"Viaggiando" nella Bibbia..cosa si "Scopre"?..cosa dicono gli Esegeti?

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mlp-plp
00mercoledì 30 settembre 2009 14:04





Sarà molto lunga, spero di non "stancarmi"!



inizio a postare il risultato "di indagini" effettuate durante un
"lungo viaggio" all'interno delle Sacre Scritture, partendo dalla
cosidetta Creazione Adamica!


b.lettura


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CAP. I
[SM=g6198] [SM=g6198] paradiso: mito o realtà [SM=g6198] [SM=g6198]


1. Qualche difficoltà sul Paradiso

La scienza oggi dice che l'evoluzione è un'ipotesi molto probabile.
La Bibbia dice che l'uomo è stato creato direttamente da Dio (Gen. 2, 7) «Fece l'uomo col fango della terra». Chi dei due ha ragione?

Nel primo racconto della creazione (cf. Gen. 1, 26), l'uomo è creato per ultimo.
Nel secondo, invece, (cf. Gen. 2, 7) l'uomo è creato per, primo.
Come si spiega una simile contraddizione?

Molti miti e leggende dei tempi antichi parlano «dell'albero di vita» (Gen. 2,9), del serpente (Gen. 3, 1), di un'epoca paradisiaca all'inizio dei tempi.

Il linguaggio della Bibbia può essere interpretato in senso mitico e leggendario?

Nel Paradiso terrestre sgorga una fonte che alimenta quattro fiumi:
il Tigri, l'Eufrate, il Nilo, il Gange (Gen. 2, 10-14).
Dove trovare il luogo geografico di una simile sorgente?

Come è possibile che Dio faccia dipendere tutta la miseria umana dal peccato di una sola coppia?
Come è possibile che la donna sia stata formata dalla costola dell'uomo?
E la formazione dell'uomo dal fango della terra?

Domande del genere derivano dal fatto che forse incoscientemente attribuiamo al racconto del Paradiso un valore storicoinformativo. Cioè supponiamo che l'autore abbia scritto quelle pagine per farci sapere come andarono concretamente le cose, all'inizio della storia dell'umanità.

Lo schema mentale col quale leggiamo e giudichiamo il racconto del Paradiso non corrisponde all'intenzione dell'autore che ha scritto quelle notizie.

2. II punto di vista di chi ha scritto il racconto del Paradiso

L'autore vive centinaia di migliaia di anni dopo i fatti avvenuti, non gli importa nulla del passato in quanto tale;
ciò che gli interessa è la situazione che lui sta vivendo.
C'è qualcosa che non funziona.
Il futuro è in pericolo.
Bisogna correre ai ripari.
Il problema lo tormenta e lo spinge a scrivere.
Si tratta di un uomo profondamente realista.

Potremmo riassumere così l'intenzione dell'autore:
1/ Sente la situazione disastrosa del suo popolo e si propone di denunciare il male, apertamente.

2/ Non si ferma solo alla denuncia generica, ma tira le conseguenze delle responsabilità in gioco.
Vuole che il lettore arrivi ad individuare «l'origine» del disagio, del male che è causa di tutto il resto: «il peccato originale».

3 / Dal momento che la responsabilità è vaga e quasi incosciente, descrive i fatti in modo tale da coscientizzare i suoi fratelli circa una loro possibile colpa.

4/ Si 'propone di svegliarli ad un agire completo, che stronchi il male dalla radice, in modo da trasformare la situazione di malessere in una di benessere.
In altre parole, è ciò che la Bibbia chiama: «conversione».

5/ In fine, garantisce che la trasformazione è possibile, perché la forza che la realizza, che è la volontà di Dio, è più potente della forza che mantiene la situazione di malessere, in questo modo risveglia la volontà di lottare e di resistere al male, e genera speranza e coraggio.



3. Situazione concreta che l'autore si propone di denunciare

La capacità di percepire il male dipende, in gran parte, dal grado di cultura.
La mancanza di acqua, per esempio, è un male per noi, ma non altrettanto per un beduino del deserto.
L'autore denuncia il male d'accordo con la sua cultura, col suo tipo di coscienza e secondo la sua sensibilità.

Anzitutto egli denuncia una ambivalenza generale nella vita.

1/ L'amore umano, così bello in sé, è diventato strumento di dominazione (Gen. 3, 16). Perché?

2/ La generazione di nuovi figli, destinata ad aumentare la felicità tra gli uomini, avviene tra i dolori del parto (Gen. 3, 16) Perché?

3/ La vita stessa è ambivalente: voglio vivere, ma la morte sta in agguato (Gen.3, 19). Perché?

4/ La terra, destinata a produrre alimento per l'uomo, produce solo «triboli e spine» (Gen. 3, 18). Perché?

5/ Il lavoro, che dovrebbe essere mezzo di sussistenza, nasconde alcunché di incomprensibile:. molto sforzo e poco rendimento (Gen. 3, 19). Perché?

6/ Esiste inimicizia tra uomini ed animali. La vita non corre sicura. Il pericolo dei serpenti è reale.
Perché la vita combatte la vita? (Gen. 3, 15).

7/ Dio, creatore e amico degli uomini, di fatto, però, genera la paura (Gen. 3, 10\ Perché?

Inoltre, l'autore constata una violenza estrema: Caino uccide Abele, un uomo litiga con un altro uomo e si vendica fino a 77 volte (Gen. 4, 24).
Verifica che la vita di fede è - di fatto decrescente e si riduce ad un rito, ad una mescolanza di magia e superstizione, in cui il divino e l'umano si confondono (Gen. 6, 1-2).

Nota, infine, una totale disintegrazione dell'umanità:
non ci intendiamo più, tutti litigano gli uni con gli altri, tutti vogliono dominare.
L'uomo vive sulla difensiva (Torre di Babele, Gen. 11, 1-9).

Intorno a lui si verifica una situazione di caos completo.
La maggior parte non ne ha coscienza e contribuisce ad aumentarla sempre di più.
L'autore vuole che gli altri si accorgano del pericolo che corrono, andando di questo passo.
Egli è un autentico «non-conformista». Perché?

È convinto che non si può dare la colpa a Dio.
E neppure si può dire:
«Pazienza! Prendiamola come viene! È Dio che vuole così!»
Non gli passa neppure per la testa di cercare in Dio o nella religione il rimedio per una falsa pazienza che viene a patti con la situazione.
La sua fede gli dice:
«Dio non vuole tutto questo!».

Ne derivano due domande fondamentali:

1/ Come Dio vorrebbe, allora, che fosse il mondo?

2/ Se il mondo non è come Dio vuole, chi ne è il responsabile?
La sua fede in Dio ha fatto di Lui un uomo cosciente che non si adatta alla situazione.
Questa, anzi, lo spinge a resistervi, a cercare una soluzione e a stimolare gli altri perché raggiungano il suo stesso livello di coscienza:
«Se Dio non vuole che il mondo sia così com'è, io non posso contribuire perché continui così come sta! ».


SEGUE…







una stretta di [SM=g1902224]




Pierino














Elyy.
00mercoledì 30 settembre 2009 14:46
Interessante...


Aspetto il seguito [SM=g1902224]





[SM=g7958]Ely







mauro.68
00mercoledì 30 settembre 2009 19:11
Re:
Elyy., 30/09/2009 14.46:

Interessante...


Aspetto il seguito [SM=g1902224]





[SM=g7958]Ely










[SM=g1916241]


mlp-plp
00giovedì 1 ottobre 2009 18:09
"Viaggiando" nella BIBBIA...

[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. I [SM=g6198] [SM=g6198] (seguito)

4. Dio come vorrebbe il mondo? Situazione ideale.


Neppure l'autore sa come dovrebbe essere il mondo.
Sa soltanto che Dio è buono, giusto, verace.
Per cui si immagina una situazione diametralmente opposta a quella che egli conosce.

Una situazione di radicale benessere:il Paradiso.
Nel Paradiso' descritto dal Gen. 2, 4-25:

l/la donna non è più dominata dal marito ma è la sua compagna, in tutto uguale all'uomo (Gen. 2, 22-24);

2/ la vita non finisce mai, perché c'è «l'albero della vita» (Gen. 2, 9);

3/ la terra produce alberi e frutti abbondanti e non è deserta (Gen.2, 8-9);

4/ il lavoro non opprime, anzi è leggero e rende molto, perché aver cura di un giardino alberato non richiede troppa fatica (Gen. 2, 15);

5/ la fertilità della terra è garantita da un'abbondanza d'acqua che nessun'altra parte del mondo possiede (Gen. 2, 10-14);

6/ gli animali, invece di essere nemici dell'uomo, gli obbediscono e lo servono (Gen. 2, 18-20);

Dio è amico degli uomini ed ha familiarità con loro perché passeggia, chiacchiera con Adamo (Gen. 3, 8); 8/ non esiste violenza, né abuso (in senso magico) delle cose divine e neppure dominio arbitrario sugli altri.

È la perfetta armonia:
armonia tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e gli altri uomini, tra l'uomo e gli animali, tra l'uomo e la natura.
È l'ordine radicale; tutto l'opposto del caos che egli conosce e soffre nella vita quotidiana.

Non esiste più ambivalenza.
È ciò che Dio vuole.
Il Paradiso è - per così dire - il bozzetto del mondo.

Una tale pianta della costruzione del mondo Dio la consegnò all'uomo, suo impresario, affinché egli, con le proprie mani costruisse la sua felicità.

L'uomo possedeva la possibilità reale:
1/ di vivere sempre ed essere immortale;

2/ di essere felice senza mai soffrire;

3/ di vivere in armonia con Dio senza mai peccare.
Non solo ce l'aveva, ma ce l'ha, perché Dio non ha cambiato idea.
Dio vuole ancora quel Paradiso.
Tale Paradiso dovrebbe esistere.
Con la sua descrizione l'autore denuncia il mondo di cui ha esperienza.

E il lettore, illuminato dalla sua denuncia, si pone la domanda, che è il primo passo verso la 'conversione':
«Ma perché, allora, il mondo è tutto il contrario di quello che dovrebbe essere?
Chi è il responsabile?».

Posto il problema, la risposta sarà data dalla descrizione del «peccato originale».

5. Chi è il responsabile? Qual è l'origine del male che esiste nel mondo?

L'autore parla un linguaggio strano per le nostre orecchie, ma molto chiaro e realista per quell'epoca.
La proibizione:
«Non mangerai dell'albero del bene e del male» suona arbitraria per noi.
Ma per loro, l'immagine dell'albero rappresentava la sapienza che guida l'uomo nel corso della vita. (Prov. 3, 18).
La Sapienza determinava il bene e il male, cioè quello che portava o no alla pienezza della vita, presso Dio.

Dio stesso aveva dato all'uomo una simile capacità di conoscenza, per mezzo della legge.
Per cui l'uomo che volesse definire da solo ciò che lo avrebbe portato o no alla vita (bene e male), poteva trovare qualunque cosa, eccetto la vita. Avrebbe trovato la morte.

La proibizione di mangiare i frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male significa la denuncia di un'umanità che non si cura della legge di Dio e decide di essere lei stessa il criterio unico e assoluto del proprio comportamento morale;
la vita non è più per l'uomo né dono né impegno, è sua proprietà esclusiva, al di fuori di qualsiasi rapporto di valori.
Per l'autore, la legge di Dio è strumento di ordine e di progresso.
La osservanza porta alla conquista della Pace e alla costruzione del Paradiso.

La radice del disordine stava nel fatto che i suoi contemporanei cominciavano ad abbandonare la legge, che sarebbe come dire la
«dichiarazione dei diritti e dei doveri degli uomini».

Il frutto proibito significa l'abuso della libertà contro Dio e perciò contro lo stesso uomo.

Per quale ragione gli uomini abbandonavano quel progetto di vita?
Il serpente li attraeva.
Il serpente simbolizza la religione cananea:
religione piacevole, con il culto rituale del sesso, libera da qualsiasi impegno etico, esigente soltanto rispetto al rito.
Costituiva la grande tentazione che lusingava il popolo a rifugiarsi in un rito facile, lontano dalle dure esigenze della legge.
Era questa, concretamente, al tempo dell'autore, la radice del peccato del popolo.

Con una simile precisazione l'autore spinge i suoi contemporanei ad una seria revisione di vita.
Il loro mondo potrebbe essere differente se non andassero dietro al 'serpente'.
L'autore non pensa tanto a quello che è successo in passato, quanto a ciò che accade intorno a lui e, forse in lui stesso.
È una confessione pubblica di colpa.

Adamo e Eva potrebbero chiamarsi: «Un Uomo e una Donna», per dire:
tutti noi.
Essi sono lo specchio critico della realtà che aiuta a scoprire in noi l'errore localizzato in Adamo ed Eva.

È proprio inutile chiedersi:
«perché dobbiamo soffrire noi per causa di un Uomo e di una' Donna?».
Non si tratta di scaricare la colpa sugli altri, ma di arrivare a riconoscere:
«Sono io che faccio questo! lo sono corresponsabile del male che esiste».

L'Autore non è nostalgico:
«Anticamente, tutto era così buono! ».

Egli vuole che tutti si scuotano, si sentano responsabili e aggrediscano il male alla radice, dentro di loro.
Vincere è sempre possibile, perché Dio lo vuole.
La descrizione dell' «origine del male» non si conclude con la catastrofe del «peccato originale».
La deviazione iniziale è appena il primo passo della disgrazia.

1/ Slegato da Dio, abusando della propria libertà contro Dio stesso, l'uomo si slega anche dal fratello: Caino uccide Abele; Caino rappresenta chiunque maltratta e uccide il fratello.

2/ La violenza si moltiplica spaventosamente fino a settantasette volte (Gen. 4, 24).

3/ Separatosi da Dio e dal fratello, l'uomo si mette sulla difensiva e cerca salvezza nella fuga, usando il rito e la magia (Gen. 6, 1-2).

4/ Finalmente, continuando di questo passo, l'umanità si impenna e si disintegra perché la convivenza e l'agire insieme diventano impossibili. (Torre di Babele).

Nonostante tutto, però, l'autore spera e predice la vittoria dell'uomo sul male, che viene dal serpente.


SEGUE..



Una stretta di [SM=g1902224]




Elyy.
00giovedì 1 ottobre 2009 18:42


Veramente spiegato bene. La lettura è avvincente e spiega bene concetti che , appena uscita dai tdg, mi sembravano fuori dal mondo, come ad esempio l'interpretazione della Bibbia allargando le vedute al mondo contemporaneo degli agiografi.

Particolarmente interessante questo pezzo:


Adamo e Eva potrebbero chiamarsi: «Un Uomo e una Donna», per dire:
tutti noi. Essi sono lo specchio critico della realtà che aiuta a scoprire in noi l'errore localizzato in Adamo ed Eva.
È proprio inutile chiedersi:
«perché dobbiamo soffrire noi per causa di un Uomo e di una' Donna?».
Non si tratta di scaricare la colpa sugli altri, ma di arrivare a riconoscere:
«Sono io che faccio questo! lo sono corresponsabile del male che esiste»




Grazie, e aspetto il resto...


[SM=g6198] Ely





mlp-plp
00venerdì 2 ottobre 2009 09:53



[SM=g10400] "Viaggiando" nella BIBBIA... [SM=g10400]


[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. I [SM=g6198] [SM=g6198] (seguito)





6. Soluzione proposta dall'autore

Responsabile di tutto è l'uomo. Per questo non gli è permessa la ribellione contro il male (qualunque esso sia) bensì la lotta per sconfiggerlo.
Ha la missione e la capacità di farlo, perché Dio lo vuole. Il Paradiso esiste e continua a esistere come possibilità reale, dal momento che Dio non l'ha distrutto.
Ha solo messo un angelo sulla sua porta, perché l'uomo non se ne impadronisca senza averne il diritto (Gen. 3, 24)., Il futuro resta aperto.

L'autore afferma che Dio non ha abbandonato l'uomo, perché:
«Dio fece loro un vestito» (Gen. 3,21), protesse Caino (Gen. 4, 15), salvò Noè dal diluvio, causato dal male dell'uomo (Gen. 6, 9-9.17). Infine, quando la disintegrazione dell'umanità rese impossibile l'agire insieme, chiamò Abramo per raggiungere in lui tutti gli altri (Gen. 12, 1-2).

Comincia allora la cosiddetta «Storia della Salvezza».
Il gruppo di uomini che cominciò con Abramo è - per così dire ~ il «partito di Dio» nel mondo, per cui è possibile credere di eliminare il male con la forza di Dio, portare a termine la trasformazione e costruire il paradiso, la pace totale.

Questo gruppo nasce da una radice autentica:
vive con Dio (Gen. 17 , 1-2), la fa finita con la discordia e forma un popolo, il «popolo di Dio» (Es. 6, 7); condanna ogni forma di magia e di ritualismo (Es. 20, 1-7), non vuole dominare e non si difende per dominare, ma serve (Es. 19, 6) sul significato di regno, di sacerdote e di nazione consacrata).
I lettori cui si rivolge l'autore fanno parte di questo 'popolo'.
Egli vuole che sappiano che significa appartenere al «popolo di Dio».
Devono formare un gruppo attivo in mezzo al mondo, un gruppo che ha preso coscienza della situazione, che conosce il senso della vita e lo porta avanti, resistendo e trasformando.
Tiene viva la speranza, garantita dalla volontà di Dio che vuole il bene.

Con la venuta di Gesù Cristo il progetto di Dio ha preso corpo e il Paradiso è diventato realtà, nella Sua risurrezione. Per questo Paolo dice che Gesù è un «Nuovo Adamo» (Rom. 5, 12-19) e Giovanni
nell'Apocalisse descrive il futuro che ci attende con immagini prese dal Paradiso Terrestre (Apoc. 21, 4; 22, 2-3).

7. Risposte alle difficoltà fatte in principio

Mito o realtà?

È realtà perché si tratta del destino dell'umanità. L'armonia descritta è una possibilità reale garantita dalla potenza di Dio, che si manifestò nella risurrezione di Gesù Cristo.

È mito in quanto l'autore si è servito del linguaggio e delle figure mitiche del suo tempo per esprimere e trasmettere questa realtà.

È storico o soltanto immaginario?

Non possiamo pensare che il Paradiso sia esistito davvero, così com'è descritto nel Gen. 2, 4-25.
È esistita ed esiste tuttora la possibilità reale per l'uomo di realizzare la perfetta armonia e pace, quando si lascia guidare dalla luce e dalla forza di Dio.

È inutile dire:
«perché Dio non ha dato una seconda possibilità ad Adamo ed Eva?».
La sta dando tutti i giorni a noi, fino ad oggi. Il problema non è di Dio e neppure di Adamo ed Eva, è nostro. Il Paradiso esisterà e diventerà storico' se noi lo vorremo e lavoreremo per costruirlo. L'unica spedizione che arriverà a scoprire il Paradiso è quella che cammina sempre verso il futuro.

Sull'evoluzione la Bibbia non fa parola, né a favore, né contro. Tratta solo il problema umano.
Ci dà la visione di Dio sulla vita. Non c'è né contraddizione né concordanza tra Gen. 1, 26 (l'uomo creato per ultimo) e Gen. 2, 7 (l'uomo creato per primo).
Sono due racconti differenti.
Ciascuno ha il suo obbiettivo proprio.
Quanto all'unica fonte che alimenta i quattro più grandi fiumi di quel tempo (Gen. 2, 10-14) si tratta di una figura letteraria per idealizzare la fertilità della terra.

L'uomo fatto col fango è un'immagine per dire che l'uomo nella mano di Dio è come un vaso di terra nella mano del vasaio: dipende totalmente da lui e, per se stesso, è molto fragile (Ger. 18-6).
La formazione della donna dalla costola dell'uomo è la rappresentazione drammatica e concreta del detto popolare:
«osso degli ossi miei» (Gen. 2,23) che spiega al tempo stesso l'origine divina della misteriosa attrazione dei sessi.
L'uomo non ne abusi.

Il serpente è il diavolo in concreto: ne parla il libro della Sap. 2, 24. La deviazione originale dell'uomo significa l'abuso della libertà o la disobbedienza alla legge di Dio espressa nei 10 comandamenti. Questi, a loro volta, esprimono ciò che ogni uomo sente essere il suo diritto e il suo dovere, quando vive con autenticità.

Come successe e quale fu la forma concreta del primo peccato?
Nessuno lo sa, né la Bibbia lo dice. La Bibbia dice solo che al tempo in cui l'autore scriveva la radice del male risiedeva concretamente nella deviazione verso la religione falsa dei Cananei.

Tocca a noi, oggi, esaminare la nostra realtà, così come l'autore ha fatto per quella del suo tempo, per scoprire qual sia, oggi, la forma concreta del «peccato originale» e qual sia, oggi, il 'serpente' che ci spinge ad essere infedeli a Dio e all'uomo.

Se l'autore vivesse oggi, descriverebbe le cose in un altro modo:
avrebbe esaminato attentamente la nostra situazione, avrebbe cercato l'origine del male, forse avrebbe descritto il mondo ideale così: un popolo sviluppato, tutti hanno un salario più che sufficiente, tutti sanno leggere e scrivere, la settimana lavorativa è di 40 ore, la casa è in proprio e c'è la partecipazione al lucro; lo scopo non sarebbe il guadagno ma il benessere individuale e sociale dell'uomo; non ci sarebbe né sfruttamento né violenza, né dominazione straniera; strade larghe, senza incroci; nessun incidente stradale né eccesso di vèlocità; sicurezza garantita per tutti, di modo che non ci sarebbe bisogno né di polizia né di esercito; niente baracche né miseria, nessun conflitto di generazioni, né difficoltà nell'educazione, ecc.
in una parola, la perfetta armonia, completamente l'opposto 'di quello che viviamo nel mondo.
Un Paradiso simile dovrebbe diventare realtà. È possibile costruire un simile futuro?

Ci ripetiamo allora la stessa domanda, molto più difficile di tutte quelle che ci siamo fatte all'inizio:
«Perché il mondo non è così?
Che cos'è che gli impedisce di marciare verso il futuro?
Chi ne è responsabile?
Dove sta la causa?
Che cosa fare per trasformare il mondo, dal momento che non è come dovrebbe essere?».
La Bibbia, cioè l'autore del racconto del Paradiso vuole portarci a formulare domande del genere, molto più serie e impegnative di tutte le domande della storia.

8. Conclusione

La descrizione del Paradiso terrestre è una confessione pubblica, un manifesto di resistenza, un grido di speranza, un invito alla trasformazione del mondo.

L'autore non dà «le prove» dell'esistenza di un «peccato originale». Verifica soltanto e cerca di determinare quale forma prese la deviazione al tempo suo.
Non gli importa di elaborare una teoria del come entrò il male nel mondo, ma cerca una strategia per cacciarlo dal mondo.

La dottrina del peccato originale è stata spiegata ulteriormente, a partire da Paolo (Rom. 5, 12-19; I Cor. 15, 21-22). Il peccato attacca l'uomo alla radice, ma non annulla la sua capacità di fare il bene. Nella misura in cui il peccato personale cresce, facciamo esperienze del 'peccato' originale: «mordiamo la mela», facendo crescere in tutti coloro che vengono dopo di noi i mali di cui l'umanità è 'colpevole'.

Il Battesimo dà all'uomo la capacità di misurarsi col male. Lo impegna col gruppo che crede nel progetto di Dio e che cerca di realizzarlo nella storia, sperandone aiuto da Dio, per mezzo di Gesù Cristo.




SEGUE...




Una stretta di [SM=g1902224]




Pierino




mauro.68
00venerdì 2 ottobre 2009 10:12

Ha solo messo un angelo sulla sua porta, perché l'uomo non se ne impadronisca senza averne il diritto (Gen. 3, 24)., Il futuro resta aperto.
L'autore afferma che Dio non ha abbandonato l'uomo, perché:
«Dio fece loro un vestito» (Gen. 3,21), protesse Caino (Gen. 4, 15), salvò Noè dal diluvio, causato dal male dell'uomo (Gen. 6, 9-9.17). Infine, quando la disintegrazione dell'umanità rese impossibile l'agire insieme, chiamò Abramo per raggiungere in lui tutti gli altri (Gen. 12, 1-2). Comincia allora la cosiddetta «Storia della Salvezza».



A me è piaciuta moltissimo questa parte, il commento scorre tutto in modo chiaro. Molto bello!

Elyy.
00venerdì 2 ottobre 2009 11:56

E' tutto molto interessante e soprattutto mi preme sottolineare questo pezzo:


È storico o soltanto immaginario?

Non possiamo pensare che il Paradiso sia esistito davvero, così com'è descritto nel Gen. 2, 4-25.
È esistita ed esiste tuttora la possibilità reale per l'uomo di realizzare la perfetta armonia e pace, quando si lascia guidare dalla luce e dalla forza di Dio.

È inutile dire:
«perché Dio non ha dato una seconda possibilità ad Adamo ed Eva?».
La sta dando tutti i giorni a noi, fino ad oggi. Il problema non è di Dio e neppure di Adamo ed Eva, è nostro. Il Paradiso esisterà e diventerà storico' se noi lo vorremo e lavoreremo per costruirlo. L'unica spedizione che arriverà a scoprire il Paradiso è quella che cammina sempre verso il futuro.

Sull'evoluzione la Bibbia non fa parola, né a favore, né contro. Tratta solo il problema umano.
Ci dà la visione di Dio sulla vita. Non c'è né contraddizione né concordanza tra Gen. 1, 26 (l'uomo creato per ultimo) e Gen. 2, 7 (l'uomo creato per primo).
Sono due racconti differenti.
Ciascuno ha il suo obbiettivo proprio.
Quanto all'unica fonte che alimenta i quattro più grandi fiumi di quel tempo (Gen. 2, 10-14) si tratta di una figura letteraria per idealizzare la fertilità della terra.

L'uomo fatto col fango è un'immagine per dire che l'uomo nella mano di Dio è come un vaso di terra nella mano del vasaio: dipende totalmente da lui e, per se stesso, è molto fragile (Ger. 18-6).
La formazione della donna dalla costola dell'uomo è la rappresentazione drammatica e concreta del detto popolare:
«osso degli ossi miei» (Gen. 2,23) che spiega al tempo stesso l'origine divina della misteriosa attrazione dei sessi.
L'uomo non ne abusi.




Molto chiara e scorrevole la descrizione dell'allegoria biblica e del significato intrinseco delle Scritture, aspettiamo il seguito.


[SM=g8861]Ely





mlp-plp
00venerdì 2 ottobre 2009 19:22



[SM=g1916242] "Viaggiando" nella BIBBIA...






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. II [SM=g6198] [SM=g6198]

Abramo: un uomo in cerca di assoluto.


1. Difficoltà sorte circa la figura di Abramo

Di Abramo si parla nel Gen. 12-25.
La sua vita non era facile ma lui godeva il vantaggio di avere Dio vicino a sé. Dio interviene, parla con lui ed orienta la sua vita.

E oggi?
Dove sta questo Dio?
Dio è cambiato, o noi siamo diventati più cattivi?
Se la storia di Abramo serve appena come esempio su cui riflettere per tirare qualche conclusione sulla mia vita, oggi, francamente preferisco pensare a Giovanni XXIII, a Luther King o a Gandhi. Uomini che hanno vissuto più da vicino la nostra vita di oggi.

Abramo ha vissuto una situazione del tutto differente.
Insomma, Cristo è già venuto, Abramo ha preparato la sua venuta.
A che serve esaminare ciò che è vecchio, dal momento che il nuovo sta sotto i nostri occhi?

Quando la casa è pronta, le impalcature si tirano via.
Continuare a discutere per sapere come era la vita di Abramo potrebbe essere una buona scusa:
«mi interesso di religione, quindi sono a posto e compio il mio dovere». Di fatto, però, non fa quello che dovrebbe per aiutare il mondo a diventare migliore.

Problemi del genere sono seri e mettono in dubbio la figura di Abramo rispetto a noi, oggi. Stando così le cose, come possono aiutarci testi antichi a risolvere i nostri problemi e a scoprire Dio nella nostra realtà?
Vale anche in questo caso quello che abbiamo già detto rispetto al Paradiso:
la nostra maniera di interpretare la figura di Abramo non corrisponde allo scopo dell'autore.



2. Il punto di vista della Bibbia rispetto alla figura di Abramo

Un esempio: celebriamo la presa di Roma commemorando il grido di Garibaldi: «O Roma, o morte».
Ci sono tante maniere di commemorare questo fatto:
1/i libri di storia adottati nelle scuole;
2/ il monumento di Garibaldi sul Gianicolo;
3/ la festa del XX Settembre;
4/ il proclama di Pio IX che nel 1870 si rinchiuse in Vaticano.
Maniere differenti di commemorare lo stesso fatto.
E se le analizziamo tutte attentamente, nessuna delle quattro è capace di darci una versione esatta del fatto in sé.

La storia è molto complessa; le interpretazioni sono spesso contraddittorie.
I libri di storia danno una versione del fatto in sé, e neppure la più oggettiva.

Il monumento di porta Pia, a Roma, ostenta l'importanza dell'avvenimento, così come lo sentirono coloro che l'hanno costruito.
La celebrazione del XX Settembre rivela un modo di interpretare il fatto; il proclama del Papa prigioniero ne rivela un altro.
Con la presa di Roma, ebbe inizio un processo, ancora in germe nel 1870, oggi molto importante per tutti noi;
la fine del potere temporale dei Papi.

