00 06/04/2012 19:48
Questa è una minima parte degli esami dati a Febbraio sulla Teologia Morale (inserisco ciò che interessa) e l'argomento in questione ricade sulla Morale.


Gli atti morali

La libertà che la persona è, e che le virtù esprimono eticamente, si attualizza nelle azioni: gli atti morali. La moralità, da una parte, designa la rilevanza etica di un atto, per cui se ne devono individuare le condizioni. Dall’altra, designa la bontà/malizia di un atto, per cui si devono determinare gli elementi che concorrono a costituirla.

1. Condizioni della moralità di un atto

L’agire morale è agire umano. Solo l’essere umano agisce moralmente. L’animale no: il suo agire è pre-morale. Ma non ogni agire umano è morale. Occorre pertanto determinare le condizioni dell’agire morale dell’uomo. Ribadiamo che morale non designa qui la bontà di un atto, ma la qualità dell’agire propriamente umano. Il suo contrario infatti in questo caso non è immorale ma pre-morale: l’atto che sta fuori dell’agire propriamente morale; che perciò non ha rilevanza sotto il profilo etico. Si tratta allora di far emergere la linea di demarcazione tra l’agire pre-morale e quello morale.

1.1. Conoscenza e volontà

La morale tradizionale ha distinto tra actus humanus e actus hominis. Il primo è atto morale. Il secondo è atto pre-morale. L’atto umano è un agire libero e perciò propriamente umano. L’atto dell’uomo è un agire istintivo/sensitivo e perciò più simile al comportamento animale: per esempio, il grido di dolore in reazione a una scottatura.
Le condizioni della moralità, della qualità etica, di un atto sono dunque quelle della libertà. E cioè l’elemento volitivo: il consenso, il volere un’azione; preceduto dall’elemento intellettivo: la conoscenza. Niente, infatti, può essere voluto se non è prima conosciuto: nihil volitum nisi praecognitum.
La conoscenza concerne l’atto e nella sua entità fisica e nella sua qualità morale. Si tratta cioè di sapere in che cosa realmente consiste un’azione e qual è il significato etico: conoscere, per esempio,che l’aborto è azione soppressiva di una vita umana e moralmente cattiva. Oltre la scienza, la conoscenza comprende anche l’avvertenza: l’attenzione con cui un atto è compiuto.
Ne consegue che un agire ignaro per ignoranza invincibile, per errore o per inavvertenza ed un’agire costretto per timore, per pressione o per violenza, ed in ragione dell’incidenza di questi, è un agire pre-morale .
L’agire morale è sotto l’istanza della responsabilità. Il che significa che il soggetto risponde dei suoi atti, rendendone ragione e subendone le conseguenze. Risponde davanti a Dio, origine prima e fine ultimo dell’essere e del dover-essere umano; davanti a se stesso: alla propria coscienza etica; e davanti agli altri, su cui rimbalza il bene o il male compiuto. In ragione della responsabilità, un atto eticamente cattivo è colpevole: è imputabile come male alla persona.

1.2. L’atto volontario

La teologia morale chiama volontario l’atto deliberato dalla volontà, previa la debita conoscenza e avvertenza; o anche l’atto riconosciuto e presentato dall’intelletto alla volontà, che lo approva e lo realizza . Lo chiama volontario non per sottovalutazione del conoscere ma in quanto considera questo previo al volere, in base al principio già enunciato: nihil volitum nisi praecognitum. Involontario è l’atto che non procede dalla volontà informata dall’intelligenza. Dire pertanto atto libero, atto morale, atto volontario è dire l’atto conosciuto e voluto: l’atto propriamente umano (actus humanus) e di cui il soggetto è responsabile.

Quanto alla deliberazione l’atto volontario può essere perfetto o imperfetto. Perfettamente volontario è l’atto deliberato con piena consapevolezza e compiuto assenso. Imperfettamente volontario è l’atto in certo modo e misura inficiato da ignoranza, errore o inavvertenza, e/o da costrizione o timore.

Quanto alla consapevolezza l’atto volontario può essere attuale o virtuale. Attualmente volontario è l’atto deciso e compiuto con consapevolezza riflessa: con deliberazione esplicita qui e adesso. Virtualmente volontario invece è quello compiuto con consapevolezza irriflessa della deliberazione presa. La consapevolezza c’è ma non emerge alla coscienza qui e adesso: perdura una deliberazione precedente o abituale che la persona non ha mai ritrattato. E’ qui la volontarietà di un atto virtuoso, procedente cioè dalla virtù, come pure di un atto procedente dal vizio acquisito. La virtù suscita la fedeltà, la quale rende permanente l’atto di libertà e perciò del conoscere e del volere che sta alla base. La stessa cosa deve dirsi, al contrario, del vizio.

