se ce la fate a leggere.
In base ai testi evangelici pervenuti, gli appellativi di Yeschuah Bar-Yosef (Gesù [il
“Cristo”] Figlio di Giuseppe), sia datigli che autodatisi, sono numerosi ed hanno o l'aspetto di titoli
qualificativi ― come, ad esempio, “rJabbi” (“maestro”) (cfr. Matteo, XXIII, 7) e “profhvth"”
(letteralmente “a favore parlante”, italianizzato “profeta”) (cfr. Giovanni VI, 14) (1) o l'aspetto di
titoli onorifici (megalomanici) di dominio [come, ad esempio, “uiJoV" tou` qeou`” (“figlio di
dio”) (2) e “kuvrio"” (= “adon” in aramaico, “dominus” in latino e “padrone” in italiano) (3) in
quanto ritenuto figlio del “Temuto (Elohên) Onnipotente (Sahddaj) Padrone-nostro (Adon-aj) IL
QUALE È (YHAWEH) in cielo (djvô = qeoV" = deus = dio)”, “uiJoV" tou` Dauivd” (“figlio di
Davide”), “CristoV"” (“Unto [Re]”) e “basileuV" tou` jIsrahvl” (“re d’Israele”) in quanto
ritenuto di nobile stirpe regale (discendente del Re Davide), “uiJoV" tou` ajnqrwvpou” (“figlio
dell'uomo”) per alludere, dissimulando (4), all’essere sovraumano “incarnato umano”, ecc. ― più
che di nomi indicativi.
L’espressiome “uiJoV" tou` ajnqrwvpou” (“figlio dell'uomo”) si riscontra per la prima volta nel
V.T. in Daniele VII, 13: «…kaiV iJdouV metaV tw`n nefelw`n tou` ejpiV tw`n nefelw`n tou` wj" uiJoV"
ajnqrwvpou h[rceto…» («…ed ecco fra le nuvole al disopra le nuvole del cielo come [= sotto le
sembianze di] figlio d’uomo [bambino (?) o essere umano adulto (?)] venire [un personaggio]…»).
A riguardo, Foot Moore (1920) precisa quanto segue: «…La frase “Figlio dell’Uomo”, che nella
lingua madre di Gesù e dei suoi discepoli non significava altro che “essere umano” in senso lato,
acquistò un significato [specifico] soltanto in tale associazione apocalittica: prese a significare la
figura “quasi di un uomo” che Daniele ed Enoch avevano visto in cielo e che quest’ultimo
identificava con “il giusto e l’eletto”, cioè il Messia…» (cfr: Foot Moore G.: «A History of
Religions», New York, 1920). Infatti, nell'antica Palestina, all'epoca in cui sarebbe vissuto Yeschuah
Bar-Yosef (Gesù [il “Cristo”] Figlio di Giuseppe), le espressioni “bar nasha”, “bar 'enosh”,
“'enosh” ed “'enosha” erano di uso corrente per significare indistintamente “l'uomo”, “un uomo”,
“un individuo”, ecc. ed anche “ognuno”. Inoltre, le prime due espressioni erano anche usate per
significare “ogni uomo” e le seconde due per significare “gli uomini” in senso collettivo.