I ricordi e le commemorazioni non si preoccupano del fatto in sé, quanto del significato che esso riveste per la vita.
Figuriamoci come sarebbe un monumento costruito a pezzi e bocconi: 1870.... 1970: Crispi - Mussolini - Saragat.
Ne risulterebbe un monumento sconnesso ed eterogeneo.
Ogni statista vi scolpirebbe un tratto corrispondente alla sua ideologia sulla libertà e sulla indipendenza.

I racconti della Bibbia rispetto ad Abramo compongono un monumento del genere.
Abramo visse verso l'anno 1800-1700 prima di Cristo.
In quel tempo lontano cominciò a nascere qualcosa, di per sé insignificante, ma molto amato dal popolo.

I discendenti di Abramo celebravano il fatto in sé, dandogli però il significato che assumeva per la loro vita.

In epoche successive (sec. X, sec. IX, sec. VI) si elaborarono nuove descrizioni corrispondenti alla mentalità del tempo;
finché, nel V sec., qualcuno stese la redazione definitiva, che è quella della nostra Bibbia.

È una mescolanza delle quattro descrizioni precedenti. Lo ha scoperto la ricerca scientifica degli ultimi 50 anni.
I racconti di Abramo somigliano a un monumento sconnesso ed eterogeneo.
Per cui è molto difficile sapere esattamente come andarono le cose, tanto più che la Bibbia non si preoccupa di dircelo.

L'interesse della Bibbia consiste nel presentare al popolo del suo tempo la figura di Abramo in modo tale che i contemporanei possano impararvi come scoprire la presenza di Dio e come camminare con lui nella vita. Camminare è indispensabile.

Ma tutto questo non è falsificare la storia?
Di un Tizio posso fare una fotografia o una radiografia.
Una è completamente differente dall'altra.
I libri di storia fanno la fotografia dei fatti.
La Bibbia li vede ai raggi X.

In tutt'e due i casi, i risultati sono reali, ma molto differenti. Inoltre, è quasi impossibile percepire tutta l'importanza e il senso di un fatto, nel momento in cui si svolge.
Ci riusciamo soltanto guardandolo da lontano.

Quando imbocchiamo una curva molto larga non ce ne accorgiamo neppure.
Ma chi guarda la strada da lontano è in grado di distinguere nitidamente l'inizio della curva.

Quando Abramo entrò nella «curva» che modificò il corso della sua vita, lui stesso, forse, non se ne rese conto.
Ma guardando il fatto a grande distanza, il popolo dice:
«la nostra vita con Dio cominciò lì, con Abramo».

La Bibbia racconta il fatto non già come lo visse Abramo, ma come lo vide il popolo a distanza di anni, attraverso il prisma dei problemi avvicendatisi nelle epoche successive della sua storia.

3. Com'era la vita di Abramo?

Da tutto quanto è stato detto, nasce una curiosità:
ma insomma, com'era la vita di Abramo?
Come avvenne quell'ingresso storico di Dio nella vita degli uomini?
Quale fu il fatto concreto in cui riconobbero l'inizio dell'azione di Dio?

Saperlo, ci aiuterà a vedere la nostra vita ai raggi X e a scoprire, là dentro, i segni della venuta e della presenza di Dio.
Abramo visse nei secoli XIX - XVII prima di Cristo.
Uscì dalla terra di Ur dei Caldei (oggi Irak, sul golfo persico), risalì l'Assiria (oggi Siria) fino alla città di Haran.
Di là, scese nella Palestina, entrò in Egitto, ritornò nella Palestina, dove morì nella città di Hebron.

Fece tutto per ordine di Dio, stava in contatto con lui.
Basta leggere la Bibbia (Gen. 12-25).
A questo punto bisogna notare' due elementi che illuminano il fatto dal punto di vista storico.

1/ In quel tempo esisteva un movimento emigratorio che, dalla regione del Golfo persico, attraversava la Siria e scendeva giù, lungo la Palestina, fino all'Egitto.
Abramo era uno dei tanti.
Non si distingueva dagli altri.

2/ Tutte le tribù che lasciavano le proprie terre in cerca di terre migliori, avevano i loro dèi. Erano gli «dèi della famiglia». Qualunque cosa facessero, era per ordine degli dei.

Conclusione:
ma allora Abramo era come tutti gli altri?
Non aveva niente di differente che lo distinguesse, neppure la sua fede?
Era uno dei tanti che si perdevano nella massa anonima?
Cosi sembra, guardando i fatti dall'esterno.

Che volevano significare quei popoli antichi quando parlavano di «Dio»? Che tipo di Dio era il loro?
il Dio della Bibbia o un altro, del tutto differente?

La religione comune a tutti i popoli che vivevano nel deserto, nacque, in parte, nella maniera seguente.
Succede sempre che la vita è il risultato di un'armonia fra la natura e l'universo:
piogge di primavera, greggi che svernano a valle, avvicendarsi delle stagioni, inondazioni che irrigano i campi, il sole che sorge ogni mattina, il giorno, la notte, i mesi e gli anni che si succedono.
Finché durerà tale armonia, la vita sarà al sicuro, perché la terra avrà di che germinare e l'uomo di che vivere.

Ma sappiamo che la vita è costantemente minacciata da forze imprevedibili:
terremoti, bufere, malattie, inondazioni disastrose ecc.
Ci sentiamo impotenti ad intervenire nelle forze dell'armonia e del disordine.
Sono più grandi di noi e non riusciamo neppure a spiegarle.
Si pensa che siano forze ultraterrene o divine. Per poter continuare a vivere, l'uomo deve farsele amiche.

Perciò comincia ad adorarle e così nasce la religione.

E, così, ogni popolo o gruppo umano si crea il suo dio protettore (patrono).

In quel lontano tempo, per vivere bene, in modo degno di un uomo, per garantirsi e preservarsi la vita, bisognava adorare gli dèi.
Guai a chi non lo avesse fatto!
Avrebbe messo e repentaglio la vita sua e quella degli altri, perché il Dio poteva irritarsi e non curarsi più di mantenere in equilibrio le forze della natura.

«Dèi» del genere non erano affatto Dio.
Erano espressione dei desideri e della paura degli uomini, della loro volontà di vivere.

Il culto dato agli dèi esprimeva la volontà dell'uomo di vivere con sicurezza.

In questo senso Abramo, al tempo suo, fu un uomo sincero, cercava di vivere bene, adorando quel Dio che aveva ereditato da suo padre.

Al giorno d'oggi la scienza ha demolito l'antica teoria dell'armonia e del disordine dell'universo.
Non provengono da forze divine. Per esempio:
il sole non sorge perché Dio lo spinge.
Le scoperte scientifiche hanno cambiato tutto.

Non è cambiata soltanto la volontà eterna dell'uomo di vivere una vita sicura, di riuscire ad essere fedele, di poter conservare la vita, di fare liberamente quello che gli dice la sua coscienza.

Al tempo di Abramo gli uomini riuscivano a farlo adorando le divinità e esercitando culti di magia.
Anche oggi c'è tanta gente che fa lo stesso, cercando di dare senso e valore alla vita.

Abramo cercava l'ideale della vita, il valore assoluto, cioè il valore più alto che, per se stesso, dà valore a tutto il resto.
Anche oggi c'è tanta gente che cerca il valore della vita e il valore assoluto, con una religiosità simile a quella di Abramo.
Alcuni lo fanno senza pensare alla religiosità, né a Dio né alla divinità, come per esempio nel lavoro per la famiglia, nello sforzo di costruire un mondo più giusto, più umano, più fraterno, nella professione di medico, di avvocato ecc.

Tutti pensiamo di realizzare la nostra vita umana e di cogliere nel segno.

In fondo, la preoccupazione di tutti è la stessa, benché le forme concrete di viverla siano molto diverse.
In quel tempo tutti vivevano il senso verticale della 'divinità'!
Oggi molti preferiscono il senso orizzontale dell"umanità' (lavorare per gli altri dare il mio contributo per il bene di tutti).



SEGUE..


Una stretta di [SM=g1902224]



Pierino









lovelove84
00sabato 3 ottobre 2009 17:54
Bhe lo sto rileggendo, e devo ritirare tutto quello che ho detto l altra volta....

e veramente un capolavoro, ti da il giusto indirizzo per "guardare" il vecchio testamento (per ora questo)

[SM=g7321]

mlp-plp
00sabato 3 ottobre 2009 19:49



[SM=g1916242] "Viaggiando" nella BIBBIA...

[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. II [SM=g6198] [SM=g6198] (seguito)



4. Dio come entrò nella vita di Abramo e come entra nella nostra?


La Bibbia, narrando come Dio entrò nella vita di Abramo, lancia un raggio X molto potente sulla nostra esistenza e ci rivela per quale breccia Dio entra nella vita dell'uomo facendosi incontrare da lui nel momento esatto in cui l'uomo si sforza di essere uomo, cioè quando lotta per realizzare l'ideale che si è proposto.

È questa la porta per cui Dio entrò nella vita di Abramo.
È un'entrata quasi impercettibile, all'inizio.

Sconosciuto, Dio entra nell'autobus dell'umanità, compra il biglietto, si mette a parlare con i passeggeri, si siede accanto ad Abramo, e quando questo si decide a dargli confidenza, Dio è già al volante.

Dio non entra presentandosi con un biglietto da visita:
«Io sono il Creatore, Signore di tutte le cose! Tu mi devi ubbidienza».

Dio entra alla chetichella, come un amico, per la porta di servizio, sempre aperta, prendendo posto nella vita dell'uomo e lasciando che l'uomo scopra da sé chi Lui sia.

Infatti quelle divinità erano proiezioni dell'uomo, espressioni delle sue più profonde aspirazioni.
In tutte queste maniere concrete di vivere la vita umana, si scoprono, poco a poco, i lineamenti del volto di 'qualcuno'.
Abramo e il suo popolo sentono una «Presenza attiva» (al di là delle apparenze con cui essa non si identifica) che si impone per l'evidenza.

Non si tratta più di quella divinità che, in fondo in fondo, dipendeva dall'uomo, ma di qualcuno da cui l'uomo dipende, capace di trasformare lentamente tutta la sua vita.

Incomincia, qui, quella curva larga e definitiva di cui il popolo percepirà pienamente il valore solo molto tempo dopo.
Nell'antica maniera di adorare le forze impersonali della divinità si vanno delineando, poco a poco, i tratti del volto del vero Dio.
Come il fiore che rompe il boccio, facendone cadere le prime foglie.

Il grande messaggio che ne deriva è la risposta sicura alla domanda:
«dove è Dio?»
«Dove lo posso incontrare?»
Dio si fa incontrare ed entra nella vita, là dove l’uomo cerca di essere sincero con se stesso e con gli altri, là dove scopre e vive l'assoluto.

Là dobbiamo cercare, tutt’oggi, i tratti del volto di ‘qualcuno’ in cui crediamo.
Non dobbiamo cercarli anzitutto nel culto.
Il nostro culto ha senso soltanto se esprime ciò che viviamo, giorno per giorno.

Abramo accettò questa presenza e si lasciò trasformare.
Guardando dal di fuori, niente sembra cambiato ma, di dentro, comincia a brillare una luce che lanciò i suoi raggi all'intorno, fino agli ultimi confini dell'universo e portò gli uomini a scoprire che questo ‘qualcuno' è Dio, creatore del cielo e della terra.

Per questo la figura di Abramo era così importante ed aveva tanto valore per quelli che vennero dopo di lui.

Ma se tutto passò così inosservato, come si spiega allora il dialogo costante fra Dio ed Abramo che la Bibbia racconta?
Dialogo vuol dire comunicazione fra due persone.
Ci sono mille maniere di dialogare.

Quando il marito parte per un viaggio, le mille e una cosa che porta con sé, gli ricordano la moglie.
È un dialogo, è una 'presenza' della sposa nella sua vita.
Presenza che lui solo sa, ama, e scopre continuamente, perché vive insieme a lei l'amicizia e l'amore.
Chi ama una persona, in ogni cosa la rivede e la sente presente.

I dialoghi formulati con parole umane rendono concreto ciò che il popolo ha scoperto di Dio, perché vive in amicizia con lui.
Quando una persona accoglie la presenza di Dio nella sua vita e crede in Lui, si stabilisce un dialogo tutto particolare, incomprensibile per chi ne sta al di fuori, ma perfettamente comprensibile per chi vive la 'presenza'.

Leggendo la storia di Abramo, ci incontriamo con un uomo come noi, che cerca di cogliere nel segno della vita e, in questo sforzo, arriva a incontrarsi col vero Dio.
Dio non stava né più vicino né più lontano da Abramo di quanto non lo sia oggi da noi.

Perché, dunque, oggi, non ci incontriamo con Dio?
Forse perché la nostra vista non è buona.
Siamo così preoccupati con una determinata immagine di Dio, che finiamo col pensare che 'quello' non è Dio!

Il nostro apparecchio ricevente non entra in sintonia con la frequenza di onda degli appelli di Dio.
Quel Dio che si rivelò ad Abramo ed è il nostro Dio, è il «Dio degli uomini>>, che non teme di restare nascosto.

Non si accorge della farfalla chi va a caccia di aquile.
Non vede il fiore chi cerca alberi.
Dio è veramente presente e si rivela, per esempio, nell'abnegazione della mamma per la sua famiglia, nel lavoro dell'operaio per mantenere i figli, nella lotta dei giovani per, un mondo più umano, nella gioia sincera d'incontrare un amico, nella comprensione che ci viene dall'altro e ci consola.
Qui sta il volto di Dio, e lo scopriamo poco a poco, un tratto alla volta.


5. Alcune conclusioni importanti

L'entrata di Dio nella vita degli uomini è silenziosa.
Egli si rivela via via e s'impone non nel chiasso ma nel silenzio e nella calma, a chi ha occhi per vedere.
Quando l'uomo arriva ad interessarsi della sua presenza, Dio già stava lì da tanto tempo.

Perché allora la Bibbia ci dice che Dio entrò nella vita di Abramo in modo brusco e quasi violento? (Gen. 12, 1-4).
Solo da lontano si vede meglio dove comincia la 'curva', dove comincia la trasformazione.

Anche se entra inosservato, Dio esige una 'conversione' totale, una vera rottura, una trasformazione della vita.
Dio si presenta come il futuro di Abramo:
«lo sarò il tuo Dio» (gen. 17, 7).
In altre parole:
«Affida a me tutto quel mondo di cose che vai mendicando agli dèi. lo sono il tuo Dio! te lo giuro!».

Così, l'entrata di Dio mette l'uomo di fronte ad una scelta radicale:
o scegliere questo Dio o ritornare alle divinità del passato.

Il Dio che entra è esigente:
« Voglio essere 'lo' il tuo Dio!» Non permette, quindi, che Abramo vada dietro ad altri dèi (monoteismo).
Se Abramo accetta di seguirlo, deve tenere il passo che lui vuole (aspetto etico della religione rivelata) e il suo futuro sarà garantito dalla fedeltà e dalla potenza di questo Dio (speranza nel futuro-messianismo).

Il difficile sta nell'accettare le condizioni che Dio gli pone e camminare nella fede:
Abramo è il prototipo dell'uomo che cammina nella fede, cioè che ha accettato le esigenze di Dio nella sua vita.

Deve uscire dalla sua terra per avere una terra, ma quando muore possiede solo un lotto dove seppellire le sue ossa.

Deve abbandonare la famiglia e il popolo per diventare padre di un popolo ma, al momento della sua morte, ha solo un figlio.

Quando Dio gli parlò e gli promise una numerosa posterità, Abramo non aveva figli e neppure poteva averne.
Era duro credere nella parola, perché non dava garanzie.
Nacque Isacco, e Dio gli ordinò di sacrificarlo.

Era lo stesso che uccidere l'unica speranza di essere il padre di un popolo.

Eppure Abramo fu pronto a distruggere l'unica garanzia e ad appoggiarsi unicamente sulla parola di Dio (Gen. 22, 1-18; Ebr. 2, 18).

Dio, a volte, è contraddizione.
Promette numerosa discendenza e ordina di uccidere il figlio.

Promette una terra e vuole che abbandoni la terra e, durante tutta la vita, Abramo non ebbe nessuna terra.

Eppure, per la sua fede, per la sua fiducia in Dio, Abramo fu così amico di Dio da diventare il suo confidente (Gen. 18, 17-19).

Un simile Abramo non corrisponde alla storia concreta della vita di Abramo, ma all'ideale di fede, proprio del tempo dell'autore.
Così avrebbero dovuto vivere i suoi contemporanei per essere degni di far parte del popolo, nato con Abramo.


6. Risposte alle difficoltà sorte in principio

La prima domanda o difficoltà ha già trovato la sua risposta nell'esposizione precedente.
La storia di Abramo risponde esattamente alla domanda:
«dove sei Dio?».

La storia non serve solo per trarne conclusioni sulla nostra vita di oggi (anche per questo).
Suo scopo è invitare il lettore ad essere lui stesso un Abramo nella sua vita:
uno che cerca di fare il punto sulla vita, che è sincero con se stesso e con gli altri, per scoprire, così, la presenza di Dio nella sua vita.

Cristo è già venuto.
È vero.
Ma per molti è come se non fosse venuto.
Forse, anche per noi.

Nessuno riesce a vivere perfettamente integrato con Cristo.
L'importante è che anche oggi lo uomo arrivi a scoprire come deve camminare per incontrare la sua piena realizzazione in Cristo.

La storia di Abramo ci dice proprio questo:
il primo passo della marcia verso Cristo è la sincerità della vita, l'amore della verità, la ricerca sincera dell'assoluto.

«Chi ama la verità, ascolta la mia voce». (Gv. 18, 37; 3, 17-21; 8, 44-45). Chi si mette su questa strada, scoprirà il volto di Dio nella vita.

Analizzare la vita di Abramo soltanto per sapere come visse e fermarsi lì, non rispecchia l'intenzione della Bibbia.

La risposta alle difficoltà di ordine storico ha suscitato nuove domande e nuove difficoltà, ancora più gravi e compromettenti delle prime:
«Cerco Dio dove lui si fa incontrare, o preferisco cercarlo là dove molto difficilmente si incontra?
Cerco Dio dentro o fuori della vita?
Se gli altri non sanno niente di Dio, la colpa non sarà proprio di noi cristiani, perché la nostra vita non rivela il volto di Dio?».



SEGUE..



Una stretta di [SM=g1902224]



Pierino



flabot
00sabato 3 ottobre 2009 21:11
Sono curioso di vedere come si affronta l'analisi del nuovo testamento, visto che è considerato un resoconto di fatti storicamente avvenuti, non da me ovviamente
mlp-plp
00lunedì 5 ottobre 2009 13:09

[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. III [SM=g6198] [SM=g6198]

esodo: Dio nella storia di liberazione degli uomini

1. Alcune difficoltà relative alla storia dell'Esodo


La storia dell'Esodo è tutta un miracolo dal principio (vocazione di Mosè) alla fine (passaggio del Giordano dopo quaranta anni di cammino nel deserto).

Non possiamo negare il miracolo, ma è strano che oggi non si ripeta per tanti popoli che anelano ad una liberazione identica.
Dio è cambiato?
oppure noi siamo diventati più cattivi?
Dov'è il miracolo?
Crediamo in un Dio liberatore. Ma dov'è oggi questo Dio?

La libertà sta morendo nel cuore degli uomini, siano essi ricchi o poveri, per colpa di tanti fattori che noi stessi abbiamo creato.
Dov'è il nostro Dio e la libertà che ci porta?

Molti si sono stancati di aspettare la libertà e sono passati all'azione liberatrice: Cecoslovacchia, Vietnam, Negri dell'America del Nord ecc.
In tutto il mondo si formano i cosiddetti «Fronti di Liberazione Nazionale», operai ed emarginati prendono coscienza e passano all'azione.

Che rapporto c'è fra tutto questo e il nostro Dio?
In genere questa gente che lotta prescinde da Dio.
Neppure ci pensano e non ne sentono il bisogno.
È frequente l'accusa ai cristiani:
«Vi dite liberi, ma vivete incatenati dalle leggi e dai precetti che vi impone il Dio-Liberatore.

Parlano di libertà ma nella loro vita la libertà non si vede.
Sono come il mendicante che si vantava di essere discendente dell'imperatore di Roma!

Liberi davvero siamo noi, che ci siamo sbarazzati di questo Dio!
A che serve in pratica per la nostra vita credere nel Dio-Liberatore?
Sono difficoltà serie che mettono in crisi tutto quanto la Bibbia ci dice sulla liberazione dell'Esodo.
Sembra che il nostro modo di vedere la Bibbia e la religione ci porti a una interpretazione del tutto sbagliata.


2. L'ottica della Bibbia nella descrizione dell'Esodo

Molte sono le descrizioni dell'Esodo contenute nella Bibbia:
nei libri dell'Esodo e dei Numeri;
nel Deuteronomio;
nel libro della Sapienza (capp. 10-19);
nei Salmi 77, 104, 105, 133;
nei libri profetici, specialmente Isaia (40-55).

L'avvenimento dell'Esodo quindi è raccontato da persone differenti in libri elaborati durante epoche differenti e le descrizioni corrispondono alle più disparate forme letterarie:
prosa e poesia, storia e profezia, inno e narrazione, liturgia e detti sapienziali.
Si tratta evidentemente di un fatto importantissimo per la vita del popolo:
tutti ne parlano e i commenti durano per tutto un secolo.
Qual è la causa di un così grande interesse del popolo per l'Esodo?

Lo scopriamo esaminando il loro modo di parlarne.
Nella descrizione dell'avvenimento ci imbattiamo in alcuni particolari che esigono spiegazioni:

1/ frequenti ripetizioni nel libro dell'Esodo (due volte la storia della manna, delle quaglie, dell'acqua che sgorga dalla roccia, della vocazione di Mosè, della consegna del decalogo ecc.);

2/ evidenti esagerazioni, come per esempio nella poesia dell'Es. 15 e nel libro della Sap.) là dove si descrivono le piaghe d'Egitto;

3/ sconcertanti incertezze:
il Sal. 77 enumera 7 piaghe, il Sal. 104 parla di 8 mentre il libro dell'Es. ne conta lO;
ma è noto che il libro dell'Es. si compone di tre tradizioni precedenti: la 'jahvista' del sec. X con 7 piaghe,
l' 'eloista' del sec. IX-VIII con 5 piaghe,
e la «sacerdotale» del secolo V o VI con cinque piaghe differenti dalle 5 della tradizione «eloista»;

4/ la progressiva accentuazione del miracoloso:
la tradizione 'jahvista' dice che soltanto l'acqua presa dal Nilo diventò sangue (Es. 4, 9);

quella 'eloista' dice che tutta l'acqua del Nilo si trasformò in sangue (Es. 7, 20) ;

quella 'sacerdotale' dice che tutta l'acqua dell'Egitto si trasformò in sangue (Es. 7, 19);

nel libro della Sap. del sec. I a.c. si raccontano cose"'addirittura fantastiche a rispetto delle piaghe.
Insomma quante sono state le piaghe?
Si ha l'impressione che l'ultimo autore dell'Esodo ne formulò 1O pensando che era un buon numero.

Cosa accadde in realtà?
Come avvenne la piaga dell'acqua cambiata in sangue?
Si può sapere come andarono davvero le cose?
Le caratteristiche letterarie di cui abbiamo parlato, messe in evidenza dall'esegesi moderna, rivelano la preoccupazione e l'ottica di chi scrive.

1/ L'autore non si preoccupa di raccontare soltanto una storia, né di fare una «cronaca giornalistica» degli avvenimenti dell'Esodo;
vuole anzitutto tramandare che senso abbia la storia della vita in continua evoluzione.
Non descrive, ma interpreta il fatto storico.
Pertanto non lo possiamo prendere alla lettera.
La Bibbia ci farebbe cadere in contraddizione.
Essa stessa non si lega al fatto materiale, né prende tutto alla lettera: ripete, esagera, travisa, suscita incertezze.

2/ L'interesse fondamentale della Bibbia, ovvero il senso che la Bibbia scopre nei fatti dell'Esodo, mette in evidenza che là Dio si rivelò al popolo imponendosi come il «suo Dio».
Dallo incontro con Dio il popolo prese coscienza di un impegno che doveva essere osservato:
l'alleanza.
Nel modo di raccontare il fatto la Bibbia si propone di mettere in evidenza l'iniziativa di Dio presente e attuante negli avvenimenti.

Si spiega allora perché il numero delle piaghe e il loro aspetto miracoloso siano in continuo aumento:
era l'unica risorsa perché il lettore di quel tempo si accorgesse che i fatti avevano una dimensione divina.

Un paragone può aiutarci a capire:
la fotografia e i raggi X.
I libri di storia sono fotografie:
descrivono quello che si vede a occhio nudo.
Perciò è impossibile toccare e vedere la presenza di Dio (cf. Gv. 1, 18).

Ma il raggio X della fede denuncia e rivela la sua presenza.
C'è differenza tra il modo di vedere le cose dello storico comune e il modo di vedere le cose della Bibbia.

Non usano lo stesso metro.
Non hanno gli stessi occhi. Per cui i risultati dell'analisi dell'uno non possono essere uguali ai risultati dell'analisi dell'altro, anche se non si contraddicono: sono aspetti diversi di un'unica realtà.

La descrizione biblica vuol presentarci i fatti in modo tale che il lettore possa cogliere la dimensione divina del passato, per imparare a cogliere la stessa dimensione divina in ciò che succede a lui e intorno a lui mentre legge la Bibbia.
Condizione indispensabile per cogliere il messaggio della Bibbia è cercare di avere gli stessi occhi dell'autore che la scrisse.


3. L'ottica della scienza moderna contrasta con l'ottica della Bibbia?

Niente ci impedisce di adottare lo stesso punto di vista dello storico né di applicare alla Bibbia i criteri della scienza moderna per arrivare a una più esatta comprensione storica degli avvenimenti.
Così si è fatto. I risultati sono stati i seguenti:
le piaghe erano fenomeni naturali, soliti a realizzarsi nella regione del Nilo;
il passaggio del Mar Rosso era ben possibile durante la bassa marea;
il vento impetuoso (cf. Es. 14, 21) fece ritirare le acque di un guado (dove pertanto era già possibile passare);
la manna era una sostanza resinosa commestibile.
Si tratta di conclusioni irrefutabili.
Anche oggi tutto questo succede in Egitto.

La scienza è arrivata a spiegare gli avvenimenti dell'Esodo in maniera naturale e può concludere:
non accadde nulla di straordinario.
Fu soltanto un felice tentativo umano di liberazione come molti altri, prima e dopo Mosè.

A prima vista una conclusione del genere disorienta.
Ma il risultato di questa ricerca storica è come una fotografia che la Bibbia non smentisce, ma suppone, per poi mostrare l'altro lato della medaglia ai raggi X: in tutto ciò Dio era presente.

La scienza a sua volta non può negare le conclusioni della Bibbia, perché andrebbe al di là delle sue premesse e della capacità dei suoi strumenti di analisi.
Gli strumenti di cui la scienza dispone non potranno mai registrare l'azione di Dio.
La sua presenza la scopre solo chi a Dio si apre con fede.
Dio sta al di qua e al di là della ricerca scientifica.

Per questo si nota nella Bibbia una certa indifferenza per l'aspetto storico concreto, dal momento che gli autori cadono in inutili ripetizioni, in esagerazioni e perfino in contraddizioni:
ingrandiscono e minimizzano, interpretano e travisano la prospettiva dei fatti. Tutto ciò non ha importanza.

Importa comunicare il messaggio profondo dell'avvenimento:
Dio era presente e agiva dentro il tentativo felice degli uomini di liberarsi.
La Bibbia vuole aprirci gli occhi su quello che succede oggi, intorno a noi. Si moltiplicano dappertutto i tentativi di liberazione.
Attenzione a non pensare che tutto ciò succeda indipendentemente da Dio e che a Dio non importi.

Ad occhio nudo non vedo il microbo, ma ne costato gli effetti (le malattie);
con lo strumento adatto riesco a vedere anche i microbi.
Soltanto con la ragione, non vedo la presenza di Dio né nell'Esodo né nel mondo di oggi;
ne registro soltanto i risultati:
un popolo più libero, più umano, più responsabile, più cosciente; ma con lo strumento appropriato - che è la fede mi accorgo che sono proprio questi i segni della presenza di Dio.

Successe in quel tempo quello che succede oggi e succederà sempre.
In tutti gli avvenimenti esiste una terza dimensione che non si distingue a occhio nudo.
E chi si lascia prendere troppo da un solo punto di vista perde la sensibilità per gli altri aspetti della realtà.
Chi vuol solo vedere il lato 'scientifico' delle cose diventa incapace di scoprirne il senso recondito a cui si ispirano l'arte, la poesia, il canto, la filosofia e la pittura.

Quando l'uomo si rinchiude dentro il suo 'io' e si limita alle sue scoperte scientifiche atrofizza la sua capacità di aprirsi a Dio e arriva a non dare più nessuna importanza alla dimensione divina che la fede scopre nelle cose.
Quante volte però la colpa non è della scienza, ma di coloro che professano la fede:
la loro vita quotidiana dimostra che la fede, di fatto, non contribuisce al progresso né allo sviluppo dell'uomo.

Sotto questo aspetto la Bibbia può essere una luce che ci aiuta a scoprire una dimensione nuova e occulta della vita. In particolare il racconto dell'Esodo può rivelarci la presenza attiva di Dio in certi campi della vita umana proprio là dove di solito non la cerchiamo.



