c’è, e nella Bibbia lo vediamo continuamente – pensiamo soltanto al Salmo 8:

"Tu l’hai fatto di poco inferiore a Dio".

C’è questo amore continuo per la grandezza dell’uomo, per lo splendore della sua vocazione, per le meraviglie che egli può creare. L’uomo è meraviglioso, anche in quella componente che consideriamo così fragile, che vediamo sottoposta ininterrottamente alla tempesta del tempo: IL CORPO. Vediamo infatti che quest’uomo entra in scena anche con la meraviglia del suo essere corporeo, del suo essere maschio e femmina. L’uomo è anche bellezza concreta, sperimentale. Vorrei richiamare dal Cantico dei Cantici un testo che dipinge la bellezza dell’uomo, del maschio, tenendo presente il bellissimo canto parallelo sul corpo della donna (Cantico c. 4).

Il suo capo è oro, oro puro,
i suoi riccioli grappoli di palma,
neri come il corvo,
i suoi occhi come colombe
su ruscelli d’acqua;
i suoi denti bagnati nel latte,
posti in un castone.
Le sue guance come aiuole di balsamo,
aiuole di erbe profumate;
le sue labbra sono gigli,
che stillano fluida mirra.
Le sue mani sono anelli d’oro,
incastonati di gemme di Tarsis.
Il suo petto è tutto d’avorio,
tempestato di zaffiri.
Le sue gambe, solonne di alabastro,
posate su basi d’oro puro.
Il suo aspetto è quello del Libano,
magnifico come i cedri.
Dolcezza è il suo palato;
egli è tutto delizia!
Questo è il mio amato, questo è il mio amico,
o figlie di Gerusalemme>
(Cantico dei Cantici 5, 10ss)

Questa è contemplazione della bellezza fisica. Pensiamo che cosa può essere la bellezza interiore, la grandezza del genio umano!

Fine prima parte, segue...
[Modificato da mauro.68 06/03/2010 00:22]

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Seguiremo con interesse il seguito.

Franco


“Quando si vuol cercare la verità su una questione
bisogna cominciare col il dubbio.
(S. Tommaso d’Aquino)”

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Seconda parte: Genesi.

2. MITO, STORIA, SAPIENZA, LETTERATURA.

Seconda considerazione: abbiamo detto che protagonista è l’uomo, nostro primo capitolo: MITO, STORIA, SAPIENZA, io ne aggiungerei un altro: LETTERATURA. Abbiamo un testo che studia l’uomo, che cerca di sondare i segreti del cuore dell’uomo. Sappiamo che ci sono parecchie strade per sondare i segreti dell’uomo.

1. Il mito

La prima strada è la strada più evidente e più antica, usata costantemente dall’umanità: quella del MITO, del mito simbolico. E qui una volta per tutte dimentichiamo quella superficiale definizione del mito che lo equipara semplicemente a favola, o leggenda, o qualcosa del genere, per cui si ha sempre paura ad usare questo termine applicandolo alla Bibbia, perché sembra spregiativo. In realtà il mito è stato una delle grandi manifestazioni della cultura umana e soprattutto è stato la prima grande teologia.
Il mito, preso seriamente, è un modo per parlare del mistero quando questo mistero ha in sé un che ineffabile, un qualcosa che non può essere del tutto espresso con le categorie normali. E allora si ricorre alla forza del simbolo, forza che regge tutti coloro che vogliono penetrare nel mistero.
Ecco allora, anche nella Bibbia, l’uso di miti. La Bibbia si muove proprio partendo da una serie di ricerche “mitiche” che erano state fatte nell’antichità.
Io adesso vi citerò solo alcuni di questi grandi miti. Nell’interno della Bibbia questi miti si vedono quasi in radiografia. La Bibbia li ha presi, li ha trasformati, qualche volta ha anche cancellato i loro elementi negativi e li ha riproposti.
Possiamo dire perciò che nella Bibbia converge la ricerca dell’umanità antica.
La Bibbia ci invita ad essere attenti ai grandi miti del nostro tempo, intendendo “mito” sempre nel senso scientifico del termine. Siamo invitati cioè a capire quei frammenti di verità grandi o piccoli che sono sepolti nei miti moderni, che sono le ideologie, la letteratura, la ricerca dell’uomo sotto i cieli più diversi. Siamo perciò come l’uomo della bibbia, attenti a queste riflessioni sul mistero dell’uomo.
La Bibbia, per esempio, dimostra di conoscere il famoso Enuma Elish, il celebre poema mitico dell’antico Vicino Oriente. L’Enuma Elish è un impasto di visione politeistica e immanentistica. Dio è frammentato ed anche disseminato nell’interno del terreno della storia, per cui alla fine è un Dio un po’ contaminato. Per questo la bibbia prenderà con cautela quest’immagine.
L’immagine però di questo mito dell’antica Mesopotamia la troveremo riedita dalla bibbia, con opportune ma decisive correzioni. Facciamo un esempio. L’uomo secondo l’Enuma Elish è creato proprio da una serie di terreni; sono argille, sono sabbie diverse. Il Dio trionfatore, il Dio creatore, Marduk, prende questa pasta debole, peritura, mortale, materiale e con essa costruisce la creatura.
Vedremo che anche la bibbia ripete questo simbolo per indicare la nostra fragilità, la parentela dell’uomo con la materia. Però ecco il salto: la Bibbia introduce un intervento particolare di Dio. Dio alita in questa pasta creata, in questa statua e lascia una traccia misteriosa.
Invece il dio dell’antico Oriente prende questa pasta e la miscela col sangue maledetto del dio Kingu, il dio ribelle, ucciso dal dio della creazione; per cui noi uomini abbiamo sempre nelle nostre arterie il sangue viziato, malato; l’uomo non può essere portato al male, è quasi l’interlocutore negativo di Dio.

Prendiamo invece un altro testo proveniente dall’altro estremo della cosiddetta Mezzaluna fertile, ossia l’antico vicino Oriente, culla della civiltà: l’Egitto. Nel c. I della Genesi sentiamo risuonare la frase: “Dio disse”, la parola di Dio che crea. Ora noi sappiamo che nella cosiddetta teologia di Memphis, la grande capitale egiziana, riteneva che il dio creatore creasse attraverso la forza della sua parola. Egli la lancia come se fosse un fulmine e la parola, il suo ordine crea.
Ecco una battuta di un testo egiziano da cui subito vedrete la diversità rispetto alla Bibbia:

“Ormai la voce risuonò, era la voce del dio Ptah, e questa voce divebbe cuore e lingua e ogni cosa. Per il suo discorso sono formate le cose, e tutte le cose portano dentro di sé il cuore e la voce di Ptah”.

Dio è entrato ormai, ed è imprigionato nell’interno dell’uomo; ormai tra Dio e l’uomo non c’è più distanza. Se la cultura mesopotamica metteva un abisso tra Dio e l’uomo, questa cultura invece, più di tipo immanentistico, ha cancellato le distanze: ormai l’uomo è diventato Dio e Dio l’uomo.
Da ultimo un testo che fa molto discutere e vi fa vedere come la bibbia ha ascoltato e vagliato il mito e la ricerca degli altri popoli.
Il testo viene dalla grande scoperta archeologica del nostro secolo (dal 1964 in avanti) fatta da italiani e che riguarda la città di Elba, una grande capitale della Siria. Uno studioso italiano, il prof. Matthiae, ha diretto gli scavi e un epigrafista, il prof. Pettinato, ha interpretato questo testo.
Ora vi leggo la versione discussa, in cui è possibile sentire un’eco molto evidente della narrazione biblica. La traduzione del testo sarebbe questa:

“Signore del cielo e della terra.
Non c’era la terra,
egli l’ha creata.
Non c’era la luce del giorno,
egli l’ha creata.
Non c’era la luce mattutina,
egli l’ha creata”.


Qui abbiamo quasi il muoversi, seppur diverso, del primo capitolo della Genesi. Se vogliamo anche nello stesso avvio dell’Enuma Elish (“Quando dall’altro”) possiamo sentire qualcosa che assomiglia ancora agli inizi della creazione stessa, così come è raccontata dalla Bibbia:

“Quando dall’alto il cielo non era ancora stato nominato,
e in basso non portava nome”.


E’ più o meno la stessa riga del c. 1 della Genesi. Però, sempre per quel principio secondo cui la Bibbia purifica dalle scorie questi miti antichi, ecco subito quello che il testo biblico non accetta:

“… fu allora… che gli dèi furono formati dal seno delle acque”.

Gli dèi vengono creati dal nulla, c’è anche per essi una creazione; essi non sono eterni.

2. La storia

Seconda parola: la storia. Evidentemente fino a non molto tempo fa molti pensavano, e forse qualcuno lo pensa ancora adesso, che queste pagine fossero la descrizione delle avventure del primo uomo, la registrazione storica di quello che ha fatto questo “signor Adamo”, che è vissuto, se stiamo all’ipotesi dell’australopiteco, 6 milioni di anni fa; o, se vogliamo, di quell’essere che cominciò ad avere un grado superiore di espressività umana qualche milione di anni dopo.

Ecco, questa convinzione ha fatto sì che la pagina venisse letta come una pagina di storia. Evidentemente non è possibile avere una pagina di storia parlando di quel primo uomo. La storia, di sua natura, suppone la documentazione da cui non si può prescindere e che nel nostro caso è ovviamente impossibile.
Allora noi dobbiamo dire che questa pagina biblica non è storica nel senso storiografico del termine; non ci vuole raccontare ciò che è avvenuto agli inizi; per cui dobbiamo lasciar perdere tutte le fatiche che fanno anche dei bravi scienziati cattolici, passati e presenti, per tentare di mettere d’accordo il testo biblico della creazione e vedere se c’è la possibilità di compatibilità col grande big-bang iniziale, con l’evoluzionismo o meno. Questi scienziati perdono il loro tempo, perché questo tipo di descrizione non è una descrizione scientifica, anche se usa un modello scientifico del tempo.
Si tratta di una storia in senso qualificato; è la storia esistenziale, è la verifica attraverso un procedimento a ritroso, partendo dall’orizzonte presente all’autore. L’orientale, guardando il suo orizzonte cerca di spiegarne il perché, risalendo alle origini.
Egli mette idealmente un punto di partenza, il quale sia come un riflettore che spiega tutto ciò che segue. Però quello che avviene nell’interno di queste pagine è ciò che avviene sotto gli occhi dell’autore di allora. Quell’uomo che viene descritto nei cc. 2 e 3 della Genesi è l’uomo ebreo del X sec. a.C., anche se la sua esperienza viene retroproiettata quasi agli inizi: se io prendo un inizio, io prendo tutta la catena della storia umana.

Io ora ho davanti le lacrime e le glorie dell’uomo, io devo spiegarle e allora cerco di spiegarle attraverso una riflessione che retroproietto, che sposto su quel punto di partenza ideale in modo che tutto l’uomo sia descritto e compreso oggettivamente. E allora non è la storia di un determinato tempo, è la storia che sempre riappare sulla faccia della terra. Questa pagina è una grande meditazione sull’uomo storico, così come sempre entra in scena sulla faccia della terra.

