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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. IX (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]



un prologo al libro di Giobbe:
il dramma di tutti noi



Sta per cominciare il dramma.
Nel teatro si fa silenzio.
Il telone però non si apre.
Esce fuori un presentatore e, a tela chiusa, legge il prologo.
Presenta all'uditorio, nel nostro caso al lettore, il problema che sarà svolto e approfondito nel dramma imminente, il problema concreto della vita di un uomo e del suo destino.







1. Che dice il prologo


Il presentatore esordisce raccontando una storia:
«C'era una volta, nella lontana regione di Uz, un uomo chiamato Giobbe, integro, onesto, che temeva Iddio e fuggiva il male» (Giob. 1, 1).

Era un uomo pio, ricco, celebre, stimato da tutti, felice (Giob.
1, 2-5).

Il prologo continua e gli spettatori si sentono trasportati dietro le quinte del destino degli uomini, là dove si decide il perché delle cose che succedono nella vita e che ci sono sconosciute, perché superano le possibilità della nostra indagine.

Immagina una riunione nell'alto dei cieli.

Racconta che Dio convocò la corte celeste per discutere e decidere il destino degli uomini.
Satana era uno dei membri della riunione (Giob. 1, 6).

La parte di Satana, in questo caso, sarebbe quella dell' «avvocato del diavolo» nel processo dell'umanità, o meglio del Pubblico Ministero, che accusa gli uomini davanti a Dio.

Quando Satana prese la parola, Dio aveva richiamato la sua attenzione sulla vita esemplare di Giobbe:
«integro, onesto, che temeva Iddio e fuggiva il male» (Giob. 1, 7-8).

Ma Satana non ci aveva creduto.
Contestava.
Diceva che tutto ciò dipendeva solo dal fatto che Giobbe viveva nel benessere ed era ricco:

«Giobbe teme Dio perché non gli costa niente.
Non hai tu forse difeso come con una muraglia la sua casa, la sua persona e tutti i suoi beni?
Hai sempre benedetto ogni sua opera» (Giob. 1, 9-10).

La tanto decantata pietà di Giobbe era solo una facciata apparente.
«Stendi la tua mano e prova a levargli tutto quello che possiede.
Vedrai che ti getterà in faccia insulti e maledizioni» (Giob. 1, 11).

Dio accettò la sfida:
«sta bene; ti do potere su tutto quello che possiede» (Giob. 1, 12).

Col permesso di Dio Satana mise alla prova la rettitudine e l'onestà di Giobbe.
Poteva fare tutto quello che voleva, purché non toccasse la persona di lui.

Fu così che, d'improvviso, senza sapere perché, Giobbe vide cadere sopra i suoi beni una catena di disastri.

Finì col perdere tutto, da un'ora all'altra.
Dal disastro si salvarono solo Giobbe e sua moglie.
Anche i figli morirono tutti, in una tempesta (Giob. 1, 13-19).

Era troppo! Disperato, Giobbe si strappa di dosso i vestiti e grida «nudo sono uscito dal ventre di mia madre; nudo tornerò alla terra!» (Giob. 1, 21).

Ma, nonostante tutto, Giobbe non si ribellò, «né bestemmiò il nome di Dio» (Giob. 1, 22).

Al contrario, la sua reazione fu questa:
«il Signore mi ha dato, il Signore mi ha tolto.
Benedetto il nome del Signore» (Giob. 1,21).

Perciò, nella riunione seguente, Dio mostrò a Satana che si era sbagliato a rispetto di Giobbe (Giob. 2, 1-3).
Non era solo apparenza.
Era proprio virtù.

Ma Satana non si dette per vinto:
«pelle per pelle! L'uomo è capace di dare tutti 1 suoi beni, pur di salvare la sua vita.

Stendi la tua mano e tocca le sue ossa e la sua carne; giuro che ti rinnegherà sul viso» (Giob. 2, 4-5).

Dio gli dette il permesso: «sta bene. Te lo consegno».

Gli chiese solo di non ucciderlo.

Per il resto, poteva fare di lui quello che voleva.
Satana mise in opera il suo piano.

D'improvviso, senza sapere perché, Giobbe diventò lebbroso, orribile (Giob. 2, 7).
Con un coccio si grattava le ferite.
Andò a stare su un letamaio (Giob. 1, 8).

Sua moglie non volle più aver niente a che fare con lui, non sopportava neppure l'alito fetido di Giobbe nel suo letto. (Giob. 19, 17).

Arrivò a istigarlo a maledire Iddio.

«Perché restare fedele a un Dio che non ti protegge e ti castiga così?
E tu ancora persisti nella tua onestà?
Scemo! Manda una maledizione a Dio, e falla finita con la vita!» (Giob. 2, 9).

Giobbe le rispose:
«scema sei tu, che parli così! Se abbiamo accettato da Dio la felicità, come non accetteremo da lui anche l'infelicità?» (Giob. 2, 10).

E Giobbe, nonostante tutta la sofferenza, non si ribellò contro Dio (Giob. 2, 10).

E il peggio era che non sapeva il perché di tanta sofferenza.

Non aveva partecipato alle riunioni, in cui si decise del destino degli uomini, anzi, non sapeva neppure che si facessero.
Esperimentava solo, nella sua carne, l'effetto doloroso delle decisioni prese.

Secondo la mentalità del popolo di quel tempo, un dolore e una sofferenza tanto grandi potevano solo spiegarsi così:
castigo di Dio.

Giobbe doveva essere un grande peccatore.

Tre amici di Giobbe vennero a sapere delle disgrazie che lo avevano colpito e si mossero da lontano per partecipare al suo dolore, per portargli un po' di conforto e manifestargli simpatia e solidarietà. (Giob. 2, 11).

Ma Giobbe era così sfigurato, che quasi non lo riconobbero (Giob. 2, 12). Furono schiacciati dalla pena.

Si sedettero presso di lui, piansero, e non furono capaci di dire una parola. Un silenzio di «sette giorni e sette notti, tanto era grande il dolore da cui lo vedevano oppresso» (Giob. 2, 13).

La sofferenza del giusto chi la può spiegare?
La sofferenza del giusto!
È questo il problema che sarà discusso nel dramma.

Il prologo ha presentato un caso ben concreto, uno tra mille, simili a questo.
Ha compiuto la sua missione, e si ritira.
L'attesa è generale.





2. Tema del dramma:
la sofferenza del giusto, chi la può spiegare?


Il silenzio di 7 giorni e di 7 notti arriva fino al pubblico, che sta nel teatro, fino al lettore.
La tela, che è rimasta chiusa fino a questo momento, si apre lentamente.