4. Il fatto storico dell'Esodo e la sua dimensione divina scoperta alla luce della fede.

Tutto sommato chi osserva e studia il fatto dell'Esodo con criteri puramente umani lo riconosce come felice tentativo di liberazione dal giogo oppressore imposto da un uomo: il Faraone.
Cercarono la libertà e l'indipendenza.
Molti gruppi prima e dopo Mosè avevano tentato la stessa cosa.

Gli uomini continuano a tentare fino al giorno d'oggi perché il bisogno di libertà è sempre il più forte.
Illuminando tutta questa realtà con la luce della fede, la Bibbia lancia un messaggio che suona così:
quando si raccontano i fatti storici dell'Esodo e si insiste non tanto sull'aspetto materiale degli avvenimenti stessi ma soprattutto sull'esperienza viva e concreta fatta dagli uomini e sulla loro convinzione chiara e irremovibile che Dio è presente in ogni tentativo umano di liberazione, la Bibbia interpreta tale sforzo di liberazione come manifestazione della presenza di Dio tra gli uomini, inaugurando la strada che porta a Cristo e alla Risurrezione.

Con i suoi racconti la Bibbia ci trasmette il messaggio che ci aiuta ad accorgerci della (dimensione divina racchiusa nei fatti della nostra storia:
dovunque c'è uno sforzo sincero di liberazione, sia individuale che collettivo, là possiamo sempre riconoscere la voce amica del nostro Dio liberatore che chiama e interpella;
proprio di lì passa anche oggi la strada che porta gli uomini a Cristo e alla Risurrezione.

A questo punto ci troviamo di fronte a una difficoltà.
Può darsi che la maniera con cui la Bibbia vede la liberazione del popolo ebreo dall'Egitto sia stata il risultato di un'autosuggestione collettiva?
Certamente è possibile, ma allora come spiegarne gli effetti?

Sono libero di negare la presenza dei microbi, purché però trovi il modo di spiegarne le conseguenze (malattie).
I risultati documentati dalla storia sono tali che non possono avere nessun'altra spiegazione valida all'infuori di quella data loro dalla Bibbia.
Per cui l'impotenza della scienza storica a trovare una causa specifica adeguata alle conseguenze depone a favore dell'autenticità
dell'interpretazione data dal popolo circa i fatti accaduti proprio a lui, durante la fuga di liberazione dall'Egitto.

La storia arriva a questa conclusione attraverso la constatazione dei fatti che non riesce a spiegare.
Mano a mano che il popolo camminava, diventava più libero, più responsabile, più sensibile ai problemi umani, più cosciente più fraterno più forte e più coraggioso di fronte alle difficoltà della vita, capace di rialzarsi dalle cadute che segnarono la fine di tanti altri.

Tutto ciò è documentato dalla Bibbia e la ricerca storica lo conferma.
La vita del popolo lo mette in evidenza e lo stesso popolo attribuisce i risultati liberatori dell'Esodo all'azione di Dio.
La progressiva umanizzazione della vita riuscì ad imporsi, perché l'orizzonte che l'Esodo squarciò sul futuro del popolo superò la semplice vista umana e raggiunse l'incontro con Dio.

Un'ottica del genere così benefica all'uomo, là dove altre maniere di concepire la vita si rivelarono impotenti, merita senz'altro tutta la fiducia e non permette di giudicare autosuggestione collettiva quella esperienza di Dio che sta all'origine del popolo e che lo portò a conquistarsi la libertà.


5. L'Esodo: principio di una lunga storia di liberazione

Due sono i movimenti paralleli nella storia del popolo eletto.
Da una parte la coscienza progressiva dell'oppressione:
non è possibile liberare chi non ha coscienza dell'oppressione in cui vive e non sa cosa sia la libertà, né può riceverla dal di fuori.

D'altra parte la liberazione progressiva cammina parallela alla progressiva coscienza di oppressione: una volta coscientizzato della situazione in cui vive, il popolo si sveglia e assume la liberazione come suo compito esclusivo.

La Bibbia ci dice che sia l'uno che l'altro processo hanno a che fare con Dio.

In questo senso l'Esodo fu solo un principio e non un punto di arrivo.
La presa di coscienza incominciò là dove l'oppressione si faceva sentire di più:
oppressione politico-culturale.
Dopo l'Esodo continuò l'azione coscientizzatrice di Dio attraverso i condottieri scelti da lui fino ad attingere la radice di ogni oppressione, che è l'egoismo:
il ripiegarsi dell'uomo su se stesso che lo porta a creare strutture di oppressione in tutti i campi del1a vita.
D'altra parte il compito della liberazione non si limita all'uscita dall'Egitto; anzi ne fu solo l'inizio.

Il processo continuò persistente fino a strappare la radice dell'oppressione per l'amore liberatore di Cristo.
La vera libertà che Dio propone agli uomini nasce dall'amore a Dio e al prossimo.
L'Esodo incominciato da Mosè si conclude con Gesù Cristo risuscitato dalla morte alla vita vera.
Si riassume nelle parole del Vangelo: perdere la vita per amore, per poterla possedere pienamente (Mc. 8, 35).

Dio non ha bisogno della nostra libertà e neppure gli importa di darcela in dono. Dio è libero.
A contatto con Dio l'uomo si libera e riceve il germe della vera libertà.

II germe della libertà entrò nel cuore del popolo ebreo in occasione dell'Esodo e cominciò a mettere radici.
Il popolo viveva in Egitto da 430 anni (Es. 12, 40) senza alcuna coscienza di subire una oppressione.
Quando questa passò il limite della sopportazione, allora la coscienza del popolo si svegliò al desiderio di libertà espresso nella preghiera (Es. 1, 1-2, 25).
Dio rispose alla preghiera del popolo chiamando Mosè perché' realizzasse la liberazione (Es. 3, 7-10; 6, 2-8).

Nonostante tutta l'esaltazione dell'opera di Dio che la forza di una fede già più illuminata descrive nell'Esodo, sono evidenti nel testo le astuzie di Mosè per raggiungere il suo scopo.

La fuga doveva essere mascherata dal pretesto di un pellegrinaggio di tre giorni attraverso il deserto (Es. 5, 1-3; 7,16; 9, 1; 8,25-27).
Per evitare scontri pericolosi con l'esercito di Faraone, Mosè fece uscire il popolo per la strada del sud verso il Mar Rosso (Es. 13, 17-18).

Riuscì ad attraversare il mare grazie ad un vento forte e secco che fece ritirare le acque (Es. 14, 21) e suscitò una tempesta di sabbia nel deserto che impedì agli Egiziani la visibilità (Es. 14, 19-20).
Ma lo sforzo e il calcolo dell'uomo non sono la cosa più importante. Importante per loro e per noi fu la nuova fede sbocciata in mezzo al popolo dall'esperienza vissuta:
fede in Dio che camminava con loro e fede nella parola di Mosè interprete di Dio (Es. 14, 31).

La descrizione dell'Esodo si propone di suscitare nei lettori la stessa fede, lo stesso sforzo di liberazione per arrivare a celebrare tra di loro la presenza del Dio liberatore.
«Cantate inni al Signore, perché ha fatto risplendere la sua gloria» (Es. 15, 1).
In questo senso la descrizione dell'Esodo spiega un cammino che cominciò là nell'Egitto e che continua ancora... È il cammino di tutti noi verso la terra promessa dove regna la libertà piena che viene da Dio.

Se guardiamo la vita con questi occhi, siamo capaci di accorgerci e di percepire in modo nuovo il vero valore dei fatti che oggi succedono. Quando gli uomini vivono lo sforzo di liberazione e si impegnano a por tarlo avanti, Dio si fa incontrare anche oggi da loro come si fece incontrare dal popolo eletto, perché tutti arrivino a Cristo.

Molti e svariati sono oggi gli aspetti di questo sforzo:
superare i limiti dell'ignoranza con lo studio;
vincere il vizio che deprime;
fare la psicanalisi per liberarsi da complessi e condizionamenti;
fare medicina per liberare gli altri dall'oppressione dei mali fisici; contribuire ad eliminare l'analfabetismo;
insegnare l'igiene e a coltivare un orto; popoli che si sforzano di liberarsi dal colonialismo e dall'imperialismo;
cercare di vincere le distanze che sono una forma di oppressione;
operai che si uniscono per difendere i loro diritti calpestati;
popoli che elaborano insieme la dichiarazione dei diritti dell'uomo; vincere soprattutto ogni forma di egoismo;
denunciare le ingiustizie e le torture che offendono la persona umana; promuovere lo sviluppo del popolo.
Sono infinite le forme che assume lo sforzo gigantesco di liberazione.

L'umanità cammina faticosamente attraverso tutto questo, facendo il suo Esodo nel dolore fino alla conquista della libertà totale.
Ciascun uomo fa il cammino dell'esodo:
la crescita naturale del bambino che diventa adulto è una maniera di vincere le limitazioni e di affermarsi nella vita;
ogni gruppo, ogni popolo ha il suo Esodo.
L'umanità intera è coinvolta nell'Esodo o come dice il Concilio è radicalmente impegnata nel «mistero pasquale» di Cristo.
In tutto questo groviglio di cose Dio apre le sue braccia, entra, si fa presente, agisce a vantaggio degli uomini e lì si fa incontrare.

Chi guarda dal di fuori non vede niente, non si accorge di niente, ma gli occhi della fede arrivano a scoprire là dentro (per averne fatto l'esperienza nel dolore) la presenza nascosta di Dio.

Bisogna allora concludere che tutte le azioni compiute in nome della libertà sono approvate da Dio?
Andremmo al di là delle premesse. Esistono movimenti di liberazione che invece di portare alla libertà portano ad una oppressione ancora maggiore, 'perché portano all'odio ed alla chiusura all'interno di un gruppo.
Come si fa a distinguerli?


6. La storia dell'Esodo criterio di discernimento

Mosè fu educato alla corte del Faraone (Es. 2, 5-10).
Era costume del tempo educare i ragazzi dei paesi occupati per farne poi strumenti a vantaggio dell'Egitto.
Mosè però non fece carriera perché la voce del sangue gridò più forte.
Si rivoltò contro la situazione umiliante del suo popolo e uccise un soldato (Es. 2, 11-12).
È probabile che il fatto si riferisca ad un tentativo fallito per raggiungere la libertà. Dovette fuggire (Es. 2, 11-12).

Nell'esilio Dio lo raggiunge di nuovo e gli ordina di ritornare per liberare il suo popolo (Es. 2, 23 - 4, 18).
Dopo lunga resistenza Mosè obbedisce e accetta la missione.
La libertà per la quale adesso si impegna a lottare non ha più carattere negativo (liberarsi dall'oppressione politica del Faraone) ma acquista contenuto positivo.

Chi lotta solo per liberarsi 'da' qualche cosa ha solo coscienza di ciò che non vuole e cammina all'indietro verso il futuro;
gli manca il criterio per orientare i suoi passi in avanti.
La libertà che Mosè intravede all'orizzonte fa parte di un progetto che Dio vuole attuare:
liberare il popolo dall'Egitto per fare di lui il «suo popolo» ed essere lui il «Dio del suo popolo» (Es. 6, 6-8).
Il popolo deve liberarsi 'per' diventare popolo di Dio; sa quèllo che rifiuta perché ha coscienza di quello che cerca nella vita; adesso sì, possiede i criteri necessari per dirigere i suoi passi in avanti.

Mosè e il popolo hanno chiaro l'obiettivo verso cui dirigere l'azione che tesserà tutta una storia, dando contenuto e senso alla libertà che cercano.
Tutto quello che non serve al fine non serve neppure alla loro liberazione.

È più che evidente che l'entrata di Dio nella vita degli uomini è luce che orienta e corregge allo stesso tempo.
La prima correzione o conversione si ebbe nel cervello di Mosè:
da assassino diventa coscientizzatore.

Non sempre tutto ciò che si fa in nome della libertà porta a quella libertà che Dio vuole per il suo popolo. Come pure non sempre lo sforzo di liberazione può essere pacifico e senza violenza.
Certamente la missione di Mosè provocò a prima vista una recrudescenza dell'oppressione del Faraone (Es. 5, 1-18) e quindi una rivolta del popolo ebreo contro Mosè il liberatore per aver eccitato l'odio del Faraone e per aver aizzato gli Egiziani ad uccidere gli ebrei (Es. 5, 19-21).

Invece della libertà si ebbe una oppressione ancora maggiore.
Mosè si lamenta (Es. 5, 22-6, 1), il Faraone si indurisce ancora di più e resiste alle esortazioni ricevute (Es. 7, 13.22; 8, 15-19; 9, 7.12; 1O, 20.27).
Toccava a Mosè vincere la paura e l'apatia del popolo.
Doveva convincere il popolo che, se Faraone si era indurito, Dio agiva in lui e preparava così la liberazione' (Es. 7, 3-5; 9, 35; 1O, 10.27).

Tutto lo sforzo di Mosè consisteva fondamentalmente nel far sì che il popolo prendesse coscienza dell'oppressione in cui viveva e si decidesse a far di tutto per liberarsi, perché Dio glielo ordinava.
Interpretava i fatti come segni e appelli di Dio, in favore del suo popolo. Faceva parlare i fatti.

Finalmente il Faraone cedette e il popolo partì (Es. 12, 37).
Cominciò la marcia della libertà, la marcia che Dio voleva dal popolo suo. Ma era una marcia soggetta alla critica e ambigua.
Alla soglia della libertà tutto sembrava fallire.
Imbottigliato tra il mare e l'esercito egiziano, il popolo si disperò e si ribellò contro Mosè (Es.14, 11-12).

Mosè allora fece ricorso alla fede, il popolo perseverò, nacque la libertà (Es. 14, 30). È evidente la fede del condottiero nella causa che difende e che lui stesso guida.
Crede che sarà certamente vittorioso. Non è stato Mosè a provocare la violenza. La colpa fu del Faraone che non voleva far partire il popolo alla conquista della sua libertà.
Trovava molto più comodo conservare al suo servizio un popolo di schiavi.


7. Celebrare la libertà che viene da Dio

Il popolo fece la sua grande esperienza:
ci ha liberati Iddio!
Siamo il suo popolo (Es. 19, 4-6).
Di conseguenza tutti gli avvenimenti passati erano visti alla luce di questa fede fondamentale.
In tutto' Dio era presente guidando tutto al bene del suo popolo.

Sotto questo aspetto Dio era presente anche nell'astuzia umana, che portò il popolo a scegliere un cammino meno pericoloso dirigendosi verso il Mar Rosso (Es. 13, 17-18).
Si riconobbe il dito di Dio nel vento impetuoso che soffiò tutta la notte alzando una nuvola spessa di sabbia (Es. 14, 20-21) e che facilitò la fuga perché la marea era bassa e la tempesta formava una cortina oscura che proteggeva la ritirata.

Le piaghe naturali che erano solite verificarsi in Egitto aiutarono a creare un clima generale di confusione che favorì la fuga di liberazione. Viste alla luce dei raggi X della fede, esse divennero per Mosè e per gli ebrei la rivelazione dell'azione liberatrice di Dio.
Il popolo e il suo condottiero seppero interpretare i «segni dei tempi» e corrispondervi fedelmente ricorrendo perfino ad artifici e astuzie, strategiche per portare a termine il piano di Dio.

Era la notte di Pasqua. La Pasqua era la festa pastorizia della primavera:
si usava tingere le porte delle case col sangue di un agnello per difendersi dall'influenza degli spiriti cattivi.
Per celebrare la festa del deserto uscirono dall'Egitto.

Fu così che da allora In poi la Pasqua non fu più una festa contro gli spiriti cattivi ma il 'memoriale' della liberazione:
ricordava quello che Dio aveva fatto, offriva al popolo un'occasione sempre nuova di impegnarsi un anno dopo l'altro nel progetto di liberazione in atto, e manteneva viva nel popolo la speranza di una liberazione totale nel futuro.
Per questo la vita di chi crede in Dio e nella sua promessa vuole chiamarsi «vita pasquale», cioè vita che passa successivamente dall'oppressione alla liberazione.

La Pasqua di Cristo fu la vera Pasqua, perché lui passò dalla morte alla vita vera, che dura sempre presso Dio.
Il contatto con Dio genera la vera libertà.
La storia del popolo ebreo è caratterizzata dallo sforzo di liberazione e dalla preoccupazione di celebrarne la vittoria.



SEGUE..



una stretta di [SM=g1902224]


Pierino





Elyy.
00lunedì 5 ottobre 2009 20:26
Riguardo la storia di Abramo, trovo interessanti queste parole:


La Bibbia racconta il fatto non già come lo visse Abramo, ma come lo vide il popolo a distanza di anni, attraverso il prisma dei problemi avvicendatisi nelle epoche successive della sua storia.



e anche queste:


Il grande messaggio che ne deriva è la risposta sicura alla domanda:
«dove è Dio?»
«Dove lo posso incontrare?»
Dio si fa incontrare ed entra nella vita, là dove l’uomo cerca di essere sincero con se stesso e con gli altri, là dove scopre e vive l'assoluto.

Là dobbiamo cercare, tutt’oggi, i tratti del volto di ‘qualcuno’ in cui crediamo.
Non dobbiamo cercarli anzitutto nel culto.
Il nostro culto ha senso soltanto se esprime ciò che viviamo, giorno per giorno.

Abramo accettò questa presenza e si lasciò trasformare.
Guardando dal di fuori, niente sembra cambiato ma, di dentro, comincia a brillare una luce che lanciò i suoi raggi all'intorno, fino agli ultimi confini dell'universo e portò gli uomini a scoprire che questo ‘qualcuno' è Dio, creatore del cielo e della terra.




oltre ovviamente a tutto l resto!

Si legge molto scorrevolmente ed è un piacere essere trasportati nell'esegesi biblica, solitamente un tantino ostica.




X FLABOT:

Capisco la tua curiosità riguardo al Nuovo Testamento, ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensi dell'esegesi esposta fin'ora, ti sembra accettabile?


Ciao, Ely





mlp-plp
00lunedì 5 ottobre 2009 23:20
[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. IV [SM=g6198] [SM=g6198]

Sansone e Dalila: folclore o qualcosa di più?


1. Alcune difficoltà relative alla storia di Sansone e Dalila

La storia di Sansone e Dalila occupa uno spazio relativamente grande nel libro dei Giudici:
dal cap. 13 al cap. 16, quasi la quinta parte del libro.

Racconta la nascita di Sansone (cap. 13) il suo matrimonio (cap. 14) le sue liti e le sue gesta contro i Filistei (cap. 15) e la sua morte tragica e gloriosa ad un tempo (cap. 16).
È una di quelle storie bibliche di cui non si sa che pensare.

Il comportamento di Sansone non va d'accordo con i principi della morale e dell'etica.
Anzi non segue addirittura nessuna legge.
Va solo dietro ai suoi impulsi.

Gli piacevano le donne. La Bibbia ne nomina tre.
Uccideva senza scrupoli.
Dava noia a tutti, ai nemici e agli amici, con le sue gesta e le sue contese quasi sempre provocate da un fatto di amore.
Fa quello che gli pare e come gli pare.

Come può la Bibbia riconoscere in tutto questo l'azione vivificante dello Spirito di Dio?
Che pensare di una simile storia?
Sarebbe solo il copione di un film scabroso?

Non è certo possibile imitarlo: sarebbe pericoloso e sconveniente.
Eppure la Chiesa fino ad oggi continua a leggere questa storia.
A che serve?
Quale utilità ha per noi?


2. L'ottica dell'autore che scrive la storia di Sansone

Il libro dei Giudici, scritto molti anni dopo gli avvenimenti che racconta, somiglia a un tappeto fatto di ritagli.
Con mattoni vecchi l'autore ha costruito una casa nuova.
Visse nel secolo VII a.C.

Tutti dicono che la vita nazionale ha bisogno di riforme profonde, altrimenti sarà il caos.

Il re Ezechia (716-687) aveva tentato di riformare la vita della nazione, ma fu un fallimento e le cose andarono di male in peggio sotto il regno di Manasse (687 -642) e di Amon (642-640).
Nel 640 il governo passò nelle mani di un giovane, il re Giosia che godeva il favore del popolo.

Era un condottiero risoluto a portare avanti il lavoro (diverse volte interrotto) della riforma urgente della nazione.
Era appoggiato da tutti.

Inoltre la decadenza dell'Assiria rendeva meno tesa la situazione internazionale.
Sorse così un movimento nazionalista composto dal governo, dal clero e dai profeti é appoggiato dalla simpatia popolare.

Si proponeva una riforma profonda basata sulla costituzione, che era la legge di Dio riveduta e corretta nel libro del Deuteronomio, la cui data risale a quel tempo o a poco prima.

Durante la revisione generale e collettiva un uomo ebbe una idea geniale: approfittare di tutte le tradizioni popolari del passato a favore del movimento riformista.
La sua tesi era: chi riforma la vita, o almeno vi contribuisce, prepara ed assicura un futuro migliore.

Era dell'opinione che la situazione di malessere generale fosse causata dalla negligenza con cui si osservavano i diritti e i doveri contenuti nella legge di Dio.
Il popolo doveva prenderne coscienza.
A tal fine scrisse il libro dei Giudici che include la storia di Sansone.

L'autore raccoglie tutte le antiche tradizioni del tempo dei Giudici e le riordina secondo un tema fisso che esprime la sua tesi e il suo messaggio fondamentale:

1/ quando il popolo al tempo remoto dei Giudici tralasciava di seguire la legge di Dio perdeva la libertà e cadeva sotto il dominio straniero (Giud. 2, 1-3.11-15; 3, 7-8.12-14; 4, 1-2; 10, 6-8; 13, 1);

2/ quando poi si pentiva convertendosi a Dio e riformando la vita, Dio suscitava sempre un condottiero su cui scendeva la forza dello Spirito di Dio per liberare il suo popolo (Giud. 3, 9-10.15; 4, 3 seg.; 6, 7 seg.; l0, 10 seg.);

3/ ne risultava un periodo di pace e tranquillità perché il popolo era libero (Giud. 3, 11.30; 5, 31;
8, 28; 15, 32);

4/ in seguito abbandonata di nuovo la legge di Dio, tornava l'oppressione e ricominciava lo stesso processo.

Così l'autore interpretava la storia dei Giudici.
I Giudici erano i condottieri carismatici suscitati da Dio in risposta alla buona volontà del popolo.

Il ripetersi costante ed infallibile dell'intervento liberatore di Dio in risposta alla 'conversione' o alla riforma del popolo dava al lettore la garanzia che lo stesso intervento era possibile anche al tempo suo.
Bastava prepararlo e provocarlo con una profonda riforma della vita nazionale, giacché Dio non è cambiato da allora ad ora.

La forza dello Spirito di Dio avrebbe garantito anche adesso il felice esito della riforma tentata dal popolo.
Sotto questa luce il tempo remoto dei Giudici riviveva per l'autore e per i suoi lettori e acquistava dimensioni di attualità; se volevano che la situazione cambiasse in meglio dovevano fare come i loro antenati.

L'autore del libro dei Giudici inserisce la storia già esistente di Sansone in questo contesto generale.
Per metterla in armonia con la prospettiva e l'obbiettivo globale del libro vi aggiunse una breve introduzione:
«Israele cominciò a fare ciò che non piaceva a Dio;
e Dio permise che cadesse nelle mani dei Filistei...» (Giud. 13, 1) e conclude così: «Sansone governò Israele per 20 anni» (Giud. 15, 20; 16, 31).

Ecco in qual modo una storia vecchia, senza perdere in nulla il suo carattere popolare, cominciò ad avere una funzione di grande attualità: diventò un esempio per chi affronta le situazioni col realismo della fede preparando così la manifestazione della forza di Dio.

L'esempio suscitava la domanda:
«Chi è oggi il nostro Sansone che merita il nostro appoggio e nel quale la forza di Dio si manifesta?».
La risposta che l'autore lascia sospesa è evidente: «il giovane re Giosia».



3. Note al margine della storia di Sansone .

Rimane aperta la domanda:
ma la storia di Sansone è proprio successa?
È proprio vero che Dio approvò tutte quelle cose?
A che servono tanti racconti scabrosi e poco verosimili di amore e morte? Qual è la verità?
E possibile saperla?

Occorre anzitutto tener presenti due cose:
si tratta di letteratura ben popolare; i fatti successero in particolari circostanze di oppressione da parte dei Filistei.

Evidentemente la letteratura popolare non osserva le leggi di una cronaca giornalistica e neppure si preoccupa di dare una versione fotografica dei fatti; si lascia influenzare dai pettegolezzi che gonfiano i fatti secondo l'interesse del momento.

Inoltre una letteratura sorta durante l'oppressione esprimeva necessariamente le profonde aspirazioni del popolo:
sconfiggere i Filistei e riconquistare la libertà.

La letteratura registra esempi del genere durante l'ultima guerra mondiale. Sotto l'oppressione nazista il movimento della resistenza faceva saltare un ponticello.

Il popolo faceva i suoi commenti e il fatto passava di bocca in bocca.
Ci godevano a raccontarlo.
Serviva ad attutire la tensione e a mantenere viva la speranza.
Voleva dire che esistevano forze attive a favore della libertà da tutti sperata.

Mano a mano però che la storia passava di bocca in bocca, le dimensioni del ponte aumentavano fino a diventare fantastiche.
I Filistei avevano invaso tutto Israele e il popolo soffriva.
Si formò un movimento di resistenza per riconquistare la libertà.

Non mancarono gli eroi.
Uno di essi fu Sansone che dette il nome al secolo. Uomo forte e coraggioso, con la sua audacia brutale riuscì a tener viva la speranza del popolo preparando la scalata al potere di David, che molti anni più tardi sconfisse definitivamente i Filistei.

Come la storia del ponticello, Sansone entrò nella leggenda.
La sua storia cresceva mano a mano che passava di bocca in bocca.
Oggi non è più possibile sapere che cosa esattamente egli abbia fatto, come non è più possibile sapere le dimensioni esatte del ponte.

La favola costruita intorno alla persona di Sansone, benché abbia un sicuro fondamento storico non nacque con lo scopo di essere una cronaca dei fatti accaduti. La fonte fu un'altra e un altro fu lo scopo.

Nacque come mezzo per esprimere una speranza e per alimentarla;
funzionava come valvola di sicurezza per aiutare il popolo a respirare.

Era come se il popolo dicesse:
«vogliamo vivere, non vogliamo morire da un momento all'altro!
possiamo ancora sperare, farci coraggio, resistere, perché abbiamo con noi la forza dello 'Spirito di Dio».

Questo obbiettivo concreto provocò un crescendo nella dimensione favolosa e fantastica dei fatti e ci dimostra che la speranza del popolo non conosce limiti. Si tratta di un racconto più patriottico che storico; somiglia piuttosto al monumento di Porta Pia che al grido storico di Garibaldi.
Fu il mezzo che fece crescere la coscienza del popolo e lo mantenne all'erta. Il popolo non poteva adattarsi.



4. La storia di Sansone a fumetti

Nascita di Sansone (Cap. 13). Tutto fa pensare che il bambino diventerà un grande uomo;
il padre si chiama Manoach che vuol dire 'tranquillo'.
La madre è sterile (Giud. 13, 2).
E con tutto ciò nasce un bambino 'terribile'.

Se ne deduce che dietro alle quinte c'è Dio.
Perciò si racconta che la nascita fu annunziata da un "angelo di Dio" il quale chiese di consacrarlo interamente a Dio.
Perciò sua madre deve osservare certe prescrizioni (Giud. 13, 4) e il bambino non si dovrà mai tagliare i capelli (Giud. 13, 5).

Già si prevede il destino di Sansone e la fonte della sua forza:
proviene dalla sua totale consacrazione a Dio che in lui vuole manifestare la forza dello Spirito.
In tutta la Bibbia l'annuncio anticipato della nascita fa parte dello schema secondo il quale il bambino che nascerà è investito di una specialissima missione che realizza il piano di Dio: Giacobbe (Gen. 25, 21-26) Samuele (1 Sam. 1, 1-28) Giovanni Battista (Lc. 1, 5-25) Gesù Cristo (Lc. l, 25-37).

Matrimonio di Sansone (cap. 14). Sansone andò contro tutte le regole.
Si innamorò di una fìlistea nemica del popolo e la sposò.
Nessuno riuscì a dissuaderlo (Giud. 14, 1-3).
Molto tempo dopo il popolo riconobbe in questo fatto la mano misteriosa di Dio che tutto disponeva per il suo bene, perché da questo matrimonio venne la vittoria sui Filistei (Giud. 14, 4).

In altri termini «Dio scrive diritto su righe storte».
I versetti 5-20 sono evidentemente una favola leggendaria intorno ad un fatto che oramai è impossibile dimostrare: uccise un leone all'insaputa dei genitori.

Durante la festa nuziale propose un rebus e perse la scommessa a causa dell'insistenza di sua moglie; dovendo pagare il prezzo di 50 tuniche, entrò in una città filistea, uccise 50 uomini, strappò loro le tuniche e pagò il debito.

E la Bibbia dice che mentre ammazzava «lo Spirito di Jahvè irruppe su di lui» <14, 19). Alla fine dei conti Sansone ritornò furibondo a casa di suo padre. Il suocero aveva dato la figlia ad un altro.

Litiga con i Filistei (cap. 15). Quando Sansone dopo molto tempo andò a trovare sua moglie seppe che il suocero l'aveva ingannato dando la figlia ad un altro. Dalla rabbia prese 300 volpi, le legò due a due sulle code insieme a una torcia accesa e le spinse nei campi di cereali. Bruciò tutto (Giud. 15, 4-5).

I Filistei si vendicarono bruciando vivi la moglie e il suocero.