3. La sapienza

Terza parola: la sapienza. Gli studiosi hanno chiamato queste pagine “sapienzali”. La sapienza è una specie di atteggiamento fondamentale che l’uomo della Bibbia assume nei confronti dell’essere, del reale. E’ la vera e propria filosofia, è la vera e propria teologia. La Bibbia in queste pagine non vuole rispondere alla domanda: quando è avvenuto questo? Come è avvenuto questo? Ma in queste pagine la Bibbia vuole rispondere ad un’altra domanda: che senso ha tutto questo?
Allora la domanda fondamentale, la domanda di struttura è quella che vuole sviscerare il senso delle cose: abbiamo una direzione nella vita, nel nostro esistere? Come siamo nel nostro interno profondo? Che senso ha l’uomo? Che senso ha il mondo?

Queste sono le domande della sapienza di Israele, le domande penultime e ultime. Solo le domande penultime concernenti tutti i problemi concreti: perché c’è il vestito? Perché c’è la fatica nel lavoro? Perché le doglie del parto? La Bibbia si preoccupa anche di rispondere a queste domande molto penultime.
La Bibbia si interroga: perché esiste la violenza sessuale? E cerca di risolvere il problema con una spiegazione che tutto sommato è ben attendibile anche ai nostri giorni. E ancora: perché nel mondo c’è questa dicotomia, questa antitesi continua, questa ostilità tra la natura e l’uomo? La natura si ribella all’uomo e l’uomo la usa in una maniera ingiusta.

Perché l’uomo è tentato? Perché l’uomo, che pure ha tutto, è insoddisfatto? Perché l’uomo che ha davanti a sé tutto l’orizzonte del cosmo, è scontento alla sera di questa avventura e vuole ancora qualcos’altro?
Che senso ha il matrimonio? Che senso ha il fatto che noi sentiamo Dio lontano? E che senso ha invece sentirlo vicino, che passeggia con noi la sera? O sentirlo invece laggiù separato da una frontiera invalicabile, con delle guardie impossibili?

Queste sono le domande fondamentali della storia, della filosofia, della teologia; sono le domande dell’uomo, che è apparso e che apparirà sulla faccia della terra, appena comincia ad avere un bagliore, o appena si ferma un istante e si interroga sul “perché”, sul “che senso ha tutto questo?”.

4. La letteratura

L’ultima parola: la letteratura. Noi abbiamo davanti due capitoli, non tre: dobbiamo nettamente distinguere il c. 1 dai cc. 2 e 3. Più esattamente il c. 1 va fino al c. 2 versetto 4°; poi comincia un’altra mano. E’ proprio come se due autori si sedessero ad un tavolo e componessero due diversi ritratti della stessa persona, da due angolature differenti. Sono autori molto diversi. Uno è giovanissimo; ha un’esperienza tutta particolare, ha avuto grandi avventure ed ora è tornato alle sue origini, vuole ritrovare ancora le radici di se stesso. E’ pieno di desiderio, pieno di ottimismo; vuole rivedere tutte le meraviglie che stanno dietro alle sue spalle. Questo autore in realtà è una tradizione, è detto convenzionalmente il sacerdote, la TRADIZIONE SACERDOTALE.
La tradizione sacerdotale è fiorita attorno alla fine del VI sec., quando gli ebrei avevano vissuto l’esperienza tragica, drammatica dell’esilio di Babilonia e stavano preparando il grande rientro in terra. Ho detto che è una figura giovane, è una persona dispersa, sbandata, è andata a finire lungo i fiumi di Babilonia e ora vuole ricomporre la sua identità, vuole sapere chi è, si dipinge. Ecco il primo capitolo della Genesi.
Dall’altra parte abbiamo invece l’uomo molto più antico, molto più glorioso, una figura monumentale; è la TRADIZIONE chiamata JAHVISTA, perché usa il nome sacro, impronunciabile JHWH del Signore, il nome specifico di Dio.
Questa tradizione è fiorita quando in Israele c’era lo splendore di Salomone, ne X sec. a.C. Quest’uomo appartiene agli intellettuali di Salomone, rappresenta quel gusto di conoscenza, di approfondimento, di scavo della realtà che aveva Salomone. Ebbene, quest’uomo presenta, con quello scetticismo che è proprio degli intellettuali, la figura dell’uomo: da un lato l’uomo in tutta la sua grandezza, in tutte le sue potenzialità (c. 2); dall’altro l’uomo con tutte le sue miserie (c. 3).

Abbiamo quindi due penne diverse, due tradizioni lontane secoli, le quali si interessano sempre all’unico uomo, allo stesso personaggio. Quest’unico uomo, quest’unico personaggio si chiama Adam, “l’uomo”. E allora mito, storia, sapienza, letteratura, tutte sono al servizio per “conoscerci”, non semplicemente per “conoscerle”, questo lontano, strano uomo.

Ed eccoci all’ultima brevissima considerazione. Questi capitoli della Genesi da sempre suscitano interesse, e lo suscitano anche ai nostri giorni. Potremmo perciò fare una lista di dati che creano interesse nella cultura anche contemporanea, tutte le volte che si sfogliano queste pagine. Perché nell’interno di queste pagine l’uomo si accorge che la bibbia vuole dirgli qualcosa, e questo qualcosa per i credenti è sigillato dalla rivelazione. La sapienza, il mito, la storia, la letteratura portano in sé non soltanto la ricerca dell’uomo, ma anche il mistero della rivelazione di Dio. Ed è per questo che credenti e non credenti si orientano verso queste pagine, anche perché esse sono di solito lette come le pagine della protostoria o della paleoantropologia, sono sempre le pagine di un inizio. E noi sappiamo che l’uomo quando appare sulla terra è sempre un inizio, e quando noi iniziamo una giornata facciamo sempre un inizio nella creazione.

Nel 1984 è uscito un romanzo di un famoso romanziere americano ebreo, Bernard Malamud, che ha avuto un grande successo negli Stati Uniti – da noi è uscito da Einaudi col titolo Dio mio, grazie. E’ la storia di uno scienziato che sopravvive casualmente a un cataclisma nucleare planetario, e sopravvive con una scimmia.
E comincia a ricomporre la nuova umanità. Il messaggio è tutto ritmato, talora ironicamente, altre volte drammaticamente, su quella trama biblica che noi leggeremo. Solo che questo autore non ci permette nessuna parola di speranza: vinceranno le scimmie, e le scimmie faranno sull’uomo una specie di rito sanguinolento, dopo che esse saranno state riportate all’”umanità”. L’uomo nuovo, nato da questa scimmia, ritorna ad essere ancora l’uomo vecchio, l’uomo che celebra solo gli olocausti, che ama soltando grandi riti di sangue.
Abbiamo iniziato con la lettura visiva di un regista. Dovremmo però idealmente leggere la bibbia, e leggere quindi questa pagina dalla Genesi, anche con l’ascolto di un musicista. Pensiamo, allora a Haydn, e al suo oratorio: La creazione. Ecco, proviamo a vedere che cosa può dire la pagina biblica attraverso la rimeditazione di una musica. Perché questa pagina è anche musica.

Io vorrei avere la capacità della poesia in qualche momento, per potervi descrivere lo stupore della nascita dell’uomo, come la descrive la tradizione jahvista, o come il Cantico dei Cantici descrive lo stupore con cui l’uomo in quella mattina si sveglia trovando la sua donna. O ancora ritrovare quell’entusiasmo che in narratore “giovane”, quello della tradizione sacerdotale, ha nel guardare il mondo che si sta formando, il mondo creato, con tutte le sue meraviglie che vanno dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo.
Vorrei che ci fosse la possibilità di studiare anche l’uomo attraverso l’occhio scientifico, l’occhio della paleoantropologia, l’occhio della cosmologia, un occhio freddo magari, che cerca di studiare meccanismi di cui noi siamo testimoni, ma che un po’ ci sfuggono.

Attorno alla Genesi, che non è libro di scienza, che non è pagina di poesia né di storia soltanto, ma che è studio dell’uomo, dovremmo fare confluire molte voci.
Allora l’invito che io vi rivolgo è quello di cominciare da soli, co una lettura modesta ma paziente. Potremmo idealmente immaginare che questo testo ci sia noto. Tentiamo, però non soltando di conoscerlo con quell’impressione lontana che si ha fin da bambini, quando ci si raccontava questo brano come se fosse un testo pieno di curiosità, un testo tutto sommato mitico nel senso deteriore del termine. Proviamo a identificare da soli – lasciando che il testo parli – qualcuno di questi simboli che affiorano continuamente; proviamo già a far sì che questo testo ci interroghi, e poi insieme pazientemente lo scaveremo e vedremo che cosa correttamente ci deve dire.
Esso ci deve dire una cosa fondamentale: chi è l’uomo; ci deve correttamente spiegare chi noi siamo e perché noi siamo così.


Fine seconda parte, continua...

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Parte terza: Genesi

Le tre grandi armonie della tradizione jahvista (2)

“Allo spiare della brezza serale”

Iniziamo ora la lettura diretta del testo della Genesi.
Il titolo che è stato scelto è una citazione presa dal capitolo 3 del libro della Genesi, e usa, come spesso avviene nella letteratura biblica, un simbolo: lo spiare della pressa serale. L’immagine in realtà, secondo gli studiosi, deve essere ricondotta al mondo dell’Oriente, diversamente non è comprensibile.

1. L’involucro “scientifico” della Genesi

Immaginiamo uno dei grandi giardini che sono descritti attorno ai palazzi reali d’Oriente. In esso verso la sera, quando il calore del sole si è attenuato, entra il grande signore, il visir, il quale fa il suo giro nell’interno del suo parco. Durante questo momento dolce, delicato, si affollano attorno a lui gli alti funzionari, i dignitari del palazzo, i quali lo intrattengono. Possono essere musicisti, poeti, possono essere anche semplicemente dei consiglieri. Comincia così la trama di dialogo che tante volte è al centro delle novelle delle Mille e una notte.

Ebbene, l’immagine ora viene ritrascritta, anche se evidentemente il mondo è forse molto più lontano di quello che noi possiamo ricostruire attraverso il contributo della letteratura araba. E’ idealmente il mondo dei grandi parchi e dei grandi giardini pensili di Babilonia. Lo scrittore della tradizione denominata dagli studiosi come “jahvista” ama molto, in questa pagina, usare i simboli vegetali.

Nell’interno del giardino egli immagina che il grande signore, quasi come fosse il gran re, scenda per dialogare con i suoi sudditi privilegiati. Il Signore passa la sera, allo spirare della brezza, ad incontrare l’uomo e la donna.

Questo sfondo, anche se appartiene al c. 3, è forse il più luminoso, il più caratteristico, e adatto ad esprimere al meglio l’atmosfera del c. 2. Un’atmosfera di pace e di serenità, proprio come alla brezza della sera quando il sole allunga ormai le ombre. In quel momento, il momento del tramonto, l’uomo si incontra con Dio. Ma se l’incontro tutte le altre sere era un incontro dolce e silenzioso, quella sera l’incontro sarà drammatico, sarà anzi uno scontro.
Ora su questo fondale sereno, comincia la narrazione dello scrittore. Ricordiamo lo scrittore giovane e lo scrittore antico, la tradizione sacerdotale e la tradizione jahvista. Noi consideriamo la prima tradizione, cronologicamente parlando, quella “jahvista” dell’epoca salomonica, del X sec. a.C. che fissa davanti a questa immagine e comincia la sua riflessione.
Non siamo di fonte alla cronaca di un evento lontanissimo nel tempo, ma siamo di fronte ad una riflessione, ad una meditazione di tipo sapienziale, quasi di tipo filosofico-teologico, naturalmente costruita con la strumentazione che il semita usa normalmente: i simboli. Il linguaggio della poesia ed il linguaggio della teologia devono sempre ricorrere a queste immagini onnicomprensive, che noi poi, con la nostra analisi, dobbiamo lentamente spezzare.