Sulla scena, Giobbe sopra un letamaio.
Vicino a lui, i tre amici.

Nessuno dei 4 parla... Il silenzio del dolore si prolunga, invade i secoli, invade il mondo e arriva fino a noi, oggi, che leggiamo il libro di Giobbe.

Questo silenzio esprime la nostra incapacità a spiegare la sofferenza; avvolge tutti, e tutti ci unisce in uno stesso tentativo di ricerca:

Giobbe, i tre amici, il pubblico della sala, il lettore, noi, oggi, qui, tutti gli uomini. Nessuno parla...

D'improvviso, un urlo squarcia il silenzio.
Un lamento di dolore.

Il pubblico sussulta e, allo stesso tempo si rallegra, perché Giobbe, finalmente, ha trovato il coraggio di esprimere con parole e di gridare ai quattro venti ciò che prova il giusto che soffre, senza sapere perché.

Quel grido diventa portavoce di molti che lo ascoltano:
«Maledetto il giorno in cui sono nato e la notte in cui fu detto:
un figlio maschio è venuto al mondo!
Che quel giorno si cambi in tenebre!
Che Dio, dall'alto, ignori quel giorno! ... Perché non sono morto nel seno di mia madre, perché non sono rimasto soffocato uscendo dalle sue viscere?

Perché ebbi un grembo che mi accolse e due seni che mi allattarono? Riposerei in pace e dormirei... Perché far conoscere la luce agli infelici e la vita a chi ha il cuore sepolto nell'angoscia?

Non ho pace né riposo, né conforto, ho soltanto un infinito tormento» (Giob. 3, 4.11-13.20.26).

Giobbe aprì il dibattito.
Mise le carte in tavola.

Ebbe inizio la dura marcia dell'uomo in cerca di un senso per le cose che succedono durante la vita, in cerca di un senso per il dolore e la pena che lo avvolgono.

Sul palco, in tutta la sua nuda crudezza, c'è il problema degli uomini, di noi tutti, identificati nella persona di Giobbe, personaggio centrale del dramma che si rappresenta:
quando nascemmo, non chiedemmo di nascere e, ciò nonostante, già c'era chi si preparava ad accoglierci;
siamo nati, e adesso dobbiamo soffrire e morire, stupidamente, senza sapere il perché né della vita né del dolore.

Sulla scena sono rappresentati anche i tentativi che cercano di spiegare il perché della sofferenza, identificati nella persona dei 3 amici di Giobbe e nel quarto, un giovane amico che entra in scena più tardi (capp.
32-37).

Ignorano tutti, Giobbe e gli amici, la decisione presa da Dio e dalla corte celeste, e non sanno perché succedono tutte quelle cose.

Sono come il pubblico, che ha portato con sé, nel teatro, il suo dolore e, adesso, lo vede incarnato nella persona di Giobbe;
ogni giorno cerca nuove spiegazioni al suo dolore, e ricorre a razionalizzazioni di ogni specie, per rendere la vita più sopportabile.

I 3 amici di Giobbe sono anche gli amici del pubblico, perché incarnano le spiegazioni che comunemente si danno ai dolori della vita.

Ma in Giobbe, il pubblico è costretto ad ammirare il coraggio di uno che contesta quello che tutti considerano santo e consacrato;
il coraggio di chi, partendo da una esperienza di vita, affronta ed abbatte tutta una tradizione secolare, perché, essa, mentre dice di difendere Dio, inventa menzogne sulla vita umana (Giob. 13, 7-8).

Man mano che il dramma si svolge, il pubblico si rende conto quanto valgano i suoi argomenti, le sue consolazioni e la sua simpatia.

Si accorge fino a che punto le sue idee riescono a spiegare il dolore, se è capace di resistere agli attacchi violenti che sgorgano dalla coscienza tormentata e realista di un uomo come Giobbe.

I 3 amici, che rimasero in silenzio 7 giorni e 7 notti, rappresentano la difesa degli argomenti che il popolo era abituato ad usare:
cercano di difendere il popolo e la tradizione contro gli attacchi di Giobbe.

Non permetteranno che un uomo, disperato e addolorato, attacchi la solida pietà tradizionale e infranga la stessa sicurezza della sua vita.

Chi vincerà?
La tradizione o la coscienza?

Il dialogo tra Giobbe e i suoi tre amici è anche il dialogo interiore che ogni uomo fa dentro di sé, quando si trova di fronte al dolore e alla sofferenza.

Lo stesso dialogo che oggi si verifica fra la generazione antica e quella nuova:

la generazione antica, che si aggrappa a quanto ha ricevuto dagli antepassati;

la generazione nuova, che vuol partire decisamente dall'esperienza della vita, perché nella tradizione degli antichi non trova nessuna spiegazione ai suoi problemi, nessuna risposta alle sue domande.




SEGUE..





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un prologo al libro di Giobbe:
il dramma di tutti noi





3. Il problema esistenziale che ha provocato il libro di Giobbe e che in esso si esprime.

Per molto tempo questa fu la situazione culturale del popolo:
viveva nella struttura tribale, in cui tutto era di tutti, in cui ciascuno partecipava al destino dell'altro, in cui tutti erano o poveri o ricchi, in cui non esisteva nessuna differenza, ma un grande senso di solidarietà sia nel bene come nel male.

A questo livello di cultura, era la cosa più naturale del mondo che uno soffrisse per il male commesso dall'altro (cf. Gios. 7, 1-26).

C'era anche un proverbio che diceva:
«i genitori hanno mangiato erbe amare, ma i denti dei figli si sono infiammati» (Ez.18, 2).

Inoltre, a quel tempo, non sapevano ancora niente sul futuro.. Credevano che, dopo la morte, il destino dei buoni e dei cattivi fosse identico (Eccle. 9, 1-2);
sarebbero sopravvissuti in un luogo detto Sheol, che, a loro modo di vedere, stava sottoterra.

Impregnato di questa cultura, il popolo tentò di dare una espressione alla sua fede in un Dio personale e giusto, che castiga i cattivi e premia i buoni; tutto il male del mondo deve essere considerato un castigo mandato da Dio.

Se tu stai soffrendo e sei giusto, la tua sofferenza è il castigo dei peccati e delle disobbedienze fatte da altri.

Se tu stai bene, la tua felicità è il premio di Dio per la giustizia tua e di altri.

Non arrivavano a pensare ad un premio o ad un castigo, dopo la morte.

Queste spiegazioni soddisfacevano il popolo e risolvevano il problema della sofferenza del giusto.

Si trattava di una spiegazione naturale, d'accordo con la cultura del tempo, l'unica da cui potevano ricevere l'idea della giustizia di Dio.