Sansone rispose per le rime uccidendo un numero «grande di Filistei» e poi si andò a nascondere in una grotta (Giud. 15, 6-8).
L'avvenimento fu causa della rivolta dei Filistei contro gli Ebrei.
I familiari di Sansone, per evitare mali maggiori, mandarono un plotone di 3000 uomini a prendere Sansone e a consegnarlo ai Filistei.
Non volevano seccature.

Sansone si lasciò prendere e consegnare ai nemici della sua nazione.
Ma al momento della consegna lo Spirito Santo si impossessò di lui (Giud.
15, 14); Sansone spezzò le corde, prese una mascella di somaro e uccise 1000 Filistei.

Stanco e assetato dopo questa avventura, chiese a Dio che gli mandasse dell'acqua e una roccia si spaccò e ne scaturì l'acqua. Aveva appena finito di ammazzare 1000 uomini e Dio lo ricompensava con un miracolo!

Fine tragica e gloriosa di Sansone (cap. 16).
Sansone andò a Gaza, città dei Filistei, e entrò in una casa di prostituzione. I Filistei pensarono di averlo preso in trappola.
Chiusero le porte della città.

Ma Sansone esce, scardina le porte delle mura e se le carica in spalla fino nei pressi dell'Ebron. Un viaggio di molte miglia (Giud. 16, 1-3). Poi si innamora di Dalila, anch'essa Filistea.
I Filistei fecero un piano per ucciderlo. Dalila era la persona-chiave.

Doveva scoprire il segreto della forza di Sansone. Sansone la ingannò per tre volte (Giud. 16, 4-14).
La quarta volta Sansone capitolò e rivelò che il segreto si nascondeva nei lunghi capelli: sette lunghe trecce che non erano mai state tagliate, segno della sua consacrazione a Dio.

Mentre dormiva gli tagliarono i capelli, lo presero e lui non ebbe più la forza di resistere. Gli cavarono gli occhi e lo gettarono in prigione.

Quando un uomo permette che un altro si intrometta tra lui e Dio, deviandolo da Dio, perde la forza e il coraggio e diventa zimbello della malizia umana.

Organizzarono allora una grande festa al dio Dagon.

Nel frattempo i capelli di Sansone crebbero ancora di nuovo e la sua forza tornò. Durante la festa Sansone fa crollare il tempio e uccide più Filistei di quanti ne aveva uccisi in tutta la sua vita (Giud. 16, 30).


5. Sansone e Dalila: folclore o qualche cosa di più?

Chi legge questa storia non può fare a meno di provare ripugnanza e ammirazione: ripugnanza per i delitti commessi; che la Bibbia non si preoccupa di nascondere né di giustificare.

ammirazione per l'audacia e l'autenticità di Sansone; non mentisce, è sincero, è del tutto libero; sfida le convenzioni; sconfigge i traditori (suoi familiari) che volevano farlo prendere; non sopporta doppiezza né compromesso.

La Bibbia non approva i delitti e le debolezze di Sansone, si limita soltanto a descrivere quello che il popolo diceva di lui e indica il cammino che dall'oppressione portò alla libertà.

Tuttavia sottolinea il carattere che distingue il cammino dal principio alla fine: sincerità e amore alla libertà.

Mette pure in évidenza un consiglio sempre attuale:
non lasciarsi trasportare dalle parole della donna leggera, perché ne derivano soltanto noie, e perfino un uomo forte come Sansone può uscirne sconfitto.

Sono racconti popolari di un popolo riconoscente che non ignora la colpa, ma che sa perdonare. Sansone fu un bandito, ma viveva e incarnava un ideale che era l'ideale del popolo, ideale sacro: l'amore alla libertà.

Egli contribuì alla piena riconquista della libertà al tempo di David.
Per questo il popolo, guardando i fatti ad una certa distanza, riconosce la mano di Dio in quella storia incomprensibile e si convince che Dio può scrivere diritto su righe storte.

Gran parte della storia di Sansone e Dalila è folclore. Ma non per questo la sua importanza è minore. Il valore sta precisamente nel folclore esuberante che mette in evidenza l'interesse e il giudizio del popolo in tutti quegli avvenimenti:

1/ esprime la speranza di un popolo che cammina verso il futuro appoggiandosi alla potenza di Dio;

2/ esprime l'amore alla libertà e alla sincerità;

3/ esprime la fede incrollabile che Dio cammina con il popolo in tutte le circostanze;

4/ condanna coloro che preferiscono i compromessi e che perciò tentano di togliere di mezzo l'uomo veramente libero.



6. Altre conclusioni


La riflessione sulla storia di Sansone e Dalila ci apre uno spiraglio per capire come nacque la Bibbia e come fu composta.
Non certo da un giorno all'altro.

Nacque per un lento processo che accompagnò il lento formarsi della coscienza del popolo, che alla luce di Dio percepiva sempre più chiaramente la sua responsabilità.

Per questo incontriamo nella Bibbia (e anche solo in uno dei suoi libri) diverse stratificazioni che si riferiscono a epoche differenti.

Nel nostro caso la storia di Sansone è vista da un lato con gli occhi dello scrittore che viveva al tempo del re Giosia;
dall'altro con gli occhi del popolo che visse centinaia di anni prima sotto l'oppressione dei Filistei.

Il libro dei Giudici sembra una costruzione nuova fatta con mattoni vecchi. Lo studio di questo libro della Bibbia prova che l'interesse della Bibbia non è soltanto conservare la storia dei tempi antichi, ma conservarla in modo che dia al popolo una visione di fede d'accordo con quello che il popolo vive al momento presente.

Scopo della Bibbia è mantenere il popolo sveglio e consapevole della sua responsabilità.

La storia di Sansone inoltre rivela la sincerità con cui il popolo raccontava il suo passato: non nasconde nulla.
Senza approvare gli sbagli commessi, si accorge anche del bene che essi contengono.

In questo la Bibbia anche oggi ha ragione.

Basta dare uno sguardo alla storia umana: ogni azione umana è ambivalente, è un misto di bene e di male.
Spesso il male sta alla radice dell'agire mentre le apparenze sono buone.

Gesù ha chiamato 'farisaico' un comportamento del genere quando l'esterno non riflette l'interno.
A volte il male affiora alla superficie mentre la radice è buona.

Dio preferisce questo secondo comportamento, per cui accoglie i peccatori, i pubblicani e le prostitute.

Sansone era un uomo il cui comportamento era molto cattivo, ma nell'intimo egli era molto buono: sincerità, autenticità, amore alla libertà.
Del resto anche la storia della Chiesa è un miscuglio di bene e di male.

In nome di Dio si fecero cose orribili:
certi fatti delle crociate, dell'Inquisizione, della persecuzione agli eterodossi all'inizio del nostro secolo... Non abbiamo diritto di condannare le azioni di Sansone.

Al contrario esse ci chiedono un esame di coscienza.
In fondo ciascuno, esaminando la sua vita e la concatenazione dei suoi gesti, si accorge che il bene e il male si mescolano in modo da formare un tutto inseparabile.
Non per ciò Dio è assente dalla nostra vita.

A questo punto la Bibbia getta la maschera e dice chiaramente: «Ecco chi siamo noi!» Non nasconde né giustifica, ma riconosce e confessa tentando di 'riformare' e 'convertire'.

Al mondo non piacciono gli uomini liberi che non vanno dietro alla legge della maggioranza, che sfidano tutti e scomodano amici e nemici, come faceva Sansone. Però il più delle volte proprio loro preparano un futuro migliore.

Possono fare molti sbagli, come Sansone e come tanti che anche oggi si battono per un futuro migliore.

Ma non riconoscere ciò che vi è di positivo e l'appello di Dio che sta in loro, sia ieri che oggi, è «peccare contro lo Spirito Santo», come dice Gesù.

Di lui dissero che aveva il demonio in corpo perché scomodava e impediva a molti di stare tranquilli. Per giustificarsi attribuivano al più grande avversario di Dio quello che Dio stava operando in Gesù Cristo per liberare gli uomini (cf. Mc. 3, 23-30).

Per un peccato del genere non c'è perdono, perché ostruisce la sorgente dell'acqua che potrebbe lavare e purificare il male della nostra vita. Sarebbe come se tagliassimo alla radice qualunque tentativo di 'riforma' proprio col pretesto di voler fare riforme e innovazioni.




SEGUE..


[SM=g1916242] con una stretta di [SM=g1902224]


Pierino








mauro.68
00lunedì 5 ottobre 2009 23:23
Purtroppo sono rimasto indietro, ma prometto di recuperare, più o meno è quello che cercavo, un commento sulla Bibbia partendo da genesi, un pò come un corso.

Grazie!
mlp-plp
00martedì 6 ottobre 2009 14:38




[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. V (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

I Profeti: Dov’è quel dio in cui crediamo?


1. Domande e notizie preliminari sui Profeti


Come fa un profeta a sapere che Dio gli ordina di dire questo o quello? Come nasce la vocazione di un profeta?
Come distinguere il profeta vero dal falso, se tutti e due affermano di parlare in nome di Dio?

Qual è la missione di un profeta?
Come fa a realizzarla?
Che cosa ci insegna su Dio?
Al giorno d'oggi ci sono ancora i profeti?
Sono queste le domande che affiorano dalla lettura dei libri dei profeti.

I libri dell'Antico Testamento attribuiti ai profeti sono 16, di cui quattro sono detti «maggiori» (Isaia, Geremia - insieme alle lamentazioni e a Baruc - Ezechiele e Daniele) e gli altri 12 sono detti «minori» (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia).

La distinzione fra «maggiori» e «minori» è dovuta al numero dei libri che hanno scritto o che sono loro attribuiti.
Nella Bibbia si parla anche di altri profeti dei quali non abbiamo nessuno scritto, per esempio Elia ed Eliseo.

Molti profeti sono per noi soltanto nomi senza significato.
Non è più possibile sapere chi furono come vissero e perché lottarono. Tuttavia lo studio critico dei loro scritti e della storia, dentro e fuori della Bibbia, permette oggi di costruire la trama complicata delle situazioni umane in cui alcuni di loro furono costretti a vivere ed a portare avanti la loro missione.

«Profeta» e «profezia» sono parole che indicano la previsione del futuro. In realtà però profeta vuol dire «uno che parla in nome di».
Sono uomini che parlano in nome di Dio e che sanno di farlo. .



2. Come nasce la vocazione di un profeta?

È sempre difficile entrare nell'intimità di un altro e alzare il velo del mistero della vita che si svolge fra lui e Dio.

La vocazione di profeta rientra nella sfera del mistero impenetrabile della vita. Riflettendo però sulle piste che essi stessi ci hanno lasciato nelle loro profezie possiamo arrivare a farci un'idea di come nasce la vocazione di un profeta.

Consideriamo due esempi.

Il profeta Amos era un uomo semplice, un uomo del popolo, contadino e pastore (Am. 7, 14). Viveva in un'epoca di progresso economico promosso dal re Geroboamo (783-743) ma che di fatto era il risultato dell'egoismo collettivo di un gruppo.

Ne derivava un'ingiusta divisione di classi che opprimeva gran parte del popolo (Am. 5, 7; 2, 6-7; 3, l0). Quel popolo che Dio aveva liberato era ridiventato schiavo e questa volta dei suoi propri fratelli.
Amos viveva profondamente integrato nella vita del popolo e per questo la sua fede e il suo buon senso gli dicevano che un simile stato di cose era contrario alla volontà di Dio.

Era un paradosso e per lui diventò un problema assillante che non gli permetteva di pensare ad altro.

Tutto gli parlava dell'ingiustizia installatasi nella sua terra e gli faceva prevedere imminente il castigo di Dio:
un muratore che lisciava l'intonaco gli ricorda che Dio livellerà il suo popolo; un cesto di frutta matura gli fa pensare che è maturo il tempo del castigo; il fuoco nella steppa gli dice che Dio incenerisce l'ingiustizia. (cf.Am. 7, 7-9; 8, 1-3; 7, 4-6).

I fatti cominciano a parlare.
Tutto diventa un appello.
In Amos a poco a poco cresce una coscienza.

Finché si decide: Dio vuole che io parli!
«Il leone rugge: chi non ha paura?
Dio ordina: chi non parlerà in suo nome?» (Am. 3, 8).
Lascia tutto e si dirige diritto verso il suo fine (Am. 7, 10-17).

Del profeta Osea sta scritto:
«la missione profetica di Osea, ebbe inizio quando il Signore gli disse: va e sposa una prostituta...» (Os. 1, 2).

L'interpretazione più probabile è questa; Osea si sposò, e benché da parte sua fosse felice, la moglie lo lasciò e si dette alla prostituzione.

Osea continuò ad amarla. L'amore fedele e disinteressato di Osea fece capire alla donna il bene che aveva perduto e tornò ad essere sua sposa. Cosi Osea scopri che aveva in mano la forza dell'amore che trasforma.

Poiché viveva integrato nella vita del popolo scopri nella sua esperienza dolorosa, ma ricca, un significato più vasto.
Il popolo abbandonava Dio, considerato «lo sposo del popolo», e si prostituiva ad altri dèi.

Qui si innesta l'esperienza personale di Osea, che illumina la condotta di Dio: Dio continua ad amare il popolo con amore fedele e disinteressato, capace di rigenerarlo e farlo ritornare ad essere il «popolo di Dio», la «sposa fedele di Jahvé».

La coscienza della sua missione si illumina:
annunciare al popolo l'amore gratuito di Dio per provocare una conversione sincera. Per questo le sue profezie sono cos1 violente, cos1 come la gelosia è la più violenta passione dell'uomo.

Gli esempi mostrano che il profeta era un uomo la cui coscienza personale e individuale costituiva il momento alto della coscienza del popolo di Dio. Uno che ascoltava la chiamata di Dio dentro la sua situazione personale perfettamente integrata in quella del popolo.

La percezione chiara dell'esigenza di Dio lo portava anche a percepire come avrebbe dovuto essere la vita del popolo.
Uomo di Dio e uomo del popolo allo stesso tempo.
Vive l'impegno con Dio e con il popolo e sente che non deve più tacere.

Parla con autorità perché parla in nome di Dio, della coscienza e della tradizione secolare del popolo.
La sua vocazione sboccia dal confronto fra la situazione reale e la situazione ideale. Severi castighi aspettano chi pretende parlare in nome di Dio senza essere inviato da lui (Dt. 18, 20).

Per provare l'autenticità della sua missione il profeta predice il futuro. 'Profezie' imminenti.
Le previsioni si avverano e dimostrano che Dio è con lui (Dt. 18, 21-22; Ger. 28, 9; Ez. 33, 33). Cosi si distingue il falso dal vero profeta.



3. Missione e prassi del Profeta: ciò che dice di Dio

La missione e la prassi del profeta sono sempre condizionate dalla situazione concreta del popolo al quale dirige il suo messaggio.
Per ciò che riguarda Iddio, egli è strumento nella sua mano, è inviato al popolo per spingerlo a camminare verso la meta per la quale si è impegnato con Dio nell'alleanza.

Il profeta è per così dire l'uomo che esige dal popolo l'adempimento dell'impegno liberamente assunto con Dio e con se stesso.
Per comprendere quindi la missione e la prassi del profeta è indispensabile descrivere quella parte della vita del popolo che condizionava ]a sua attività e provocava la sua reazione in nome di Dio.

Con l'Esodo il gruppo che uscì dall'Egitto prese coscienza di essere il «popolo di Dio» impegnandosi a realizzare con Dio il progetto di liberazione.

La coscienza di «popolo di Dio» dinamizza il gruppo e lo spinge a camminare sempre, a non fermarsi mai, aprendo la strada del futuro che la forza e la fedeltà di Dio garantiscono.

La convinzione che è alla base del coraggio, della fede della speranza del dono di sé e dell'amore affonda le sue radici nell'esperienza e nella certezza assoluta:
«Dio è con noi come colui che ci chiama momento per momento.
Siamo impegnati con lui e lui è impegnato con noi».

Questa coscienza o esperienza di amicizia profonda, detta pure Alleanza, suscita comportamenti e gesti:
legge, culto, istituzioni, feste, celebrazioni, costumi, come per esempio i pellegrinaggi al tempio, tradizioni che conservano e tramandano il passato e diventano la memoria che influisce sul presente;

immagini e simboli, come per esempio l'arca dell'alleanza e il vitello d'oro; profetismo, sacerdozio, monarchia, orazioni, sapienza popolare ecc.

Lungo questo scenario scorreva la vita intensa del popolo e la coscienza di essere, il popolo di Dio si tramandava di generazione in generazione insieme all'appello di Dio ad essere fedeli.

Comportamenti e strutture scaturivano dalla grande fede che il popolo aveva in Dio.
Erano mezzi per mantenere viva la fede, la speranza, il dono di sé.

Non erano fini a se stessi, erano solo mezzi per raggiungere il fine da cui ricevevano orientamento e critica.

Il giorno in cui per una ragione qualsiasi l'uno o l'altro comportamento non fosse più espressione dell'approfondimento della vita e per ciò non servisse più a trasmettere il valore che lo aveva generato, quel comportamento passava ad essere corretto, criticato o eliminato.

Il criterio dell'eliminazione o della correzione era sempre il progetto originale di Dio in funzione del quale Egli creò il popolo.
I comportamenti e strutture della vita erano creazione dell'uomo, che attraverso di loro esprimeva la sua fede.

Ma il male dell'uomo fu sempre il suo desiderio giusto e inveterato di sicurezza, sia individuale che nazionale.

Appena trovò, dopo averla tanto cercata, una forma di vita che esprimesse la sua convinzione, vi si aggrappò come ad una conquista che gli dava sicurezza.

Poco a poco si verificò un fenomeno:
questi modi di vivere l'amicizia con Dio, invece di continuare ad essere espressione di una ricerca costante che dinamizzasse e spingesse a camminare sempre verso il futuro, diventavano espressioni di una ricerca di sicurezza umana, perdevano cioè il contatto con la fonte (la coscienza di essere popolo di Dio) e non erano più tramite di vita.

Diminuiva l'esperienza interiore e continuavano inalterabili la struttura e il comportamento esterno, dando l'impressione che niente fosse cambiato.

In realtà però tutta l'impalcatura esterna della fede, le strutture e i comportamenti erano già tutti minati alla base perché mancava la vita reale.

Il comportamento esterno comincia ad essere considerato (da coloro che in esso si rifugiano) come un biglietto d'ingresso che dà diritto all'aiuto di Dio.

Diventa una convenzione sociale, la facciata di una casa che non esiste, solo per illudersi di stare in pace con Dio mentre in realtà la pianta è tagliata alla radice e non ha più vita.

Tali convenzioni sociali, fragili per natura, diventano oggetto di una difesa serrata ed accanita contro chiunque osi attaccarle.

È l'ora dei profeti:
la loro missione e la loro prassi nascono quasi sempre dal corto circuito tra la vita e il comportamento. Denunciano la falsa sicurezza dietro cui si nasconde il popolo per lo più incosciente. Scuotono il popolo e lo spingono a cercare nuove forme di comportamento che possano di nuovo esprimere e stimolare la vita e la fede.

Condannano le forme vuote che contribuivano a mantenere il popolo nella sua apatia. La prima reazione è l'insicurezza del popolo, che si vede privato di ciò che gli dava una certa tranquillità di vita e di coscienza.

Il profeta agisce sempre in nome di Dio.
Mette in evidenza che l'idea di Dio espressa da certe forme di vita e da certi atteggiamenti del popolo non è quella del vero Dio che si rivelò nel deserto ai padri quando li liberò dall'Egitto.

I profeti riescono ad avere una visione così chiara che diventano capaci di denunciare ciò che è sbagliato e difettoso perché sono uomini di Dio. Non tanto insegnano chi sia Dio, quanto lo rivelano nella loro vita, provando che Dio è sempre nuovo e molto più grande di quanto il popolo possa pensare.

Dio non si lascia addomesticare da nessuna cosa, neppure dalla più religiosa.
Vediamolo questo fenomeno ora nella concretezza degli eventi.



4. I profeti criticano l'idea di Dio

Il vitello d'oro:
quando uscirono dall'Egitto costruirono la statua di un torello per dare al popolo l'immagine concreta della forza con cui Dio lo aveva liberato (cf. Es. 32, 4).

L'immagine però nascondeva una insidia molto seria:
identificare Dio con gli altri dèi anch'essi rappresentati in forma di toro;
confondere Dio con la sua immagine;
visualizzare e localizzare eccessivamente la forza divina che non può identificarsi con nessun mezzo e con nessuna immagine.

Più tardi infatti, quando Geroboamo ripristinò l'immagine del toro (I Re 12, 28) per dare carattere religioso alla rivoluzione politica fatta da lui, l'immagine fu causa di apostasia.

Per questo nella Bibbia l'immagine del vitello d'oro è oggetto delle più violente condanne;
non può esprimere la fede in Dio (I Re 12, 31-13, 2).

Luoghi alti:
entrando nella terra promessa, il popolo incominciò ad adorare Dio nei così detti «luoghi alti», all'ombra di alberi frondosi.
Si pensava che là si concentrasse di più la forza di Dio dato che Dio faceva crescere alberi così enormi in luoghi deserti.

Perciò Salomone adorò Iddio nel «luogo alto di Gabaon» (cf. I Re 3, 4) senza causare inconvenienti.

Ma una simile maniera di adorare Dio nascondeva un pericolo:
identificare Dio con gli altri dèi adorati nello stesso modo negli stessi luoghi;

localizzare troppo l'azione di Dio e il luogo dell'incontro con lui.

Perciò, quando il pericolo diventò realtà, insorsero i profeti a condannare una pietà del genere.

La chiamarono «prostituzione sotto gli alberi» (cf. Ger. 3, 1-2.7; Is. 1, 29-31; Os. 2, 6-7).

Invece di esprimere e dinamizzare l'amicizia con Dio, il culto nei luoghi alti portava alla degenerazione della vita. Bisognava criticarlo e condannarlo.

Re e Monarchia:
nella persona del re si personalizzò la grande promessa che diceva: «sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio».
Oggi si direbbe:
«sarò per lui un padre e lui sarà per me un figlio» (II Sam. 7, 14).

Il re, diventava così la concretizzazione visibile dell'amicizia di Dio col popolo e lo strumento diretto della volontà di Dio.

Poco a poco però la presenza del re diventò un pretesto per accomodarsi: «dal momento che in mezzo a noi c'è il re, Dio è obbligato ad aiutarci, perché lui stesso ha promesso di mantenere sempre un re sul trono di David» (I Sam 7, 16).
Per questo sorgono i profeti:
il trono di David sarà una casa distrutta (Am. 9, 1); nessuno più della sua stirpe occuperà il trono (Ger. 22, 30), il re d'Israele sparirà per sempre (Os.10.15). Il fatto di avere un re non mette al sicuro nessuno.

Tempio:
era il luogo d'incontro del popolo con Dio:
«come è bella la tua casa Signore!
Muoio dal desiderio d'incontrarmi con te nel luogo dove abiti» (Sal. 83, 2-3).

Pellegrinaggi, processioni, salmi, canti, preghiere tutto era legato al tempio, alla casa di Dio.

«Se abbiamo il tempio, Dio è con noi, coinvolto nei nostri interessi: prendiamoci cura del tempio».

La preoccupazione del tempio faceva dimenticare l'obbligo più grave di vivere la fede di cui il tempio era solo un'espressione.

Per questo Geremia attacca frontalmente il tempio (Ger. 7, 1-15) e dice: «rubare, ammazzare, fare ogni sorta di male e poi venire al tempio e dire:
'ci sentiamo al sicuro', per poi continuare a fare lo stesso.

Voglio trattare questo tempio come ho trattato il tempio di Silo» (Ger. 7,9-10.14).

Tutti sapevano che il tempio di Silo era stato totalmente distrutto.
Il tempio in sé non dà nessuna certezza e non garantisce la protezione di Dio.

Culto:
Il culto era il centro della vita della nazione:
ricordava il passato e lo faceva rivivere nel presente facendo sì che una generazione dopo l'altra si impegnasse nel progetto di Dio e prendesse coscienza dei suoi diritti e dei suoi doveri.

Ma il culto si materializzò nel rito, e slegato dalla fonte viva che era l'esperienza della presenza di Dio, diventò una cambiale a scadenza fissa per comprare la protezione divina.

Per questo si dava tanta importanza alle cerimonie e nessuna alla vita.

Sono i profeti che si accorgono della falsità di questa facciata;
un culto simile non serve a nulla;
«che mi importano i vostri innumerevoli sacrifici?

Non posso più sopportare i vostri olocausti:
quando venite e stendete le mani per pregare, io volto la faccia dall'altra parte!

Moltiplicate pure le orazioni, tanto io non vi ascolto! Mani piene di sangue!» (Is. 1, 11.15). Il culto non assicura per se stesso la protezione di Dio.

Gerusalemme:
Gerusalemme è la città della Pace cantata in tanti salmi, simbolo della forza e della presenza di Dio che agisce nella vita del popolo (cf. Sal. 121, 136, 147). Era il cuore della nazione, la «Montagna Santa».

Ma quella gloria non serviva a niente dal momento che non portava il popolo alla pratica della giustizia.
Perciò Gerusalemme sarà abbandonata da Dio (Ez. 11.22-25).

Sarà rasa al suolo come una città qualunque (Is. 3, 8-9).
Abitare in Gerusalemme non dà nessuna sicurezza.

Terra:
Abramo si mise in cammino verso la terra promessa,conquistata più tardi da Giosuè.

La conquista della terra era il segno che Dio manteneva le sue promesse.

Perciò, abitando la terra, possiamo essere sicuri che Dio è con noi.
Il popolo trovava lì la sua sicurezza e viveva come se già avesse raggiunto la mèta.

I profeti annientano e smascherano una simile presunzione come la più vana delle illusioni:
tutti saranno portati in esilio, dovranno abbandonare la terra (Ger. 13, 15-19) che sarà interamente distrutta (Ger. 4, 23-28).

Il giorno del Signore:
si viveva di speranza.
Un giorno Dio dovrà ben venire a manifestare la sua giustizia: distruggere i cattivi ed esaltare il suo popolo.
Sarebbe stato un giorno di luce.

Vivevano in questa dolce e illusoria speranza trascurando il più importante.
Amos allora dice:
«guai a quelli che vivono aspettando il giorno di Jahvé!... Sarà per voi giorno di tenebre e non di luce!» (Am. 5, 18-20).

Neppure il futuro può dare la sicurezza tranquilla di possedere Iddio.



SEGUE..


[SM=g1916242] con una stretta di [SM=g1902224]


Pierino







flabot
00martedì 6 ottobre 2009 17:51

X FLABOT:

Capisco la tua curiosità riguardo al Nuovo Testamento, ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensi dell'esegesi esposta fin'ora, ti sembra accettabile?


Ciao, Ely





Tutte le esegesi che partono dal presupposto che la bibbia è un libro mitologico da interpretare, sono secondo me da considerare "accettabili", certo poi leggendone di varie, si può stilare una, diciamo classifica di preferenza, questa mi sembra davvero buona, comunque non ne esistono di cosi brutte, da non avere niente da insegnare, certo che quelle che si ostinano a voler dimostrare che sono fatti storicamente reali alla fine risultano direi perfino ridicole [SM=g1916242] [SM=g1916242]
mlp-plp
00martedì 6 ottobre 2009 21:59




[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. V (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

I Profeti: Dov’è quel dio in cui crediamo?




Popolo eletto:
l'origine del popolo eletto risale a quando Dio lo fece uscire dall'Egitto e strinse con lui un'alleanza.

Era come un titolo nobiliare, fonte di ogni dinamismo e di tutta la forza necessaria per andare avanti.

Ma poco a poco coloro che ne facevano parte se ne valsero per considerarsi privilegiati e confidarono più nel privilegio che nella fedeltà derivante dalla scelta di Dio.

Allora Amos dice:
«così parla il Signore: per me voi siete come il popolo della terra dì Kusc. Vi ho tratto dall'Egitto come feci con i Filistei da Caftor e con gli Aramei/Siri da Kir» (Am. 9, 7).

Nel nostro linguaggio sarebbe come dire:
«mio figlio Gesù Cristo è morto sia per voi cattolici che per i comunisti e per i castristi.
Per me voi non siete migliori di loro».

Gli Aramei/Siri e i Filistei erano i maggiori nemici del popolo di Dio. Dio ha cura di loro come di quelli che credono in lui.

Il solo fatto di appartenere al popolo eletto non conferisce nessuna speranza, nessuna sicurezza.

Figli di Abramo:
Abramo fu il grande amico di Dio e la sua intercessione poteva salvare intere città (cf. Gen. 18, 16-33).

Poter dire:
«siamo della stirpe di Abramo!» (Gv. 8,33) era titolo di gloria.
Ma molti si fermarono al titolo senza fare le opere che fece Abramo.

Giovanni Battista, l'ultimo profeta dell'Antico Testamento, fece sapere a tutti che davanti a Dio i figli di Abramo valgono quanto le pietre:
«non venite a dirmi:
abbiamo Abramo per padre!
Perché Dio può far nascere dei figli di Abramo anche da queste pietre qui» (Lc. 3, 8).
Un altro appoggio cadeva.

La legge di Dio:
Dio ha dato la legge e chi l'osserva sarà salvo (cf. Ger. 8, 8).
Perciò fu necessario spiegare bene la legge per sapere con esattezza che cosa ordinava e garantirsi così la salvezza.

La legge diventò il pretesto per obbligare Iddio.
Paolo dice che sia il pagano (greco), senza la legge, come il giudeo, con la legge, tutti sono schiavi del peccato (Rom. 3, 9).
«Nessuno mai sarà salvo per avere osservato la legge» (Rom. 3, 20).