Comunque, per quanto concerne l'appellativo evangelico di “Bar-nasha”(“Figlio dell’uomo”)
datosi da Yeschuah Bar-Yosef (Gesù [il “Cristo”] Figlio di Giuseppe) si ritiene opportuno riportare,
le seguenti deduzioni tratte da Augstein (1972): tale appellativo è «...Sicuramente il titolo più
sorprendente che Gesù si possa essere attribuito, e che suona “il figlio dell'uomo”. Nei quattro
Vangeli [canonici], per un totale di cinquantuno volte tralasciando i passi comparativi [se si
considerano anche questi il totale supera le sessanta volte], Gesù parla di se stesso in terza persona
definendosi figlio dell'uomo, ed i quattro evangelisti non lasciano dubbi nel collegare a questo titolo
poteri di sovranità di dimensioni sovrannaturali. L'aramaico conosce il termine “figlio dell'uomo”
nel senso primitivo di “uomo”, ma anche in senso cultuale e sovrumano. I testi dei Vangeli, redatti
in greco, non forniscono alcun chiarimento, figlio dell'uomo si dice oJ uijoV" tou` ajnqrwvpou (“il
figlio dell'uomo”), [...] il concetto di figlio dell'uomo si presta magnificamente a oscillare tra una
perifrasi retorica del tipo Io-sono-uno-di-voi e il superuomo ancora da rappresentare. Ma chi dice
che a Gesù era venuta in mente una cosa del genere? Altrettanto bene e, anzi, più plausibilmente, gli
evangelisti potrebbero essersi serviti di tale informazione. [...] cosa vuol dire Gesù quando parla in
terza persona di “figlio dell'uomo”? Si può rispondere: probabilmente non ha voluto parlare di sé
come figlio dell'uomo, se mai ha voluto dare al termine questo significato. [...]. Oggi prevale
l'opinione che Gesù abbia assunto, ricopiandolo, il titolo di figlio dell'uomo per definire la sua
persona, ma che non si sia ritenuto tale. Allo stesso modo si può affermare che non ha mai parlato
di figlio dell'uomo, ma che il titolo gli è stato appioppato in considerazione della sua utilità
programmatica e dell'efficacia del suono. [...]. Il Messia è una figura strettamente nazionale, è
probabile che la tradizione giudaica abbia ripreso il “figlio dell'uomo” dall'apocalittica persiana,
dalle rivelazioni sull'imminente fine del mondo, e l'abbia fuso insieme al concetto di Messia; è
l'uomo trascendente che viene dal cielo, concentrato su Israele (gli evangelisti non sanno
distinguere nettamente tra Messia e figlio dell'uomo, cosa che non sorprende data la lieve
consistenza di ambedue le figure mitiche). Il più antico testo giudaico in cui compaia un figlio
dell'uomo cultico è L'apocalisse (= “rivelazione”) del Libro di Daniele, scritto verso il 165 a. C.,
dopo il processo di ellenizzazione promosso dal sommo sacerdote giudaico Giasone e l'introduzione
del culto di Zeus olimpico nel tempio di Gerusalemme da parte del re siriaco Antioco IV Epifane;
un'umiliazione senza precedenti che diede il via alla rivolta dei Maccabei. Gli scritti apocalittici,
imbevuti di influenze persiane, circolavano come una sorta di dottrine misteriche tra le correnti non
ufficiali del giudaismo, sicuramente tra comunità del convento di Qumran. Nel Libro di Daniele
[VII, 13-14] si legge: “Io stavo ancora assorto nella visione notturna, quando ecco venire in mezzo
alle nuvole il Figlio dell'uomo, che si avanzò fino al Vetusto di giorni [= l'Eterno, cioè il “Temuto
(Elohên) Onnipotente (Sahddaj) Padrone-nostro (Adon-aj) IL QUALE È (YHAWEH) in cielo (djvô
= qeoV" = deus = dio)”], e davanti a lui fu presentato, e questi gli conferì la potestà, l'onore e il
regno. Tutti i popoli, le schiatte e le lingue serviranno a lui; la sua potestà sarà una potestà eterna
che non gli sarà mai tolta, e il suo regno, un regno che non sarà mai distrutto”. Verrà il regno di
Dio, ma egli non regnerà direttamente, bensì attraverso un mediatore dall'aspetto di uomo. Il quale
non era inteso come un capo universale, come si sono messi in testa innumerevoli teologi, ma come
un capo giudeo, un dominatore che giudicherà le popolazioni pagane (“pagano” nei Vangeli si dice
ejqnikov" da e{qno" = popolo). La Bibbia di Gerusalemme vede in ciò l'ultimo anello della catena di
promesse messianiche. Gesù, re del nascente regno di Dio, si definirà figlio dell'uomo e con questo