1. Queste pagine non parlano di scienza.

Ma prima di entrare nella lettura, vorrei fare una digressione naturale, attesa. C’è sempre la tentazione di considerare le pagine bibliche come delle pagine che parlano anche di scienza.
Queste pagine hanno certamente un involucro scientifico e hanno certamente nell’interno un nucleo teologico. Ma l’involucro è quello della scienza del tempo. La cosmologia del tempo, sappiamo che era fissista: allora era assolutamente inconcepibile qualsiasi teoria evoluzionista; era assolutamente iconcepibile qualsiasi ipotesi poligenica: la cosmologia era geocentrica e vedeva tutto il grande universo centrato sull’asse del nostro piccolo pianeta. Era una visione – come si usa dire tecnicamente – eziologica, che cercava cioè di scoprire le cause segrete nell’interno dell’universo attraverso dei procedimenti più filosofici che non scientifici in senso stretto.
Per cui noi abbiamo una superficie scientifica; ci sono delle indicazioni legate alla scienza di quel tempo, la scienza dell’Oriente; ma naturalmente una scienza caduca per noi moderni; anche per lo stesso autore essa è soltanto uno strumento per cercare di sviluppare la sua riflessione antropologica, la sua riflessione sull’uomo. In maniera sintetica, possiamo dire che questa pagina non è una pagina paleantropo logica; in essa la paleoantropologia scopre poco, al massimo scopre che cosa si pensava allora; non certo un insegnamento della Bibbia sull’uomo; in questo senso è una pagina antropologica. E allora, dobbiamo abbandonare l’idea di usare questo testo tentando di metterlo d’accordo con tutte le attuali rilevazioni scientifiche.
Queste rilevazioni scientifiche, come non possono dire molto sul mistero ultimo dell’uomo, anzi non dovrebbero pronunciarsi sul segreto ultimo dell’uomo, dato che esse ne esaminano soltanto le strutture esteriori, dall’altra parte non possono assolutamente essere comparate con un testo che ha un’altra provocazione da offrire, un altro orientamento da indicare.
Per cui è un po’ ridicolo l’uso che si fa qualche volta di queste pagine in chiave scientifica. E’ il cosiddetto “concordiamo”: cercare di spiegare le ère geologiche ricorrendo ai sei giorni della creazione; cercare di trascrivere così i primi tre versetti della Genesi, come fa Isaac Asimov nel libro In principio pubblicato da Mondadori nel 1981:
“I primi tre versetti della Genesi si potrebbero parafrasare così: all’inizio, 15 miliardi di anni fa, l’universo consisteva in un nuovo cosmico, privo di strutture, che esplose in un’immensa esplosione di energia…
Oggi che la terra è stata esplorata da cima a fondo, sappiamo che il paradiso terrestre non c’è; ma chi non vuole rinunciare a questa ipotesi, può sempre sostenere che è stato trasferito in cielo, o che magari esiste tuttora sulla terra, ma, grazie ai cherubini che lo difendono, è invisibile a occhi umani”.


Invece ascoltiamo due testimonianze ben diverse, testimonianze lontane tra di loro nel tempo e anche lontanissime dal nostro tempo, ma estremamente illuminati.

La prima la traggo dal De Genesi ad litteram di s. Agostino, libro 2, c. 9, n. 20:

“Non si legge nel Vangelo che il Signore avrebbe detto: Vi mando il Paraclito e vi insegnerà come vanno il sole e la luna. Voleva formare dei cristiani, non dei matematici”:

E l’altra invece è una testimonianza più curiosa. E’ una lettera che uno dei grandi padri della scienza moderna, Galileo, indirizza all’abate benedettino pisano Castelli:

“Io crederei che l’autorità delle sacre lettere avesse voluto solamente la mira a persuader agli uomini su quegli articoli e proposizioni che essendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza, né per altro mezzo farcisi credibili che per bocca dell Spirito santo”.

Il tema di questa analisi rigorosa sarà ribadito da Galileo in una lettera anche alla duchessa Cristina di Lorena. Dunque è chiaro: da un alto c’è la via della scienza, e dall’altro c’è una via, un canale di comunicazione che può essere solo dello Spirito. Quando noi entriamo nel mistero profondo dell’uomo, abbiamo bisogno dello Spirito: da lui dobbiamo farci guidare.
Ed ecco, allora, davanti a noi il testo.


Fine terza parte, continua...

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Quarta parte: Genesi

2. La “scienza” della Genesi

Prima di entrare in quel messaggio antropologico, teologico, filosofico, sapienziale, possiamo definire qualche traccia di quel famoso involucro, cioè della rappresentazione molto primitiva, ma scientifica per quel tempo, dell’universo e dell’uomo? Si, e scegliamo subito un paragrafo che potrebbe essere comparato ad una mappa, ad una carta geografica del mondo allora conosciuto. E’ una pianta idrografica perché, com’è ovvio, per l’orientale ciò che specifica il mondo sono i fiumi, molto più dei monti, della orografia, molto più delle città. Laddove c’è il fiume, c’è la vita.
Naturalmente il mondo è delineato da quattro punti cardinali. E allora i fiumi dovranno essere necessariamente quattro, e vengono centrati su quel luogo nel quale l’autore vuole mettere in scena la vicenda dell’uomo.
Sul testo gli studiosi hanno molti problemi da decifrare: esattamente quasi tutti i dati del testo.
Due fiumi sono i fiumi popolari della Bibbia, quei fiumi che costituiscono tante volte lo sfondo in narrazioni oppure in oracoli dei profeti. Gli altri sono fiumi misteriosi. Gli studiosi si sono divertiti a identificarli e hanno spaziato dal Nilo al Gange. Ma lasciamoli così, nella mente dell’autore che guarda la sua carta geografica, descritta in Gen 2, 10ss:

“Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva
E formava quattro corsi. Il primo si chiama Pison: esso scorre
Intorno a quasi tutto il paese di Avila, dove c’è l’oro e l’oro di quella terra è
Fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’onice. Il secondo fiume si chiama
Ghicon; esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. Il terzo
Fiume si chiama Tigri, esso scorre ad Oriente di Assur. Il quarto fiume
È l’Eufrate”.


L’autore ha descritto la mappa del mondo. Gli orientali immaginavano la terra come una piattaforma sostenuta da colonne erette sul grande abisso caotico. In pratica il mondo è un’architettura sospesa nel vuoto. Il Vuoto tenta sempre, la Bibbia lo dice con immagini molto belle, di poter demolire l’essere. Quindi nel mondo nel quale noi siamo sospesi, l’uomo vive quasi sempre a un punto di mezzo fra il nulla e l’essere: questa è l’esperienza della fine, della morte, del limite; è l’esperienza della limitazione del creato.

2. LA COSMOLOGIA DELLA GENESI

Prima scena: il testo comincia al versetto 4b del c. 2. La divisione in versetti è una cosa tante volte puramente entriseca e posteriore. Al di là del fatto che gli studiosi dicono che in questo punto comincia la tradizione jahvista, si potrebbe sospettare che l’inizio è qui, perché proprio qui abbiamo una delle forme introduttorie classiche delle antiche cosmologie del mondo orientale. Ricordiamo quel testo classico della cosmologia dell’antico Oriente, un testo delizioso per molti aspetti, costruito con estrema finezza poetica; un testo mitico appartenente alla mitologia che abbiamo cercato di riscattare. Quel testo che abbiamo già citato si intitolava in accadico Enuma Elish, che vuol dire letteralmente: “quando dall’alto”.

Le cosmologie cominciavano sempre con un “QUANDO” che comprendeva la descrizione del nulla, del vuoto, della non-esistenza. Questo “quando” ha dopo di sé l’azione, l’irruzione di Dio, il Creatore.

Ecco, adesso, noi abbiamo la descrizione di questo “quando” e del “poi che ne consegue. Ma per capire bene quale tesi l’autore vuole presentarci, proveremo, a dare prima di tutto uno sguardo d’insieme al capitolo.

1. L’ìncontro con Dio, con gli animali, con il suo simile

Questo capitolo è scandito su tre momenti diversi. Abbiamo innanzitutto il primo momento nel quale avviene una congiunzione, l’incontro di due poli lontani che piano piano si raggiungono: un incontro fondamentale.
Primo incontro: abbiamo DIO LONTANISSIMO e abbiamo la POLVERE DELLA TERRA. Tra questi due poli estremi passa un respiro, il respiro di Dio che fa unire in una specie di dialogo misterioso, che si chiama la creazione, anche se la Bibbia non usa qui questo termine, L’UOMO e DIO.
Il grande protagonista di questa pagina, che si chiama Adam, cioè “l’uomo”, è descritto con la sua prima relazione, col suo primo contatto con Dio.

Secondo quadro: ormai l’obiettivo si sposta sulla piattaforma della terra, ove l’uomo sta camminando e incontra davanti a sé un’altra realtà. Ancora una volta: l’uomo più alto e un’altra realtà più bassa entrano in contatto. Sono L’UOMO e GLI ANIMALI.
L’uomo li domina entrando in una specie di strano dialogo, quello del nome dato agli animali.

Terza e ultima scena: è la scena più gloriosa, descritta in una maniera più impressionante anche dal narratore che ne resta affascinato. Non è più un incontro dall’alto verso il basso o viceversa, è un incontro Ke-negdo, “alla pari”, come dice la Bibbia, cioè gli occhi negli occhi. Ormai l’uomo e la donna insieme. E questo incontro è un incontro anche sessuale; l’incontro completo, sereno, terminale, quello che porta finalmente la pace e la gioia nell’uomo.

Ora, entrando in questo primo movimento del racconto di Gen 2-3, facciamo la scoperta che queste tre relazioni sono descrizione autobiografica della storia di ogni uomo. L’uomo comincia a scoprire come CREATURA nei confronti dell’infinito; l’uomo scopre la SUA DONNA, cioè il SUO SIMILE. Tre grandi fondamentali relazioni che definiscono la vita in pochi elementi.
Tutte le altre relazioni oscillano o verso il primo verso o verso il secondo o verso il terzo rapporto. Cominciamo:

“Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre
Era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, poiché il Signore
Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva
Salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo; allora il
Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici
Un alito di vita e l’uomo divenne essere vivente” (2, 4b-8).


2. Il nulla: assenza dell’acqua

Vediamo gli elementi fondamentali. E’ una pagina non facile; anche il testo ebraico, in qualche punto, risente dell’usura del tempo, non è del tutto limpido. Ebbene, prima di tutto c’è una descrizione simbolica del nulla; una descrizione molto curiosa. L’orientale, come tutti sanno, non riuscirà mai a dire questa parola “nulla” e nella Bibbia riusciamo a trovarla solo quando si comincia a scrivere in greco, nei cosiddetti libri deuterocanonici. Soltanto nel Secondo libro dei Maccabei (7, 28) si riesce a formulare questa espressione “ex ouk onton”, “da ciò che non è”, Dio fece queste cose; è un’espressione legata però alla lingua greca.
L’orientale non riesce a concepire il nulla se non attraverso delle immagini e quelle qui usate sono molto curiose, molto significative. Ci presentano una lettura del mondo. Il nulla che cos’è? E’ quando non c’è l’acqua. Non c’era ancora l’acqua che faceva spuntare l’erba campestre: l’assenza dell’acqua fa sì che tutto il mondo sia come un deserto, quindi un nulla.
Paradossalmente l’altro autore, il sacerdotale; presenterà invece l’acqua come il simbolo del nulla. E’ la stranissima ambivalenza che nella Bibbia ha l’acqua; è la stranissima ambivalenza che sperimenta anche la persona quando ha davanti a sé una sete sconfinata, che la brucia e la porta alla morte e ha davanti a sé l’immensa distesa del mare. Le acque, salate e dolci, sono contemporaneamente acque tempestose e acque dissetanti. Per questo nella Bibbia si contrapporranno continuamente le acque caotiche, le acque della tempesta alle acque dolci.
A un certo momento si dirà in Isaia (c. 8): le acque dell’Eufrate, che rappresentano la superpotenza militare orientale, verranno su Giuda e raderanno al suolo tutto. Gerusalemme resterà con l’acqua alla gola, solo il suo cranio resterà fuori da questa inondazione immensa. Il caos, le potenze negative di questo mondo, sono rappresentate attraverso una simbolica acquatica.