I profeti abbattono tutti gli appoggi, smante1lano tutti i nascondigli e proiettano la luce della verità in tutti gli angoli oscuri.
Tagliano tutti i fili del telefono che mettono in comunicazione con Dio, fanno saltare tutti i ponti che legano a Dio.

Fanno piazza pulita, aprono una voragine e lasciano tutti nella insicurezza quasi assoluta.
Tutto è abbattuto e criticato come falso, non per se stesso ma in quanto non è più appe1lo di Dio che spinge a camminare verso il futuro della promessa;
anzi è diventato mezzo di comodismo e perfino di oppressione proprio in nome di Dio.

Anche oggi, chissà, il profeta direbbe le stesse cose e farebbe la stessa critica a molte forme che consideriamo ancora sante ed intoccabili.
E come allora neppure oggi il profeta sarebbe riconosciuto come tale ma sarebbe rigettato proprio in nome di Dio.

Lo stesso Gesù fu rigettato in nome di Dio e della tradizione: «Quest'uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato» (Gv. 9, 16).
Né messa alla domenica né rosario né rosa di oro né cattedrale maestosa né Pasqua né acqua benedetta né candela né ex voto niente può «per se stesso» costringere Dio.

Chi si aggrappa a queste cose si aggrappa alla proiezione di se stesso, che certamente non è Dio ma un mito inesistente.
Non è certo il Dio vivo e vero quello che i profeti conoscono da vicino e adorano. Non esiste su questa terra una leva capace di muovere il cielo.
Il profeta si limita a criticare perché l'uomo capisca che insistere su tutte queste formalità, come se avessero in se stesse la forza di costringere Iddio, sarebbe come dialogare con l'eco della propria voce.

Si capisce allora perché il profeta dovette affrontare forti resistenze; egli stava demolendo gli appoggi più radicali della sicurezza umana; basta leggere, per esempio, le considerazioni dell'epistola agli Ebrei sulla sofferenza dei profeti perseguitati (Ebr. 1l, 32-38).

Tutta la critica fatta dai profeti, apparentemente così negativa, essi la facevano spinti dall'idea che avevano di Dio, profondamente in contrasto con il comportamento e le strutture della vita che il popolo conduceva.

Non potevano permettere che l'uomo si alienasse dalla realtà della vita né che la religione fuggisse verso le forme mondane del rito, della cerimonia, del culto.
Significava svuotare il rito, la cerimonia, il culto.

Se vivessero oggi sarebbero essi stessi i primi a dire che una religione del genere diventa davvero «l'oppio del popolo».
Per convincersene basta leggere e meditare i loro scritti.
Ci resta da esaminare quale fu il lato positivo della critica così radicale fatta dai profeti.



5. Il Dio vivo e vero dei profeti

In conclusione, secondo il modo di vedere dei profeti, tutto era sbagliato?
Benché distruggessero tutti i ponti, uno ne costruivano, capace di stabilire un contatto reale fra Dio e gli uomini, che dava agli uomini la garanzia della presenza di Dio: la fede.
Che significa tutto questo?

I profeti vivono profondamente la presenza di Dio.
Sono uomini di Dio. Dio va al di là di tutte le cose.
Dio non può essere preso al laccio, incanalato;
soggiogato come bestia da traino al carico dei desideri degli uomini.

Dio non si addomestica. L'uomo non si può permettere di invertire le parti, e invece di essere lui a servire Dio, costringere Dio a servirlo, strumentalizzando il rito e il culto che in questo caso si ridurrebbero a una stregoneria battezzata.

Per i profeti Dio è una presenza totalmente gratuita che offre la sua amicizia a chi voglia accettarla.
Ma egli vuole che la sua amicizia sia rispettata.
L'amico che offre amicizia vuole che l'altro abbia fiducia in lui e non che cerchi di garantirsi i beni dell'amicizia con astuzie e raggiri.

Sarebbe come mancare di fiducia e sarebbe motivo sufficiente per negargli l'amicizia per il futuro.
Con il tuo amico non puoi mai riferirti ai regali che gli hai fatto, ai benefici che gli hai elargito per ricevere in cambio l'appoggio dell'amicizia;

basta il fatto di essere amici:
«Senti, caro, tu dici di essere mio amico.
Sta bene.
Se così è, mi arrischio a questa o a quella impresa che interessa pure a te e sono certo che tu mi aiuterai».

Ci si appella all'amicizia in sé e per sé e all'impegno che l'altro ha preso con se stesso in forza dell'amicizia.

Lo stesso succede con Dio.
Si è impegnato con gli uomini offrendo loro la sua amicizia.

Vuole che sia rispettata.
Esige fede e fiducia come condizioni elementari e iniziali per qualunque altro accordo. La sua presenza in mezzo agli uomini è garantita e sicura perché lo ha detto lui.

Ma lui è così forte che può benissimo sottrarsi a qualsiasi incontro indebito (quando cioè mancano fede e fiducia):
vitello d'oro, luogo alto, re, tempio, culto, Gerusalemme, terra, legge, popolo eletto, figli di Abramo, giorno di Jahvé, rosario, candela, ex-voto, processione, precetto domenicale, Pasqua, primi venerdì del mese, preghiera a Santa Rita, cattedrale, tutto è relativo.

Questi elementi non hanno per se stessi nessun potere di garanzia e il giorno in cui diventano mezzi per «comprare il cielo» e per garantirmi la salvezza a mio uso e consumo meritano la critica e la condanna dei profeti anche al giorno d'oggi.

Non che siano cattivi in sé. Possono anche essere cose utili buone e perfino necessarie, quando usate come espressioni di quella fede e di quella fiducia che sono condizione fondamentale per qualsiasi incontro con Dio.

Sono appena frecce indicative che orientano a Dio.
Ma Dio sta sempre al di là di tutto quello che possiamo pensare di lui ed è sempre più vicino a noi di quanto direbbero tutte le possibili espressioni di amicizia, proprio perché è amico.

Queste forme sono valide come i fili del telefono, ma non sono la persona con cui parlo né possono costringerla a parlarmi.
Essa può benissimo attaccare il ricevitore e lasciarmi brontolare con l'eco dei miei desideri.
Se però le mie parole sono espressioni di fede, certamente arrivano a Dio e Dio non fa il sordo.

Proprio perché è fedele, Dio rimane in comunicazione con l'uomo dandogli appoggio e aiuto.

Solo apparentemente i profeti lanciano gli uomini nella più completa incertezza, perché in realtà sono proprio loro a gettare le basi della più incrollabile certezza possibile ad un uomo:
la certezza assoluta che Dio è presente.

Non è lontano da noi; è con noi.
Il suo nome è Emanuele, che vuol dire Dio con noi, forte fedele amico.
Ma egli ci supera, egli è sempre l'’Altro'. Non possiamo addomesticarlo. Il suo rapporto con l'uomo è così libero e sovrano che può sottrarsi al dominio dell'uomo.

L'uomo invece è debole e non riesce a sottrarsi al dominio che un altro uomo gli impone. L'atteggiamento di Dio, allo stesso tempo così vicino e così lontano, è una sfida e una accusa.

Ricorda all'uomo i suoi limiti:
Uno almeno riesce sempre a fuggire alle sue brame di dominio.
Il comportamento di Dio critica il rapporto di dominio che un uomo esercita su un altro uomo e risveglia in coloro che sono dominati la volontà di fare rispettare la loro dignità.

Dio assume rispetto agli uomini lo stesso atteggiamento che gli uomini devono assumere rispetto agli altri:
l'unico mezzo capace di rendere una persona coerente con se stessa è la fede, la fiducia, l'amore disinteressato.

Quando l'uomo sa mettersi al suo posto davanti a Dio, Dio si sente in dovere di aiutarlo.
Dice il salmo:
«Lo proteggerò perché ha riconosciuto il mio Nome» (Sal.
90, 14).

In altre parole:
«Sono costretto ad aiutarlo perché lui fa sul serio ».
Ma per far questo l'uomo deve buttarsi nel buio, dargli fiducia, assumere un atteggiamento di fede che crede nella parola dell'altro.
Ossia lasciare che l'altro sia se stesso;
lasciare che nella sua vita Dio sia Dio.

Questo ci insegnano i profeti a rispetto di Dio.
La sintesi è contenuta nel nome che Dio stesso si scelse:
«Jahweh» che vuol dire: «io sarò presente».

È pure l'abbreviazione dell'altro:
«io sono colui che sono» (Es. 3, 14) e vuol dire: «certissimamente io sarò sempre presente e ti aiuterò;
ma 'come' e 'quando' ti aiuterò lo decido io.
Conta su di me».

Il nome è un appello alla fede.
Dio dette prova della sua presenza liberatrice:
la prima grande prova fu l'Esodo;
l'ultima prova ancora in corso è la venuta di Gesù Cristo, Emanuele, Dio con noi (Mt. 1, 23).

Questo Dio riconosciuto e vissuto così nella vita concreta è il nucleo da cui parte tutta l'azione profetica.
Ed è allo stesso tempo una nuova maniera di vedere l'uomo.

Ecco perché i profeti, anche in mezzo alle più grandi disgrazie molte volte da loro stessi preannunziate, non perdono mai la speranza.
Per quanto critico possa sembrare il loro intervento nella vita del popolo, il loro messaggio in fondo è sempre di speranza.

La critica entra quando la forma concreta del vivere minaccia di rendere la vita così meschina da soffocare la speranza nel cuore del popolo e soprattutto nel cuore dei poveri.



6. Al giorno d'oggi ci sono ancora i profeti?

I profeti generalmente non 'si servono di un'etichetta né scrivono il loro nome di profeti sul biglietto da visita.


Oggi il movimento profetico nella Chiesa e nel mondo è molto forte.
La critica delle strutture e degli atteggiamenti anacronistici, che ormai non dicono più nulla, è in corso e chi le aprì le porte fu proprio il Concilio Vaticano II.

Come al tempo della Bibbia, il movimento profetico oltre ad essere un movimento di fede all'interno del popolo eletto, era allo stesso tempo una corrente culturale che assunse dentro la Chiesa una dimensione di fede tutta particolare.

Non sono soltanto i cristiani che criticano i comportamenti e le strutture oggigiorno incapaci di esprimere la vita che scaturisce e che incomincia.

I cristiani stanno dentro a tutto questo e ne fanno parte orientandosi con la fede in Dio.

Nella Chiesa di oggi troviamo gente che cerca di neutralizzare l'alienazione in cui si adagiano tanti cristiani, smarriti tra pratiche e osservanze che non sono più espressione di amicizia con Dio ma soltanto espressione di una ricerca ansiosa di sicurezza umana.

Se si mantiene rigidamente la situazione di compromesso sia nella Chiesa che nella società, la colpa non è soltanto del popolo ma anche di quelli che esercitano l'autorità.
Perciò la critica dei profeti ieri come oggi raggiunge chi ha nelle mani il potere.

Anche Gesù fece lo stesso:
criticò i farisei e i capi religiosi.
Del popolo ebbe compassione come di pecore senza pastore.

Per questo la missione profetica è una missione pericolosa, affatto piacevole per chi ne prende coscienza, come il profeta Amos ed Osea. Prima di parlare ci penserà due volte.

Come Mosè (Es. 11-4, 13) e Geremia (Ger. 1, 6) cercherà ragioni e pretesti per sottrarsi a un compito così arduo.

Ma ieri, come oggi, nonostante le proibizioni, i profeti continuano a parlare:
«Dio lo vuole: chi potrà non parlare in nome di Lui? » (Am. 3, 8).



SEGUE..


una stretta di [SM=g1902224]


Pierino




mauro.68
00giovedì 8 ottobre 2009 20:14
Sono rimasto al quarto capitolo, aspetto il seguito!
Bicchiere mezzo pieno
00venerdì 9 ottobre 2009 09:56
Re:
mauro.68, 08/10/2009 20.14:

Sono rimasto al quarto capitolo, aspetto il seguito!



Anch'io. Questo libro è veramente molto avvincente. Non solo perchè ci informa sull'approccio e la comprensione corretta del Testo Sacro ma anche perchè lo fa in maniera semplice e comprensibile per tutti.

E' un modo di approccarsi al Testo Sacro decisamente diverso dalla maniera fondamentalista e letteralista di gruppi radical-protestanti come i TdG. Finalmente la Bibbia la si comprende davvero. [SM=g6828]




mlp-plp
00venerdì 9 ottobre 2009 13:53


[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VI (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]





dal re Ezechia al re Giosia: storia di una riforma


«Ho trovato il libro della legge nel tempio di Jahvé» (II Re 22, 8).
Il grido cadde come una pietra in un lago tranquillo:
in pochi momenti tutta la superficie è in movimento.

Come il colpo di cannone nel silenzio della valle:
in pochi secondi l'eco riempie la valle come il tuono di mille cannoni.

Nel corso della storia si verificano situazioni del genere, in cui tutto converge verso uno stesso punto ma nessuno può sapere quale sia, perché sta al di là dell'orizzonte.

L'aria è pregna.
Qualcosa sta per succedere.

Nessuno sa che cosa, ma tutti ne hanno il presentimento;
qualcosa succederà inevitabilmente.

E quando succede è come l'energia elettrica che finalmente arriva e nel buio della notte illumina d'improvviso tutti i lampioni della città perché l'impianto era già pronto e si aspettava solo l'arrivo della corrente.
Tutto cambia.

Successe così quando il sacerdote Kilkia scoperse il libro della legge nel tempio di Jahvé e lanciò quel grido fatidico.
Era l'anno XVIII del regno del re Giosia (II Re 22, 3) l'anno 622 a.C.

Non si conoscono con esattezza le circostanze storiche della scoperta della legge e neppure si sa perché andò a finire proprio nel tempio. Sappiamo però la ripercussione che ebbe il fatto.
È questo che ci interessa.

I movimenti storici sono come i grandi alberi dalle radici umili e nascoste nei secoli anteriori.
Per questo sono irreversibili. Nessuno riesce a sbarrarne il passo.

Sono più forti degli uomini, i quali però possono influirvi sia in bene che in male. Possono far sì che il voltaggio della corrente che arriva dalla centrale elettrica superi quello dell'impianto, che scoppia e va in aria.

Allora accadde proprio così. Tutto andò in malora.



1. Le radici da cui nacque l'albero

Esattamente cento anni prima, nel 721 a.C., accadde la grande catastrofe del regno di Israele situato a Nord della Palestina.
Salmaneser, re della Siria, la grande potenza mondiale dell'epoca, invase il territorio (II Re 17, 3-5), distrusse la capitale Samaria (II Re 17, 6), rase al suolo l'interno del paese, deportò il popolo (II Re 17,6.20.23; 18, 11) e trapiantò al suo posto altre popolazioni (II Re 17, 24). Mise fine definitivamente a qualunque focolare di rivolta e di sovversione.

Si chiuse la storia del regno del Nord.
Ma la guerra continuò.
Gli eserciti dell’Assiria continuarono a marciare verso il Sud circondando le montagne del regno di Giuda e andarono a combattere contro gli Egiziani nel territorio di Gaza.

La distruzione di Samaria fu un avviso molto serio per il piccolo regno di Giuda, che nella guerra tra le due grandi potenze (Assiria ed Egitto) si trovò completamente isolato, imbottigliato in alta montagna.

Il popolo del Nord si disintegrò e cessò di esistere, perché aveva abbandonato il centro che unificava la vita nazionale.

Aveva smesso di essere fedele all' Alleanza e aveva lasciato da parte la costituzione del popolo che era la legge di Dio (II Re 17, 7-18; 18, 12).

Però in Giuda non era differente l'infedeltà e il cancro della decomposizione era identico (II Re 17, 19). Il territorio non fu invaso, ma più per un caso che per essersi meritato di scampare.
Si salvò perché poco prima il re Acaz si era fatto amico dei potenti.

Non volle entrare nell'alleanza di Israele contro l'Assiria (II Re 16, 5-6) e andò lui stesso a cercare il re Salmaneser pagando un pesante tributo affinché questi venisse ad aiutarlo contro la minaccia di Israele (II Re 16, 7-18).

E adesso che fare?
Quale posizione prendere?
Farsi amico della Siria?

No di certo! Sarebbe come sconfessare tutto un passato di fede e di lotta.
Anzi la stessa Assiria, anche quando aiutava gli altri, aveva di mira solo il suo interesse, il suo potere e la sua sicurezza.

Al di fuori la minaccia dell' Assiria cresceva, e al di dentro, senza incontrare alcuna resistenza, si formava un vuoto dilagante.
Acaz era un condottiero impotente.
Non sapeva come affrontare la situazione divenuta drammatica.

Il profeta Isaia aveva già tentato di rianimarlo con la fede nel futuro che Dio riservava al suo popolo (Is. 7, 1-25), ma non aveva trovato eco in quest'uomo mediocre che in un momento di disperazione era arrivato al punto di sacrificare il suo stesso figlio per propiziarsi altre divinità (II Re 16, 3).

Non c'era più spirito combattivo; la speranza veniva meno insieme alla capacità di resistere.
Avevano perduto il senso dell'esistenza.

Il vuoto interiore cresceva a dismisura. Aveva ragione Isaia:
«Se non avete fede non potete resistere» (Is. 7, 9).
Come risvegliare la fede?

Acaz morì. Il governo fu assunto dal giovane Ezechia, abile politico che aveva 25 anni di età.
Regnò quasi 30 anni (II Re 18,2).

Era un uomo di fede che «collocava in Dio la sua speranza» (II Re 18, 5). Aveva fede nel futuro di Dio e seppe comunicarla agli altri.
Suscitò un desiderio generale di riforme di cui lui stesso si fece portavoce e strumento.

Un soffio di vita nuova pervase l'intera nazione e tutti si sentirono rianimare.
L'apatia era vinta, il vuoto colmato.
Cominciò a nascere una nuova mentalità:
idee nuove su Dio, sul culto, sul passato, sul destino della nazione.

Erano solo idee, ma idee forti e ardenti che misero subito le ali e cominciarono a circolare nella testa del popolo.

Proprio qui, in questo movimento di rinnovazione provocato da Ezechia, in queste idee nuove, nasce la radice di quella legge che fu scoperta nel tempio quasi cento anni dopo dal sacerdote Kilkia.



2. I primi passi della riforma

La riforma prese corpo e entrò in tutti i settori della vita nazionale. La fede ne uscì purificata e i fuochi di magia e superstizione furono estinti (II Re 18, 3-4; II Cron. 29, 3-11);
le ingiustizie furono eliminate e la legge di Dio adottata come costituzione del popolo nella solenne celebrazione della Pasqua (II Cron. 30, 1-27);

si ricercarono e si raccolsero le tradizioni antiche (Prov. 25-1); Gerusalemme fu restaurata e le sue mura furono fortificate per qualunque eventualità (II Cron. 32, 1-5);

Ezechia si incaricò del rifornimento di acqua in caso di assedio o di assalto alla città e scavò un acquedotto nella roccia viva che tutt'oggi desta meraviglia (II Re 20, 20); combatté e sconfisse i Filistei nemici tradizionali dei Giudei (II Re 18,8);
purificò il tempio, (II Cron. 29, 12-17) riformò il culto e il sacerdozio (II Cron. 31.1-21).

Dalle ceneri rinasceva un popolo nuovo.
Ezechia scoprì il punto nevralgico attraverso cui far breccia per dare nuova speranza a un popolo avvilito e disperso.

Il perno della riforma consisteva nella rinnovazione spirituale e religiosa del popolo.

Una vera conversione del popolo al fulcro da cui partiva la rigenerazione della vita nazionale;
una conversione cioè alla sua vita con Dio" perché il ricordo del passato era ancora vivo in lui (cf. II Cron. 30, 5-9.13-20).

Tornarono a fiorire la speranza e la volontà. di lottare e di vivere in forza di questa nuova fede.

Ezechia riuscì a sfondare la porta del futuro che minacciava di chiudersi per sempre. Ci riuscì soprattutto perché la riforma liturgica, espressione autentica della vita del popolo, aprì uno sbocco alle forze vive che in esso esistevano, aiutandolo così a riscoprire la sua identità di «popolo di Dio».

Fu il grande merito di Ezechia che resterà immortale:
«Tra tutti i re di Giuda nessuno fu come lui né prima né dopo» (II Re 18, 5).

L'opera sua però non si restrinse alle frontiere della sua nazione.
Da buon politico illuminò l'orizzonte della situazione internazionale, tanto più che sarebbe stato impossibile che una nazione piccola come la sua, in una situazione come quella, si rinchiudesse in un nazionalismo ostinato e cieco.

In Egitto il Faraone Sabaka si rifaceva dalla sconfitta subita.
Aveva riunito tutte le forze della nazione ristabilendo così l'equilibrio internazionale rotto prima di lui dall'invasione degli Assiri.

Subito da tutte le parti sorse il tentativo di un fronte internazionale anti Assiria appoggiato all'Egitto, che anzi lo fomentava.
In seno al governo di Ezechia crebbe la corrente a favore dell'Egitto che tentava di avere anche il re dalla sua parte.

Il profeta Isaia, consigliere del re in materia religiosa e politica, che aveva già in precedenza sconsigliato Acaz di appoggiarsi all'Egitto, conservava ancora la stessa linea politica.

L'Egitto non dava affidamento (v. Is. 30, 1-7; 31, 1-3).
Ma Ezechia non ascoltò il] consiglio.
Entrò in campo e partecipò attivamente al gioco (II Re 18, 21).

L'Assiria non si fece aspettare.
Piombò sulla resistenza e la sconfisse.
Giuda fu invasa, le città capitolarono una ad una (II Re 18, 13).
Restò solo Gerusalemme che Ezechia aveva attentamente preparato alla difesa lavorando in silenzio per anni ed anni.

Non si sa perché, ma il fatto è che Gerusalemme non fu presa.
Non fu neppure assalita.
Ezechia ne usciva vittorioso.

Come succede sempre in battaglia, le due parti in campo danno due differenti versioni dei fatti e ciascuna li interpreta a modo suo.

La Bibbia dice che le cose andarono così:
Sennacherib, generale assiro, arrivò con quattrocento mila uomini;
il popolo ne fu atterrito, ma intervenne l'angelo del Signore e decimò l'esercito nemico; il generale fu costretto alla ritirata. (II Re 18, 13-19.37; II Cron. 32,9-23).

L'altra versione dei fatti scoperta dagli archeologi nella città di Ninive dice una cosa del tutto differente.
Comunque siano andate le vicende, la ritirata di Sennacherib fu motivo di grande euforia che contaminò lo stesso re Ezechia:
si ingolfò nel gioco politico della cospirazione internazionale contro l'Assiria (II Re 20, 12-19).

Il popolo sentì crescere la fiducia in sé e nei suoi sforzi e non stava in sé dalla gratitudine (II Cron. 32,23). Il fatto contribuì alla rinnovazione interna del paese.



3. Sorgono forze contrarie e paralizzano il movimento

Ma il vento della sorte può cambiare direzione, ed infatti le cambiò.
Il successore di Ezechia, suo figlio Manasse, fu una delusione per il popolo e una nullità per il governo.
Era un inetto e perciò non dette nessun impulso alla riforma iniziata con tanta buona volontà e speranza.

Era un politicante e non si interessò né della religione né della giustizia (II Re 21,1-16).
Si ritornò al punto di partenza.

E tutto questo durò la bellezza di 50 anni e più.

Manasse cominciò a governare a 12 anni di età e morì al governo già vecchio di 60 anni (II Re 21, 1).

Nonostante tutto però, nel popolo rimase una certa nostalgia e la certezza che quando tutti lo vogliono davvero qualcosa si può e si deve fare, come attestano i fatti che seguono.

I politicanti s'impadronirono del governo.
Non si curavano affatto né della legge di Dio né del popolo (II Re 21, 16). Accadde quello che si temeva.

Amon, successore di Manasse, fu assassinato (II Re 31, 33).
Bisognava togliere di mezzo il re e mettere al governo chi difendesse meglio gli interessi di un gruppo di militari, ufficiali dello stesso Amon (II Re 21, 23).

Ma l'assassinio fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Il popolo si ribellò, perché nonostante le disgrazie e le delusioni sofferte a causa del re, si identificava ancora con la monarchia della famiglia di David.

Se qualcuno avesse osato toccarla avrebbe offeso il popolo e poteva aspettarsi immediata vendetta.

Il popolo fece giustizia:
prese e condannò i militari che avevano cospirato contro il re impossessandosi ingiustamente del governo (II Re 21, 24).
Il regime fu salvo.

Andò al governo il legittimo discendente di David ancora bambino di otto anni, Giosia (II Re 22, 1).
A quanto sembra il sacerdote Elkia assunse la reggenza fino a che il ragazzo avesse raggiunto un'età sufficiente per prendere in mano le redini del governo.
Era l'anno 640 a.C.



4. L'ansia di riforme si raddoppia

La violenza degli avvenimenti scosse il popolo e gli dette una nuova coscienza del suo potere.
Fu come ricominciare tutto da capo. Ricuperarono il ritardo sofferto per colpa di Manasse.

La voglia di fare riforme, e riforme di base, tornò raddoppiata.
Tutto contribuiva a questo clima dentro e fuori della nazione.

Fuori: l'Assiria era governata da Assurbanipal da oltre 28 anni.
Il tiranno aveva dato pace al mondo ma la pace del cimitero.

Fece azzittire i popoli davanti alla sua violenza assassina:
un'infinità di massacri, di deportazioni, di torture, di sangue.
Perciò a metà del suo governo poté diminuire la censura e la repressione e dedicarsi tranquillamente allo studio e alla caccia.

Lasciò ai posteri una biblioteca colossale ritrovata recentemente, ed altorilievi rappresentanti scene di caccia di rara bellezza. Il suo apogeo fu anche il principio della sconfitta finale.

A poco a poco l'Assiria languiva per eccesso di potere.
L'Egitto a sua volta, pur minacciando un'altra ribellione, non costituiva ancora un vero pericolo.
Babilonia, la terza potenza mondiale di allora, non era ancora cresciuta abbastanza per significare una minaccia, ed era vista con simpatia dai popoli oppressi.

Ezechia al tempo suo aveva già scambiato idee segretamente con un emissario della Babilonia (II Re 20, 12-15).

Nacque così all'interno del paese un movimento nazionalista.
Con la violenta eliminazione dei cospiratori e degli assassini del re Amon tutti passarono in blocco dalla parte del nuovo re ancora bambino, creatura del popolo.

In questo frattempo apparvero due grandi profeti, Geremia e Sofonia, che predicavano al popolo la riforma e il cambiamento.

Il movimento rinnovatore s'impose e dilagò. Invase tutto il paese.
Era appoggiato da tutti e anche in campo internazionale sembrava realizzabile.

Cominciò l'avanzata:
il re in testa e tutti dietro a lui.
Ma cominciò senza sapere bene da che parte orientarsi.
Tutto era pronto e tuttavia mancava ancora qualche cosa.

Secondo il libro dei Re passarono altri 18 anni prima che fosse dato il passo definitivo (II Re 22, 3).

Il libro delle Cronache ricorda alcuni tentativi anteriori (II Cron. 34, 37).

L'impianto elettrico era pronto ma dalla centrale non arrivava ancora l'energia.
C'era un intoppo.
Come quando si aspetta che l'acqua raggiunga i cento gradi per bollire.

Ma se sotto la pentola c'è il fuoco, non c'è pericolo:
l'acqua bollirà.E il fuoco c'era.

L'attesa durò fino al momento in cui echeggiò il grido:
«Ho trovato il libro della Legge nel tempio di Jahvé!»• (II Re 22, 8).

Tutta la città s'illuminò perché era arrivata la luce.
Il cannone tuonò nel silenzio della valle.
Si era trovato quello che mancava.
Echeggiò il grido e cominciò l'avanzata.

D'improvviso si aprì nitidamente una strada e tutti (re, profeti, sacerdoti, funzionari e popolo) vi entrarono dentro.
Avevano davanti a sé un futuro pieno di ottimismo.
Era l'anno 622 a.C., esattamente 100 anni dopo la caduta di Samaria.



5. La «Magna Charta» della riforma trovata nel tempio: la sua storia

La legge trovata nel tempio era l'antica legge di Dio, ma riveduta e corretta in una edizione nuova adatta ai tempi nuovi.

Le idee lanciate da Ezechia e soffocate durante il lungo governo di Manasse vi incontravano una formulazione concreta e operativa.
Quelle idee non erano scomparse, ma erano state ruminate da alcuni idealisti che le conservarono, le formularono e le misero per scritto (idealisti che pensavano al futuro e non si lasciarono vincere dal marasma politico e religioso provocato dall'incapacità di Manasse).

Non si sa come né perché il loro scritto andò a finire nel tempio.
Là fu trovato da Elkia in occasione delle riforme che si stavano facendo nella costruzione (II Re 22, 3-10).

Portato al re e letto alla presenza di lui, il libro provocò una reazione inaspettata di paura e di confusione:
«Grande deve essere la collera del Signore contro di noi, perché i nostri padri non hanno obbedito alle parole di questo libro e non hanno messo in pratica tutto ciò che vi è scritto» (Il Re 22, 13).

Ebbero l'impressione che all'improvviso la nebbia si dileguasse e lo orizzonte si delineasse limpido ai loro occhi.

Il libro era lì ad indicare il cammino da tutti desiderato ma che nessuno riusciva a definire.

La legge trovata nel tempio diceva come fare.
Veniva a formulare con esattezza ciò che era confuso nelle aspirazioni di tutti.
Offriva loro una strategia dell'azione.