Ma quando il popolo nomade diventò agricoltore, si ebbero profondi cambiamenti.
La coscienza individuale crebbe.

Abitando in borgate ed in città, coltivando ciascuno il suo campicello, partecipando attivamente al commercio, superarono l'antico concetto della solidarietà nel bene e nel male.

Capirono che ciascuno riceve quello che ha piantato.
Il frutto del suo lavoro.
Non accettano più di soffrire per il male commesso da un altro;

il profeta Ezechiele cerca di esprimere la giustizia di Dio all'altezza dei nuovi concetti culturali (Ez. 18, 2 seg.);

Non si può più dire che Dio castiga i figli per i peccati dei genitori; ciascuno riceve da Dio quello che si è meritato.
Altrimenti, Dio sarebbe ingiusto.

Ma che succede?
Si cerca di esprimere nuovi concetti, usando il criterio di prima: il male è castigo di Dio.

Se tu soffri, e non soffri a causa dei peccati degli altri, resta una sola spiegazione:
tu soffri perché tu sei peccatore.

La ricchezza e la felicità sono segni della ricompensa divina:
il ricco è l'uomo giusto.

La povertà e la disgrazia sono segni del castigo divino:
il povero è il peccatore.

In questo modo la teologia cercò di salvare i dati della tradizione circa la giustizia divina.

Giobbe aveva ragione:
per difendere Dio, inventavano un sacco di bugie sulla vita umana (Giob. 13, 7-8).

Da tutto questo nacque il problema esistenziale che provocò il libro di Giobbe e che in esso si esprime.

Il libro traduce l'angoscia di un uomo che soffre.

La tradizione:
cioè tutta la struttura della vita organizzata, tutta la mentalità operante, lui stesso Giobbe, in quanto formato in questa mentalità, diceva:
sei un peccatore, sei un essere rigettato da Dio; la grandezza della tua sofferenza rivela la grandezza del tuo peccato.

Allo stesso tempo però la coscienza gli diceva:
io sono innocente (Giob. 6, 29):
Dio è crudele, trattandomi così (Giob. 31, 21).

Fa soffrire molto sentirsi rigettato da Qualcuno, che amavo tanto e che mi sono impegnato a servire con tutto il cuore (Giob. 16, 17).

Sembrava che Dio si fosse allontanato da Giobbe, perché era peccatore, mentre in realtà, Giobbe, scandagliando il suo cuore e facendo l'esame di coscienza, non trovava niente che potesse avere offeso Dio (Giob. 27, 5-6; 31, 1-40).

Perché Dio lo trattava così?
«Le freccie dell'Onnipotente mi hanno crivellato» (Giob. 6,4).

Nel suo cuore scoppia una rivolta contro Dio (Giob.23, 2).

E d'altra parte Giobbe crede nella giustizia di Dio.

Dio è giusto, più giusto dell'uomo.

Ci doveva essere, dunque, un motivo per cui Dio lo castigava così, trattandolo come un nemico (Giob. 19, 11).
Ma la coscienza gli diceva il contrario.

Chi aveva ragione:
Dio, così come la tradizione e lo stesso Giobbe lo concepivano, o la coscienza?

Qui stava la soluzione del problema che il libro di Giobbe si propone:
come fare per essere fedele alla coscienza e a Dio contemporaneamente?

Nell'esperienza dell'autore del libro di Giobbe la crisi collettiva del popolo, che si andava allargando e provocava in tutti una sensazione di malessere, scoppiò in una crisi personale.

Giobbe esprime con parole quello che, in modo vago, stava nel cuore di tutti.

Proprio per questo il libro possedeva una immensa forza di coscientizzazione.





4. La tecnica del dramma: far partecipare gli altri e portarli a scoprire


Il dramma ha la sua tecnica:
Giobbe e i suoi amici ignoravano quello che il pubblico già sapeva, perché non avevano ascoltato il prologo.

Il pubblico ha in mano il criterio per accompagnare e giudicare con esattezza gli argomenti usati dai personaggi del dramma, nell'impressionante ricerca del perché del dolore.

Nella discussione che ne seguì, Giobbe rappresenta la coscienza nuova che nasce, gli amici rappresentano la tradizione, che si preoccupa di difendere il valore ricevuto dagli antenati.

Il pubblico riconosce l'eco dei suoi desideri, sia in Giobbe che nei tre amici.

Giobbe rappresenta il pubblico, quando è tentato di ribellarsi alla situazione.

Gli amici rappresentano il pubblico, in quanto tutti vorrebbero andare dietro a quello che gli altri pensano, per non crearsi nuovi problemi.

Giobbe è amico del pubblico quando minaccia di smascherare uno schema di sicurezza tradizionale, che garantiva una certa pace, anche se fittizia; smaschera la falsità dietro cui l'uomo si nasconde.

Gli amici di Giobbe sono amici del pubblico in quanto rappresentano il dominio sulle coscienze, che ne impedisce la crescita; in quanto sono capaci, in nome di Dio e della tradizione, di «mettere all'asta l'orfano e vendere un amico» (Giob. 6, 27).

La discussione fra Giobbe e i tre amici è lenta e rivela l'uomo così com'è: fragile e orgoglioso, debole e superbo, ignorante e cosciente, indifeso e sicuro.

La riflessione del dramma cresce e va avanti; poi ritorna al punto di partenza.

Proprio come la discussione della vita:
lenta, dolorosa, va avanti e indietro, fino a che, là in fondo all'orizzonte, si accende una lucina, quanto basta per ravvivare la fiamma della speranza di un uomo come Giobbe, che soffre, disperato, perché secondo
la credenza dell'epoca, si considerava condannato da Dio, castigato per i suoi innumerevoli peccati, di cui però non aveva memoria né coscienza.

Il pubblico ha già capito che, nel caso di Giobbe, non si può applicare l'opinione tradizionale.

Ma Giobbe non lo sa affatto, e neppure i suoi tre amici; come Giobbe, tanta gente si trova nelle stesse condizioni.

Forse è proprio il caso di uno o di un altro che sta nella sala, assistendo allo spettacolo.

Applicare in questo modo, matematicamente, il criterio della tradizione, sarebbe partecipare alla più nera delle ingiustizie e delle menzogne.

Ma come confutare gli argomenti della tradizione?

Se lo propone l'autore del dramma, mettendo in scena Giobbe e i suoi tre amici.

La lotta di Giobbe consiste nello sfatare gli argomenti della tradizione, basandosi sulla testimonianza della sua coscienza;
Giobbe non ha chi lo difenda;
né la struttura, né la società.