“indicherà chiaramente che è venuto per compiere le promesse del Libro di Daniele”: il liberatore
come risolutore ultimo e definitivo. Cosa pensano i Vangeli del figlio dell'uomo? Quando la
persecuzione della comunità avrà raggiunto il suo apice, egli piomberà dal cielo come un fulmine
che nessuno si aspetta. Apparirà nella gloria divina, circondato da nuvole e da schiere di angeli. Egli
siede sul trono alla destra di Dio e invia i suoi angeli a radunare gli eletti dai quattro angoli del
mondo. E giudicherà insieme con i dodici rappresentanti del popolo delle dodici tribù. Così,
secondo i Vangeli, Gesù descrive il suo ruolo. Certo un uomo che suscita simili attese, per la
mentalità odierna è salvabile solo a fatica, anche se non vede se stesso, ma un'altra persona, nel
ruolo di figlio dell'uomo che sta per giungere. Ma se Gesù avesse considerato se stesso come il
figlio dell'uomo che sopraggiunge, cosa che nei Vangeli è detta chiara e tonda? Per sostenere oggi
una tesi del genere ci vuole del coraggio, comunque per ristorarci possiamo leggere l'opinione di
Jeremias [cfr. Jeremias J.: «Neutestamentiche Theologie. Teil 1. Die Verkündigung Jesu»,
Gütersloh, 1971]: quando Gesù parla del figlio dell'uomo in terza persona non intende due distinte
persone, una umana, cioè lui, e una sovraumana, cioè un altro (come propone all'incirca Bultmann)
[cfr. Bultmann R.: «Theologie des Neuen Testaments» (VI Ed.), Tübingen, 1968]. Piuttosto egli
considera due diverse situazioni, distinguendo tra il suo presente e il suo futuro in “status
exaltationis”, e questa misteriosa relazione si rivelerebbe nell'uso della terza persona: “Egli non è
ancora il figlio dell'uomo, ma verrà innalzato a figlio dell'uomo”. Cosa resta dunque, se Gesù non
fu il Messia né il figlio dell'uomo né il figlio di Dio e se non si considerò affatto tale? Cosa resta,
oltre ad un fascio di precetti morali? Solo la riferitaci disponibilità a sacrificare la sua vita per
riconciliare Dio con tutti gli uomini. [...]. Se egli non si considera né il Messia, né il figlio dell'uomo
e neppure il secondo Giuda Maccabeo, cioè un re terreno dei giudei, come potrebbe la sua morte
produrre qualche effetto? il buon pastore che sacrifica la sua vita per il gregge non lo fa certo per
niente, ma perché si aspetta un premio o una punizione a seconda che faccia subire o no danni al
gregge prima del periodo di macellazione (il nesso tra le pecore, animali proverbialmente destinati
al sacrificio, e la salvezza dell'uomo sfuma molto sintomaticamente nel perverso). Era inevitabile
che, di fronte alla scarsità delle fonti, a qualcuno venisse l'idea che Gesù, per quanto non erudito
secondo la concezione del suo tempo (“Predicatore vagante”), avrebbe modellato
consapevolmente la propria vita secondo le antiche profezie, avrebbe insomma intrapreso sul
proprio corpo una specie di lavoro da intagliatore di crocefissi. [...]. Secondo questa tesi, Gesù
avrebbe ricavato i propri modelli principalmente da due testi, il Deuteroisaia (“Secondo Isaia”,
scritto intorno al 540 [a. C.]) e il Libro di Enoch, frutto di più stesure tra il 170 ed il 30 [a. C.], che i
primi padri della Chiesa tenevano in grande considerazione fino a che venne relegato tra gli apocrifi
da Gerolamo nel IV secolo. Questo Enoch, diventato così un libro “segreto”, non ufficiale, ha
avuto “una grande influenza” sugli scritti del N.T., come oggi è assodato. La profezia del
Deuteroisaia contiene un passo su un servo di Dio sofferente che offre la propria vita come
espiazione e che viene schiacciato da Jahwe. Egli viene colpito a morte per i peccati altrui; non
possiede “né figura né bellezza” e “non ha un volto che attiri i nostri sguardi” [Isaia LIII, da 3 a
12]: “Egli era disprezzato e schivato dagli uomini, era un uomo che conosceva il dolore; odiato
come uno davanti al quale ci si copre il volto, tenuto in nessun conto. Ma in verità egli ha caricato
su di sé le nostre malattie e i nostri dolori; eppure noi lo ritenevamo un uomo finito, che Dio ha