Tutti presero coscienza della crisi che stavano vivendo (cf. II Re 22, 14-17). All'istante il popolo fu convocato, la legge fu letta in assemblea plenaria e tutti s'impegnarono a metterla in pratica (II Re 23, 1-3).
La riforma aveva adesso la sua «Magna Charta».

Si poteva mettere mano all'opera.
Il popolo aderiva in pieno (II Re 23, 3).
Lo scopo consisteva nell'applicare integralmente le esigenze di Dio nella situazione nuova in cui si trovavano.

A dire il vero, una riforma drastica della vita nazionale era più che necessaria. Tutti se ne rendevano conto.
La religione, così come era praticata, era piena di superstizioni.

Una delle cause era l'infiltrazione e la mescolanza di elementi pagani nel culto di Jahvé e l'abbondanza di piccoli santuari sparsi per tutto il territorio, dove si praticava un culto affatto differente dal culto magico dei Cananei.

I profeti non si stancavano di denunciarlo.
Ma non serviva quasi a niente.

Bastò per esempio che morisse Ezechia perché Manasse ripristinasse tutto l'apparato pagano del culto (II Re 21, 3-7).
Segno che nella vita del popolo c'era tutta una ricerca e un vuoto nascosto, che trovavano risposta concreta solo in questi elementi magici.

C'era il pericolo di una perversione lenta e progressiva dell'idea di Dio, seguita dalla perversione del senso della vita della nazione.

Proprio così 100 anni prima era incominciata la caduta della Samaria.
Se lo ricordavano tutti e avevano paura che la cosa si ripetesse.
Il popolo del Nord si disintegrò e cessò di esistere per non sapere più chi era né perché esisteva.

Era meglio prevenire che rimediare.

Ma non c'era re né profeta capace di strappare il male con la radice e tutto.
La coscienza del popolo non era chiara.
Il problema si presentava assai complesso.

Fin dal 722, quando la Samaria fu distrutta, i teorici del governo avevano incominciato ad analizzare il problema più da vicino, arrivando a conclusioni pratiche radicali di grande importanza per la vita del popolo. Redarono un documento o manifesto in cui si diceva come applicare la legge di Dio.

Stesero anche un piano d'azione. Elkia lo trovò molto tempo dopo nel tempio.



6. La «Magna Charta» della riforma trovata nel tempio:
il suo contenuto


Esaminiamo i punti principali del manifesto o legge contenuti nel Deuteronomio.

Il documento presenta Mosè che parla al popolo poco prima di prendere possesso) della terra.
A dire il vero il popolo cui Mosè parlava non era quello che visse al suo tempo verso l'anno 1200 a.C. ma era il popolo che camminava per le strade di Gerusalemme' e nell'interno della Palestina, un popolo dedito alla superstizione al tempo di Manasse e Giosia.

Mosè espone la legge in modo molto diretto e personale sotto forma di un discorso.
Si propone di arrivare alla coscienza del popolo e fargli sentire la sua responsabilità in quel particolare momento storico della sua vita.

Attraverso la lettura del manifesto il popolo avrebbe dovuto riscoprire la sua identità di «popolo di Dio», il suo impegno urgente con questo Dio e le esigenze di vita' che ne derivavano.
Col re il manifesto raggiunse'il suo scopo.

Basta vedere la reazione appena finì di ascoltarne la lettura (II Re 22, 13).
Il Deuteronomio ragiona così:
il popolo non può avere altra divinità all'infuori di Jahvé, unico Dio e Signore del popolo (cf.Dt. 6, 4-25).

Tutto il resto che porta il nome di Dio non ha alcun valore.
Deve essere sradicato (Dt. 6, 14-15; 7, 25-26).
L'impegno del popolo con Jahvé non deriva da quello che il popolo ha fatto per Jahvé, ma da quello che Jahvé ha fatto per il popolo (Dt. 6, 20-7, 6): è un dovere di riconoscenza e di amore (Dt.
7, 7-11).

Per il fatto di essere stati scelti da Jahvé, hanno il dovere di osservare i suoi comandamenti per potere un giorno godere delle sue promesse.
È l'idea fondamentale e occupa tutta la prima parte del libro del Deuteronomio (capp. I-II).
Segue l'applicazione pratica della nuova maniera di concepire la vita nazionale.

L'unico santuario sarà espressione della fede nell'unico Dio.
Tutti gli altri luoghi di culto saranno distrutti.
Jahvé, il Dio del popolo, può essere adorato solo nel luogo da lui scelto per il culto (Dt. 12, 5).

Si capisce che questo unico luogo sarà Gerusalemme.
Solo li andranno a fare offerte ed olocausti (Dt. 12;
6-7). Ogni pratica di culto è prescritta fino nei più insignificanti particolari.

Tutto è centralizzato. Niente resta al caso o all'iniziativa personale. Bisogna farla finita con la situazione in cui «ciascuno si regola come meglio crede» (Dt. 12, 3). La grande preoccupazione consiste nel circuire la liturgia in modo da escludere una volta per tutte la pratica della magia (cf. Dt. capp. 12, 18).

Una delle più importanti. norme concrete era l'obbligo di fare tre pellegrinaggi all' anno al tempio di Gerusalemme in occasione delle tre grandi feste nazionali (Dt. 16, 16).

Sarebbe bastato a promuovere la coscienza di unità nazionale e sarebbe stata un’occasione propizia per istruire e aggiornare il popolo su Dio e sulle esigenze della Legge.

Conviene leggere il libro del Deuteronomio per farsi un'idea dell'appello vibrante rivolto alla coscienza del popolo, in quello stile diretto e suggestivo che gli è proprio, e per capire la rigidità della riforma liturgica che non lasciava niente di indefinito.




SEGUE..


una stretta di [SM=g1902224]


Pierino








lovelove84
00venerdì 9 ottobre 2009 16:52
Caro mlp-plm
non ti arrabbbiare, ma un c'è la fo a leggerlo al pc.
ora l inchiostrino è finito, appena "trasfondo" la stampate, li stampo e li leggo e ti dirò di più...


[SM=g6198] [SM=g7958] [SM=g6198] [SM=g7958] [SM=g6198] [SM=g7958]
mlp-plp
00sabato 10 ottobre 2009 15:59






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VI (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]








dal re Ezechia al re Giosia: storia di una riforma




7. Il problema della manutenzione del clero:
pietra d'inciampo alla rinnovazione


Al problema della riforma del culto si legava quello della manutenzione del clero dell'interno.
Tutti quei santuari, sia degli dèi falsi che del vero Dio, avevano i loro sacerdoti.

I poveretti trovavano nei santuari l'unico mezzo di sussistenza. Decretando l'abolizione dei santuari il clero di Gerusalemme decretava la fame e la miseria dei colleghi dell'interno. Problema insolubile circolo vizioso; Ezechia aveva tentato già una riforma del clero senza nessun risultato (II Cron. 31, 2).

Col governo di Manasse tutto era tornato al punto di partenza.
Senza prima dare una soluzione ragionevole al problema concreto del clero, qualunque altra soluzione per promuovere la riforma sarebbe stata come un innesto su un ramo secco.

Per quanto possano essere belli gli ideali, nessuno vuol morire di fame per loro amore.

Gli autori del libro del Deuteronomio si proposero di risolvere il problema del clero e trovarono la soluzione di cui si parla nel libro di Giosia:
una parte del clero dell'interno fu trasferito a Gerusalemme, dove ottenne un impiego di seconda categoria nel tempio (Il Re 23, 8; cf. Dt. 18, 6-8);

un'altra parte ricevette la proibizione di stabilirsi a Gerusalemme (II Re 23, 9) e fu affidata alla carità del popolo (cf. Dt. 14, 27-29).

Affiora la rivalità tra i due cleri e la lotta che si facevano da tempo per conquistare una maggiore influenza sul popolo.

Il clero della capitale voleva guadagnarsi una influenza maggiore nella nazione e voleva centralizzare il culto nelle sue mani.
E ne aveva il mezzo dal momento che il pericolo della magia era grande.

D'altra parte il trasferimento di tutto il clero nella capitale poteva marginalizzare lo stesso clero della capitale.

Il clero dell'interno si vide privato delle sue normali fonti di guadagno. Abbandonato alla carità del popolo o ridotto a un impiego di seconda categoria nel tempio, non vedeva di buon occhio l'azione centralizzatrice dei suoi colleghi di Gerusalemme che godevano condizioni di vantaggio.

Non è poi molto piacevole essere messo di punto in bianco alla stregua dello «straniero, dell'orfano e della vedova» (Dt. 14, 29)!
La previdenza sociale del clero fin da quel tempo costituì un problema e un problema cruciale per l'esito della riforma che si doveva fare.

Sembra proprio che tutta la legislazione corrispondesse soltanto al modo come gli agenti centrali di coordinamento a Gerusalemme sentivano ed affrontavano il problema, in quanto erano persone che da molto tempo pensavano a queste cose e avevano una coscienza illuminata.

Non era certo espressione del problema così come lo sentiva e lo viveva la base, il popolo e il clero dell'interno. Qui si situa la causa del fallimento della riforma.



8. L'esecuzione della riforma e la sua tragica fine

Il re Giosia assunse la riforma come sua missione personale.
Fece di tutto per metterla in pratica.
Corse tutta la nazione da nord a sud (II Re 23, 4-14).
Entrò perfino nel territorio di Israele (II Re 15-20).

Voleva farla finita con tutti i santuari, sia di Jahvé sia degli altri dèi, per purificare la religione dal cancro della superstizione e della magia.

Usò la violenza e arrivò ad uccidere i sacerdoti degli dèi falsi bruciandoli vivi insieme ai loro altari (II Re 23, 20).

Attuò la riforma del clero (II Re 23, 8-9).
Fu molto elogiato:
«Ha fatto ciò che piace a Dio e in tutto ha imitato la condotta di David suo padre senza deviare né a destra né a sinistra» (II Re 22, 2).

È difficile dare un giudizio sul movimento di riforma messo in opera da Giosia.
La morte inattesa e immatura gli impedì di portarla a termine.

Dopo di lui andarono al governo uomini incapaci.
Tutto restò a metà.

Giosia abbatté la vecchia casa e non fece in tempo a costruirne una nuova.

Ancora una volta sarà la situazione internazionale ad influire sull'andamento dei fatti interni del paese dando loro una direzione imprevista.

Nabopolassar, re di Babilonia, la terza potenza mondiale dell'epoca, ereditò dai suoi antenati lo spirito di lotta e di indipendenza e dette inizio alla rivolta contro il potere secolare degli Assiri.

Con battaglie fulminee riuscì a frantumare in pochi anni un potere immenso costruito durante secoli.
L'Assiria agonizzava.

Nel 612, cioè dieci anni dopo la scoperta del libro della Legge nel tempio, quando Giosia correva il paese distruggendo i santuari e trasferendo il clero, Ninive, la grande capitale degli Assiri, fu presa dai Babilonesi e rasa al suolo.


Questo fatto è simile all'esplosione della prima bomba atomica di Hiroshima:
finisce un'epoca e ne incomincia un'altra.

L'Assiria si ritirò con le truppe che le restavano verso il nord nell'attuale Siria e là si barricò in un ultimo tentativo di difesa disperata.

E come può accadere, quando la Cina diventa troppo forte, l'America e la Russia diventano amiche;

così l'Egitto, eterno nemico dell' Assiria, si mise a fianco di questa per l'equilibrio del Medio Oriente.

Inviò un esercito di rinforzo per raccogliere i resti dell'esercito assiro barricato nel nord dell'Assiria.
Per arrivare fino là doveva passare per la terra di Giosia.

Giosia, forse spinto dalla presunzione, pensò di cogliere il momento buono per contribuire in qualche modo alla politica internazionale.
Riunì i soldati e andò 'ad aspettare gli Egiziani dietro la gola di Megiddo sul monte Carmelo.
Voleva impedirne il passaggio affrettando così la sconfitta sia degli assiri che degli egiziani.

Aprì il fuoco contro il Faraone per vincerlo in battaglia.
Fece male i calcoli e fu sconfitto nel primo scontro (II Re 23, 29).
Ferito a morte, fu raccolto e portato a Gerusalemme dove morì e fu sepolto tra il compianto generale del popolo che lo considerava un grande amico (II Cron. 35, 23-24).

Si dice che lo stesso profeta Geremia fece l'elogio funebre del re la cui morte uccise l'ultima speranza del popolo (II Cron. 35, 25).
Giosia aveva solo 39 anni.
Morì giovane (cf. II Re 22, 1).

Siamo nell'anno 609. Dodici anni di lavoro intenso per la riforma si chiudevano con una morte stupida ed inattesa.

Il Faraone, di ritorno dalla missione militare a nord della Siria, passò da Gerusalemme e sottomise il regno di Giuda mettendovi a capo l'uomo di sua fiducia (II Cron. 36, 1-4).

Da quel momento tutto andò male;
22 anni più tardi, nel 587, la città fu presa da Nabucodonosor, successore di quel re a cui Giosia aveva dato appoggio pagando con la vita.

Nabucodonosor re di Babilonia, prese la città, la rase al suolo e fece piazza pulita per sempre dell'indipendenza del popolo, che la riconquistò solo nel 1947 d.C., quando si formò lo stato di Israele che oggi deve sostenere le stesse lotte, facendo lo stesso gioco di politica internazionale delle grandi potenze.



9. Bilancio della riforma

La riforma morì con la morte di chi l'aveva promossa.
Come si spiega?
Dove stava lo sbaglio?
A chi attribuirne la causa?

Alla politica interna?
Alla incompetenza dei successori di Giosia?
Allo stesso Giosia?
Alla «Magna Charta» della Riforma?

Se la riforma era stata promossa proprio per evitare il disastro che si realizzò, perché allora non riuscì ad evitare la china che la portò fin là?

Fu troppo debole o troppo forte?
Fu uno sforzo vano senza prospettive di futuro?

C'è un fatto curioso in tutta questa storia.
Geremia, la grande figura religiosa di quel tempo, che fin dal principio ne accompagnò tutti i passi, che predicò la conversione, che pianse amaramente la morte del giovane re, non sembra con le sue profezie aver dato tutto l'appoggio a quanto si faceva in nome della riforma.

Non si identificò col movimento di riforma che il re Giosia portò alle ultime conseguenze.
Perché?

La riforma affrettò o ritardò la catastrofe che sopravvenne così rapidamente nel giro di soli 20 anni, quando i cambiamenti solevano realizzarsi, molto più lentamente che al tempo d'oggi?

È difficile dare un giudizio, perché ce ne mancano gli elementi.
Cercheremo solo di formulare una ipotesi, dal momento che i fatti ci stanno davanti ed esigono risposta e la questione ci interessa perché
anche oggi la Chiesa è coinvolta in un gigantesco sforzo di riforma segnato da avvenimenti di ogni tipo, sia interni che esterni, nazionali e internazionali.

Davanti ad un'opera d'arte si possono fare studi di diverso tipo per cogliere tutta la portata del messaggio che vuole comunicarci:
tuttavia il messaggio colto dal critico d'arte può non essere quello dell'artista.

Ma lo sforzo fatto dal critico di arte rientra nella prospettiva dell'artista:
l'artista vuole che la sua opera susciti la riflessione degli uomini e li metta davanti alla loro coscienza.

Allo stesso modo, nella spiegazione della Bibbia e dei fatti raccontati dalla Bibbia, la parola dell'esegeta non è importante.

Anzi è molto relativa.
L’importante è che l'esegeta, secondo le sue capacità d'interprete, riesca a sprigionare la forza e la luce della parola di Dio perché operi sulle coscienze degli uomini.

Le conclusioni saranno forse differenti da quelle proposte dall'esegeta.
Non ha molta importanza.

È importante che gli uomini si siano fermati, abbiano riflettuto, abbiano confrontato la vita e l'attività con la parola di Dio, abbiano scelto e si siano resi conto alla luce di Dio del perché delle loro posizioni.




lO. L'errore di calcolo che ha fatto crollare la casa in costruzione

Il nuovo modo di vedere la fede sintetizzato nel Deuteronomio sotto forma di progetto concreto di azione era una risposta nata dalle esigenze della realtà, ma in quel momento era pure l'espressione di una piccola minoranza che improvvisamente volle imporsi a tutti.

Si mise in marcia col segnale rosso e contribuì ad accelerare il disastro che aveva intenzione di evitare.
Bisogna aspettare che il semaforo dia il segnale verde, anche se ci mette un po' di tempo, soprattutto quando si tratta di portare il popolo a riformare la mentalità e le pratiche religiose.
Altrimenti si causano disastri.

La riforma drastica che bruciò le tappe del progetto dei teologi di Gerusalemme, anche se era in profonda sintonia con la vita del popolo, fu soltanto teorica, e in pratica rimase senza effetti fino a molto tempo dopo, fino all'epoca che seguì l'esilio.

Si trattò di una riforma imposta dall'alto su schema prestabilito.
Il popolo non riconosceva le sue aspirazioni nella riforma promossa con tanto zelo.

Per questo non la fece sua.

Per questo la riforma morì con l'uomo che la promosse senza lasciare traccia.

Il popolo ha difficoltà a ragionare, né si lascia convincere dalle idee, per quanto chiare e nobili possano essere.

Quando un problema di fede si colloca in termini troppo pratici, come fu nel caso della riforma di Giosia, la teoria applicata drasticamente non approda a nessuna soluzione.
Dà i suoi frutti a distanza di tempo come elemento di coscientizzazione.

Le soluzioni drastiche che tutto ad un tratto applicano un progetto teorico, senza tenere conto della realtà, non funzionano, perché nessun popolo le capisce. Presto o tardi finiscono col fallire.

Il re Giosia non agì con molta comprensione nei riguardi della situazione concreta del clero rurale e del popolo.

Seguiva le norme stabilite da un progetto già pronto, senza chiedersi se era possibile attuarlo in quella forma.
Un carro pesante, quando è tirato d'improvviso con uno strattone, anche se da molto tempo stava aspettando la sua ora, non cammina perché il timone si spezza.

Quando il re volle risolvere il problema non si dette molta pena di consultare il popolo, mentre il buon esito della riforma dipendeva proprio dalla collaborazione del popolo.


Era il popolo che doveva mantenere il clero, che doveva pagare le decime per il tempio, che doveva fare i tre viaggi a Gerusalemme, che doveva osservare tutte le prescrizioni.

Ogni forma di culto pubblico a Dio fu centralizzata in Gerusalemme.
Tutto il resto fu proibito e controllato.
Le prescrizioni prevedevano anche i più piccoli dettagli.

Anche se con retta intenzione, una simile riforma improvvisa privò il popolo da un momento all'altro dell'unico appoggio che aveva per la sua vita in tempi tumultuosi;
appoggio tradizionale che lo aiutava a incontrarsi con se stesso e con Dio, anche se fosse falso.

Da quel giorno in poi chiunque continuasse a praticare qualsiasi altra forma di culto si sentiva come un fuorilegge, su una falsa strada. Privato della sua maniera concreta di adorare Dio, col quale si era identificato durante secoli di vita, e ignorando il raziocinio delle nuove forme di adorazione, il popolo non si ritrova più né con se stesso né con Dio.

In pratica non era sempre possibile andare a Gerusalemme e le tre visite per anno non bastavano a saziare l'intenso desiderio religioso del popolo.
Molto più tardi l'istituzione della sinagoga supplì a questa grave mancanza e rese possibile l'esecuzione della riforma contenuta nel libro del Deuteronomio.

In conclusione il popolo si vedeva collocato al margine del culto ufficiale. Si fece un gran vuoto, senza nulla che potesse riempirlo:
solo forse un'idea.

La vita del popolo diventò una vita senza Dio, almeno di fronte alla legge ufficiale.

Eccolo li, senza più nessun orientamento, in mezzo alla confusione religiosa e politica di quei tempi disastrosi.
Lo choc generato dalla riforma fu troppo forte e il popolo non aveva né criteri né sostegno per sopportare l'applicazione rigorosa delle nuove regole traendone profitto.

Il popolo fu privato del suo diritto.


La morte prematura del re ruppe le dighe e le pratiche pagane dilagarono più numerose di prima per colmare il vuoto scavato dalla riforma.

È significativo che Geremia, uomo del popolo e grande condottiero religioso di quel tempo, per quello che si sa,non abbia dato completo appoggio al movimento.

Eppure se c'era uno che aveva avuto coraggio di criticare gli abusi della religione, questi era proprio Geremia.

Ma quando tutto è confuso non è facile prendere una posizione netta e chiara per dire con certezza che cosa si debba fare.

Sarebbe come un paese che basasse tutta la sua economia sopra un unico prodotto.
Per quanto ricco possa essere, quando arriva l'ora della crisi di quell'unico prodotto, il paese cade in miseria.

Di chi è allora la colpa?

In tempi simili è sempre più facile e più sicuro dire come non dovrebbe essere piuttosto che come deve essere, escludendo ufficialmente altri cammini, altri tentativi, altre esperienze.

Non si tratta di essere fedeli solo a Dio.
La fedeltà a Dio vuole che siamo fedeli anche al popolo.

Il che vuol dire:
la preoccupazione più importante di Dio è il benessere e la felicità degli uomini, il loro sviluppo e la loro piena realizzazione.
Ridurla ad una preoccupazione legalista normativa in nome della purezza della fede, per quanto meravigliosa e giusta possa essere, non è sempre quello che Dio vuole.

Ad un babbo importa anzitutto non tanto che il figlio possegga idee esatte sopra suo padre, ma che riesca nella vita e sia felice.

Quando sarà felice grazie alla bontà di suo padre, avrà pure idee giuste su di lui.

La gloria di Dio non si distingue dalla felicità degli uomini.
Non basta domandarsi soltanto che cosa Dio vuole che io faccia.

Bisogna domandarsi come Dio vuole che io realizzi le cose che aspetta da me. I più grandi sbagli generalmente si fanno non contro la prima esigenza ma contro la seconda.
Siamo fedeli ad una dottrina astratta ma non seguiamo il modo di Dio nel viverla e nel metterla in pratica.

La legge del Deuteronomio conteneva e contiene la giusta dottrina perché la Bibbia ne è depositaria e i cristiani continuano a leggerla fino ad oggi.

Ma il modo con cui gli uomini mettono in pratica e applicano la legge impedisce la sua stessa esecuzione e applicazione.
Tutti hanno agito con la migliore delle intenzioni, nella perfetta obbedienza, ma questo non basta.




11. Conclusione

La Bibbia, portando fino a noi questa storia complicata di riforma, suscita una luce molto grande per orientare la critica.

Ci fa intuire che la Parola di Dio si inserisce nella storia degli uomini in modo tale da rimanere sottoposta alle libere decisioni umane, fino a correre il rischio di non raggiungere il suo fine.

È tutto qui il grande mistero della storia che la Bibbia registra, ma non spiega.

Troviamo nella Bibbia la fede incrollabile che la storia, sostanziata, dinamizzata, orientata dalla Parola di Dio, è sempre una storia vittoriosa.

Tale certezza porta il popolo a prendere decisioni, ad agire.
D'altra parte però queste stesse decisioni e questo agire umano arrivano ad oscurare a volte la presenza della Parola e ad annullarne l'effetto; così almeno sembra, entro i limiti delle nostre possibilità di osservazione e di giudizio.

Quanto successe al tempo di Giosia è preludio di quello che succederà quando «la Parola fatta carne» sarà eliminata dal consorzio umano, uccisa su di una croce, manifestando nella sconfitta la sua forza invincibile.

Tutto ciò serve ad aumentare in coloro che credono in Dio il senso della loro responsabilità.

La complicata storia di una riforma cominciata bene e finita male, perché non rispettò il popolo, dimostra che quel popolo ebbe una storia uguale a quella di qualunque altro popolo.

In mezzo alla confusione generale camminarono i profeti con le loro angustie e le loro speranze, a tastoni, scrutando gli orizzonti per scoprire gli appelli di Dio.

Non sempre indovinarono, non sempre riuscirono a vederci chiaro.
Ma nell'insieme il popolo ha camminato fra alti e bassi ed è arrivato là dove Dio lo voleva.

Il popolo non aveva la linea telefonica che lo mettesse in diretta comunicazione con Dio.
Ma aveva la coscienza che in tutto quello che succede Dio è presente.

La sua storia tormentosa un'impressionante ricerca di Dio.



SEGUE..


una stretta di [SM=g1902224]


Pierino




mlp-plp
00lunedì 12 ottobre 2009 20:57




[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VII (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

Geremia: la fuga non è mai soluzione





Benché sia vissuto in un tempo totalmente differente dal nostro, qualcosa tuttavia ci unisce a quest'uomo.

Ci risveglia a certi aspetti della nostra realtà, nei quali non eravamo soliti vedere o percepire gli appelli di Dio.
Ci si presenta come un uomo concreto, non più un uomo solo del passato, ma del tutto inserito nel nostro presente.

Potremmo trovarcelo davanti in qualunque angolo della strada.

Attenzione!



1. La realtà: la condizione umana del popolo al tempo di Geremia


Situazione internazionale:
È il tempo che va dalla morte del re Giosia (609) fino alla distruzione di Gerusalemme e alla deportazione del popolo verso l'esilio di Babilonia (587).

Il quadro della politica internazionale è completamente cambiato:
le due grandi potenze mondiali, Assiria e Egitto, hanno perduto l'egemonia coloniale.

Si profila all'orizzonte una terza potenza, terribile e che incute spavento: Babilonia.

Nell'anno 612, Babilonia distrusse la capitale dell'Assiria, Ninive.
Fu uno choc internazionale, simile a quello della bomba atomica cinese a Washington.

Il piccolo popolo di Giuda vedeva di buon occhio il cambiamento e cercava di dare il suo contributo (a suo proprio vantaggio).
Il re Giosia, nell'anno 609, inviò il suo esercito per impedire il passaggio del Faraone di Egitto, Nekao, che si recava a dare aiuto agli ultimi resti delle forze dell’Assiria (un tempo nemica, ma adesso amica, a causa della minaccia di Babilonia), rifugiate nel nord della Siria.

Giosia fu sconfitto e perse la vita in battaglia (lutto nazionaIe).
Le forze alleate dell'Egitto e dell' Assiria furono sgominate e annientate a partire dall'anno 609;
il cammino dell'avanzata dI Babilonia era aperto.

Ripercussione della situazione internazionale sul piano nazionale:
Due erano le correnti politiche del governo di Giuda:
alcuni erano a favore di Babilonia, altri a favore dell'Egitto.
Per cui, tre mesi dopo la morte di Giosia (che era a favore di Babilonia), il Faraone d'Egitto riuscì a deporre dal trono il successore Gioacaz, anch'esso favorevole a Babilonia, e a mettere al suo posto un nuovo re, Gioacchino (609-598), favorevole all'Egitto.

Adesso, era Babilonia il grande pericolo!

Con la vittoria di Babilonia su Nekao, nell'anno 605, Giuda diventò vassalla di Babilonia.
Intrighi dei filoegiziani suscitarono una rivolta che fu schiacciata.

Dal tempo di questa rivolta (602) fino alla distruzione (587) si ebbe una situazione confusa.

Lentamente si andava creando una vera psicosi contro Babilonia, chiamata «il pericolo del nord». (cf. Ger. 1, 14-15).
Intrighi, politica sporca, sabotaggi.

Nessuno più pensava onestamente.
Per limitare il pericolo, si suggerivano soluzioni assurde.

Situazione nazionale:
La morte inattesa e prematura del giovane re Giosia, condottiero amato dal popolo, fu un duro colpo che soffocò le speranze nel cuore di molti.

La riforma incominciata (vedi capp. 4 e 6) non andò avanti.
Ebbe inizio la decadenza.

Il trono era occupato da re inetti.

Nella generale incertezza, ciascuno si difendeva come meglio poteva e dilagava la più nefasta ingiustizia.

Si cercava sicurezza nelle alleanze militari con l'Egitto;
era la politica dello struzzo, che nascondeva o ignorava il pericolo dicendo: «Va tutto bene!

Va tutto bene!» Mentre tutto andava male. (Ger. 6, 14).
Si parlava solo di felicità per nascondere le piaghe del terrore (cf. 8, 11). E si tentava rifugiarsi in una politica fiacca e falsa, sotto il manto protettore della religione ufficiale.

Si pensava di trovare la fonte della sicurezza nel fedele adempimento della liturgia, con tutte le sue feste e cerimonie:
«Siamo salvi!» (7, 10). E non era difficile trovare profeti e sacerdoti che legittimassero un processo del genere e che rassicurassero i capi circa le soluzioni da loro suggerite per superare la crisi (8, 10).

La religione diventò cosi, un «vero oppio del popolo» che credeva in questi falsi profeti quando dicevano:
«Vi sarà dato tutto il bene! Non vi succederà alcun male!» (23, 17).

Ma non si combatte un esercito con riti vuoti, con cerimonie senza vita e con promesse senza garanzia.

La disgrazia si avvicina inesorabilmente.

La religione era strumentalizzata per difendere gli interessi dei gruppi.





2. Riflessione critica sulla situazione: nasce la vocazione del profeta


Nel villaggio di Anatot, circa sei km. a nord di Gerusalemme, abitava un ragazzetto, Geremia, di stirpe sacerdotale (Ger; 1, 1), forse discendente di Ebiatar, sommo sacerdote al tempo di David, destituito dei suoi diritti da Salomone (cf. 1 Re 2, 26-27).