Ma, dall’altra parte, continuamente nella Bibbia c’è l’esaltazione dell’acqua dolce, delicata, dissetante. Ancora Isaia, nel c. 8 sopra citato, continua: voi siete andati a cercare quest’acqua immensa e distruttrice e avete abbandonato l’acqua di Siloe (cioè l’acqua di Gerusalemme) che scorre leggera, l’acqua dolce, umile e semplice, segno della vita e dell’essere.

3. Il nulla: assenza dell’uomo

IL NULLA è rappresentato anche con l’affermazione che non c’era ancora chi lavorasse il suolo, chi irrigasse la terra: l’assenza dell’uomo. Si tratta di una lettura molto primitiva, ma estremamente successiva. La Bibbia considera questo molto diversamente, forse, da come siamo abituati noi; lo considera come un mondo triste se non c’è l’uomo. In seguito diremo che questo mondo è drammatico perché c’è l’uomo. Ma la Bibbia dice anche che questo mondo, se non avesse un occhio che lo guardi, se non avesse un uomo che lo trasformi, sarebbe un mondo triste. E’ il canto dell’uomo centro del creato, con tutti i rischi che comporta questo canto. Eppure la Bibbia lo ripete spesso: l’uomo è quasi come l’asse attorno a cui si dispiegano queste molte sillabe dell’essere che sono ai suoi piedi. Tutte le cose di questo mondo sono come delle parole cadute per terra, che aspettano l’uomo che riesca a coniugarle tra di loro e dare loro un senso.

Il mondo è insensato, è quasi coacervo di tante cose; diventa cosmo, cioè armonia, solo quando c’è l’uomo. Allora l’uomo è la prima creatura in assoluto: mentre nella narrazione sacerdotale è l’uomo è l’ultimo ad essere creato qui, nella tradizione jahvista, è il primo, evidentemente per un primato interiore.

Fine quarta parte, continua...


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Quinta parte: Genesi.

4. Il soffio di vita

Abbiamo ora un ritratto della relazione tra Dio e l'uomo che merita una particolare attenzione perchè è legato ad un'immagine molto profonda. Questa immagine è connessa al lessico ebraico; dobbiamo precisare un vocabolo, perchè nella traduzione forse questa parola ci scivolerebbe via senza gran significato.
Molti forse pensano che qui la Bibbia insegni l'esistenza dell'anima. In realtà la Bibbia non ha una grande preoccupazione di descrivere l'elemento particolare e spirituale che si contrappone o si coniuga con l'elemento materiale formando un'unità.
Questa è una versione greca.
Per la Bibbia esiste l'uomo in quanto tale, corpo e spirito non sono scindibili, esiste quello che è stato chiamato, nella stessa nostra narrazione "l'essere vivente". Quindi questo "alito di vita" così tradotto nella versione della CEI, questo soffio di Dio che entra nell'interno dell'uomo, è il segno più alto dell'uomo stesso. E allora dobbiamo conoscerlo.
Ma per conoscerlo dobbiamo prima di tutto vedere che l'uomo prende consistenza dalla terra, prende misteriosamente consistenza dalla polvere. Si tratta anche di un gioco di parole: l'uomo si chiama 'adam; e in ebraico la terra si dice 'adamà. Quindi l'uomo appare dalla polvere. Al di là del simbolo, questa immagine di Dio costruttore (il verbo in ebraico descrive l'operazione del vasaio che lavora il prodotto) è un'immagine plastica: Dio è come un costruttore, come un vasaio che crea una creatura legata alla terra.
Qui la Bibbia ci insegna, e sarà una tesi martellata continuamente contro tutte le tentazioni spirituali e angeliste, che l'uomo è corporeo, l'uomo è imparentato con la materia. Noi abbiamo un legame con la terra, la terra è veramente la nostra madre. L'essere troppo angelici, essere delle persone che cercano di dimenticare qualsiasi collegamento con la materia, con la terra, la spiritualizzazione esclusiva per cui esistono delle parti basse, delle parti inferiori nell'uomo, è un andar contro la coscienza biblica serena della nostra corporietà, della nostra materialità, e quindi anche della nostra finitudine.
Ma l'uomo che è polvere, terra, riceve la neshmah (e la parola ebraica è fondamentale). Ora, è curioso un dato: il vocabolo neshamah nella Bibbia ricorre 24 volte, e tutte le volte la neshamah è posseduta solo da due persone: Dio e l'uomo.

Da quanto si può vedere la neshamah è certamente collegata al respiro, all'alito di vita. Quindi la prima immagine è sempre quella che l'orientale guarda con stupore: quando uno respira è segno che è vivo. Nel geroglifico egiziano per indicare il termine nfr
si usa sempre il disegno della trachea e dei polmoni; nfr vuol dire "bello, buono" e tutto quanto c'è di positivo. Quindi abbiamo una descrizione di qualcosa che è anche visibile, sperimentabile.

Però che cos'è, in profondità, questa realtà che ha anche Dio, il quale non respira se non per simbolo, se non per antropomorfismo?
Per capire che cosa sia la neshamah, questa qualità che Dio ci ha donato e che ci permette di stare in contatto con lui, dobbiamo leggere un passo del libro dei Proverbi: c. 20, al versetto 27. Io ve lo leggo nella traduzione più letterale possibile.

"Lampada di Jahweh è la neshamah dell'uomo. Essa scruta tutte le camere oscure del ventre".

Che vuol dire questa immagine così barocca? I reni per la Bibbia sono i segni della passione, mentre il cuore è il segno della coscienza, e le viscere quello dell'emozione, dell'istintualità. Allora questa lampada entra e comincia a perforare la carne dell'uomo, e penetra sempre di più, sempre di più s'avanza e sempre di più scava quasi nelle gallerie più recondite dell'io dell'uomo; potremmo persino dire che arriva fino alle frontiere dell'inconscio, e lì lo illumina.

E allora che cosa sarà questa neshamah? Che cos'è questo dono mirabile che Dio ci dà e che egli solo possiede e che noi soli possediamo sulla faccia della terra, mentre gli animali hanno soltando lo "spirito?"
Potremmo usare tre definizioni che sono state date e che indicano tre diversi modi di descrivere questa realtà umana.

La prima è la traduzione, molto libera in realtà, però significativa, adottata da una Bibbia tedesca: autocoscienza.
Prendiamo un testo invece che è usato soprattutto nel mondo inglese, preparato da un'équipe di studiosi; una versione della Bibbia che non è ufficiale ma è molto diffusa. La traduzione è: il potere di introspezione.
Abbiamo, poi, la Traduction oecuménique del la Bible, francese, la quale tenta di rendere il termine così: se connaitre et se juger, "conoscersi e giudicarsi.
Perciò attraverso la neshamah abbiamo qualcosa che ci rende infinitamente superiori alle colossali relatà del mondo. "Tu l'hai fatto veramente, come dice dell'uomo il Salmo 8, di poco inferiore a Elohim", di poco inferiore a Dio stesso.

Fine quinta parte, continua...
[Modificato da mauro.68 21/03/2010 11:41]

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Sesta parte: Genesi

3: L'UOMO NEL GIARDINO

Secondo quadro, che incontriamo nei vv. 15 e 18-20:

"Il signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden perchè lo coltivasse e lo custodisse. Poi il signore Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile". Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo per vedere come li avrebbe chiamati; in qualunque l'uomo avesse chiamato ognuno degli essere viventi, quello doveva essere il suo nome. così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile".

Nel brano c'è una specie di inclusione, c'è una cornice: Dio vuole dare all'uomo un aiuto che gli sia simile; e alla fine, la malinconia constatazione: l'uomo non ha trovato un aiuto che gli sia simile.
Prima però c'è il v. 15: dopo essere stato creato, l'uomo viene posto nel giardino dell'Eden, il giardino mirabile della terra.

L'uomo deve fare due azioni: deve coltivarlo e custodirlo. Quanto è povera questa traduzione e quanto è difficile riuscire a tradurre in un'altra maniera, perchè l'autore, in modo molto raffinato, usa due verbi ebraici che sono ambigui. Il primo è il verbo 'abad e l'altro è il verbo shamar.
C'è un primo significato e un altro sottinteso. L'autore dice: l'uomo è entrato nel mondo per vivere la grande avventura della scienza. Egli deve lavorare e custodire la terra, organizzare il mondo. E' la grande avventura che è esplicita poi, quando l'uomo, come essere sapiente per eccellenza, conosce il nome degli animali, anzi dà lui il nome agli animali; gli animali quasi non esistono se non c'è l'uomo che li specifica.

Il nome, nel mondo semitico, è la realtà stessa. Se io ho in mano il nome di una cosa, è come se avessi in mano la cosa stessa; se io do il nome all'animale, io l'ho ai miei piedi; e io sono sul piedistallo superiore a tutte le cose di questo mondo, che io conosco e riesco a penetrare.

La lettura sapienzale dell'Egitto aveva, certe volte, dei lunghissimi papiri in cui si registravano soltanto i nomi delle cose. Il sapiente è colui che sa pià nomi perchè conosce, quindi, le essenze di più cose.

Ma i due vocaboli in ebraico sono usati anche per indicare l'accoglienza della legge di Dio, l'accoglienza dell'alleanza. il verbo 'abad vuol dire "servire Dio", il verbo shamar vuol dire "osservare i comandamenti". E allora l'uomo è stato messo sulla terra non solo per lavorare, ma anche per pregare; l'uomo è stato messo sulla terra anche per cercare un mistero ulteriore, cercare l'alleanza col suo Creatore. L'uomo vive contemporaneamente queste due esperienze: l'epserienza di Dio, del servire e dell'osservare e l'esperienza del lavoratore e custodire.

Ma ecco che giunto alla sera del secondo grande momento della sua esistenza, l'uomo improvvisamente si scopre infelice. Nonostanta avesse davanti a sé tutto lo splendore dell'universo, tutte le cose mirabili di questo nostro orizzonte, l'uomo non trovò una cosa che fosse sua pari. In ebraico abbiamo l'espressione Ke-negado che si potrebbe tradurre bene con "partner", ma che comunque vuole soprattutto indicare qualcosa che "sta di fronte".

L'uomo non ha qualcosa che gli stia di fronte. Ha gli animali; ma a lui non bastano. C'è una considerazione significativa sulla tristezza dell'uomo materiale, dell'uomo scientifico, dell'uomo intelligente; l'uomo che ha sensibilità, senso, l'uomo che ha coscienza, intelligenza, l'uomo che è tecnico, lavoratore, ha nelle mani tutte le cose del mondo, eppure alla sera è molto triste. Egli non ha l'aiuto che gli sta di fonte, non ha altri due occhi simili ai suoi.