Così, per esempio, attualmente volontario è l’atto esplicito alla coscienza di voler aiutare ed aiutare di fatto un bisognoso. Virtualmente volontario è l’atto spontaneo di soccorrere un bisognoso, attuato con consapevolezza irriflessa ma reale, a motivo della virtù (l’amore, la carità, la misericordia) che muove ad agire o di una deliberazione antecedente ed ancora permanente.
Attualmente volontaria è la bestemmia consapevolmente pronunciata qui e ora. Virutalmente volontaria è quella pronunciata senza pensarci a motivo del vizio acquisito.

Quanto all’effetto l’atto volontario può essere diretto o indiretto. Direttamente volontario è l’atto il cui effetto costituisce lo scopo dell’azione: ciò che la gente intende compiere. Indirettamente volontario invece è l’atto il cui effetto non è quello inteso e perseguito come fine dell’azione: è un secondo effetto o conseguenza dello scopo/effetto direttamente voluto. In realtà di volontario indiretto in morale si parla relativamente all’atto a doppio effetto, uno buono e l’altro cattivo, in ordine alla permissibilità etica di quest’ultimo. Noi sappiamo che l’atto è normalmente qualificato dal suo oggetto. Ora nel caso in cui l’effetto cattivo non entra nel costitutivo morale dell’atto, così da modificarne l’essenza, rimane eticamente irrilevante . Come tale il male che esso configura non è morale e perciò un peccato, ma fisico e perciò permissibile. Il che è precisato dal principio del doppio effetto: nel caso in cui un atto buono comporta anche un effetto cattivo, previsto sì ma non voluto né come fine né come mezzo per conseguire il fine, semplicemente tollerato come conseguenza seconda e inevitabile, tale atto si può compiere. Non essendo l’effetto cattivo né il fine oggettivo dell’atto né il fine soggettivo dell’agente non entra nel costitutivo etico dell’atto. Come tale non costituisce un male morale ma fisico. L’atto -specificato dal suo fine diretto (oggetto proprio), che è quello inteso e voluto- è moralmente buono e volontario. L’effetto cattivo è indiretto: come tale ininfluente sulla moralità dell’atto.

Così, per esempio, distinguiamo un’eutanasia diretta da una indiretta. E’ direttamente eutanasico l’atto con cui, somministrando dei farmaci, si causa la morte di un malato. E’ indirettamente eutanasico l’atto di somministrare degli analgesici lenitivi del dolore in un malato terminale, sebbene comporti come effetto secondario l’anticipazione della morte. Direttamente l’atto è terapeutico: mira all’umanizzazione del morire. Solo indirettamente comporta l’abbreviazione della vita. Altro esempio è l’aborto indiretto: la perdita di una vita embrionale o fetale, connessa ad un inevitabile intervento curativo della gestante. Qui l’aborto non è il fine dell’atto né il mezzo per conseguire il fine. E’ una conseguenza, prevista ma non voluta, di un atto in sé buono e inevitabile. L’atto, specificato dall’oggetto/fine, è direttamente terapeutico. Solo indirettamente è abortivo. Non può dirsi indiretto invece l’aborto procurato per curare o prevenire un male della gestante.

Quanto all’imputabilità l’atto volontario può essere “in sé” o “in causa”. Volontario in sé è l’atto compiuto con consapevolezza e consenso in atto: l’azione è responsabile e imputabile nel suo svolgersi. Volontario in causa invece è l’atto carente o privo di deliberazione nel suo svolgersi, ma delle cui conseguenze l’agente è responsabile per così dire a monte: là dove e quando egli ha posto le premesse del loro verificarsi. Tali conseguenze sono a lui imputabili a motivo di deliberazioni od omissioni pregresse, da cui l’effetto procede come da causa. Un atto moralmente cattivo può essere imputabile in causa in ragione di ignoranza e disattenzione vincibili, di cattive disposizioni e abitudini, di negligenze, abusi o pigrizie.

Così, per esempio, è volontario in sé un incidente stradale per deliberato eccesso di velocità. E’ volontario in causa l’incidente stradale in stato di ebbrezza o per ignoranza del codice della strada. Degli effetti cattivi dell’incidente si è responsabili o colpevoli prima: rispettivamente nell’atto di ubriacarsi e di non darsi cura delle norme stradali. Del sonno che lo sorprende e delle sue conseguenze –è un altro esempio- un soggetto può essere imputato in causa: là dove e quando ha preferito spendere il tempo del riposo per il divertimento.