Era, dunque, un ragazzo che aveva nelle vene la tradizione del popolo, che viveva molto intensamente il dramma della sua nazione e si accorgeva dell'inutilità delle soluzioni ufficiali, che non coglievano il fondo del problema.

Da quello che si può dedurre dagli scritti posteriori del profeta, egli vedeva la situazione con occhio critico, illuminato dalle esigenze della sua fede in Dio.

Era una visione molto semplice e quasi semplicista, ma di grande portata.

La situazione attuale provava ad oltranza che il popolo aveva abbandonato il cammino di Dio.
L'ingiustizia si era installata nel potere, a cominciare dallo stesso Re (cf. Ger. 22, 13, 19).

Geremia arrivò perfino a dubitare che in Gerusalemme ci fosse ancora un solo uomo capace di praticare la giustizia (5, 1).
«Passano di delitto in delitto e non mi riconoscono più, dice il Signore» (9, 2).

Causa di tutto era l'abbandono di Dio (2, 13).
Invece di servire Dio, che esigeva la pratica della giustizia (7, 5-6), ciascuno seguiva il suo Dio.

Tanti dèi quante erano le città di Giuda, e tanti altari quante erano le strade di Gerusalemme (11, 13 ).
Per questo, la nazione camminava verso la sua totale disintegrazione.
In una situazione del genere, era inutile la politica dello struzzo, che si sottraeva alla responsabilità e cercava protezione e sicurezza in una religione vuota di senso o in alleanze militari equivoche.

Bisognava attaccare il male alla radice:
«Praticate la giustizia fin dall'aurora, liberate l'oppresso dalle mani dell'oppressore, affinché la mia ira non divampi, come le fiamme di un braciere ardente che non si spegne mai» (21, 12).

Qualsiasi altra soluzione sarebbe stata solo un innesto su un ramo morto. Invece di allontanare il «pericolo del nord», queste soluzioni l'avrebbero avvicinato sempre più.

Si scavavano la fossa con le loro stesse mani.

Sembrava che nessuno avesse coscienza delle sbaglio:
mentre si sforzavano per risolvere la crisi, affrettavano l'epilogo della disgrazia.

La visione critica della realtà segnava la responsabilità di Geremia. Bisognava fare qualche cosa.

Dio lo voleva.

Era diventata un'ossessione.


Un giorno, in cucina, vede la pentola rovesciarsi dalla parte del sud:
« Vedo una pentola che bolle;
il suo contenuto trasborda da nord a sud» (1, 13).

E il fatto comincia a parlare, a partire dal momento in cui si lega al problema che lo interessa:
«La malizia ferve a nord, e ricade su tutti gli abitanti di questo paese» (1, 15).

Così nacque la sua vocazione.

Con una coscienza chiara, si accorge che Dio lo chiama per parlare al popolo.
Si accorge che questa è la sua missione, per la quale fu destinato fin dal seno di sua madre (1, 5).

E ha paura:
«Oh, Signore, vedi, io non ho forze per portare il peso della tua parola; sono appena un ragazzo» (1, 6).
Ma la paura non ha senso, perché la forza di Dio sarà con lui:
«non aver paura davanti al popolo, perché io starò con te e ti proteggerò» (1, 8).

Diventerà «come una città fortificata, una colonna di ferro, una muraglia di bronzo» (1, 18), cioè, nessuno lo potrà vincere, perché la verità e la ragione staranno con lui.

È invincibile.

«Si proveranno a lottare contro di te, per vincerti e sgominarti, ma non ci riusciranno, perché io sto con te per liberarti» (1, 19).

Geremia partì.

Si investì della missione che si era maturata lentamente in lui, diventando convinzione personale, inalienabile e sicura, venuta da Dio, Signore del suo popolo.



SEGUE..


[SM=g1916242] con una stretta di [SM=g1902224]


Pierino


mlp-plp
00martedì 13 ottobre 2009 23:49






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VII (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Geremia: la fuga non è mai soluzione



3. Prassi del profeta Geremia


In mezzo all'angustia generale.
Geremia ragionava a mente fredda.

Denunciava con chiarezza la falsità della politica ufficiale, non si preoccupava delle dicerie dei profeti opportunisti (28, 117; 23,9-40), ma seguiva la sua strada, smascherando uno per uno i punti essenziali di quella falsa sicurezza, generata dalla paura del popolo e dalla presunzione dei condottieri.

Il culto:
non piace a Dio, anche se profuma di incenso comprato All’estero (6, 20); è un culto falso e disonesto (7, 2126); non offre nessuna protezione.

Il tempio:
è un inganno tragico volersi appoggiare all'esistenza del tempio.

Dio non abita più là dentro, ma è diventato straniero nella sua propria terra (14, 8), e il tempio sarà distrutto come una casa qualunque (7, 12-14).

Dio non ne vuol più sapere degli Israeliti (7,15).
La circoncisione (9,24), i sacrifici (14, 12), il digiuno (14, 12), la preghiera (11, 14), in cui riponevano la loro fiducia, non servono più a niente;
neppure i grandi uomini del passato, Mosè e Samuele, potranno far sì che Dio abbia pietà del popolo (15, 1).

La legge non li protegge più, perché hanno fatto della legge uno strumento di oppressione e di inganno (8, 8-9).

Il re, che era la pupilla degli occhi di Dio, è diventato inefficiente: «Anche se il re fosse un anello della mia mano destra, me lo strapperei, dice il Signore» (22, 24).

Non avrà discendenza (22, 30).

Conclusione logica: «Dio non abita più a Gerusalemme (8,19 )>>.

È inutile gridare: «Va tutto bene! Perché tutto va di male in peggio» (8, 11).
È inutile pensare che l'Egitto si interessi di soccorrerti (37, 7).

«Sarai ingannata dall'Egitto come lo fosti dall'Assiria.
Anche di là uscirai con la testa fra le mani» (2, 36, 37), (cioè, prigioniero).

Qualunque soluzione tu prenda, sarà solo una fuga, e la fuga non è mai soluzione! Sarebbe come invocare il pericolo, invece di allontanarlo.

Ma insomma, Geremia, tu che critichi tutto, quale soluzione suggerisci?

Non c'è soluzione!
Tutto è marcio; questa istituzione qui deve sparire:
«Sono così abituati a fare il male che non riescono più a fare il bene>~ (13, 23).

La conversione del popolo è impossibile, come è impossibile che un negro diventi bianco (13,23).
Il peccato ha pervaso ogni cosa (17,1-2).

Neppure se volessimo, potremmo cambiare stile di vita (18, 11-12).
La fedeltà è sparita in mezzo a loro (7, 27-28); perciò:
«Spezzerò questo popolo e questa città come si frantuma un vaso di argilla, che non si può più mettere insieme» (19, Il).

«Allora, dove andremo?».

«Alla peste, quelli che sono destinati a morire di peste!
Alla spada, quelli che sono destinati a morire di spada!
Alla fame, quelli che sono destinati a morire di fame!
Alla schiavitù, quelli che sono destinati alla schiavitù» (15, 2).

Resta una sola possibilità di uscire vivo dalla terribile minaccia:
consegnarsi al nemico che avanza (27, 12; 58, 17-18).

Era i1 consiglio di Geremia a chi volesse ascoltarlo.

Gli altri consigli, che spronavano alla pratica del bene e della giustizia, sembravano cadere nel vuoto.
Un uomo che parlava così era pericoloso e sovversivo.

I suoi discorsi provocavano rivolta, demoralizzavano il popolo e toglievano il coraggio ai soldati, che non avevano più animo per combattere contro Babilonia (38, 4).

Un uomo di questo tipo doveva essere eliminato (28, 4).
Sapeva solo parlare di terrore (20, lO).

Combinarono d'imprigionarlo e, in un pomeriggio relativamente çalmo, dopo un prolungato assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, Geremia fu catturato, mentre usciva dalla città (37, 1116).

«Tu stai passando dalla parte dei Caldei cioè dei Babilonesi».
«Bugiardi! lo non sto passando dalla parte dei Caldei» (37, 14).

Le sue proteste non valsero a niente.
Fu preso, malmenato, e gettato in prigione (37, 15).
Un sotterraneo, che lo soffocava e gli faceva sentire la paura della morte (37, 20).

Ma la prigione non valse a nulla.
Un uomo come Geremia è sempre scomodo, sia in carcere, sia a piede libero.

Invece di migliorare, la situazione peggiorò sempre di più, perché la prigione causò divisioni fra gli stessi capi del popolo (leggere i capp. 37, 38).

Tanto chi era a favore come chi era contro, tutti avevano paura di lui, come risultò dall'intervista segreta del re con Geremia.
Il re non voleva che si sapesse che era stato lui a chiamarlo per parlare (38, 24-26).

Geremia era un uomo per il quale «fede in Dio» non era alienazione; consisteva nel vivere bene la sua vita umana.

Scopriva gli appelli di Dio negli avvenimenti, sia nazionali che internazionali.
Lui faceva parlare i fatti, «interpretava la vita».

Visto che tutti dicevano di aver fede in Dio, Geremia esigeva l'adempimento dell'impegno e metteva in evidenza le incongruenze della fede con la vita.
Proprio per questo la sua parola feriva.

Non si voleva vedere la luce della verità, che Geremia metteva in evidenza con le parole e i gesti chiari, scultorei.
Tentarono con ogni mezzo di soffocare la sua voce.





4. Conseguenze di un impegno: sofferenza e persecuzione

A guardarla da lontano, la figura di Geremia è ammirevole.
Vista da vicino, impressiona e fa paura per la violenza del dolore e per la imperturbabile fedeltà a una missione che non aveva mai desiderato, ma che nacque e crebbe in lui come appello di Dio (cf. 20, 7-9).

Bisogna aver sofferto tanto per arrivare a dire:
«Maledetto il giorno in cui sono nato, non può essere benedetto il giorno in cui sono nato, non può essere benedetto il giorno in cui fui dato alla luce... Perché non sono morto ancora prima di nascere?

Che bellezza se il ventre di mia madre fosse stato la mia tomba!
Perché sono uscito vivo dal seno materno?» (20, 14-17).

Fu vittima di cospirazioni e attentati (15, 10).
Lottò e lavorò per 30 anni continui senza ottenere il minimo risultato (25, 3).

Il suo lamento è tragico: «Ho lasciato la famiglia, ho abbandonato l'eredità e ho consegnato alle mani dei nemici ciò che di più caro aveva il mio cuore (sua madre).
Il mio popolo mi è venuto contro come un leone che rugge nella foresta» (12, 7-8).

Restò solo col suo dolore.
Li aveva tutti contro:
il fratello e i suoi stessi familiari lo tradirono (12, 6), gli abitanti di Anatot, suoi conterranei, cercarono di ucciderlo (11, 18-21), i sacerdoti e gli altri profeti e il popolo intero si lanciarono contro di lui gridando: «a morte!» (26, 8).

Alla fine, fu gettato in un pozzo in rovina e fetido, da cui fu tolto per intercessione di alcuni amici, tra i pochi che gli restavano (38, 1-13).

E tutto ciò gli sembrò una sofferenza assurda e inutile.
Infatti, 23 anni di lavoro senza alcun risultato, farebbero perdere il coraggio a chiunque!

E, tuttavia, in mezzo a tante sofferenze, lo sosteneva una forza che nessuno avrebbe potuto vincere, e faceva di lui «una città fortificata, una colonna di ferro, un muro di bronzo» (1, 18).

Era la certezza:
«Il Signore mi accompagna, come un guerriero invincibile» (20, 11).
Per quanto dura fosse la sua sorte e per quanto tentasse di rivoltarsi contro di essa, in fondo voleva essere così e ne era contento.

Sapeva che questo era il suo cammino.
E anche se la sua missione lo faceva soffrire tanto, ricordava con gioia il momento della sua vocazione, quando dice:
«Tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre.

Mi hai vinto e hai trionfato su di me» (20, 7).
Per lasciarsi sedurre bisogna pur trovare qualcosa che piaccia davvero!

Sempre disprezzato in vita, quest'uomo, dopo la morte, diventa l'immagine del futuro Messia «Uomo dei dolori che portò su di sé le nostre colpe» (Mt. 8, 17; Is. 53, 3-4).
Succede sempre così;
chi in vita sembrava soffocare la speranza di tutti, dopo la morte diventa simbolo di speranza universale.





5. Geremia contribuì alla realizzazione del progetto di Dio

Geremia non aveva nessuno con cui sfogarsi, si sfogava con Dio.
Contribuì così ad interiorizzare la religione e ne fece la religione «del cuore» cioè, qualcosa di molto personale che entra nell'intimo dell'uomo e non si limita ad alcuni gesti esteriori.

Geremia riuscì a farlo, non solo col suo insegnamento, molto più con la sua vita.
Per riuscire nella vita, per superare e combattere le difficoltà della sua missione, dovette soffrire: vinse, perché nella sofferenza riuscì ad incarnare, nella sua vita personale, tutti i valori collettivi della fede del popolo.

La sofferenza lo portò ad interiorizzare la religione e fece crescere in lui l'uomo.

Quando pregava, ed è frequente nel suo libro, non era artificiale, ma diceva tutto quello che gli veniva dalla mente e dal cuore:
vendetta, disperazione.

Vivendo il suo dramma personale, la sua solitudine (non si sposò per essere fedele alla sua vocazione) maturò in lui l'esperienza della fede.


Riuscì ad assimilare tutti i valori del passato, personalizzandoli nella sua vita.
Sarebbe utile leggere. i passi più significativi delle così dette «Confessioni di Geremia»:, (cap. 11, 18-12,6; 15, 10-21; 17, 14-18; 18, 18-23; 20,7-18; 12, 7-13) Dalla sofferenza emerge la coscienza personale dell'uomo di fronte alla coscienza collettiva.

L'uomo si incontra con se stesso;
perché si è incontrato coll'Io assoluto di Dio.
In Geremia, la religione diventa più matura, più adulta.

Incomincia con lui il movimento di rinnovazione dei così detti «Hassidim» e dei «poveri di Jahvé», dei quali facevano parte la Madonna e Elisabetta.

Un altro punto alto, negli scritti e nella vita di Geremia è l'aspetto concreto della religione, il coraggio che aveva questo uomo di indicare gli appelli di Dio nella vita.

La religione, per lui, non era un sistema, erano uomini che camminano animati dalla fede, in direzione del futuro.

È evidente che ci vuole coraggio per indicare gli appelli di Dio, perfino negli avvenimenti internazionali;
segno della fede che Dio ha in mano il mondo e il suo destino.

Si intravede anche la convinzione che il mondo sarà quello che gli uomini lo faranno con la loro libertà:
è inutile riferirsi a Dio, come pretesto per giustificare il malessere.

Da questo aspetto concreto della sua missione, si capisce che Geremia non intendeva davvero rinchiudersi nella 'sacrestia', come oggi si finisce col fare.

Insomma, come abbiamo visto, la figura di Geremia, così discussa in vita, diventò simbolo di speranza. Quando, più tardi, Isaia descrive la figura del futuro Messia (Is. 53), ha davanti agli occhi l'immagine di Geremia.





SEGUE..


Una stretta di [SM=g1902224]


Pierino



mlp-plp
00sabato 17 ottobre 2009 16:06






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..




Con il presente capitolo entriamo in un settore nuovo dell'Antico Testamento.
Abbiamo già parlato, in parte, dei libri storici nei capp. 1-4, e dei libri profetici nei capp. da 5 a 7.

Vediamo, adesso, qual è il significato dei così detti libri sapienziali.

Il titolo «ansia di vivere - necessità di morire» serve solo a polarizzare la nostra riflessione intorno ad un tema che ha preoccupato gli autori dei libri sapienziali, dal principio alla fine.

Un altro tema assillante era la sofferenza e la cattiveria che esistono nel mondo.
Ne parleremo nel cap. 9, a riguardo di Giobbe.

Prima, però, di entrare nell'argomento specifico, è necessario fare alcune riflessioni sull'origine dei libri sapienziali.




1. Origine, natura e senso dei libri sapienziali

Una parte della Bibbia è dedicata ai libri così detti sapienziali.
Essi sono:
Proverbi.
Ecclesiastico.
Ecclesiaste.
Cantico dei Cantici.
Giobbe e Sapienza.


C'è chi include nella lista anche il libro dei Salmi.
Però, parleremo dei Salmi in un capitolo a parte, nel cap. X.

Grande è la differenza fra i libri storici e profetici, da un lato, e i libri sapienziali dall'altro.

I primi sono espressione di un pensiero nuovo che i capi religiosi si preoccupavano di trasmettere al popolo e di innestare nella vita, per trasformare, attraverso di essi, l'esistenza umana.

I secondi esprimono il pensiero del popolo, già in atto, che attraverso di essi diventa parola e si organizza allo scopo di migliorare la vita.

Sono due differenti modi di pensare:
uno che ragiona dal di fuori verso il dentro, dall'alto in basso;
l'altro che ragiona dal di dentro verso il fuori, dal basso in alto.

Queste due maniere di pensare esistono anche oggi.


Ai libri profetici corrisponde la dottrina della Chiesa, esposta e formulata nei catechismi e nei documenti conciliari e pontifici;
quella che ci hanno insegnato e che ci serve per orientarci nella vita.

Ai libri sapienziali corrisponde la ricerca dell'uomo di oggi che, partendo dai dati concreti della vita, vuol trovare un cammino per migliorare la sua esistenza:
antropologia, psicologia, sociologia, economia, filosofia, medicina ecc. o, in parole povere, la sapienza popolare e l'esperienza della vita.

Fino ad oggi, i libri sapienziali sono quelli che più piacciono al popolo e i meno studiati dal clero.

Forse un incosciente preconcetto di classe ha portato il clero, di cui fanno parte gli esegeti e i teologi, a preferire i libri storici e profetici (quasi tutti scritti dai colleghi della stessa casta privilegiata) ai libri sapienziali, nati dalla bocca del popolo.

E non è possibile farlo senza nuocere alla rivelazione divina, che si esprime anche nel pensiero del popolo e nelle sentenze dei libri sapienziali.

Oggi, però, si nota un ritardo nello studio dei libri della sapienza.

La Sapienza non dà la priorità ad una virtù intellettuale, ad una conoscenza, ma alla capacità di orientarsi bene nella vita e di agire con buon senso.

Sarebbe quello che oggi si chiama «filosofia della vita».

Si tratta di una certa maniera di affrontare la vita, comune a quei popoli, che, per se stessa, ha poco a che vedere con la religione, così come, al tempo d'oggi, le radici del pensiero dell'antropologo o dell'economista poco hanno a che vedere con le loro convinzioni religiose.

Non per il fatto di essere protestante o cattolico, il ragioniere sarà più bravo nella contabilità, o il contadino saprà meglio coltivare i campi.

La convinzione religiosa non ha nessuna influenza sulle radici del pensiero di questa gente.
Però, può influire sul ‘come' mettere un sostegno alla pianta, perché cresca dritta.

In questo senso anche la fede influisce, sia sul nostro mondo che sul mondo della Bibbia.
Si spiega così la direzione nuova che la Sapienza prese nella Bibbia, e la differente applicazione che un capitalista o un comunista fanno dei risultati della scienza.

In questo caso il popolo della Bibbia è uguale agli altri popoli e riflette sulla vita con gli stessi loro criteri.

Arriva perfino a prendere in prestito alcuni passi dalla Sapienza dell'Egitto (Prov. 22, 17-23, 11).

Anche al giorno d'oggi:
la sociologia in Brasile (esempio) soffre molto l'influenza dei sociologhi dell'America del Nord.

All'origine della Sapienza troviamo il popolo che riflette sulla vita e cerca una risposta alla domanda:
come vivere?
Come fare per riuscire bene nella vita?
Come comportarsi?

Sono domande che rivelano la preoccupazione di chi cerca il segreto per orientarsi concretamente nella vita, per non essere vinto dalla vita.

La ricerca della Sapienza è la ricerca dei valori e delle leggi che regolano la vita umana;
ci si propone di scoprire questi valori e queste leggi per integrarli nella vita e così progredire e stare meglio.

La ricerca incomincia umilmente, insieme al popolo semplice, attraverso i Proverbi, che anche oggi si leggono sui camion che corrono per le nostre strade.

Diventa complicata e scientifica, tanto nei libri di Giobbe e della Sapienza come nei progetti e nelle conclusioni complesse della scienza moderna.

La più importante conclusione della Sapienza è quella di affrontare i mali della vita, di formare la nuova generazione che cresce, contribuendo così al governo della vita.

La Sapienza si caratterizza per il metodo induttivo.
Accetta solo quelle soluzioni la cui efficacia è stata verificata nella pratica della vita.

Un esempio tipico lo troviamo nel libro dell'Ecclesiastico, che ci dà un vero ritratto di come procede il sapiente nelle sue ricerche.

L'ambiente da cui trae origine la Sapienza è quello dell'educazione familiare:
i genitori cercano con ogni mezzo che i figli aprano gli occhi sulla realtà e vedano con oggettività le cose della vita.

È tutto un capitale di esperienza accumulato attraverso il susseguirsi delle generazioni, trasmesso di padre in figlio, con un metodo pedagogico molto interessante.

Sapiente, anticamente, era colui che sapeva formulare meglio una determinata esperienza di vita, compendiandola in un proverbio incisivo.
Sorsero così i proverbi o detti popolari, simili a pezzi di vita, che esprimono i valori scoperti dal popolo.


Ecco alcuni esempi, scritti nella Bibbia:

«L'animo allegro fa buon sangue e lo spirito triste secca le ossa» (Prov. 17, 22)

«Chi risponde prima di avere ascoltato si mostra sciocco e degno di biasimo» (Prov. 18, 13)

«Il povero supplicando parlerà . e il ricco risponderà arrogantemente» (Prov. 18, 23)

«Le ricchezze attirano amici in abbondanza e dal povero, anche gli amici che aveva, si scostano» (Prov. 19, 4)

«Tutti i giorni del povero sono brutti, però, un animo tranquillo è come un banchetto perpetuo» (Prov. 15, 15)

«Anche lo stolto, se tacerà, sarà creduto saggio e intelligente se chiuderà le labbra» (Prov. 17, 28)

«Il pigro tuffa le mani nel piatto e neppure per portarsele alla bocca le tira fuori»(Prov. 19, 24)

«Un monile d'oro al naso di un porco è la bellezza di una donna sciocca» (Prov. 11, 22)

Ed altri ancora.

Il proverbio esprime un'esperienza elementare di vita, tramandata sotto forma di mashal (cioè di paragone).

Esprimono tutti buon senso e scaturiscono là dove pulsa il cuore della vita, nell'ambiente familiare, nell'educazione dei figli, nel circolo degli amici.

Sono familiari e servono come indicazioni lungo il cammino dei figli, non già come ricette pronte e come precetti tassativi, ma in quanto mettono in evidenza i valori.

Si preoccupano delle cose della vita, del comportamento e del rapporto con gli altri, insomma degli interessi immediati.

La Sapienza popolare, qualunque ne sia la fonte, è caratterizzata da poca speculazione filosofica ma da molta profondità.

Ecco, per esempio, alcuni argomenti trovati nel libro dell'Ecclesiastico, a rispetto dei quali l'esperienza ci è tramandata sotto forma di proverbio:
pazienza,
elemosina,
falsa sicurezza,
lingua e suo controllo,
amicizia,
lutto,
libertà,
relazioni sociali,
rispetto della donna,
timore di Dio,
galateo a tavola,
saper dubitare,
prudenza con i potenti,
uso delle ricchezze,
vino e donne,
lussuria e adulterio,
malizia della donna,
dovere del segreto tra amici,
prestiti,
educazione dei figli ecc.






2. Istituzionalizzazione della Sapienza e formazione dei libri sapienziali


A poco a poco, però, la Sapienza che era stata accumulata dilaga e penetra in tutti i settori della vita umana.

Esce dallo stretto ambito della famiglia, diventa oggetto di ricerca, perde un po' di spontaneità e di familiarità e diventa una istituzione, al fianco delle istituzioni del sacerdozio e del profetismo, in vista dell'organizzazione della società.

Nella mano del re, l'istituzione della Sapienza diventa ora uno strumento di governo e comincia ad essere associata alla figura del re Salomone, il sapiente per antonomasia (cf. I Re 4, 27-54).

Come prima la Sapienza contribuiva ad organizzare e dirigere la vita personale e familiare, adesso contribuisce all'organizzazione e al governo del popolo.

Così trasformata, uscita dall'ambiente familiare e entrata nell'ambiente ufficiale del governo, la Sapienza comincia ad essere oggetto di approfondimento e di studio.

Al posto dei proverbi brevi e popolari, sorgono trattati e studi profondi sullo stesso argomento.
L'aspetto concreto cede il posto alle ricerche e si incomincia a investigare intorno alla filosofia e alla concezione della vita, che si nascondevano dietro il movimento della Sapienza.

Come al giorno d'oggi:
da secoli gli uomini esercitano la politica:
solo oggi, però, si comincia a studiare la politica in sé e per sé e cominciano a sorgere scuole di scienze politiche.

La pratica della Sapienza subì, dunque, una evoluzione, come si può constatare nei vari libri sapienziali contenuti nella Bibbia, che registrano le epoche e i diversi aspetti di questa evoluzione.

Proverbi.
Questo libretto contiene un complesso di proverbi antichi e molto popolari.
Gli autori compilarono una specie di prefazione che va dal cap. I al cap. IX, in cui spiegano che cos'è la sapienza e quale ne sia l'origine.
I primi nove capp. sono molto posteriori e, perciò stesso, molto più teorici e molto più profondi che il resto del libro (derivato da incontri familiari, cioè da genitori preoccupati per l'educazione dei figli e per i problemi della vita).

Cantico dei cantici.
A quanto sembra, si tratta qui di una compilazione di canti popolari che parlano di amore.
Un saggio pensò che questi canti potevano molto bene essere espressione concreta dell'amore di Dio verso gli uomini e dell'amore degli uomini verso Dio.
Mise insieme 12 di questi canti popolari e compose il libro che adesso si trova nella Bibbia e che fu sempre uno dei più commentati.

Ecclesiastico.
Rappresenta la pratica della Sapienza, nel momento in cui uscì fuori dall'ambiente familiare. Contiene tanti piccoli trattati sui più svariati argomenti.
Si nota una sistematizzazione dei proverbi, in diverse categorie.
Ma, con questo libro, non si arriva ancora alla riflessione filosofica sull'origine della sapienza.
La concretezza predomina in tutti i settori.

Ecclesiaste.
Fu scritto da uno dei saggi ufficiali del governo, che esprime così la sua profonda frustrazione di fronte ai differenti atteggiamenti degli uomini nella vita.
Nessuno lo soddisfa.
Li esamina, uno per uno, e arriva alla conclusione che tutto è assurdo. Introduce qua e là proverbi sull'intervento di Dio nella vita degli uomini, per dire che non avevano perso del tutto la fede nella vita e nell'autore della vita: Dio.

Giobbe.
È la più alta espressione letteraria della Sapienza e tratta di argomento che sempre ha preoccupato, più di ogni altro, i sapienti:
il problema della sofferenza del giusto.
Sembra un copione di teatro.
Non ha più nulla dell'antico proverbio, ma è quasi la forma classica del dramma.
Rappresenta l'esperienza viva di un uomo che soffre.

Sapienza.
È l'ultimo dei libri sapienziali, scritto verso il 60 a.c.
È il più profondo trattato sull'origine della Sapienza che viene da Dio. Risente molto l'influenza della filosofia greca, almeno nel modo di esprimersi.
È stato scritto in Egitto.





SEGUE..




Una stretta di [SM=g1902224]



Pierino



mlp-plp
00domenica 18 ottobre 2009 12:34








[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..




3. Messaggio dei libri sapienziali

A chi legge i libri della sapienza, soprattutto quelli che contengono materiale più antico (Proverbi ed Ecclesiastico) viene spontaneo un'osservazione:
parlano poco di Dio e quasi soltanto parlano della vita.

E ancora:
la maggior parte di quello che vi è scritto poteva molto bene essere scoperto da chiunque si fosse messo a pensare un po' sulla vita.

Sembra proprio che non dicano niente di straordinario.
Trattano solo delle cose comuni e della vita quotidiana.

Perché si trovano nella Bibbia?
Perché Dio si dette pena di ispirare tali cose?

Nei libri sapienziali dell'Egitto e della Babilonia si leggono molte cose del genere, spesso anche più belle di quelle raccontate nella Bibbia.

Che senso ha tutto questo?

Il clima sapienziale determinava la mentalità e il modo di pensare del popolo, come ogni giorno accade alla mentalità scientifica.

Proprio in questa terra lavorata dalla sapienza, fu piantato il seme della Parola di Dio e germogliò l'albero della Rivelazione.

Passò molto tempo prima che i sapienti si accorgessero del valore della rivelazione, rispetto alla stessa sapienza.
E non per questo cessarono di essere uomini di fede.

Ma la fede non influiva affatto sulle fonti e sugli schemi della ricerca che la sapienza faceva circa il senso della vita.

Oggi un antropologo può essere un uomo di molta fede, ma la sua convinzione religiosa non influisce affatto sui principi della sua scienza.

A poco a poco però, a misura che la Sapienza prendeva coscienza dei limiti delle soluzioni da lei proposte ai problemi umani, si apriva sempre più alla Parola della Rivelazione, trasmessa dai profeti e dai sacerdoti e contenuta nei libri profetici e storici.

I sapienti incominciavano, così, ad accorgersi del valore della Rivelazione per la loro ricerca sulla vita e cominciavano a prendere la Parola di Dio come fattore e strumento per la scoperta della Sapienza.