colpito e piegato. Egli fu trafitto dai nostri peccati, schiantato dai nostri delitti; la punizione
gravava su di lui per la nostra pace; dai suoi lividi ci è venuta la guarigione. Noi eravamo come
pecore smarrite, ognuno per la sua strada. Ma Jahwe lo colpì con i peccati di tutti noi. Egli fu
maltrattato, eppure si chinò. Non aprì bocca. Come un agnello che viene condotto al macello, come
una pecora ammutolita al cospetto del tosatore, non aprì bocca. Egli fu preso con la forza e
giudicato [...] fu strappato dalla terra dei vivi; per i nostri peccati fu giudicato reo di morte. Si
decise di seppellirlo insieme agli assassini e ai ricchi, sebbene non avesse mai fatto torto e non ci
fosse inganno nella sua bocca. Jahwe si compiacque di schiacciarlo sotto il dolore; se egli offrirà
la propria vita come espiazione, vedrà la sua discendenza e molti giorni di vita, e il piano di Jahwe
si attuerà per sua mano. Dopo le pene della sua anima, egli vedrà la luce e si sazierà. Con il suo
dolore il mio servo giustificherà molti, assumendosi le loro colpe. Per questo voglio dargli le
moltitudine come assegnazione e i potenti gli aspettano come preda perché egli ha sacrificato con
la morte la sua vita ed è stato contato tra i malfattori, mentre portava le colpe di molti e si faceva
garante per i peccatori”. Gesù, afferma Otto, avrebbe citato espressamente Isaia, avrebbe essere
considerato il concepimento di questa figura, l'avrebbe “riconosciuta fin dall'inizio come profezia
su se stesso” [cfr. Otto R.: «Reich Gottes und Menschensohn» (II Ed.), München, 1940]. Allora,
forse, sarebbe stato ciò che [...] Holl mette in dubbio, e cioè un “intellettuale tormentato” [cfr Holl
A.: «Jesus in schlechter Gesellschaft», Stuttgart, 1971]. Solo con molto sforzo ci si può immaginare
che uno dominato da questa idea fissa abbia potuto trovare discepoli. Ma forse non ha avuto alcun
discepolo, o soltanto molto pochi; forse, come pensa Bultmann, solo “una piccola schiera” [cfr.
Bultmann R.: «Das Verhältnis der urchristichen Christusbotschaft zum historischen Jesus”,
Heidelberg, 1960]. Questo famoso passo di Isaia (LIII, da 3 a 12) rivela unicamente, come effettivo
punto d'appoggio per un Gesù che volesse compiere la profezia, che doveva avercela messa tutta
per farsi uccidere da certi nemici. Aveva una prospettiva del genere? Burrows [...] ritiene
effettivamente che Gesù abbia “trovato in Isaia LIII il modello per la sua vita di sacrificio, per la
sua morte di rappresentanza e per la vittoria finale” [cfr. Burrows M.: «Mehr Klarheit über die
Schriftrollen», München, 1958]. Vogliamo solo annotare rapidamente che questo singolare passo
dell'A.T. è stato messo in rapporto, dall'esegesi giudaica, con il popolo d'Israele. Il profeta scrive a
Babilonia, dove erano stati deportati molti israeliti. Quindi, questo “servo di Dio dolorante”
sarebbe Israele. La seconda profezia considerata esemplare da Otto, nel cui schema “Gesù avrebbe
pensato sé stesso” [cfr. Otto R.: Op. cit., München, 1940], è il libro redatto con il nome di Enoch,
pieno di figure e di immagini apocalittiche, certo più difficilmente accessibile, ai tempi di Gesù, del
Deuteroisaia. Enoch, come Daniele, è un eroe dei tempi più remoti. Secondo il primo libro di Mosè,
visse 365 anni, quindi probabilmente rispecchia antiche immagini del dio del sole. Come più tardi il
profeta Elia, anch'egli non muore, ma Dio lo prende con sé in maniera misteriosa, e Otto non fa
mistero, nella sua tesi, che Gesù avrebbe avuto davanti agli occhi fino alla morte “una dipartita e
una elevazione come quella di Enoch” (“Non mirava alla morte e a un ritorno alla vita corporea
successiva alla morte o alla resurrezione, bensì a una sottrazione ed elevazione simili a quelle di
Enoch e, dal momento in cui seppe che il figlio dell'uomo doveva soffrire, alla morte stessa come
passaggio diretto all'elevazione”) [cfr. Otto R.: Op. cit., München, 1940] Tutte queste apocalissi
promettono al giusto che si pente una vita beata, ma ai peccatori incalliti e ai pagani una fine tra
interminabili terrori. Enoch [...] viaggia, istruito dagli angeli, per il mondo e per il regno dei morti.