Ha solo la testimonianza e la voce della sua coscienza.
Nient'altro.

Cionostante, man mano che la discussione cresce, la coscienza acquista vantaggio sulla tradizione e riduce gli argomenti presentati dai tre amici a «sentenze di cenere» (Giob. 13, 12) «gettate al vento» (Giob. 16, 3) «ingannatrici» (Giob. 6, 18).

«Dimostratemi che ho sbagliato e io mi azzittirò» (Giob. 6, 24).
« Voi siete gente molto furba.
Ma, proprio voi, ucciderete la Sapienza!
Anch'io ho una testa per pensare, come voi pensate.

Non sono affatto inferiore a voi.
Chi ignora quello che voi sapete?» (Giob. 12, 2-3).






5. Il fondo del problema: l'idea sbagliata che gli uomini hanno di Dio


L'autore non si limita a sfatare gli argomenti della tradizione.
Il problema è ben più profondo.

Non si tratta di dire solo quello che non è.
Bisogna trovare una via d'uscita, che ancora non si trova, con la semplice confutazione degli argomenti dell'altro.

Il vero problema si colloca ad un altro livello.

Il vero conflitto di Giobbe non è tanto con i tre amici o con la tradizione, ma è proprio con Dio!

«Quello che sapete voi lo so anche io, non sono inferiore a voi.
Ma io vorrei parlare coll'Onnipotente; vorrei discutere con Dio» (Giob. 13, 2-3).
« Voi non siete altro che impostori, medici che non servono a niente.

Almeno se stessero zitti, potrei scambiarli per sapienti... Per difendere Dio, dite un sacco di bugie.

Possibile che per difendere Dio sia indispensabile ingannare?

Voi avete su Dio idee preconcette.

Fate silenzio!
Lasciatemi in pace!
Voglio parlare anch'io!
Succeda quello che succeda.. Metto la mia vita nelle mie mani.

Se Dio vuole uccidermi non mi resta altra speranza, ma anche così voglio difendere la mia causa davanti a Lui.

Facendo questo sono già salvo, perché un empio non sarebbe ammesso alla sua presenza» (Giob. 13, 4-5, 7-8, 13-16).

Subito dopo, Giobbe si mette a discutere con Dio:
«allontana da me la tua mano, metti fine alla paura che ho della tua ira.

Chiamami e io ti risponderò; oppure lasciami parlare e tu mi risponderai.

Quali sono i peccati e gli sbagli che ho commesso?» (Giob. 13, 21-23).

Prima di incominciare a parlare, Giobbe aveva detto:
«Sono pronto a difendere la mia causa, perché so bene che la ragione è mia» (Giob. 13-18).

Il dramma è una specie di tribunale mascherato.
Imbastisce un processo, in cui compaiono Dio e l'uomo per misurare la loro ragione e risolvere il conflitto che li divide.

Giobbe vuole aprire un processo contro Dio, esporre le sue ragioni e difendere la sua causa (Giob. 23, 4), sicuro di essere assolto una volta per tutte (Giob. 23, 7).

Non bastano i pareri degli amici, né a favore né contro; Dio stesso dovrà pronunciare il giudizio fra Dio e gli uomini (Giob. 16, 21).

Con questo proposito Giobbe si allontana dagli amici, dalla società e da tutto ciò che prima determinava la sua vita.

Va per un cammino nuovo, temerario, un cammino solitario.
Si mette in marcia.

Per nessuna cosa al mondo lascerebbe insoluto il problema che lo affligge e che, essendo il problema di un uomo, diventa il problema della presenza di Dio nella vita degli uomini.

E Dio accetta la proposta di Giobbe.
La voce di Dio si fa udire in un lungo discorso sulla Sapienza divina, che riempie l'immensità della terra (Giob. cap. 38-41);
Giobbe ha interrogato Dio e gli ha esposto il problema della sua vita.
Adesso è Dio che interroga Giobbe:
«Cingiti i fianchi come un uomo, voglio interrogarti e tu mi risponderai» (Giob.
38, 3).

Segue la descrizione delle meraviglie dell'universo, pieno di tanti misteri, che Giobbe non conosce e non sa spiegare, ma che hanno tutti un senso e un fulcro comune, governato dalla Sapienza divina.

Alla fine del discorso, Giobbe trae questa conclusione:
«I miei orecchi avevano sentito parlare di Te, ma ora i miei occhi Ti hanno visto.
Per questo mi ritratto e mi pento, nella polvere e nella cenere» (Giob. 42, 5-6).

L'immagine di Dio, ricevuta dal passato, per aver sentito parlare di Dio, si frantuma in mille pezzi.

Nella mente di Giobbe nacque una nuova immagine di Dio, a partire dalla sua esperienza personale.

Giobbe vide una luce sull'orizzonte della vita.
La pace e la tranquillità ritornarono.

Il problema della vita non veniva da Dio, ma da una immagine falsa di Dio, che si era andata formando nella testa di Giobbe, per sentir parlare di Dio.

Abbattuta l'immagine falsa che gli veniva dal passato e dalla tradizione, Giobbe si ritrovò con Dio e squarciò un orizzonte nuovo di vita, per sé e per gli altri.

L'autore non dice chiaramente quale sia stata la soluzione trovata da Giobbe, ma offre al lettore e al pubblico tutti gli elementi perché essi stessi possano dedurre la conclusione a cui arrivò Giobbe.

Questa è la tecnica del dramma, la tecnica propria dei sapienti:
non si curano di dare una soluzione astratta; l'importante è che il lettore partecipi alla ricerca e arrivi, da sé, a scoprire la verità.

Il pubblico, il lettore sono chiamati a pensare e a riflettere, per vedere se riescono ad identificarsi con Giobbe e a scoprire, Ciascuno per conto suo, la soluzione che Giobbe scoperse.

Il dramma è finito.

Cala la tela.

Riappare il presentatore e pronuncia la sentenza:
gli amici di Giobbe hanno perduto la discussione.

Interpretando il pensiero di Dio, egli dice agli amici di Giobbe:
«voi non avete parlato bène di me, come il mio serve Giobbe» (Giob. 42, 7).

Difendendo con vecchi argomenti una posizione già superata, si sono resi colpevoli, e adesso devono chiedere perdono a Giobbe, che ha avuto il coraggio di affrontare Dio, la realtà, la tradizione, appoggiandosi solo alla testimonianza della sua coscienza (Giob. 42, 7-9).

Il presentatore conclude dicendo che Giobbe tornò ad essere felice, esprimendo così la pace interiore che ritorna quando ci si ritrova con Dio (Giob. 42, 10-17).