Fine sesta parte: continua.

P.S.: Le ultime parti sono un pò brevi, ma ho poco tempo.

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25/03/2010 14:25
 
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Settima parte: Genesi

4. L'UOMO E LA DONNA

Ed ecco allora che comincia la TERZA PAGINA. Tra l'altro è curioso il fatto che Dio e il mondo non bastano all'uomo. Anche Dio!
Abbiamo visto che l'ha già incontrato, che lo può persino pregare; eppure l'uomo non è del tutto completo fino a quando non ha fatto anche quest'ultima esperienza. Un uomo solo religioso e un uomo solo tecnico non è ancora completo. Ci vuole qualcos'altro.
Il terzo elemento è descritto nella parte più bella, più dolce di questo grande canto. E' uno dei testi che mi auguro venga scelto dai giovani per il loro matrimonio.

Possiamo dire che questo è veramente il primo canto di amore dell'umanità, e sarà anche l'ultimo. Non sappiamo come finirà il mondo, ma possiamo immaginare che quando ci sarà quell'ultimo momento, supponiamo anche il momento drammatico di una catastrofe, ci saranno forse ancora due persone innamorate che si stringeranno la mano, e anche se non avranno più il tempo di dire una parola, quel gesto che essi faranno sarà ancora lo stesso gesto che ha fatto il primo uomo con la sua donna, quel gesto che continuamente si ripete, in ogni istante, sualla faccia della terra.

Sentiamo i vv. 21-25:

"Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolto all'uomo, una donnae la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse:
"questa volta essa
è carne della mia carne,
e osso delle mie ossa.
La si chiamerà donna perchè dall'uomo è stata tolta".
Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non provavano vergogna".


Per quelli che forse ancora non sono del tutto convinti che qui il protagonista non sia il primo uomo, ma l'uomo di tutti i tempi, quest'ultima frase è proprio una specie di controprova che li dovrebbe mettere in sospetto: evidentemente l'autore ha in mente il ciclo continuo degli uomini, padri e figli che continuamente vivono l'esperienza d'amore.

Riprendiamo l'immagine usata che è quella dell'architetto o dello scultore. Su questa costola quante banalità e anche quanta ironia inutile è stata versata nella storia! Soprattutto è stata una dei cavalli di battaglia dell'anti femminismo, proprio perchè ad essa si è sempre collegata una specie di dipendenza uomo-donna. Ora, tutto il resto e soprattutto il contasto hanno invece lo scopo ininterrotto di dimostrare che uomo e donna sono tutti e due sullo stesso fronte, sono entrambi veramente pari. E allora perchè si usa questa immagine?

Ci sono delle ragioni filosofiche che ci porterebbero verso le letterature dell'antico Oriente, verso la letteratura sumerica (in essa ti significa sia "costola" sia "donna"). Per ora accontentiamoci invece di una rivelazione simbolica, molto curiosa, che ci è data da un testo di una letteratura sorella della letteratura ebraica, la letteratura cananea, ugaritica. In una delle tavolette scoperte a Ugarit, in Siria, si dice che quando il dio creatore volle creare la donna e l'uomo, fece la stessa cosa che fa lo scultore quando estrae dalla roccia la sua statua. La statua è una realtà unica, nuova, ma è sempre roccia. Così, l'uomo e la donna sono tra di loro in parallelo come la roccia e la statua che partecipano entrambi della pietra.

Questa descrizione ci fa capire qual è l'idea che l'autore concepisce: l'uomo è carne e osaa cioè, nel linguaggio della Bibbia, carne = fragilità, debolezza = consistenza. Noi siamo questo misterioso impasto di consistenza e di debolezza; siamo veramente dei microbi nell'universo, ma abbiamo anche una nostra misteriosa consistenza.
Ecco: questa carne e queste ossa passano dall'uno all'altro; la costola è quasi il ponte di comunicazione, e tra i due avviene una profonda connessione, un profondo collegamento: essi hanno la stessa materia, hanno lo stesso tessuto. Questa presentazione è messa nella cornice di un sogno, di un sonno. L'indicazione non è banale ma piena di significato.
Nella Bibbia spesso i sonni e i sogni comportano sempre una rivelazione. L'uomo, nell'interno di questo sogno-sonno, scopre la grande rivelazione della sua pienezza; scopre finalmente, risvegliandosi, quale era quell'aiuto simile di cui aveva bisogno: eccolo di fronte a lui; ed allora egli lo chiama col nome di carne e di ossa. Dice:

"Tu sei veramente la mia carne, tu sei veramente il mio osso".

Questa descrizione è proprio la scoperta stupita, se abbiamo compreso che la carne e ossa sono la descrizione dell'esistenza umana, che è possibile che sulla faccia della terra esista qualcosa di simile all'uomo, che esista veramente quell'aiuto tanto atteso.

E allora alla fine, nonostante l'antifemminismo che affiorerà ripetutamente nella cultura della Bibbia, figlia del suo tempo, questa è veramente la controprova di un altissimo messaggio e di un'altissima celebrazione della grandezza dell'uomo e della donna.

L'uomo deve trovare un nome alla sua compagna. Sarà solo in seguito che noi incontreremo quell'altro nome che è diventato famoso, frutto probabilmente nel prosieguo del racconto di un'altra tradizione indipendente: solo dopo la donna si chiamerà Eva, "la vivente". Ora invece come è chiamata la donna? L'uomo ebraico è detto anche 'ish. Il femminile in ebraico si fa aggiungendo la desinenza -ah. L'uomo, risvegliatosi dalla grande rivelazione e trovato l'aiuto che egli è simile, dice: "Io sono 'ish e tu sei la mia donna, ti chiamerai 'isshah": il maschile e il femminile dello stesso nome.

L'uomo e la donna sono sempre la stessa realtà, l'una al maschile e l'altra al femminile. anzi, perchè la cosa sia ancora più comprensibile, si usa un'altra immagine: i due saranno una carne sola. L'uomo si unirà alla sua donna: due principi si uniscono, due persone necessarie l'una all'altra, due pari; due occhi che si incontrano, due esseri simili che si incontrano e celebrano l'amore.

Su quell'espressione: "saranno una carne sola" gli studiosi si sono accaniti per vederne il significato.
Dobbiamo presentare questo significato proprio con la semplicità con cui lo presenta l'uomo della Bibbia, non timoroso del suo corpo. Egli guarda i due che si uniscono. Sono una carne sola perchè essi sono uniti nell'atto sessuale, e l'atto sessuale, quando nasce veramente dall'amore, è il congiungimento totale dei due esseri. I due esseri ormai hanno trasfuso in sé tutto il loro dolore, tutte le loro gioie, tutti i loro pensieri, e in quel momento anche i loro corpi; ogni realtà ormai non appartiene più all'uno o all'altro.

Contemporaneamente l'autore risale a quel "prima", quando essi si sono scoperti come necessari umanamente. In pratica, possiamo dire che in questa terza parte del c. 2 della Genesi, abbiamo la grande vittoria sulla malattia ultima che ci portiamo dentro, perchè la donna rappresenta tutto il prossimo, tutti i simili. E qual è quella malattia che ci portiamo dentro? E' la malattia della solitudine e della insoddisfazione. L'uomo che non ha l'amore e ha tutti glia niamli di questo mondo, ha tutte le cose di questo mondo, ha lavorato dalla mattina alla sera, non ha l'aiuto che egli è simile. Ed egli se è veramente uomo, se non diventa bestia, è necessariamente triste. Solo quando ha incontrato l'altra persona, quando ha un dialogo, l'uomo finisce la sua tragedia, la grande malattia della solitudine.

Dice il libro biblico di Qohelet:

"Guai a quell'uomo che è solo!... Fortunato chi ha un amico, perchè quando sta per cadere, almeno uno lo può sostenere". (cfr. 4, 10-12)

Noi sappiamo quale grande maledizione c'è tutte le volte che l'uomo è solo, terribilmente solo, in una prigione totale di solitudine.
Qui si celebra, allora, in secondo luogo, anche la vittoria sulla solitudine. Sono una carne sola perchè ormai hanno nell'interno un profondo e misterioso dialogo.

Un famoso studioso tedesco dell'Antico Testamento, G. von Rad, ha sostenuto nel suo commento alla Genesi, un'ipotesi che non è forse del tutto da accantonare. Questa "una carne sola" è il bambino che nasce dai due. Perchè essi si sono incontrati nell'amore, quella nuova creatura che continuerà la storia dell'umanità non è più né solo dell'uno né solo dell'altra, è ormai una carne sola che partecipa di entrambi e in cui si riflettono i volti dei genitori.
E allora la finale di questa pagina è una finale piena di gioia e di pace: l'uomo si è realizzato.

Fine settima parte, continua...






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27/03/2010 21:09
 
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Ottava parte: Genesi

CONCLUSIONI

Possiamo ora concludere con tre considerazioni.

La prima considerazione: abbiamo visto l'uomo nella speranza della sua felicità, l'uomo che noi dobbiamo tenere davanti ai nostri occhi come utopia, come progetto. Questo uomo quali caratteristiche deve avere? Deve essere un uomo che SCOPRE L'INFINITO, che non perde il grande dono dell'autocoscienza. Se perdiamo la coscienza, il legame con l'infinito, la capacità di passare al di là, il terzo occhio che non è solo l'occhio sensitivo, non siamo veramente più uomini.

Seconda considerazione: l'uomo è un uomo lavoratore, che deve poter trasformare la materia, che deve potersi realizzare nelle cose del mondo; è un uomo che entra in contatto col cosmo, è un uomo che deve vivere la sua esperienza di intelligenza, la sua esperienza manuale anche, che deve realizzarsi anche fisicamente. Quindi tutte le volte che l'uomo è povero, tutte le volte che l'uomo è bloccato nella, miseria, non è ancora l'uomo che Dio lo sogna.

Terza considerazione: l'uomo però, per essere veramente completo, deve avere un amore; se non ha l'amore l'umo è finito; anche, paradossalmente, se ha il suo Dio, anche se ha tutte le cose di questo mondo, egli resta irrimediabilmente triste e sconsolato, cioè un uomo imperfetto.
In seguito conosceremo anche un grande albero presente nel giardino dell'Eden.

Noi leggiamo ora i vv. 8-9 e 16-17 del c. 2: essi saranno il nostro prossiamo punto di partenza. Attorno ad uno di questi alberi si gioca la vita dell'uomo, per cui questo albero è qualcosa di più di una realtà materiale:

"Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden e ad Oriente vi collocò l'uomo che aveva plasmato. Il signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male".

Ecco che sono apparsi i due alberi "teologici". Gli altri sono alberi solo verdeggianti e servono a far riposare la vista e dare i frutti. C'è però anche l'albero della vita, un albero mitologico antichissimo. L'Epopea di Ghilgamesh e le antichissime tradizioni parlavano di questo albero della vita. Ma anche l'altro albero, quello della Bibbia, porta un altro nome decisivo:

"Albero della conoscenza del bene e del male".

Attorno a questo albero comincerà a snodarsi una parola terribile, implacabile, a prima vista terrificante, la parola del giudizio.

Nei vv. 16-17 sentiamo:

"Il signore Dio diede questo comando all'uomo: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perchè, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti".