Incontra gli spiriti dei giusti trapassati e quelli degli angeli caduti nelle loro carceri; apprende
un'infinità di misteri cosmici e predice l'avvento del Messia-figlio dell'uomo, chiamato anche “il
Giusto” e “l'Eletto”; Messia e figlio dell'uomo quindi si fondono. Nella parte centrale, Enoch
stesso diventa figlio dell'uomo, quindi torna sulla terra e racconta le sue visioni al figlio
Matusalemme. [...]. Il ruolo del Messia-figlio dell'uomo è descritto con abbondanza. I suoi nemici
sono i re e i potenti di questa terra e su di loro, bestie pagane ed uccelli da rapina, peserà il suo
giudizio, per loro si approntano gli strumenti di tortura [!!]. I pagani (sono nominati espressamente i
Medi ed i Parti) si scagliano contro Gerusalemme, ma vengono indotti a sterminarsi
reciprocamente. La loro fine è uno spettacolo per i giusti. La spada di Dio fa strage della presenza
del figlio dell'uomo e s'inebria del sangue delle vittime. Il figlio dell'uomo fa sparire e cancellare
dalla faccia della terra tutti i peccatori e tutti coloro che hanno traviato il mondo. I giusti trapassati
risorgeranno e la diaspora giudaica tornerà in patria. Il figlio dell'uomo, che già prima della
creazione del mondo era vicino a Dio, diverrà per sempre il bastone dei giusti e dei santi e la luce
dei popoli [...]. Non si riesce bene a capire come un ebreo o un uomo qualsiasi possa aver creduto
che questo figlio dell'uomo sia stato ambedue le cose: il servo dolorante di Dio che si lascia
condurre al macello senza opporre resistenza ed il preesistente dominatore della giustizia nelle
fantasticherie di Enoch. Ma non possiamo ignorare che, al pari di Otto, anche l'altrettanto esperto
Burrows afferma che Gesù si sarebbe rivolto “deliberatamente e coerentemente” [cfr. Burrows M.:
Op. cit., München, 1958] a ciò che del figlio dell'uomo era stato scritto, e cioè che avrebbe dovuto
soffrire molto e sarebbe stato disprezzato. È quello che effettivamente troviamo in Marco (IX, 12),
ma qui l'evangelista sembra già aver condensato l'Enoch e il Deuteroisaia. Il Messia-figlio
dell'uomo di Enoch non è sofferente, né tanto meno disprezzato, anzi il suo aspetto, come quello del
Messia del Libro di Daniele, è “pieno di grazia come uno degli angeli celesti” (XLVI, 1). Egli è
preesistente [...]. L'ebreo che si fosse considerato il Messia-figlio dell'uomo dell'Enoch avrebbe
dovuto averci, diciamolo chiaro, un ramoscello. Come sono arrivati dei seri eruditi a collegare il
figlio dell'uomo dell'Enoch con un servo di Dio pieno di dolori? Un equivoco, spiegabile in un testo
come l'Enoch confuso e tradotto tre volte, può chiarire l'errore. [...]. Forzando molto il senso
figurato del discorso, si può commentare che il Giusto, il cui sangue viene versato [...] si identifichi
con il figlio dell'uomo. [...]. Anche sorvolando sul fatto che in tempi precristiani il Messia-figlio
dell'uomo non è un “sofferente”, pure negli strati più antichi della tradizione, ad esempio in tutto il
Vangelo di Marco, manca qualsiasi accenno al titolo di “servo di Dio” che si trova in Isaia; e
ancora in Matteo (VIII, 17), che cita Isaia (LIII, 4), manca il riferimento al servo di Dio sofferente
sia “fondamentale” per la consapevolezza di sovranità di Gesù. Vedremo invece che anche gli
evangelisti si sono attenuti, in modo diverso, all'Enoch, quindi si può dedurre che essi, e non Gesù,
abbiano avuto presente il Deuteroisaia. Il Messia-figlio dell'uomo divenne un sofferente [...] dopo
che era morto soffrendo...» (cfr. Augstein R.: «Jesus Menschensohn», München-Gütersloh-Wien,
1972), cioè dopo che la storicizzazione evangelica lo ha voluto tramandare, per riprovevoli
necessità politiche, come morto atrocmente torturato!