6. Conclusione


Il dramma rappresentato nel libro di Giobbe è la storia di una vita, è il risultato di un'esperienza e di una ricerca.

Ci viene offerto dall'autore come esempio di un cammino possibile a molti altri uomini, chiamati ad affrontare, come Giobbe, il mistero del dolore, abbattendo gli antichi preconcetti, che non reggono più al confronto con la realtà e al crescere di una coscienza nuova.

Giobbe e i suoi amici sono tutta l'umanità che cammina per la strada dolorosa della vita, discutendo insieme, curvi e umiliati, sotto il peso enorme della sofferenza.

Conflitto permanente tra rivelazione e realtà;
rivelazione, così come la intende la cultura umana;
realtà, così come si presenta in ogni epoca alla coscienza degli uomini, mettendo in discussione tutto quello che viene dal passato.

Anche oggi, la forza della coscienza sale sul palco della storia, su un monte di sterco, emarginata in mille modi, discute con i tre amici che difendono la posizione tradizionale e che usufruiscono del potere.

Il pubblico assiste al dramma, attraverso i giornali e la televisione.
La discussione procede lentamente, va avanti e indietro, ma nel complesso guadagna terreno:
la coscienza è più forte.

Alla fine, chi difendeva e conservava il vero valore della tradizione non erano i tre amici, ma lo stesso Giobbe, che inaugurò il cammino per un nuovo incontro con Dio, sbarrato dagli schemi della tradizione incarnata dai tre amici.

Il libro di Giobbe ha fatto cambiare tutta una teologia, ha fatto piazza pulita.

Ma non ha risolto il problema definitivamente.
Neppure pretendeva di farlo.

Voleva solo rimuovere una grossa pietra, che ostruiva il cammino.
E ci è riuscito.

I tre amici sono rimasti con le pive nel sacco.
Giobbe ha scoperto ed ha conservato il midollo della tradizione.

Il libro di Giobbe rivela e mostra quanto bisogno abbia il popolo di Dio di essere davvero criticato e contestato.

Giobbe non ebbe paura di battersi, quando si accorse che la coscienza non poteva accettare e assimilare la posizione tradizionale.

Escludere la possibilità della contestazione e della critica, o volerla incamminare e orientare, sarebbe come scavare la fossa alla posizione che si vuole difendere contro la critica.

Là dove la coscienza non è libera di esprimersi, lo si deve esigere, mettendo a tacere gli altri:
«Zitti tutti! Lasciatemi libero!
Voglio parlare!
Quello che voi sapete lo so anch'io.
Non sono affatto inferiore a Voi!» (Giob. 13.2).

I tre amici di oggi devono ricordarsi sempre che Dio, alla fine, dette ragione a Giobbe, perché aveva parlato bene di Dio, anche se tutti pensavano che avesse sbagliato.

Il libro di Giobbe rappresenta una grande apertura umana.

L'autore del libro, membro del popolo eletto, nasconde la sua esperienza col Dio del suo popolo dietro la figura leggendaria di Giobbe, che non apparteneva al popolo, ma era una figura internazionale.

Come quando un cristiano descrive la sua esperienza con Cristo, nascondendola sotto la figura ormai leggendaria di Gandhi.

Il libro di Giobbe esprime l'atteggiamento proprio della vita dei saggi.

La loro riflessione partiva dalla coscienza, dalla decisione di non farsi vincere dalla vita; il tema è sempre la vita e i suoi problemi.

L'obbiettivo e il metodo sono:
Non imporre, ma far pensare, far scoprire un cammino.
Nuova caratteristica è il realismo.
L'ambiente in cui si discute è il circolo di amici.

Sul palco, 5 persone: Giobbe, i tre amici e più tardi Eliù, il quarto amico giovane.

Una riunione di sapienti, una di quelle riunioni che si facevano sempre e dappertutto, per discutere i problemi della vita.

È difficile capire il libro di Giobbe, perché il linguaggio letterario è complicato e insolito alle nostre orecchie; ma il problema messo in discussione è così vicino a noi e così vissuto oggi che, nonostante la difficoltà di comunicazione causata dal linguaggio, la vita è più forte e rende possibile la vera comunicazione.





SEGUE..





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riassunto dell' Antico Testamento:
i Salmi «verso la certezza, camminando nella storia»




I Salmi sono un riassunto dell'Antico Testamento, non perché contengano di tutto un po', ma perché esprimono in mille modi l'atteggiamento proprio dell'uomo che si dispone a vivere la vita come risposta all'appello di Dio:
camminare verso la certezza, immersi nella storia.



1. Difficoltà dei Salmi come preghiera

I Salmi parlano di Dio come di Qualcuno sempre pronto a manifestarsi, in diretta comunicazione con gli uomini;
che interviene nei momenti critici della vita, vince le guerre, cura le malattie, guida il popolo e arriva perfino a modificare il normale corso degli eventi, pur di realizzare il suo impegno con gli uomini.

Oggigiorno Dio non si vede.

La sua azione sfugge a qualsiasi osservazione empirica.

Per gli uomini di oggi, soprattutto per quelli che vivono nelle grandi città, Dio non è più un elemento naturale della vita, anzi, per molti di loro è diventato un argomento inutile.

L'ateismo è un atteggiamento pratico, fuori di discussione, per un numero di uomini sempre più grande.

Due modi completamente differenti.

Sembra impossibile pregare con i Salmi e, allo stesso tempo, prendere sul serio la vita e la realtà di oggi.

Già di per sé, pregare è difficile.

Non è facile raccogliersi davanti ad uno che non si vede.

Il contatto con gli altri, è sempre difficile.
È molto duro arrivare ad una vera apertura; mettere a tacere tutto il resto, e tenere gli occhi fissi in colui col quale stiamo parlando.

In genere i nostri contatti sono superficiali.
Sono conversazioni, non sono dialogo.

Tanto più sarà difficile mettersi in contatto con l'Altro, che è invisibile.

I Salmi ci si presentano come antiche preghiere formulate con termini di una cultura totalmente differenti;
il linguaggio ci suona strano.

Frasi incomprensibili, simbolismi e immagini che, a] giorno d'oggi, non dicono più niente.

Ignoriamo il contesto a cui si riferiscono.

Trattano di situazioni che non abbiamo vissuto.

Per questo è difficile arrivare a riconoscersi nei Salmi, con tutti i nostri problemi e la nostra realtà di vita.

Alcuni Salmi, poi, sono imperfetti, perché insultano e maledicono. Esprimono il desiderio di vendetta, di odio, di violenza.
Come pregare, oggi, con preghiere così imperfette?





2. I Salmi e il movimento secolare della preghiera degli uomini

I Salmi non sono la più perfetta espressione della preghiera.