2. Elementi della moralità di un atto

Oltre a designare l’agire propriamente umano, da cui dipende la responsabilità e perciò il merito e il demerito, l’imputabilità e la colpevolezza degli atti, la moralità designa pure la qualità o consistenza etica dell’agire umano: la bontà o malizia degli atti e del soggetto che li compie . Ne delineiamo qui gli elementi che concorrono a costituirla. Dalla teologia morale tradizionale tali elementi vengono chiamati fonti della moralità. Evidentemente non si tratta dei fondamenti ultimi del dovere etico o norma morale (questione metaetica). Si tratta delle fonti immediate dei singoli atti, da cui questi derivano la qualità etica.
Ogni atto è un mezzo relativo a un fine, da cui è contrassegnata la moralità dell’atto. C’è un fine dell’atto: l’oggetto suo proprio; a sua volta specificato dalle circostanze in cui è posto. Ed il fine dell’agente: l’intenzione. Oggetto, circostanze e intenzioni sono gli elementi che concorrono alla moralità di un atto.

2.1. L’oggetto

Anzitutto c’è il fine immanente dell’atto, che ne esprime l’essenza, la struttura propria: il suo obiettivo intrinseco. La moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata .
Il finis operis o oggetto dell’atto, sotto il profilo morale, può essere buono, cattivo o, almeno astrattamente considerato, indifferente. Così, per esempio, il ringraziare è un atto buono, il mentire è un atto cattivo, il camminare è un atto indifferente.
L’oggetto sta a designare l’ordinabilità di un atto al fine ultimo e perciò al vero bene della persona: L’agire è moralmente buono quando attesta ed esprime l’ordinazione volontaria della persona al fine ultimo e la conformità dell’azione concreta con il bene umano come viene riconosciuto nella sua verità dalla ragione. Se l’oggetto dell’azione concreta non è in sintonia con il bene vero della persona, la scelta di tale azione rende la nostra volontà e noi stessi moralmente cattivi e, quindi, ci mette in contrasto con il nostro fine ultimo, il bene supremo, cioè Dio stesso .

2.2. Le circostanze

Un atto però non va solo considerato nel suo in sé astratto, ma nel suo porsi circostanziato. Nella concretezza del vissuto l’atto è specificato dalle circostanze (circumstantiae da circum stare: stare attorno), ossia dalle condizioni di fatto in cui viene posto. Queste vengono tradizionalmente così elencate e comprese: quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando (chi, che cosa, dove, con quali mezzi, perché, come, quando). Tra le circostanze sono da annoverare e ascrivere le conseguenze (effetti o risultati) di un atto.
L’incidenza delle circostanze sull’atto può essere sostanziale o accidentale. Nel primo caso esse modificano la struttura interna dell’atto e quindi la consistenza etica oggettiva: qui le circostanze passano a far parte dell’oggetto dell’atto. Così, per esempio, un atto di fornicazione compiuto da una persona sposata è un adulterio, compiuto su un figlio è incesto; un furto perpetrato in chiesa è un sacrilegio; la violenza contro l’aggressore è legittima difesa; la mutilazione terapeutica è cura della salute; la maldicenza che mente è calunnia .
Nel secondo caso invece le circostanze aumentano o diminuiscono la bontà/malizia di un atto oggettivamente buono/cattivo e fanno assumere valenza etica a un atto oggettivamente indifferente. Vi sono anche circostanze irrilevanti, incidenti sotto il profilo etico dell’atto.