NOTE
(1) Per quanto riguarda il concetto di “profeta” e di “profezia” nell’antico pensiero giudaico cfr. Meignan R.: «Les
Prophétes d’Israel et le Messie», Paris, 1894; Caillard V.: «Jesus Christ et les prophéties messianiques», Paris, 1905;
Brierre-Narbonne I.: «Les prophéties messianiques de l’A.T. dans la littérature juive en accord avec le N.T.», Paris,
1933; Gerster T.V.: «Jesus in ore prophetarum», Roma, 1934; Ceuppens C.: «De prophetis messianicis in A.T.», Roma,
1935; Boson G.: «I profeti d’Israele», Brescia, 1948; Bacht H.: «Wahares und falsches Prophetentum», Biblica, 53,
237, 1951; ecc.
(2) All’epoca di Yeschuah Bar-Yosef (Gesù [il “Cristo”] Figlio di Giuseppe) il titolo di “Figlio di Dio”, come attesta
Wetter (1916), non costituiva nulla di eccezionale (cfr. Wetter G.P.: «“Der son Gottes”. Eine Untersuchung über den
Charakter und die Tendenz des Johannes-Evangeliums. Zugleich ein Beitrag zur Kenntnis der Heilandsgestalt der
Antike», Leipzig, 1916), in quanto fin dalla più remota antichità molti personaggi erano già stati ritenuti “figli di Dio”
ed erano venerati come tali, quali, ad esempio, Pitagora, Platone, L’imperatore Augusto, Apollonio di Tiana, ecc.
D’altra parte, si deve ricordare che Yeschuah Bar-Yosef (Gesù [il “Cristo”] Figlio di Giuseppe) per i primi suoi seguaci
non è né “figlio di Dio” né, tanto meno, Dio egli stesso, in quanto viene ufficialmente nominato a rango di “figlio di
Dio”, successivamente, con la discesa verso di lui dello “Spirito Santo” sotto forma di colomba. Infatti, se fosse stato
altrimenti, il montaggio di questa scena sarebbe stato superfluo!
(3) Yeschuah Bar-Yosef (Gesù [il “Cristo”] Figlio di Giuseppe), sicuramente per dissimulare la sua pretesa di dominio,
non si è mai direttamente autoattribuito il titolo di “Padrone” ― che la comunità cristiana fin dall’inizio gli attribuisce
preferenzialmente, come attesta Schaöul (Paolo di Tarso): «…ei\" Kuvrio" jIhsou`" Cristov", ou` taV pavnta kaiV
hJmei`" aujtou`…» («…un solo Padrone Gesù Cristo, di cui [sono] tutte le cose e di cui [siamo] noi stessi…» (I Cor.
VIII, 6) ―, quantunque ne faccia chiaro autoriferimento allorché, come riferiscse l’Evangelista che scrive a nome di
Luca egli risponde al diavolo che lo tenta «…oujk ejkpeiravsei" tovn Kuvrion Qeovn sou…» («…non tenterai il
Padrone Dio tuo…) (IV, 12) ― connotando di essere anche Dio egli stesso: tipico delirio teomegalomanico! ― e
sebbene lo accetti volentieri, come si deduce da quanto riferisce l’Evangelista che scrive a nome di Giovanni: «…uJmei`"
fwnei`teV me: […] oJ Kuvrio", kaiV kalw`" leVgete: gavr eiJmiV…» («…voi chiamate me […] il Padrone, e dite bene:
infatti [lo] sono…») (XIII, 13).
(4) La “dissimulazione” (necessità di nascondere le proprie intenzioni) è un sintomo caratteristico dei paranoici con
delirio religioso, come è stato ben evidenziato da Soliman (1886), che si manifesta con la continua esigenza di
assicurarsi silenzio e segretezza su quanto concerne il proprio delirio poiché «...essi temono di esporsi allo scherno...»
(cfr. Soliman N.: «Contribution à l'étude de la folie religieuse», Paris, 1886). Orbene, tale sintomo specifico fatto
manifestare a Yeschuah Bar-Yosef (Gesù [il “Cristo”] Figlio di Giuseppe) risulta chiaramente documentato in tutti i tre
Vangeli sinottici dalle seguenti iterate espressioni: «...diesteivlato aujtoi`", i{na mhdeiV" gnw/` tou`to...»