Ci sono Salmi belli e Salmi imperfetti.
Salmi meravigliosi dal punto di vista letterario, e Salmi che sono soltanto un plagio.

Non dobbiamo neppure considerare i Salmi come un blocco monolitico, caduto dal cielo, già pronto.

Il libro dei Salmi non è nato da un giorno all'altro.

Per scrivere il libro dei Salmi, ci volle più tempo che per qualsiasi altro.

Cominciò ad essere composto verso il 1000 a.C. (al tempo di David) e sembra che fosse finito verso il 300.

Anche dopo che il libro fu scritto, la fonte dei Salmi non si inaridì.

Per esempio:
1/ Nella traduzione greca dell'Antico Testamento (detta dei Settanta), troviamo 14 Salmi o ‘odi’, che non si incontrano nell'originale ebraico.

2/ Negli scritti del Mar Morto (scoperti tra i] 1947 e il 1956), che vanno dall'anno 100 a.c. fino verso l'anno 60 d.C., troviamo un gran numero di Salmi, che non sono contenuti nel libro dei Salmi.

3/ In molti altri libri della Bibbia, sia in quelli storici come nei sapienziali e profetici, troviamo Salmi e orazioni che non sono registrati nel libro dei Salmi.

Perciò il libro dei Salmi raccoglie e trasmette solo alcune delle preghiere usate a quel tempo.

È un contributo limitato al movimento secolare della preghiera, un esempio soltanto di come si pregava e si cantava allora.

Non si pretende dare ai Salmi il monopolio della preghiera.
Non escludono altre preghiere, anzi, le suscitano e le incamminano.

L'importante non sta nei Salmi in sé e per sé, ma nel movimento di preghiera da cui sgorgano e verso cui ci vogliono riportare.

I Salmi riflettono la storia millenaria della lenta ascesa dell'uomo verso Dio e della nostra progressiva liberazione, quando ci incontriamo con Dio.

Nei Salmi troviamo tutto quanto si dice a rispetto di questa ascesa, sia le cose buone come le cattive.

Le imperfezioni (vendetta, odio, autosufficienza) spariscono mentre l'uomo cammina.
Sono più evidenti nei Salmi più antichi.

Perché i Salmi testimoniano lo sforzo dell'uomo per essere fedele a Dio e a se stesso.
Sono preghiera di gente che, come noi, cammina verso la meta che Dio ci propone.

Le imperfezioni ci dicono che Dio accetta la preghiera, così come l'uomo è capace di farla.

Altrimenti non gliel'avrebbe ispirata.
L'importante è che sia sincero.





3. Origine dei Salmi e lenta formazione del libro dei Salmi

Il libro dei Salmi è un insieme artificiale di 150 Salmi, raccolti in un unico manuale, a fini liturgici.

Il titolo ebraico è «Sefer Tehillim» che vuoI dire «libro degli inni» mentre, se teniamo conto del sottotitolo di alcuni Salmi, solo uno ha le caratteristiche del «Tehila», 'Inno' (Sal. 144).

Il titolo più comune è «Libro dei Salmi». 'Salmo', in ebraico Mismor, significa una determinata maniera di cantare.

Noi, oggi, abbiamo:
la samba, il valzer, la marcia ecc., così a quel tempo, avevano gli 'Inni' (Tehillin) i 'Salmi' (Mismor), i 'Cantici' (Shirim) ecc.

Si suole fare una certa confusione, quando un titolo dice:
'Inni' e un altro 'Salmi'.

In realtà, il libro contiene Inni, Salmi, Cantici, Lamentazioni e molte altre forme di canto e di preghiera.

Il fatto è che non si sa bene come classificare il contenuto del libro. Perché l'origine degli elementi che lo compongono, è varia.

È sempre difficile unificare la vita sotto un unico denominatore o un unico titolo.

I Salmi sono 150.
Anche il numero è artificiale.

Si pensò ad un numero tondo, come si usa fare quando si mette insieme un «libro di Canti» liturgici per il popolo.

Era, più o meno, uno dei tanti manualetti di «canti e inni liturgici» come quelli che si usano anche oggi, di origine varia, raccolti qua e là, tradotti, adattati, completati perché possano servire alla celebrazione della liturgia popolare.

Prima che uscisse il libro dei Salmi, esistevano varie collezioni di canti e di preghiere, come esistono, anche oggi, raccolte di canti per la Messa, per le processioni, per la benedizione del Santissimo Sacramento.

Esisteva una raccolta di canti e Salmi per i 'pellegrinaggi' (Sal. 119-133) detti: Salmi 'graduali'.

Un'altra per i canti della cena pasquale, detta «gruppo Hallel» (Sal. 104-106.110-117.134-135.145-150), di autori vari, come oggi abbiamo i dischi di Roberto Carlos, di Gianni Morandi, di Fabrizio de André, di Geraldo Vandré ecc.

La fine del Salmo 71 dice così:
«qui finiscono i Salmi di David» ma, non tutti i Salmi sono di David, neppure il Salmo 71.

Alcuni Salmi sono attribuiti a Salomone, a Mosè, ai figli di Corè ecc.

Alla fine, si tentò di riunire tutto quello che si trovava sul mercato del canto in un'unica raccolta.

Si mise insieme ogni cosa, da qualsiasi parte venisse.

Per questo, si verificarono ripetizioni:
il Sal. 13 è uguale al Sal. 52, il Sal. 39, 14-18 è uguale al Sal. 79.

Alcuni Salmi si trovano ripetuti in due raccolte differenti, soltanto con variazioni insignificanti.

Misero insieme tutto, e ne derivò una certa confusione.

Per esempio, il testo ebraico, alla fine del Sal. 71, dice così:
«qui finiscono i Salmi di David», ma ci sono Salmi non Davidici prima del Sal. 71 e Sal. di David dopo il Sal. 71.

L'autore della redazione finale mise tutto insieme e compilò 5 raccolte, che terminano tutte allo stesso modo:
«Benedetto sia il Signore Dio di Israele, per i secoli dei secoli» e il popolo doveva rispondere:
«Amen, amen,> (v. la fine dei Sal. 40, 71, 88, 85).

Il Sal. 150, l'ultimo di tutti, è un'elaborazione diluita di questa acclamazione.

La genesi del salterio rivela, pertanto, il suo carattere popolare.

Sono canti sgorgati dalla vita, che riflettono la vita.

Il popolo riconosceva in quei canti il riflesso della sua stessa vita.

Per questo, fu il libro più divulgato e più noto.



SEGUE..