2.3. L’intenzione

Oltre il fine dell’atto c’è anche il fine dell’agente: il finis operantis. E’ lo scopo inteso dal soggetto nel porre un determinato atto: l’intenzione soggettiva dell’azione. Il fine soggettivo può concordare con il fine oggettivo dell’atto (espresso dall’oggetto con le sue circostanze) o discordare.
Nel primo caso la moralità dell’atto è data dalla finalità oggettiva soggettivamente intenzionata: qui la volontà non ha di mira niente altro dell’oggetto dell’atto. E se questo fosse in sé indifferente assume la moralità del volere soggettivo.
Nel secondo caso invece si determinano due fonti immediate diverse di moralità. Queste possono convergere nella stessa linea del bene o del male. In questo caso il fine soggettivo potenzia la bontà/malizia oggettiva di un atto. Un atto buono diventa migliore: per esempio, studiare per aiutare il prossimo. Un atto cattivo diventa peggiore: per esempio, rubare per comprare armi.
Le due fonti (oggetto e intenzioni) possono anche divergere. In tal caso un fine soggettivo cattivo rende cattivo un atto oggettivamente buono . Per esempio, fare un’opera di beneficienza per mettersi in mostra, oppure studiare per imbrogliare il prossimo, sono azioni non buone, eticamente cattive. Ma un fine soggettivo buono non rende buono un atto oggettivamente cattivo . Per esempio, mentire per aiutare il prossimo, oppure rubare per fare della beneficienza non diventano azioni buone. Un’intenzione di bene infatti non può prescindere dalla struttura interna dell’atto, da cui proviene la prima moralità: non sarebbe più un’intenzione di bene, ma un arbitrio soggettivo. Questo vuol dire l’assioma che il fine non giustifica i mezzi.
Il bene morale è uno e indivisibile. Basta la malizia di una sola componente (oggetto, circostanza, intenzione) per il suo venir meno e il subentrare del contrario: il male morale. Perché si abbia il bene devono essere buoni tutti i fattori della moralità di un atto. Per il male invece è sufficiente il venir meno, la cattiveria cioè di uno solo. E’ l’insegnamento espresso in Teologia morale dall’assioma classico: bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu.

2.4. Disordine oggettivo e colpa soggettiva

Le migliori intenzioni non possono cambiare la natura oggettiva di un atto. Lo stesso dicasi delle circostanze e, tra queste, dei risultati o conseguenze dell’atto. E’ da respingere quindi la tesi, propria delle teorie teleologiche e proporzionaliste, secondo cui sarebbe impossibile qualificare come moralmente cattiva secondo la sua specie –il suo “oggetto”- la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati prescindendo dalla intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell’atto per tutte le persone interessate . Si danno azioni in sé oggettivamente cattive, che non si possono mai fare per nessun motivo, con nessuna buona intenzione e malgrado la perdita o il non-conseguimento di beni non-morali. Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati “intrinsecamente cattivi” (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze .

Non ci sono dunque intenzioni buone o conseguenze o effetti buoni che possono mutare la verità etica di un atto cattivo secondo il suo oggetto. Circostanze e intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto “soggettivamente” onesto e difendibile come scelta . Il che non è un’invenzione o un’opinione dei teologi o del magistero, come taluni oggi ritengono e inducono a ritenere. Appartiene invece alla sapienza e all’intelligenza etica, cui le coscienze possono essere culturalmente più o meno aduse, possono cioè essere più o meno favorite e disposte dall’habitat socio-culturale. Già Aristotele scriveva nell’Etica a Nicomaco: Non ogni azione né affezione ammette lo stato intermedio. Alcune infatti implicano già nel nome la malvagità: come, ad esempio, la malevolenza, la spudoratezza, l’invidia e, tra le azioni, l’adulterio, il furto, l’omicidio. Tutte queste cose e quelle del medesimo genere derivano il loro nome dal fatto di essere cattive in se stesse e non perché siano cattivi il loro eccesso o il loro difetto. Dunque, riguardo ad esse, non c’è mai un comportamento giusto ma sempre solamente uno sbagliato; e il bene e il male in tali cose non stanno nelle circostanze, come se, ad esempio, nell’adulterio ci si chiedesse con chi, quando e come esso fosse lecito, bensì il semplice fatto di compiere una di quelle azioni costituisce un errore .

Con questo non si vuol dire che intenzioni, circostanze e conseguenze siano indifferenti e in inincidenti nella valutazione della malizia e della colpa soggettiva di un atto oggettivamente cattivo: Sono da prendere in grande considerazione sia l’intenzione sia i beni ottenuti sia i mali evitati a seguito di un atto particolare . Uno stesso atto può essere compiuto con intenzioni, in circostanze e in previsione di conseguenze assai diverse. Se intenzioni, circostanze e conseguenze non possono cambiarne la verità oggettiva, non possono cioè mutare un atto oggettivamente cattivo in un atto buono, possono però incidere sul grado di malizia e pertanto sulla responsabilità e colpevolezza soggettiva dell’atto: Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un’intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla . In particolare le conseguenze prevedibili appartengono a quelle circostanze dell’atto, che se possono modificare la gravità di un atto cattivo, non possono però cambiarne la specie morale , cioè il suo oggetto .

Eventualmente si può ampliare qualche aspetto che è poco chiaro, ed in questo ambito possiamo collocare il "Porgi l'altra guancia" e "Perdonare settanta volte sette"
Ciao
Franco

“Quando si vuol cercare la verità su una questione
bisogna cominciare col il dubbio.
(S. Tommaso d’Aquino)”

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