Nell'armonia del mondo appare un segno drammatico.

Uno scrittore francese, Pierre Jean Jouve, nato nel 1887, nell'opera Il paradiso perduto fa una meditazione poetica sulla Genesi ma con elementi che sono anche extra-biblici, magari anche discutibili.

Ho scelto come conclusione alcune righe di questo poema, righe che parlano del misterioso e terribile protagonista, l'albero della conoscenza.

"Nel mezzo, ma lontano, inaccessibile all'uomo,
un gran concerto di bracci ed ombra nel vento,
un grosso globo stupendo, o un Eden,
diverso, pieno di voli e di verde;
certo il più vasto di tutti gli alberi,
chiamato l'albero della conoscenza
del bene e del male.
Solitario, sotto una faccia scura,
sotto i suoi frutti non toccati,
d'un verde rutilante e di un rosso nerboruto,
l'albero è proprio bello
per chi vi accede dopo le sabbie dell'oblio.
Con tanti brusii spenti
che inerpicandosi arrivano all'orecchio,
quando si fa la posta oltrepassando gli ordini.
Ed ecco che di là, di là di quel globo
dice cose terribili Elohim, il Signore".


Fine ottava parte, continua...

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Nona parte: Genesi

Le tre grandi disarmonie della tradizione jahvista (3)

"La spada fiammeggiante alle frontiere dell'Eden"

1. IL PRIMO PROTAGONISTA: L'ALBERO

Iniziamo con la identificazione del SIMBOLO VEGETALE.
Questo simbolo a noi forse non dice molto, ma all'orientale dice moltsissimo.
L'ALBERO è il segno della vita stessa. Leggiamo alcune righe di un testo biblico del 190 a.C.
L'autore è il Siracide, noto anche come Ecclesiastico. Egli sta parlando della sapienza e vuole mettere nella sapienza tutto quanto c'è di meraviglioso, incantevole, profondo, segreto ma anche di esplicito che l'uomo fa e compie quando è illuminato da Dio.
La sapienza è il più grande dono di Dio; è Dio stesso in ultima istanza. Ed ecco allora come egli esprime la meraviglia della sapienza, la meraviglia dell'essere uomini, dell'essere sapienti. Nel c. 24,12ss egli usa la descrizione, quasi botanica, di un parco; è la sapienza che parla in prima persona facendo una specie di auto-lode, di auto-inno.

"Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso.
Sono cresciuta come un cedro del Libano,
come un cipresso sui monti dell'Ermon.
Sono cresciuta come una palma in Engaddi,
come le piante di rose in Gerico,
come un ulivo maestoso nella pianura;
sono cresciuta come un platano.
Come cinnamomo a balsamo ho diffuso profumo;
come mirra scelta ho sparso buon odore;
come gàlbano, onice e storace,
come nuvola di incenso nella tenda.
Come un terebinto ho esteso i rami
e i miei rami sono di maestà e di bellezza.
Io, come una vite ho prodotto germogli graziosi
e i miei fiori sono frutti di gloria e di ricchezza.
Avvicinatevi a me voi che mi desiderate
e saziatevi dei miei frutti".


Un parco lussureggiante, con tutte le specie botaniche, note all'antico Israele: questa è la sapienza, questa è la vita. E allora l'albero che sta al centro del racconto della Genesi, sotto le cui fronde l'uomo e la donna stanno perpetrando il loro delitto, diventa un vero e proprio stendarso glorioso di tutto il capitolo.

Pero, prima di parlare di questo grande albero, che sta al centro del capitolo, dobbiamo badare anche a un albero secondario che però nella tradizione orientale era estremamente importante: era il vero albero decisivo. E riuscieremo anche a capire perchè la Bibbia dimentica questo albero: lo cita, ma poi piano piano dimentica.
Innanzitutto cominciamo a vedere il testo biblico del c. 3. Abbiamo già sentito che tra i grandi alberi del giardino del mondo c'era l'abero della conoscenza del bene e del male, che sarà quello protagonista, e c'era anche l'albero della vita./C] L'albero della vita poi piani piano scompare. Lo troviamo quasi in maniera casuale verso la fine del racconto, quando si riferisce, sempre nell'interno del c. 3, la dichiarazione che Dio fa quasi in tono ironico: cerchiamo di impedire che l'uomo arrivi anche all'albero della vita, perchè diventerebbe come uno di noi.
Cerchiamo almeno di evitare che tocchi questo albero.
Questo albero però era stato dimenticato nel resto del racconto. Eppure esso era il vero albero della tentazione, o comunque del rischio dell'uomo secondo la celebre Epopea di Ghilgamesh.

1. L'epopea di Ghilgamesh

Le dodici tavolette dell'Epopea di Ghilgamesh sono ora conservate al British Museum di Londra.
Esse sono state trovate in maniera fortunosa e appartengono alla biblioteca del grande re mecenate assiro Assurbanipal. In realtà quella è una versione. L'originale non lo possediamo, e si perde veramente nella notte dei tempi, perchè era stato prodotto dalla letteratura sumerica, la prima in assoluto che sia apparsa all'orizzonte della Mezzaluna Fertile.
La storia narrata è una parabola esistenziale come quella del libro della Genesi. Ghilgamesh è un eroe, un grande personaggio che rappresenta l'umanità. Egli ha un amico, Enkidu, che all'improvviso muore. Allora per Ghilgamesh comincia un'angoscia ricerca che è la ricerca di ogni uomo, in maniera implicita o esplicita, in tutta la sua esistenza, cioè la ricerca dell'immortalità. Ed egli va, cercandola proprio là dove su un'isola beata ci dovrebbe essere il custode di questo dono: un suo lontano avo di nome Utnapishtim, che ha avuto il dono dagli dèi di essere immortale.
Comincia allora una grande avventura: Ghilgamesh varca il monte del Sole, il monte del tramonto, arriva a una sorte di palude stigia, una immensa distesa di acque infernali. Un custode lo accoglie. Dopo un viaggio con un nocchiero simile al Caronte dantesco, Ghilgamesh passa finalmente verso l'isloa sospesa sul baratro del nulla e della morte, il caos primordiale. Nell'interno di quest'isola trova Utnapishtim e sua moglie, gli immortali, coloro che sono sempre avvolti nella felicità dell'esistere.

Ed ecco la sua domanda:

"Io voglio l'albero della vita".

Utnapishtim risponde:

"Ghilgamesh sei venuto; ti sei affaticato; ti sei stancato! Che cosa mai devo darti ora che ritorni nel tuo paese? Ti rivelerò, Ghilgamesh, una cosa, è una cosa segreta, una cosa ignota, essa, l'albero della vita, è una pianta simile al biancospino; la sua spina è come una rosa che punge la mano. Se questa pianta le tue mani afferreranno, la vita per sempre troverai".

Ora l'eroe ha lameno un'indicazione: sa che l'albero della vita è un albero come il biancospino, con le stesse spine delle rose. Ed egli comincia l'avventura: scende in profondità, in un pozzo infernale, quasi a contatto col mistero, con la frontiera ultima della vita e della morta, ed egli trova questa pianticella. La solleva, la guarda e le dà il nome, come Adamo ha dato il nome agli animali, e il nome è evidente, il suo nome è duplice: "il vecchio diventa giovane" e "la pianta dell'eterna giovinezza.

Ma a questo punto avviene la grande svolta. Ghilgamesh ritorna, ritorna felice perchè ha trovato l'albero della vita per sempre gli permetterà di vivere e di essere felice. Ed egli con un albero suo accompagatore arriva, finalmente, in una distesa di acqua doclissima e meravigliosa. Sente il bisogno del bagno, del ristoro e del riposo, di tutti i piccoli piaceri della vita, del quotidiano che distrae. E abbandona per un istante l'albero che egli aveva sempre tanto tenuto con grande attenzione tra le mani. E mentre sta facendo il suo bagno, in quel momento un serpente, si noti la simbolica, appare dalle sabbie, si indirizza esattamente a quella pianticella, la morsica. La pianticella diventa subito avvizzita, si inaridisce e quando Ghilgamesh esce dal bagno ormai non gli è possibile che un lungo, quasi disperato lamento. Egli che aveva lottato, era andato fino alla frontiera della morte per avere l'albero della vita, ormai si ritrova ancora un mortale.

"Allora Ghilgamesh si sedette e pianse, sopra le sue guance scorrevano le lacrime".

In quel momento egli ricorda il grido quasi pauroso, tenebroso che egli aveva lanciato la custode delle acque infernali. Questa dea infernale gli aveva detto:

"La vita che tu cerchi, tu non la troverai. Quando gli dèi crearono l'umanità, è la morta che essi destinarono per sempre all'umanità".

L'epopea di Ghilgamesh è, dunque, la storia di un'avventira fallita. La Bibbia invece non usa questo discorso sulla vita; evidentemente c'è qualcosa che riguarda questo tema. Quando risuona quel monito tra le fronde dell'albero della conoscienza del bene e del male, si dice: "Se tu toccherai quel frutto, tu certamente morirai".

C'è quindi qualcosa che è collegato al problema della morta. Però la bibbia ha spostato l'accento. Alla Bibbia non interessa più ormai studiare una questione metafisica antropologica, cioè la struttura di fondo dell'uomo, il suo limite fisico e metafisico. L'interesse della Bibbia è un altro. Ed è per questo che l'albero che è al centro del giardino porta un altro nome: è l'albero della conoscenza del bene e del male. L'oscillazione del pendolo ideologico dell'autore si è spostata da una questione di struttuta fisico-metafisica, ad una questione di struttura morale. E' il problema della morale che interessa all'autore; è il problema delle scelte, è il problema della libertà.
Quel problema all'autore mesopotamico non poteva interessare, anzi neppure balenare davanti agli occhi, perchè egli sapeva bene, come è stato indicato, che l'uomo ha nelle vene il sangue del amle, del dio peccatore, il dio Kingu sconfitto.

Fine nona parte, continua... ci sono altre 237 pagine della Genesi, quindi sarà lunga.





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Decima parte: Genesi

2. L'albero della conoscenza del bene e del male

Allora contempliamo questo grande "albero decisivo".
Abbiamo già detto che l'albero significa un complesso di realtà preziose e decisive. Però questo albero porta un nome: albero della conoscenza del bene e del male.
Fermiamoci su queste parole precise: CONOSCENZA e BENE E MALE. Parole facili da spiegare per chi ha già un certo esercizio di ascolto dei testi biblici.
Il conoscere biblico non è il conoscere occidentale: per esempio nella Bibbia, tante volte, "conoscere" è l'atto sessuale tra due persone. La conoscenza allora non è semplicemente un'attività della mente. E' proprio quell'esperienza che noi cerchiamo di definire con la categoria "amore", in tutta la sua pienezza. L'amore percorre il pianeta della nostra mente, certamente; però c'è un altro pianeta nell'uomo, ed è il pianeta del cuore, della passione, del sentimento. E poi l'uomo ha un'altra possibilità: la possibilità della scelta volitiva, della decisione, ha il valore, cioè la capacità di essere un pò artefice del proprio destino. E poi sappiamo che l'uomo ha le mani.
Quando abbiamo visto l'uomo e la sua donna incontrarsi, abbiamo detto che essi sono diventati finalmente una carne sola; attraverso l'atto sessuale hanno scoperto tutta quell'intimità che era espressa tra due persone innamorate, diventa una grande parabola completa dell'amore, diventa veramente un simbolo: mette insieme tutti i frammenti dell'amore. Per questo "conoscere" rimanda anche alla relazione sessuale.