[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. X (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

riassunto dell' Antico Testamento:
i Salmi «verso la certezza, camminando nella storia»







4. La maniera popolare di pregare e di cantare Salmi


Un altro mezzo importante per conoscere il luogo esatto che i Salmi occupavano nella vita del popolo, lo troviamo nella maniera con cui erano usati e cantati, per pregare.

Molto simile a come noi facciamo, oggi.

Diversi Salmi hanno un breve titolo e una breve spiegazione, circa l'origine e le modalità del canto:

1/ Molti salmi venivano accompagnati da strumenti.
Il Sal. 150 descrive alcuni strumenti e ci dice che si usavano strumenti popolari.
Sarebbe come dire, oggi: il violino, la chitarra, il mandolino, la fisarmonica ecc.

2/ Il popolo vi partecipava in modo primitivo e semplice, con acclamazioni: «Amen, Amen» e «Allelu-Ja» «Amen» (cf. Sal. 105, 48), come dire:
«Bene» «Viva». «Allelu-Ja» è «Hallelu-Ja» cioè «Gloria a Jahvé».

3/ C'era un Salmo simile a una litania.
Invece di dire come oggi:
«Prega per noi», il popolo diceva:
«Ci ad elam besdò» cioè:
«Perché il suo amore è eterno» (Sal. 145).

4/ Spesso ,il popolo partecipava, ritmando le parole di risposta e ripetendo il nome di Dio, cadenzato col battito delle mani:
«Jabù-Jabù-Jabù» (cf. I Cron. 29, 20).

Quanto alla melodia, si faceva come si fa oggi:
«questo canto deve essere adattato alla musica di «Ruota Viva» di Chico Buarque di Olanda.

Per esempio, il Sal. 21 doveva essere cantato con la melodia di un canto molto noto, sotto il titolo:
«il cervo all'aurora».

C'era un canto chiamato «non distruggere», la cui melodia doveva essere usata nel tempio per recitare i Sal. 56, 57, 58 (cf. anche i titoli dei Sal. 17,44,45, 52, 55, 59, 68, 74, 79, 80, 83).

Se oggi si adattano le parole alle melodie di Ruota viva) La banda) C'era un ragazzo} Un fiume amaro ecc., la cosa non è poi tanto nuova, anzi è molto antica.

I sotto titoli, ancora oggi, sono avvisi per il coro.

Toccava al «Maestro del coro» intonare alcuni Salmi. (cf. Sal. 13, 20, 30, ecc.).
Il Sal. 87 doveva essere cantato in tono triste.
Il Sal.6 doveva essere cantato <
Tutte queste indicazioni, fornite dal libro dei Salmi, dicono la sua origine popolare.






5. Davide autore dei Salmi?

Secondo il testo ebraico, dei 150 Salmi, 73 sono di Davide, 12 di Asaf, 11 dei Figli di Corè, uno di Heman, uno di Etnan, uno di Mosè, alcuni di Salomone e 35 anonimi.

La traduzione greca attribuisce a Davide 85 Salmi.

Il continuo riferimento dei Salmi a Davide e l'attribuzione a lui del salterio in blocco, hanno un significato teologico più che storico.

È evidente che Davide compose molti Salmi, ma non tutti sono suoi.

Come Mosè è messo all'origine della legislazione e Salomone all'origine della Sapienza, così Davide sta all'origine del movimento di preghiera.

Era una personalità forte e, con la forza della sua pietà sincera, promosse e intensificò la preghiera.

Poter attribuire il Salmo a Davide e metterlo in rapporto con lui, significava dire che il Salmo occupava un posto ufficiale nella liturgia. Cioè, che il Salmo aveva valore per la vita.







6. Lo studio attuale dei Salmi e la loro interpretazione


Nella storia della Chiesa sempre si pregò con i Salmi; sempre ci fu chi cercò di spiegarli e interpretarli per uso del popolo.

Uno dei più celebri commenti è quello di S. Agostino.

Una sola era la sua preoccupazione:
interpretarli in modo tale che il popolo (sec. IV) riuscisse a scoprire nei Salmi l'eco della sua vita e della sua fede.

Partiva, quindi dalle esigenze concrete della vita dei fedeli e cercava di darvi una risposta.

Al sorgere dell'era moderna, si verificò una separazione tra la vita e la fede.
I Salmi trovarono posto a fianco della vita, col fine di sostenere una fede, molto spesso irreale.

Perciò, l'esegesi entrò per cammini nuovi, cercando di venire incontro alla nuova problematica, allo scopo di reintegrare la fede con la vita.

L'esegeta tedesco Herman Gunkel applicò ai Salmi il metodo «dei generi letterari», per arrivare a scoprire quale sia il posto dei Salmi nella vita del popolo.

Prima di lui i Salmi si presentavano in blocco, come il corso di un fiume di grande portata, senza differenziazioni.

Gli studi di Gunkel ci permisero di risalire la corrente e raggiungere i veri affluenti, che si uniscono per formare il fiume.

In altre parole, il blocco monolitico di 150 Salmi si distingue in vari tipi di preghiere (generi letterari):
inni, lamentazioni, suppliche, storia meditata ecc.

Ogni tipo suppone un determinato ambiente, come lo studio della samba rivela tutto un modo di vivere e di sentire.

Lo studio permise di fare un passo enorme, perché, da allora, i Salmi cominciarono a riflettere aspetti concreti della vita del popolo.
Ma gli affluenti non sono la sorgente.

Per quanto sia importante lo studio di Gunkel, non possiamo fermarci lì.

E’ curioso il fatto che, quando gli esegeti cercarono con i loro commenti di catalogare i diversi' tipi dei Salmi, non si trovarono mai d'accordo.

Perché?

Secondo noi, il perché sta nel fatto che la vita è anteriore a tutte le forme e a tutti i tipi di orazione e non si lascia determinare da loro.

Non si può classificare la vita.
Bisogna andare oltre tutte le forme letterarie e risalire gli affluenti, fino alla sorgente da cui hanno origine.

Questa fonte è più vicina a noi di quanto possiamo pensare e sospettare, perché è la nostra vita umana, illuminata dall'appello di Dio che ci chiama.

Scavando nei Salmi, scopriamo la vita, quella stessa che noi tutti viviamo, e nei Salmi ritroviamo noi stessi.

Solo così i Salmi potranno essere espressione autentica di quello che ci vive nell'animo.

I Salmi, così intesi, ci mettono davanti alla vita nuda e cruda, come scaturisce dentro di noi, ci portano a interrogarci sulla vita, a farci sentire le sue gioie e le sue pene, le sue speranze e le sue angoscie e, perciò, a sentirci inquieti, coscientemente e deliberatamente, di quella inquietudine che faceva esclamare a S. Agostino:
«ci hai fatto per te, e il nostro cuore è inquieto, fino a che non riposa in Te».