Senza sacrificare i suoi principi logici, la Sapienza recepì una influenza molto profonda per opera dei profeti e dei sacerdoti che la aiutò ad orientare la riflessione sulla sua origine e sulla direzione da prendere.

Arrivò a scoprire in Dio l'origine e il fine ultimo di tutta la sapienza che governa la vita umana.

Non si trattava di un Dio qualunque, ma del Dio di Abramo, del Dio dei suoi padri che fin dall'inizio, aveva orientato la storia del popolo.

Lo stesso Dio che stava alla origine delle leggi e dei valori che regolano la vita.
Allora, tutto diventò trasparente.

La legge si identificava con la Sapienza.
Lo dice il salmo 118.
Il campo delle ricerche si allarga.

Non solo la vita presente, con i suoi problemi, merita di essere analizzata, ma anche la storia del passato, dove questo Dio ha lasciato le impronte della sua Sapienza.

Nei libri dell'Ecclesiastico (cap. 44-50) e della Sapienza (cap. 10-19) affiorano considerazioni sulla storia.

La storia, vista non già con gli occhi del profeta e del sacerdote, ma con gli occhi propri del popolo, che sono gli occhi segnati dalla mentalità della Sapienza.

Giovanni ne fa la sintesi nel prologo del suo Vangelo, dove dimostra che la Parola creatrice, all'origine della vita, è la stessa parola salvatrice, che guida la storia.
Tutte due hanno la stessa radice in Dio e trovano la loro espressione concreta in Gesù Cristo «parola incarnata» (Gv. 1, 1-14).

La scoperta di Dio origine e fine della Sapienza, illuminò di luce nuova gli antichi proverbi.
Ci appaiono come il primo gradino umile e semplice della lunga scala che dalla vita sale fino a Dio.

Perciò i libri sapienziali, contenuti nella Bibbia, testimoniano una visione ottimistica della vita:
per chi ha occhi per vedere, la vita e tutta la realtà possono diventare specchio di Dio.

Questi libri sono la testimonianza eterna che il luogo di incontro dell'uomo con Dio è nella vita, nel povero quotidiano, nelle cose che scaturiscono dalla più profonda esperienza umana.

Rivelano che il più grande valore di ogni uomo è possedere la vita che vive.

Sono un invito a non cercare Dio fuori della vita:
né nella candela,
né nella promessa,
né nel pellegrinaggio,
né nel rito o nella cerimonia,
ma anzitutto nella vita.

A partire dalla vita vissuta così, il rito, la cerimonia, la promessa e il pellegrinaggio possono acquistare un senso reale.
Sono sempre un appello a non lasciarsi mai vincere dalle contraddizioni della vita;
sono gli incroci lungo il cammino, che può portare fino a Dio.

Il senso è sempre lo stesso:
quel popolo crebbe, riflettendo sul significato della vita, e ne scoprì valori e non valori.

Li sintetizzò in proverbi e li comunicò agli altri, i quali, a loro volta, approfondirono le origini di questa esperienza e così, poco a poco, arrivarono fino a Dio, autore di tutto quello 'che avevano e che vivevano.

Per questo i libri posteriori sono più profondi e parlano di Dio più dei primi.
In tutti, però, si sente la stessa aderenza costante alla vita.

Come i libri storici e profetici registrano la marcia verso Dio, attraverso la storia, così i libri sapienziali registrano la marcia verso Dio, attraverso un progressivo approfondimento della vita.

Un cammino non si fa senza l'altro, si completano a vicenda.

Insomma, benché la sapienza degli Ebrei fosse sotto molti aspetti uguale a quella degli altri popoli, nella misura in cui cresceva la riflessione sulle loro origini, sorgevano le distanze.

La Parola, venuta dal di fuori, orientava la ricerca della Parola, nata dal di dentro.
Si spiega così l'originalità della Sapienza di questo popolo.
Non degenerò nel fatalismo e nel dualismo caratteristico dei sapienti degli altri popoli.

In breve, possiamo dire così:
nei libri della Sapienza parla la voce del popolo.
Il popolo che riflette sulla sua esperienza di vita.
Il popolo esprime il suo gusto di sapere e di vivere e rifiuta di essere sconfitto dalla vita.
Il popolo rivela tutta la sua smisurata ricchezza, la sua ricerca di Dio, il suo incontro con la verità.

Nel cammino della Sapienza, la Rivelazione divina non si realizza, per' così dire, dall'alto in basso, ma dal basso in alto.

Partendo dalle radici della vita, gli uomini sono risaliti, hanno scoperto il loro creatore e lo hanno adorato.

Lo stesso cammino potrebbe essere ripetuto, oggi, perché già una volta ha avuto successo far pensare il popolo, farlo riflettere, farlo parlare e dire quello che sente;

far partecipare il popolo in modo che trovi il suo cammino verso la Verità, verso Dio;
non imporre, ma orientare e «educare», lasciandolo scoprire da sé, la sua ricchezza, e la sua esperienza di vita.

Mettere il motore in moto e non trascinarlo a rimorchio, come si fa con chi non ha arbitrio né opinione propria.
Ricordare sempre che la sintesi finale nella storia della salvezza, contenuta nei libri dell'Ecclesiastico e in quello della Sapienza, fu fatta non con i criteri del clero, ma della Sapienza, cioè del popolo.

Con questa visione della storia della salvezza fu varcata la soglia del Nuovo Testamento.

Oggi diremmo:
fondere la verità rivelata con le categorie usate dal popolo e con le quali il popolo orienta e governa la sua vita, e non con le categorie del clero.
Sarebbe questa la più alta funzione del clero in mezzo al popolo.





4. Ansia di vivere - necessità di morire

Da quanto abbiamo potuto verificare fin qui, la caratteristica degli autori dei libri della Sapienza è data dalla loro riflessione sulla vita.

L'accento cade sul buon senso e sul realismo.
Per cui si capisce bene come il problema della morte (che mette fine alla vita) e della sofferenza (che rende difficile la vita) occupassero gran parte della riflessione dei sapienti.

Affrontano la morte con una mentalità realista.

Da principio l'ideale di vita era:
vivere tanti anni, avere tanti figli, vedere i nipoti.
La morte tranquilla del vecchio realizzato era il coronamento della esistenza.

Non c'era nessun altro problema.
La morte era accettata tranquillamente, come un dato che faceva parte della vita.
Diveniva interrogativo angoscioso quando appariva prematura e violenta, e stroncava la vita e lasciava incompiuta l'esistenza.
Questo accadeva spesso.

I Caino uccidevano gli Abele.
Perché?

Nel capitolo sul Paradiso terrestre abbiamo visto come l'autore, che faceva parte dei circoli dei sapienti, risolse il problema:
la morte violenta è entrata nel mondo, l'uomo uccide il fratello perché, prima di farlo, si era già separato da Dio.

Ma poco a poco, il problema riguarda la morte in se stessa, la morte che esige una spiegazione.
Perché l'uomo deve morire se in lui arde la volontà indomita di vivere e di vivere sempre?

Il motivo di questa nuova problematica deriva dal fatto che, coscientizzato dalla lunga e secolare riflessione sulla vita, ìl sapiente comincia ad assumere un atteggiamento critico di fronte alla realtà, e non è più disposto ad accettare le cose con la facilità di prima.

Inoltre, la riflessione sulla realtà della vita ha dimostrato che neppure una morte tranquilla, dopo una vita lunga e felice, può essere considerata naturale e non è la suprema realizzazione dell'uomo.

Il libro dell'Ecclesiaste} soprattutto, dette un passo enorme nella storia di questa riflessione.

Davanti allo spettacolo del presente, l'autore finì col non credere più a tutto ciò che si diceva nel passato (più o meno come oggi).
Niente più valeva la pena.
Tutto era «vanità», e vanità della vanità «cioè, in termini popolari la vita è una grande sciocchezza che non vale la pena di essere vissuta» ( Eccle. 1, 2).

Per lui la vita era un tormento, proprio a causa della morte.
A che serve lavorare tanto e ammazzarsi di stanchezza, se poi un giorno si deve morire e lasciare agli altri quello che avevi messo insieme; senza sapere che cosa faranno di quello che tu hai conquistato con tanta fatica? (Eccle. 2, 18-19).

«È uscito nudo dal ventre di sua madre, nudo, come è venuto, uscirà pure da questa vita e non porterà con sé nessuna ricompensa del suo lavoro» (Eccle. 5, 14).

Tutte le possibili soluzioni date al problema della vita vengono sottoposte ad una critica serrata.

In questo modo niente vale la pena, e, dopo la morte, non t'importa più di niente, «perché il destino degli uomini è come quello degli animali; li aspetta uno stesso fine.

La morte di uno è la morte dell'altro.
Tutti e due ricevettero lo stesso soffio di vita e il vantaggio dell'uomo sull'animale è nullo, perché tutto è vanità (sciocchezza).

Tutti camminano verso uno stesso destino; tutti escono dalla polvere e ritornano alla polvere.

Chi sa dire se il soffio della vita degli uomini sale verso l'alto e il soffio della vita dei bruti scende verso la terra? (Eccle.3, 19,21).

Nessuno sa quello che succederà dopo la vita, al momento della morte.
Con questa riflessione l'autore del libro Ecclesiaste si risvegliò all'ipotesi di un futuro dopo la morte.

Oh se esistesse davvero! Ma con la sua scettica ironia egli stesso uccise, subito dopo, la speranza di incontrare qualche cosa nell'Aldilà.
L'ansia di vivere è messa a faccia a faccia con la barriera di una vita senza senso e di una morte che le ruba ogni speranza.

A questo punto la Sapienza scopre i suoi limiti, sbarra in un problema senza soluzione.
Guidata solo dai risultati delle sue conclusioni empiriche, arriva necessariamente alla costatazione dell'assurdo.

Ma la disperazione dell'assurdo, provocata dall'Ecclesiaste, svegliò nell'uomo il bisogno di sapere di più sulla morte e sulla vita.

L'Ecclesiaste ha creato problemi, là dove, prima di lui, nessuno li incontrava (più o meno come i nostri contadini del Sud e delle isole; una volta coscientizzati sui problemi della loro vita, incominciano a vedere la realtà della loro situazione con altri occhi, e non l'accettano più come prima).





SEGUE..


una stretta di [SM=g1902224]


Pierino




mlp-plp
00venerdì 23 ottobre 2009 17:25







[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (terza parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..





5. La fede in Dio squarcia il velo che nasconde il futur
o

La coscienza critica della realtà cresce e il problema diventa sempre più grave:
qual è il futuro che ci aspetta?
La morte o la vita?

Le promesse del passato, dirette ad Abramo, si concretizzavano in proposte di felicità terrena:
popolo, terra, benedizione (Gen. 12, 1-3).

Dio lo aveva promesso e nessuno dubitava della sua fedeltà nel compiere le promesse.

Ma la realtà era proprio l'opposto;
invece di raggiungere il futuro promesso da Dio, i giusti soffrivano sempre più l'oppressione (Eccle. 4, 1-2), mentre quelli che non si curavano di Dio se la passavano bene (Eccle. 8, 10).

La situazione concreta di ogni giorno sembrava negare la giustizia di Dio e contraddire la sua fedeltà.

L'Ecclesiaste aveva dunque ragione.
Perché allora continuare a credere in questo Dio?

Il conflitto fra fede e realtà, che ne derivava, li minacciava di disperazione totale.

Metteva in dubbio la vita, la morte, Dio, e ogni altra cosa.

Il problema si presentava in questi termini:
il bene presente non totalizza né colma il desiderio di vita e di felicità suscitato dalla promessa.

Invece di vita e di felicità, la promessa aveva portato la frustrazione e la delusione.

L'espressione della crisi è vivamente descritta nel libro dell'Ecclesiastico.

Ma la situazione di conflitto tra fede e realtà, espressa e accresciuta dalle riflessioni dell'Ecclesiaste) sboccò in una nuova conquista.

La crisi fu causa del loro bene, perché li spinse a cercare nuove soluzioni.

La nostalgia di Dio e la fede nella sua fedeltà e giustizia furono più forti dell'apparente contraddizione della realtà.

Se Dio ha promesso, deve pure esistere un mezzo per vedere la promessa realizzata.

Se la vita presente nega la promessa, a causa delle contraddizioni e della morte, Dio deve pure essere più forte della morte, deve pure avere una potenza tale da conservare la vita degli uomini anche dentro la morte.

L'audacia della fede portò a spezzare la barriera della morte che stava soffocando la speranza.

A causa della loro fede nel Dio forte e fedele, riuscirono a rompere il circolo chiuso delle riflessioni e si aprirono alla realtà più vasta di una vita con Dio, per sempre, garantita dalla potenza e dalla fedeltà di Dio.

Nasce la fede nella resurrezione dei morti e nella vita con Dio dopo la morte.

Non fu un decreto a rivelare questa verità, ma la dolorosa riflessione dell'uomo, dal tempo di Abramo fino agli ultimi secoli prima di Gesù Cristo.

Le prime timide espressioni di speranza in una vita senza fine appaiono nei Salmi lO, 7; 16, 15; 22, 6; 26, 4.

Soprattutto il Salmo72 offre una formulazione più nitida di quello che cominciava a delinearsi nella mente dei sapienti:
veramente in mezzo alla mia amara rivolta, io mi comportavo come un animale, senza la coscienza di stare vicino a Te:
la tua mano mi difende, la tua provvidenza mi guida, e mi introduce nella felicità.

Perché, di fatto, che cosa può bastarmi sia in cielo come in terra, se io sto lontano da te, Signore?
Possono assalire il mio corpo e spezzarmi il cuore.

Ben altro è il fondamento della mia vita!
Il futuro che mi aspetta è Dio eterno.

Lontano da te non mi riesce vivere.
L'infedeltà verso di te è l'inizio della morte.
La felicità s'incontra camminando verso il Signore.

La certezza della mia vita è Dio per sempre» (Sal. 72, 21-28).

La fede infonde il coraggio di affrontare la realtà presente, e la pretesa sembra a prima vista assurda, ma alla fine, s'illumina:
è giusto sperare, perché Dio risuscita l'uomo.

L'espressione chiara di questa verità la incontriamo nel libro della Sapienza (capp. 1-5), là dove parla del destino degli uomini:
Le anime dei giusti (che sono morti) stanno nelle mani di Dio e nessun tormento le raggiungerà.

Sembra che siano morti agli occhi degli insensati; il loro passaggio è giudicato una disgrazia e la loro morte una distruzione, ma essi stanno veramente nella pace... Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé (Sap. 3, 1-3.5).
Si tratta di una importantissima conquista, lungo la strada della vita.


Più tardi nel Nuovo Testamento, Cristo verrà a completare ciò che i sapienti avevano insegnato della vita dopo la morte, sulla vita che non muore, ma vince con la forza della fede e con la speranza.

A causa della fede, la vita che non muore e che vince la morte è già una realtà.

Il futuro è già in atto, già si trasforma, fa risorgere il mondo e l'umanità dai disastri del male e della morte.

Credere nella vita che non muore è credere alla possibilità di rinnovamento del mondo:
da vecchio diventerà nuovo.




6. Considerazioni finali

Da tutto quanto abbiamo detto, traspare un'esperienza umana molto profonda e molto nostra.
Nessuno riesce a vivere solo.

Ogni uomo ha bisogno di far dipendere il suo Io da qualcuno che lo sostiene e che gli dà coscienza del suo valore e gli fa sentire la soddisfazione di fare qualcosa di utile.

Le sue forze ne sono motivate.

Molti fanno dipendere il loro lo dalla forza dell'amicizia che «e-duca» e dalla forza dell'amore umano.
Ma, pensandoci bene, ogni uomo sa che un giorno l'altro uomo morirà.

Se cade il sostegno, cade pure chi a lui si appoggiava.
L'amicizia e l'amore umano non sono così forti da poter vincere la morte.

Chi prende coscienza dei suoi limiti cerca di far dipendere il suo lo da qualcosa che oltrepassi la morte e lo faccia 'sopravvivere:

1/ dal lavoro e dal contributo al bene comune, perché il suo contributo continua ad esistere ed anche dopo la morte può essere una maniera di sopravvivere, ma l'Io sparisce nella collettività del gruppo e non esiste più.
Così pensavano anticamente i vecchi egizi ani e fu proprio la forza della speranza in una sopravvivenza nell'opera realizzata in vita che li portò a costruire le piramidi, ancora oggi in piedi.
Senza dubbio è un modo di sopravvivere.

2/ Dalla razionalità, che fa della vita un assurdo e chiede all'uomo di accettarla così; sarebbe davvero uomo colui che riuscisse a conformarsi all'assurdo della vita, accettando di vivere per poi sparire, tranquillamente nell'ora della morte.

3/ Dai figli, che continuano la vita e prolungano il nome del padre;
è un'occasione di sopravvivenza, in cui però l'Io sparisce.
La conquista della vita attraverso la procreazione è arrivata a degenerare nel culto della fertilità, praticato dai popoli della Palestina nei tempi antichi.


Tutte queste forme di sostenere l'Io e dargli continuità, perché la vita abbia un senso, con l'andare del tempo non soddisfano più, perché l'Io, la persona che interroga e vuol vivere, sparisce.

Nella Bibbia, questo circolo chiuso, dentro il quale l'uomo non trova via d'uscita per sopravvivere, si spezza.

Una Voce gratuita raggiunge l'uomo, voce che viene da una sfera di vita che non è più soggetta alla morte.
Una voce di amore, che stabilisce un dialogo.

La voce di Dio, che chiama ciascuno per nome, sveglia l'uomo e gli fa intuire una forza che lo fa vivere e che è capace di restituirgli la viti nell'ora della morte.

È la forza dell'amore e dell'amicizia, che chiama l'altro per nome e lo valorizza; questa forza sarà sempre vitale, perché l'amore, intuito e vissuto, è un amore eterno.

L'uomo si e messo a parlare con Dio e Dio ha svegliato in lui la volontà di vivere, e adesso che è aperto e mosso dall'amore di Dio, vuole andare oltre la morte e vivere sempre.

Desiderio giusto e normale, confermato più tardi dalla risurrezione di Cristo.

Solo questa amicizia e questo amore sono capaci di dare valore di eternità ad ogni amore e ad ogni amicizia umana.

Niente si perde.
Tutto diventa espressione della fede e della speranza, che fanno vivere per sempre.




SEGUE..



una stretta di [SM=g1902224]



Pierino




mlp-plp
00sabato 24 ottobre 2009 11:13

[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. IX (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]



un prologo al libro di Giobbe:
il dramma di tutti noi



Sta per cominciare il dramma.
Nel teatro si fa silenzio.
Il telone però non si apre.
Esce fuori un presentatore e, a tela chiusa, legge il prologo.
Presenta all'uditorio, nel nostro caso al lettore, il problema che sarà svolto e approfondito nel dramma imminente, il problema concreto della vita di un uomo e del suo destino.







1. Che dice il prologo


Il presentatore esordisce raccontando una storia:
«C'era una volta, nella lontana regione di Uz, un uomo chiamato Giobbe, integro, onesto, che temeva Iddio e fuggiva il male» (Giob. 1, 1).

Era un uomo pio, ricco, celebre, stimato da tutti, felice (Giob.
1, 2-5).

Il prologo continua e gli spettatori si sentono trasportati dietro le quinte del destino degli uomini, là dove si decide il perché delle cose che succedono nella vita e che ci sono sconosciute, perché superano le possibilità della nostra indagine.

Immagina una riunione nell'alto dei cieli.

Racconta che Dio convocò la corte celeste per discutere e decidere il destino degli uomini.
Satana era uno dei membri della riunione (Giob. 1, 6).

La parte di Satana, in questo caso, sarebbe quella dell' «avvocato del diavolo» nel processo dell'umanità, o meglio del Pubblico Ministero, che accusa gli uomini davanti a Dio.

Quando Satana prese la parola, Dio aveva richiamato la sua attenzione sulla vita esemplare di Giobbe:
«integro, onesto, che temeva Iddio e fuggiva il male» (Giob. 1, 7-8).

Ma Satana non ci aveva creduto.
Contestava.
Diceva che tutto ciò dipendeva solo dal fatto che Giobbe viveva nel benessere ed era ricco:

«Giobbe teme Dio perché non gli costa niente.
Non hai tu forse difeso come con una muraglia la sua casa, la sua persona e tutti i suoi beni?
Hai sempre benedetto ogni sua opera» (Giob. 1, 9-10).

La tanto decantata pietà di Giobbe era solo una facciata apparente.
«Stendi la tua mano e prova a levargli tutto quello che possiede.
Vedrai che ti getterà in faccia insulti e maledizioni» (Giob. 1, 11).

Dio accettò la sfida:
«sta bene; ti do potere su tutto quello che possiede» (Giob. 1, 12).

Col permesso di Dio Satana mise alla prova la rettitudine e l'onestà di Giobbe.
Poteva fare tutto quello che voleva, purché non toccasse la persona di lui.

Fu così che, d'improvviso, senza sapere perché, Giobbe vide cadere sopra i suoi beni una catena di disastri.

Finì col perdere tutto, da un'ora all'altra.
Dal disastro si salvarono solo Giobbe e sua moglie.
Anche i figli morirono tutti, in una tempesta (Giob. 1, 13-19).

Era troppo! Disperato, Giobbe si strappa di dosso i vestiti e grida «nudo sono uscito dal ventre di mia madre; nudo tornerò alla terra!» (Giob. 1, 21).

Ma, nonostante tutto, Giobbe non si ribellò, «né bestemmiò il nome di Dio» (Giob. 1, 22).

Al contrario, la sua reazione fu questa:
«il Signore mi ha dato, il Signore mi ha tolto.
Benedetto il nome del Signore» (Giob. 1,21).

Perciò, nella riunione seguente, Dio mostrò a Satana che si era sbagliato a rispetto di Giobbe (Giob. 2, 1-3).
Non era solo apparenza.
Era proprio virtù.

Ma Satana non si dette per vinto:
«pelle per pelle! L'uomo è capace di dare tutti 1 suoi beni, pur di salvare la sua vita.

Stendi la tua mano e tocca le sue ossa e la sua carne; giuro che ti rinnegherà sul viso» (Giob. 2, 4-5).

Dio gli dette il permesso: «sta bene. Te lo consegno».

Gli chiese solo di non ucciderlo.

Per il resto, poteva fare di lui quello che voleva.
Satana mise in opera il suo piano.

D'improvviso, senza sapere perché, Giobbe diventò lebbroso, orribile (Giob. 2, 7).
Con un coccio si grattava le ferite.
Andò a stare su un letamaio (Giob. 1, 8).

Sua moglie non volle più aver niente a che fare con lui, non sopportava neppure l'alito fetido di Giobbe nel suo letto. (Giob. 19, 17).

Arrivò a istigarlo a maledire Iddio.

«Perché restare fedele a un Dio che non ti protegge e ti castiga così?
E tu ancora persisti nella tua onestà?
Scemo! Manda una maledizione a Dio, e falla finita con la vita!» (Giob. 2, 9).

Giobbe le rispose:
«scema sei tu, che parli così! Se abbiamo accettato da Dio la felicità, come non accetteremo da lui anche l'infelicità?» (Giob. 2, 10).

E Giobbe, nonostante tutta la sofferenza, non si ribellò contro Dio (Giob. 2, 10).

E il peggio era che non sapeva il perché di tanta sofferenza.

Non aveva partecipato alle riunioni, in cui si decise del destino degli uomini, anzi, non sapeva neppure che si facessero.
Esperimentava solo, nella sua carne, l'effetto doloroso delle decisioni prese.

Secondo la mentalità del popolo di quel tempo, un dolore e una sofferenza tanto grandi potevano solo spiegarsi così:
castigo di Dio.

Giobbe doveva essere un grande peccatore.

Tre amici di Giobbe vennero a sapere delle disgrazie che lo avevano colpito e si mossero da lontano per partecipare al suo dolore, per portargli un po' di conforto e manifestargli simpatia e solidarietà. (Giob. 2, 11).

Ma Giobbe era così sfigurato, che quasi non lo riconobbero (Giob. 2, 12). Furono schiacciati dalla pena.

Si sedettero presso di lui, piansero, e non furono capaci di dire una parola. Un silenzio di «sette giorni e sette notti, tanto era grande il dolore da cui lo vedevano oppresso» (Giob. 2, 13).

La sofferenza del giusto chi la può spiegare?
La sofferenza del giusto!
È questo il problema che sarà discusso nel dramma.

Il prologo ha presentato un caso ben concreto, uno tra mille, simili a questo.
Ha compiuto la sua missione, e si ritira.
L'attesa è generale.





2. Tema del dramma:
la sofferenza del giusto, chi la può spiegare?



Il silenzio di 7 giorni e di 7 notti arriva fino al pubblico, che sta nel teatro, fino al lettore.
La tela, che è rimasta chiusa fino a questo momento, si apre lentamente.

Sulla scena, Giobbe sopra un letamaio.
Vicino a lui, i tre amici.

Nessuno dei 4 parla... Il silenzio del dolore si prolunga, invade i secoli, invade il mondo e arriva fino a noi, oggi, che leggiamo il libro di Giobbe.

Questo silenzio esprime la nostra incapacità a spiegare la sofferenza; avvolge tutti, e tutti ci unisce in uno stesso tentativo di ricerca:

Giobbe, i tre amici, il pubblico della sala, il lettore, noi, oggi, qui, tutti gli uomini. Nessuno parla...

D'improvviso, un urlo squarcia il silenzio.
Un lamento di dolore.

Il pubblico sussulta e, allo stesso tempo si rallegra, perché Giobbe, finalmente, ha trovato il coraggio di esprimere con parole e di gridare ai quattro venti ciò che prova il giusto che soffre, senza sapere perché.

Quel grido diventa portavoce di molti che lo ascoltano:
«Maledetto il giorno in cui sono nato e la notte in cui fu detto:
un figlio maschio è venuto al mondo!
Che quel giorno si cambi in tenebre!
Che Dio, dall'alto, ignori quel giorno! ... Perché non sono morto nel seno di mia madre, perché non sono rimasto soffocato uscendo dalle sue viscere?

Perché ebbi un grembo che mi accolse e due seni che mi allattarono? Riposerei in pace e dormirei... Perché far conoscere la luce agli infelici e la vita a chi ha il cuore sepolto nell'angoscia?

Non ho pace né riposo, né conforto, ho soltanto un infinito tormento» (Giob. 3, 4.11-13.20.26).

Giobbe aprì il dibattito.
Mise le carte in tavola.

Ebbe inizio la dura marcia dell'uomo in cerca di un senso per le cose che succedono durante la vita, in cerca di un senso per il dolore e la pena che lo avvolgono.

Sul palco, in tutta la sua nuda crudezza, c'è il problema degli uomini, di noi tutti, identificati nella persona di Giobbe, personaggio centrale del dramma che si rappresenta:
quando nascemmo, non chiedemmo di nascere e, ciò nonostante, già c'era chi si preparava ad accoglierci;
siamo nati, e adesso dobbiamo soffrire e morire, stupidamente, senza sapere il perché né della vita né del dolore.

Sulla scena sono rappresentati anche i tentativi che cercano di spiegare il perché della sofferenza, identificati nella persona dei 3 amici di Giobbe e nel quarto, un giovane amico che entra in scena più tardi (capp.
32-37).

Ignorano tutti, Giobbe e gli amici, la decisione presa da Dio e dalla corte celeste, e non sanno perché succedono tutte quelle cose.

Sono come il pubblico, che ha portato con sé, nel teatro, il suo dolore e, adesso, lo vede incarnato nella persona di Giobbe;
ogni giorno cerca nuove spiegazioni al suo dolore, e ricorre a razionalizzazioni di ogni specie, per rendere la vita più sopportabile.

I 3 amici di Giobbe sono anche gli amici del pubblico, perché incarnano le spiegazioni che comunemente si danno ai dolori della vita.

Ma in Giobbe, il pubblico è costretto ad ammirare il coraggio di uno che contesta quello che tutti considerano santo e consacrato;
il coraggio di chi, partendo da una esperienza di vita, affronta ed abbatte tutta una tradizione secolare, perché, essa, mentre dice di difendere Dio, inventa menzogne sulla vita umana (Giob. 13, 7-8).

Man mano che il dramma si svolge, il pubblico si rende conto quanto valgano i suoi argomenti, le sue consolazioni e la sua simpatia.

Si accorge fino a che punto le sue idee riescono a spiegare il dolore, se è capace di resistere agli attacchi violenti che sgorgano dalla coscienza tormentata e realista di un uomo come Giobbe.

I 3 amici, che rimasero in silenzio 7 giorni e 7 notti, rappresentano la difesa degli argomenti che il popolo era abituato ad usare:
cercano di difendere il popolo e la tradizione contro gli attacchi di Giobbe.

Non permetteranno che un uomo, disperato e addolorato, attacchi la solida pietà tradizionale e infranga la stessa sicurezza della sua vita.

Chi vincerà?
La tradizione o la coscienza?

Il dialogo tra Giobbe e i suoi tre amici è anche il dialogo interiore che ogni uomo fa dentro di sé, quando si trova di fronte al dolore e alla sofferenza.

Lo stesso dialogo che oggi si verifica fra la generazione antica e quella nuova:

la generazione antica, che si aggrappa a quanto ha ricevuto dagli antepassati;

la generazione nuova, che vuol partire decisamente dall'esperienza della vita, perché nella tradizione degli antichi non trova nessuna spiegazione ai suoi problemi, nessuna risposta alle sue domande.




SEGUE..




Una stretta di [SM=g1902224]


Pierino




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