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L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, da ottenersi mediante finanziamento dell'attività politica. Di solito quest'ultima parte non viene trascritta, perché sull'originale della Costituzione c'è un lembo un po' sbiadito, che non si legge bene. Ma c'è. Altrimenti non si spiegherebbe come mai la corruzione è una pratica talmente diffusa da valere le più alte onorificenze di ogni graduatoria o statistica sull'indice di merito. Vedere per esempio il Global Corruption Barometer 2010, e ancora The Corruption Perceptions Index 2011, o qualsiasi relazione in merito della Corte dei Conti.

Ma la competenza, o abilità, dove l'italiano stravince alla grande è una pratica complementare, che serve come lavanderia della coscienza. Si tratta fondamentalmente di una una sottospecialità della caccia: il tiro al piccione, altrimenti detta "ipocrisia". La quale non si manifesta solo in relazione a vicende di natura economica, ma in ogni ambito della natura umana, ivi compresi gli affetti e i sentimenti, come cantava De Andrè: "si sa che la gente dà buoni consigli, sentendosi come Gesù nel tempo; si sa che la gente dà buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio".

Piero Di Caterina è l'imprenditore che ha contribuito a scoperchiare il famigerato "sistema sesto", che ha travolto Filippo Penati. Venerdì sera era ospite a L'Ultima Parola. Era seduto di fianco a me. Di fronte al gran tribunale dell'opinione pubblica ha commesso l'errore di argomentare, da comprovato esperto quale è, circa l'evoluzione della corruzione negli ultimi vent'anni. Secondo lui, nell'affidamento degli appalti pubblici, vi sarebbe stato un mutamento di scopo: si sarebbe cioè passati da una "corruzione buona", quella dove la contribuzione dell'imprenditore - non per aggiudicarsi una gara pubblica, ma per entrare nell'agone dei competitori - avrebbe avuto la finalità di alimentare gli interventi sociali della politica (da qui l'aggettivazione "buona"), e una "corruzione cattiva", ovvero la definitiva mutazione genetica dell'amministratore locale che prende a disinteressarsi delle politiche sociali del partito e trattiene per sé somme sempre più ingenti, a titolo di gabella finalizzata al suo proprio benessere, intesa cioè a remunerare la sua munifica intercessione.

Poteva, il Paese dove ogni anno si evadono 120 miliardi di introiti fiscali, far passare sotto silenzio una tale palese assurdità? Ovviamente no. Ha cominciato tale Brugnaro, presidente di Confindustria Venezia che, dimentico dell'affaire Marcegaglia SpA che nel 2008 ha dovuto ricorrere a un patteggiamento da 6 milioni di euro sulla tangente Enipower, ha sentenziato stralunato che certe cose in televisione non si dovrebbero sentire, poco prima di propinarci la solita retorica del gran lavoratore che i suoi figli ormai lo vedono solo in fotografia. Ha continuato il pubblico in quota PD, per evidenti ragioni di opportunità politica, avendo il nostro (Di Caterina, ndr) contribuito a creare evidenti difficoltà nel partito di Penati. Poi la carabina è passata ai figi degli imprenditori che hanno pagato l'onestà con la vita, o con l'esclusione da ogni circuito lavorativo, poi ancora a quelli che si ascrivono al movimento degli onesti e così via, in un baccanale di braccia tese e dita puntate dove, di volta in volta, l'ospite è stato qualificato come "la rovina dell'Italia", "la causa di tutti i mali", l'untore della peste, del colera e di ogni altra forma contagiosa e letale di lebbra sociale. Una lapidazione in piena regola, insomma.

A nessuno è saltato per la testa di riflettere su quanto Di Caterina riferiva, ovvero di avere ripetutamente denunciato le vessazioni subite dal 2000/2002 al 2010 (per quasi dieci anni, dunque) prima che a un Pm pungesse vaghezza di aprire il fascicolo e dare consistenza al concetto di obbligatorietà dell'azione penale. Se una responsabilità c'e, questa va effettivamente condivisa con chi ha omesso di dare corso a ripetute denunce, consentendo in questo modo il perpetrarsi delle condizioni di illegalità, perché il sistema di controllo legale, va ricordato, non è un trascurabile accessorio, ma è parte integrante di ogni ordinamento giuridico che abbia una qualsiasi velleità di conformare a sé i cittadini del sistema Stato.

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Mauro