(«...raccomandò loro insistentemente, affinché nessuno lo sapesse...» (Marco V, 43), «...diesteivlato aujtoi`", i{na
mhdeniV levgwsin...» («...raccomandò loro, affinché non lo dicessero a nessuno...» (Marco VII, 36), «...ejpetivmhsen
aujtoi`", i{na mhdeniV levgwsin periV aujtou`...» («...ordinò loro, affinché non parlassero di lui a nessuno...» (Marco
VIII, 30), «...oujk h[qelen i{na ti" gnoi`...» («...non voleva che loro sapessero…» (Maeco IX, 30), «...ejnebrimhvqh
aujtoi" oJ jIhsou`"levgwn: oJra`te, mhdeiV" ginwskevtw...» («...il Gesù li ammonì dicendo: guardate, nessuno deve
sapere...» (Matteo IX, 30), «...ejqeravpeusen aujtouV" pavnta", kaiV ejpetivmhsen aujtoi`", i{na mh faneroVn aujtoVn
poihvswsin...» («...li curò tutti, e proibì loro, affinché non lo facessero manifesto...» (Matteo XII, 15), «...tovte
diesteivlato toi`" maqhtai`", i{na mhdeniV ei[pwsin o{ti aujtoi`" ejstin oJ Cristov"...» («...allora raccomandò ai
discepoli, affinché non dicessero a nessuno che egli era il Cristo [l'Unto]...» (MatteoXVI, 20), «...oJ deV ejpitimhvsa"
aujtoi`" parhvggeilen mhdeniV levgein tou`to...» («...ma egli ordinò loro severamente di non dirlo a nessuno...») (Luca
IX, 21), ecc. Tuttavia, con tipica “ambivalenza” (Cfr. Bleuler E.: «Die Dementia Praecox oder Gruppe der
Schizophrenien» in Aschaffenburg G.: «Handbuch der Psychiatrie», Leipzig und Wien, 1911), altro sintomo
caratteristico fatto manifestare a Yeschuah Bar-Yosef (Gesù [il “Cristo”] Figlio di Giuseppe). Infatti, la sua ossessiva
esigenza di silenzio e segretezza cessa all'improvviso quando spavaldamente si rivela alla Samaritana: «...levgei aujtw/`
hJ gunhv: oi\da o{ti Messiva" e[rcetai, oJ Cristov": o{tane[lqh/` ejkei`no", ajnaggelei` hJmi`n a{panta. levgei aujth/` oJ
jIhsou`": ejgwv ejijmi, oJ lalw`n soi...» («...dice a lui la donna: so che verrà il Messia [l'Unto], il denominato Cristo
[Unto]: dunque quando verrà, ci annuncerà ogni cosa. Le dice il Gesù: io sono, che sto parlando con te...» (Giovanni IV,
25-26). D'altra parte, al pari di tutti i paranoici, Yeschuah Bar-Yosef (Gesù [il “Cristo”] Figlio di Giuseppe) quando si
trova in presenza di vari testimoni eterogenei non dice mai esplicitamente con chiarezza chi crede di essere. Quindi, in
tali evenienze preferiva parlare di se stesso esclusivamente in maniera allusiva e misteriosa. Conformemente a questa
sua esigenza egli escogita, tra l'altro, di indicare se stesso con l'espressione convenzionale aramaica “Bar-nasha”
(“Figlio di uomo”) che nei Vangeli redatti in greco si riscontra tradotta con la corrispondente espressione “uiJoV" tou`
ajnqrwvpou”. Tale espressione risulta pronunziata stereotipatamente esclusivamente da Yeschuah Bar-Yosef (Gesù [il
“Cristo”] Figlio di Giuseppe) medesimo, quasi sempre in terza persona come usano fare i paranoici, un numero
notevole di volte tanto che nei soli tre Vangeli sinottici si riscontra oltre sessanta volte! D'altra parte, come fa notare
Binet-Sanglé (1912), Yeschuah Bar-Yosef (Gesù [il “Cristo”] Figlio di Giuseppe) «...fino all'età di trenta anni ha
dissimulato ai suoi compatrioti la sua pretesa messianità; la rivelazione che ne fa loro, dopo il suo primo accesso di
vagabondaggio, li riempie di stupore tanto che d'indignazione (cfr. Binet-Sanglé Ch.: «La folie de Jésus», Tome III,
Troisième éd., Paris, 1912).
www.fernandoliggio.org/art88.pdf