Qui noi abbiamo un albero che è l'albero del conoscere, è l'albero della decisione, è l'albero della scelta fondamentale, della passione, l'albero dell'orientamento verso il bene e il male. Abbiamo già avuto occasione altre volte di spiegare una caratteristica dell'Oriente, del mondo semitico.
Passiamo al Salmo 139 (138): il canto dell'occhio di Dio che tutto penetra, verticalmente e orizzontalmente, l'uomo e la sua fuga da Dio. Ma Dio è sempre alle sue spalle. Dio persino lo precede. L'autore continua per tutta la lirica a muoversi su una serie di antitesi estreme: è quello che gli studiosi hanno chiamato il "polarismo": scegliere due poli estremi della realtà per indicare tutto quello che sta in mezzo, così come quando uno afferra nelle mani un'arancia per i suoi due poli, riesce non soltando a sostenere i due poli, ma sostiene l'arancia intera.
Bene e male sono due estremi della grande sfera della morale. Nell'interno del bene e del male c'è tutta la gradazione di grave, di meno grave, di grande e di meno grande che l'uomo può costruire.
Allora i rami di questo albero sono i rami di tutte le scelte morali nostre. In quell'albero grandioso dobbiamo scoprire anche il nostro piccolo ramoscello, la nostra piccola storia perchè anche noi lì siamo rappresentati.
Naturalmente, se noi vogliamo andare avanti, a questo punto potremmo caricare questo albero di significati molteplici.

Adesso forse si capisce perchè, anche se nella Bibbia non c'è nessun cenno, questo albero è diventato nella tradizione un melo. Si deve fare un ragionamento semplicissimo, un passaggio al latino, quando i Padri latini della Chiesa cominciavano a identificare il valore esatto di questo albero della conoscenza del bene e del male. In latino il melo si dice malus e il male si dice malum; e allora questo albero è veramente l'albero del "malum", del male dell'uomo perchè il questo momento si sta per descrivere la grande tragedia del peccato, la grande scelta che l'uomo compie.

Evidentemente possiamo tentare di trascrivere il simbolo in un'altra maniera. L'albero della conoscenza del bene e del male è l'ambito della nostra decisione, della nostra opzione, e parlando già in maniera occidentale, possiamo dire semplicemente così: è l'albero della libertà, è l'albero della scelta.
Possiamo tentare anche altre definizioni, talora discutibili. Eccone una di uno scrittore americano nostro contemporaneo, Salinger, nei suoi Nove racconti. Uno di questi racconti è intitolato Teddy. In questo racconto l'autore fa dire a un suo protagonista:

"Si ricorda di quella mela che Adamo mangiò nel giardino dell'Eden
di cui parla la Bibbia? Lo sa che cosa c'era dentro quella mela? C'era la logica, la logica e la mania intellettuale. Ecco che cosa c'era. Così, e questo è il mio principio: se uno vuole vedere le cose come sono veramente, deve vomitarla, liberarsene. Voglio dire che se uno la vomita non vedrà continuamente le cose che a un certo punto finiscono. Il guaio è che la maggior parte della gente non vuole vedere le cose come sono veramente. Vogliamo solo dei corpi, corpi nuovi, invece di fermarsi e restare conDio dove si sta così bene".


E' un'interpretazione discutibi. Però un tentativo, un modo moderno di leggere che cosa significhi questo albero, questo frutto. L'autore lo identifica in questa hybris dell'uomo, nell'orgoglio intellettuale dell'uomo il quale vuole possedere e dominare con la sua mente cercando corpi sempre nuovi, cercando di possedere sempre di più; invece di starsene tranquillo col suo Dio. Ebbene, il peccato scatta quando l'uomo coglie questo frutto.

Cogliere il frutto vuol dire che l'uomo in quel momento si autopone come arbitro. Dio gli aveva detto: questo albero ti è presentato davanti; è come la guida per i tuoi passi, ti deve regolare (è veramente quasi una persona, non è una realtà fisica materiale), ti deve guidare nel cammino della vita.
La fonte della morale è lì, con la parola divina. E l'uomo invece vuole correre il grande rischio, che è la grande, eterna tentazione: vuole lui cogliere il bene e il male, vuole lui decidere qual è il suo bene e il suo male, e non riceverli già determinati da Dio.

Evidentemente conq uesta scelta egli comincia la sua avventura di uomo, ma anche di un uomo peccatore. Dio ha voluto che l'uomo non fosse così tranquillo come gli animali che stanno girando sotto quell'albero, sereni e soddisfatti, non avranno mai, neppure vagamente, l'idea di impossessarsi del suo frutto. L'uomo è l'unico che può tentare di strapparlo e di mangiarlo. L'uomo è l'unico che può tentare di strapparlo e di mangiarlo. L'uomo è l'unico, sualla faccia della terra, che può decidere autonomamente il suo destino.
Dio ha voluto così. Non ci ha voluto animali, non ci ha voluto stelle del cielo; stelle fisse, rigide, frigide. L'uomo, invece, è caldo, è provocatore; l'uomo è libero.

E allora il peccato originale, il peccato fondamentale, il peccato radicale non è certo un qualcosa che è avvenuto quando là, chissà dove, è apparso il primo uomo, stando alla paleoantropologia, o se volete, quando l'uomo è diventato homo sapiens, molti milioni di anni dopo. Non è asolutamente una questione che si lega solo ad un punto preciso, ad un istante, ad una data circoscritta; è qualcosa che si lega, però, anche ad un momento preciso. In questo momento che è di ogni uomo, si ripete il peccato di 'Adam, il peccato originale. In questo momento, al di fuori di noi, e dentro di noi l'uomo fa la sua scelta; chiama bene ciò che è male e male ciò che è bene; ed è lui soltando che può compiere questo atto.

Fine decima parte, continua...

P.S. a me non mi è mai tornato questo fatto, il Ravasi scrive: "...quando l'uomo è diventato homo sapiens...", Dio non ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza? Dai reperti archeologici non si direbbe, voi cosa ne pensate?

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Undicesima parte: Genesi

2. SECONDO PROTAGONISTA: IL SERPENTE

Ora introduciamo un secondo simbolismo, un secondo protagonista del racconto. Poi intrecceremo i due simboli.
Il secondo protagonista si chiama SERPENTE. Lo si trova proprio in inizio, nelle prime battute stesse del racconto:

"Il serpente era la più astuta di tutte le bestie".

Ora, il serpente era entrato in scena anche nel racconto di Ghilgamesh. Il serpente, a livello di tradizione, è diventato subito una realtà precisa. Però badate bene: questa identificazione non è della tradizione jahvista. E' solo nel libro biblico della Sapienza (I sec. a.C.), c. 2,24 che dice:

"E' per invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo e ne fanno epserienza coloro che gli appartengono".

Ecco subito allora una precisa identificazione: il SERPENTE è il DIAVOLO. Questa tradizione continuerà, ed è anche l'opinione comune corrente.

Invece l'autore antico l'idea del diavolo sicuramente non era ancora presente. Agli occhi di questo autore del X sec. a.C. l'idea era un'altra. Ed era un'idea molto più fine, molto più acuta. Per noi il serpente incarna anche quella specie di eredità che possediamo da sempre, quell'eredità che ci parla di paura: è infatti qualcosa di viscido, di freddo e a volte di velenoso. Per la tradizione orientale il serpente era invece un simbolo circoscritto e ricco di grandi significati.
E se andiamo a vedere in alcune culture, anche lontane dalla Bibbia, c'è sempre, bene o male, un serpente primordiale che si attorciglia nei grandi miti della creazione.

Il serpente, però, che l'autore aveva davanti agli occhi, era un serpente che rimandava ad una realtà precisa, nei cui confronti la profezia e prima della profezia le tradizioni bibliche, hanno dovuto continuamente protestare.

In Israele, ancora oggi, si possono trovare resti di santuari cananei, santuari posti in alture. Questi santuari avevano collezioni di massebot, cioè di stele sacre, che non soltanto il tempo, ma la devozione dei fedeli ha completamente rese lisce, a furia di versarvi sopra olio, a furia di baciarle. C'erano dei pali sacri, scomparsi, ma di cui si vedono ancora gli infissi, le cosiddette ashere; c'erano dei templi veri e propri: pensiamo al tempio bellissimo cananeo di Meghiddo, col suo altare meraviglioso, al tempio di Hazor, con tutta la distribuzione delle camere sacrali intorno.

I cananei erano gli indigeni della Palestina. E gli ebrei avevano subito sentito il fascino della loro religione, religione del corpo, della materia, del movimento, della vita, così come si sperimente. Dio, dove lo devo andare a cercare, se non tutte le volte che io vedo il mio prato fiorire? Dio, dove lo devo andare a cercare se non quando ho un figlio da mia moglie, cioè ho la possibilità di avere delle braccia che lavorano nei campi e quindi avere prosperità? Dio, dove lo vedo se non nel moltiplicarsi dei parti del gregge?

Ed ecco allora la tentazione di quella che la bibbia sprezzantemente chiama "la prostituzione sacra": sacerdotesse che nell'interno dei templi rappresentavano o la dea Astarte, la dea della fecondità, o il dio Baal, il dio fecondatore, il toro sacro (ricordiamo quel famoso toro d'oro adorato dagli ebrei nel deserto del Sinai, come si narra in Esodo 32-34). La tentazione degli ebrei di materializzare Dio nel simbolo della fecondità era quindi indotta dall'ambiente in cui viviamo. E all'interno di questi culti c'era anche il serpente. Il serpente era una componente fallica, era un simbolo che si collegava al rito complesso del culto della fecondità e comprendeva anche il commercio sesuale con la sacerdotessa. Il fedele andava al tempio e la sacerdotessa gli trasmetteva un pò dell'energia di Dio per cui lui sarebbe ritornato caricato quasi del seme di Dio.
Era una religione corposa, una religione che spiegava, quasi in maniera visiva, che cos'è la vita e che cos'è Dio. E allora, proprio all'inizio di questa pagina, quando sta per consumarsi il peccato dell'uomo, l'autore ha messo quel tentatore che tutti i lettori conoscevano e che noi solo attraverso questo ragionamento riusciamo a capire e a decifrare.

Il vero tentatore è l'idolo. L'uomo appare sulla faccia della terra con la sua libertà. Questa libertà nuda trova davanti a sé il fascino del bene e del male, deifinti da Dio. Egli deve fare la sua scelta, deve prendere la sua decisione, e questa scelta e questa decisione è sostenuta paradossalmente da una realtà morta, da uno dei tanti idoli.

Fine undicesima parte, continua...

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Dodicesima parte: Genesi

Noi ora siamo arrivati a ritrascrivere con altri nomi quegli idoli, che ci stavvano dalla purezza della nostra libertà, dalla purezza della proposta morale offerta da Dio.
Con buona pace di tutto quel sarcasmo e ironia che sono stati fatti su questa pagina, nei confronti della donna, con buona pace anche di qualche persona seria (come Agostino e Guitton), che si è lasciata prendere la mano forse da una sottile e nascosta misoginia, non dobbiamo concentrare l'attenzione su quella donna che spinge lentamente l'uomo a cedere.
Nell'interpretazione di Agostino e di Guitton, il testo evocherebbe la descrizione del fatto che la donna ha dei ritmi di maturazione sessuale, soprattutto in oriente, anticipati rispetto a uqelli dell'uomo, e perciò avrebbe spinto l'uomo a provare, prima ancora della norma indicata da Dio, l'ebrezza dell'atto sessuale, dell'amore.
Questa è una banalizzazione del testo, è un non tener presente l'ambiente in cui esso sorge. La donna è presente qui non tanto perchè è adescatrice, la tentatrice sessuale, come di solito dice, purtroppo certa letteratura o certa opinione comune. La donna, in questo caso, invece, appare ormai, per l'ascoltatore attivo, con un volto molto preciso, con contorni ben definiti: è, in qualche modo, il segno della stessa sacerdotessa cananea dei culti pagani della fertilità. Serpente e donna erano due elementi che il fedele ebreo incontrava quando riusciva a sottrarsi alle maglie della censura ufficiale del culto d'Israele e ad andare nei santuari cananei. La donna e il serpente lo tentavano ad incontrare un dio facile, il dio che è ridotto appunto a un meccanismo della natura, a un dinamismo della biologia.
Allora, a questo punto, compreso il valore dell'albero, compreso il valore del serpente, possiamo ascoltare la pagina biblica ricordando sempre che si parla di una tragedia e questa tragedia non è quella di un lontano Adamo, è la tragedia di ogni Adamo; è in pratica un esame di coscienza che noi facciamo all'interno di una trama che sta dietro le nostre spalle e che purtroppo avrà ancora molte scene in futuro.

"Il serpente era la più ASTUTA di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio".

La traduzione "astuto" non è molto felice. In ebraico abbiamo la parola 'arum che esprime una delle qualità proprie dell'uomo saggio, del sapiente. Il sapiente si presenta come uomo abile nel penetrare i segreti. E allora sottilmente l'autore vuol dirci: ci sono due sapienze che continuamente si oppongono l'una all'altra. E tu, quale sapienza vorrai scegliere? Seglierai la sapienza "serpentina"? Noi sappiamo che gli ebrei si sono lasciati tentare proprio da questa sapienza.

Per comunicare questo segno ascoltimao una riga di cronaca che riguarda il regno del re Ezechiele (2Re 18, 4). Il re Ezechia, quando dovette fare la riforma, fece a pezzi il serpente di bronzo eretto da Mosè, perchè allora gli israeliti gli bruciavano incenso e lo chiamavano con il nome di un dio, Nehustan. Il serpente dell'antica tradizione mosaica era stato piano identificato col serpente cananeo.

C'è una bellissima riproduzione, conservata nel museo di Gerusalemme, di una coppa cilindrica per le liberazioni, o forse anche per i banchetti, che ha tutt'attorno un serpente sinuosissimo, flessuoso, il cui capo diventa piano piano, in dissolvenza, un volto femminile, il volto di una dea. Quindi, questo serpente ci porta lontano, sempre di più verso l'idolatria, verso l'alternativa a Dio.

"Egli disse alla donna: "E' vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?". Rispose la donna al serpente: "Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non dovete toccare, altrimenti morirete". Ma il serpente disse alla donna: "Non morirete affatto. Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male".

Ecco la deinizione del peccato: è quell'avere occhi indipendenti, aver l'orgoglio di decidere della morale come Dio. Diventerete come Dio, e allora conoscerete, deciderete voi il bene e il male.

"Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò...".

Fine dodicesima parte... continua.



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Tredicesima parte: Genesi

3. TERZO PROTAGONISTA: DIO

a questo punto vediamo un terzo protagonista della scena, quel protagonista che è, per ora, soltanto silenzioso, che assiste quasi con stupore il comportamento della sua creatura: è il Signore, è Dio.
Siamo probabilmente abituati a considerare Dio come spettatore inerte, soprattutto pronto a piombare con la sua mannaia sull'uomo peccatore.
In questo testo, però, l'idea non è questa soltanto.. Anche quando l'uomo peccatore chiama bene ciò che è male e male ciò che è bene, quando Dio vede l'uomo che fa questa sua avventura folle, Dio non reagisce soltanto in modo univoco, nè si disinteressa nè tanto meno appare come lo spietato giudice.
L'autore presenta Dio con una sequenza di simboli sociali, lo veste di forme differenti.
All'inizio del racconto Dio era descritto con l'immagine del visir. Ora, proprio in finale, dopo che l'uomo ha compiuto il peccato, viene ripresa la stessa immagine:

"Udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l'uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: "Dove sei?". Rispose: "Ho udito il tuo passo nel giardino, ho avuto paura perchè sono nudo e mi sono nascosto".

Dio va alla ricerca dell'uomo. Dio sapeva già che l'uomo è peccatore, eppure va a cercarlo ancora come avveniva tutte le sere, le sere dell'intimità. E in quel momento, per la prima volta, l'uomo scopre la nudità. Nella finale del quadro pieno di luce, il c. 2, si diceva:

"Tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna".

ed ora invece si accorgono che sono nudi e hanno bisogno di un vestito che li nasconda.

Per capire il significato ultimo della nudità nel linguaggio della Bibbia basterebbe soltando ricordare come avveniva il processo per divorzio, con la sentenza terminale. Durante il matrimonio uno dei riti era anche una specie di investitura che il marito faceva nei confronti della donna: le dava il mantello ufficiale da sposa.
Quando si pronunciava la sentenza di divorzio, lo sposo spogliava la donna e la lasciava nuda. La donna ritornava quindi al punto di partenza; era solo semplicemente donna, non era più la sposa, non aveva più la tutela giuridica che lo sposo le assicurava nel contesto maschilista orientale.
Ecco, la nudità è lo stato di base, è la radicalità dell'uomo, è l'uomo senza nessuna specificazione, è l'uomo nella sua purezza, limite e splendore, grandezza e debolezza, l'uomo così come si presenta di per sè, nel suo stato interiore ed esteriore.
Fondamentalmente, nei confronti della nudità, anche per questioni di cultura, esiste sempre un imbarazzo legato anche al fatto che il nostro corpo, col passare degli anni, sperimenta lo sfacelo. E allora, per buona parte, il vestito è una specie di autodifesa, di protezione contro lo sfacelo.
Ora l'uomo, quando è in pace con Dio, non ha vergogna della sua nudità, nella sua realtà; egli accetta. Quando invece la sua libertà ormai è spezzata, quando egli oramai ha fatto questa scelta, quando egli sente dentro di sè un'opzione che tra poco lo porterà sempre di più a compiere iniquità, è quello che noi possiamo sempre chiamare con la parola rimorso, in quel momento l'uomo ha paura della sua nudità.

Spontaneamente pensiamo a Dostoevskij; pensiamo a Delitto e castigo, o anche Lady Macbeth di Shakespeare, a quelle mani che restano irrimediabilmente macchiate. L'uomo sente che non è più limpido come prima, non può più accettarsi. Allora comincia la copertura, l'ipocrisia, cominciano i "mantelli" che egli mette continuamente sopra di sè.
Il simbolo del vestito (sono un'eziologia del vestito questi versetti) tuttavia diventa agli occhi dell'autore, in maniera molto fantasiosa, un segno teologico: il segno di Dio che cerca l'uomo. Ecco il v. 21, che dice:

"Il signore Dio fece, a questo uomo già peccatore, all'uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì".

Dio si preoccupa di aiutare l'uomo a darsi una protezione.
Ma qui il senso è anche un altro, sempre nell'ambito sociale. L'orientale sapeva bene che il vestito era una delle grandi realtà dell'esistere; il vestito ha all'interno della Bibbia una normativa legislativa rigorosa.

"Non potrai prendere in pegno il mantello fino a sera...",
si legge in Esodo 22, 26.

Il vestito era la realtà che veniva sempre consegnata ai figli dal padre. Solo il padre di famiglia poteva dare e preparare il vestito, solo la madre e il padre. Pensiamo, in Proverbi 31, la lode della donna sapiente che lavora nella notte perchè tutti i suoi figli abbiano un doppio vestito.

Questo Dio, che pure è Dio sdegnato, è pur sempre il Dio padre, padre della famiglia umana. Sa che questa è la sua famiglia, l'unica reatura nei cui confronti egli può specchiare, l'unico essere veramente fatto a sua immagine e somiglianza, come dirà l'altro racconto (Gen 1). Dio ha la nostalgia dell'uomo; anche se l'uomo è ribelle, è pur sempre suo figlio, ed egli come un padre continua ad amarlo e continua a rivestirlo, a proteggerlo, a dargli un sostegno nel cammino della vita.

Però, ed è questa l'ultima parola, quella che chiude la grande finale del c. 3, Dio è anche il giudice. Dio non è indifferente al male. E' soltanto il peccatore che nell'Antico Testamento dice: Dio è su nei cieli e non si preoccupa della mia vita, come dice il Salmo 14:

"Gli empi dicono: Dio non c'è"

Cioè non c'è qui ora, non interessa delle vicende di questo mondo, è assiso nel suo mondo dorato.
Dio invece non resta indifferente.
Ed ecco che l'uomo è espulso dal giardino dell'Eden. Tra Dio e l'uomo ormai si spezza un dialogo. E' la finale rappresentata in una maniera abbastanza vigorosa, con immagini tratte dall'Oriente.
A Ninive (Mossul) davanti al grande palazzo reale, ci sono due enormi cherubini, mostri alati con volto umano, che proteggono l'area sacra del Palazzo Reale. Tutti gli spiriti e i nemici del re vengono fulminati da quella presenza.
Ora la bibbia, usando questa immagine, che poi diventerà angelica nella tradizione successiva, rappresenta ormai in maniera irrimediabile la frattura tra Dio e l'uomo, che è la storia continua dell'uomo solitario e peccatore. Ecco infatti le ultime righe:

"Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perchè lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l'uomo e pose ad Oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada sfolgorante per custodire la via all'albero della vita".

A questo punto l'uomo è ormai solo. Dio è lontano, si interessa ancora di lui, ma non gli è più così immediatamente vicino.

Vorrei finire salutando questo uomo che siamo noi, mentre cammina nel deserto della vita, e vorrei proprio salutarlo con le parole di un ateo, di uno scienziato, il quale ha citato proprio quest'ultimo testo del terzo capitolo della Genesi. E' uno scienziato il quale ha ribadito che tutto l'universo è solo un impasto di caso e di necessità, che l'universo non può ammettere assolutamente nessun progetto superiore. Anche se la prospettiva è profondamente diversa, l'uomo che egli dipinge è molto fratello di quello della pagina del c. 3 e dei capitoli seguenti della Genesi, è l'operatore di tutta quella serie di peccati e di quei mali che dilagano sulla faccia della terra, quando egli dice bene quello che è male e male quello che è bene.
E' una testimonianza dell'uomo che cammina fuori dal giardino, fuori di Dio.
L'autore, Nobel della medicina del 1965, è J.Monod, autore del libro Il caso e la necessità.

"L'uomo sa ora che come uno zingaro è ai margini dell'universo, in cui deve vivere; un universo che ora è sordo alle su musiche, è indifferente alle sue speranze, ai suoi dolori e ai suoi crimini.
Quando considero la piccola durata della vita, assorbita nell'eternità che mi precede e che mi segue, il piccolo spazio che riempio intorno agli immensi spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento. Mi meraviglio di vedermi qui piuttosto che là. E la domanda che io mi pongo è questa: è una domanda senza risposta, che mi ci ha messo?".


Il libro della Genesi dice che è possibile una risposta a questo interrogativo ed è possibile una risposta alla solitudine e al deserto dell'uomo.

Fine tredicesima parte...continua.












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