In questo modo i Salmi raggiungono il fine per cui sono stati ispirati, ci fanno scoprire chi siamo e quale sia la nostra responsabilità.

Ci scomodano, ci infondono speranza e ci fanno camminare sempre verso la meta che Dio ci propone.

Sono lo specchio fedele della vita, che riflettono criticamente la nostra vera identità.




SEGUE..






[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. X (terza parte) [SM=g6198] [SM=g6198]



riassunto dell' Antico Testamento:
i Salmi «verso la certezza, camminando nella storia»





7. La più grande difficoltà e la più importante esigenza per la interpretazione dei Salmi


La principale difficoltà nella recita dei Salmi, origine di tutte le altre già dette, è la seguente:
i Salmi, per le ragioni che abbiamo visto, restano fuori del nostro campo di interesse.

Sembra che non abbiano niente da dirci sulla nostra vita:
problemi differenti, linguaggio differente, cultura differente, situazione differente, storia differente.

Senza contatto di affinità sul piano della vita, ogni discussione, ogni spiegazione dei Salmi cade nel vuoto e non rappresenta per noi un valore autentico né richiama il nostro vero interesse.

Non accendono in noi una luce.

Ci lasciano al buio a rispetto di noi stessi, dal momento che non parlano di noi e, di conseguenza, ci lasciano all'oscuro anche su Dio, che parla per mezzo di loro.

Ma la difficoltà nasce da un equivoco.

Anzitutto ci è mancato un sufficiente approfondimento della nostra vita e perciò non riusciamo a coglierne la vibrazione presente nei Salmi.

Inoltre, non abbiamo approfondito abbastanza la conoscenza dei Salmi, per cui non vi scopriamo la nostra vita umana, unica fonte da cui scaturiscono tutte quelle preghiere.

Se scavassimo in profondità, sia nei Salmi come nella nostra vita, ci renderemmo conto che si tratta di vasi comunicanti la cui base è comune: l'uomo che cerca il senso della vita, l'uomo che si confronta con il problema dell'Assoluto, riflesso nei mille problemi del suo quotidiano.

Non riuscirà a raggiungere la radice dei Salmi, non riuscirà a pregare con i Salmi chi, allo stesso tempo, non prende coscienza che anche lui, dentro di sé, incontra la stessa radice.

Benché ci siano estranei, i Salmi sono nati dalle mille situazioni esistenziali, che oggi potrebbero essere la nostra:

allegria, gratitudine, tristezza, angoscia, disperazione, frustrazione, abbandono, sconfitta, vittoria, dubbio, crisi, pace, guerra, incomprensione, fedeltà, amicizia, tradimento, malattia, vecchiaia, persecuzione, ingiustizia, oppressione, esperienza di apparente contraddizione e assurdo della vita.

Chi non è passato attraverso situazioni del genere, non potrà davvero capire i Salmi e, difficilmente, arriverà a fame la sua preghiera.

Per cui, l'esigenza principale per una buona interpretazione dei Salmi è l'esperienza della propria vita, in tutta la sua ampiezza e profondità, con tutti i problemi e sentimenti che ne derivano.

È il ponte che ci unisce, nel tempo e nello spazio, all'autore dei Salmi.

Solo allora, i Salmi diventeranno per noi espressione autentica della nostra vita.
Riacquisteranno oggi, per noi, tutta la forza di una espressione umana che si rivolge a Dio.

Diventeranno capaci anche di ispirarci nuove preghiere, vigorose e sincere, per sostenerci nell'ascensione progressiva che riporta l’uomo a Dio, in una incessante ricerca di Pace:
«Pace, è tutto quanto desidero!» (Sal. 119).







8. I Salmi: espressione della ricerca di Dio nella vita


Oggi sembra proprio che per molti non ci sia più posto per Dio.

Non sanno che farsene di Lui, nella vita.

Credono che esiste.
Niente altro.
Non sanno bene a che serve.

Il problema non è tanto che Dio esista o no, ma:
«Che senso ha Dio nella vita?»

Leggendo la Bibbia ci imbattiamo nello stesso problema.

Si crede all'esistenza di Dio, ma si vuol sapere dove incontrarlo e si mette in dubbio la sua presenza salvifica:
«Signore, possibile che tu non ti ricordi mai più di me?

Quando sentirò di nuovo su di me la dolcezza del tuo sguardo?» (Sal. 12. 2).

«Oggi tu ci rigetti e ci svergogni!...

Sì, hai venduto a poco prezzo il tuo popolo, senza neppure interessarti del guadagno» (Sal. 43, lO.13).

Lo stato di abbandono in cui a volte eravamo ridotti era una prova dell'assenza di Dio e un motivo di orribili crisi di fede:
«Oltre ad essere schiacciato dal peso della tristezza, devo anche sentire gli insulti di chi mi provoca tutto il giorno, dicendomi:
'Dov'è il tuo Dio?'» (Sal. 41, 11).

Le mamme, al giorno d'oggi si lamentano:
«Non so più cosa dire ai miei figli a riguardo di Dio».

«Dov'è dunque il vostro Dio?» (Sal. 41; 4.11; 78.10; 113, lO).

La domanda ritorna sempre e non ha risposta, come non l'aveva per gli ebrei.

Avere un Dio e non poterlo chiamare per testimone è senza dubbio scomodo e spinge alla ribellione.

Che razza di Dio è mai questo?
Era il loro problema, ed è anche il nostro.

La Bibbia non è altro che una risposta viva alla problematica che, in ultima analisi, è la stessa dell'uomo moderno.

Oggi, molti prescindono dal problema teorico, ma si pongono il problema pratico:
Che senso ha Dio nella mia vita?

Visto che il concetto di Dio, come l'hanno ereditato dal passato, non offre più, secondo loro, nessuna risposta sostanziale per l'esistenza,
oggi Dio viene messo da parte, come qualcosa che non interessa, come 'oppio', come contrario al progresso, come causa di alienazione, come una cosa che non ha più senso di esistere:
Dio è morto (per loro).

Viva l'uomo.

Il problema è vecchio, anche se è sempre nuovo:
«Che c'entra Dio con tutto questo, ammesso che sappia quello che ci succede?» (Sal. 72, 11).

Molta gente ha tirato la conclusione:
«Dio non esiste» (Sal. 13, 1) perciò «Spezziamo le catene con cui ci lega, e liberiamoci dal peso del suo dominio» (Sal. 2, 3).

Chi può vincerci?

Siamo superiori con le nostre parole inganniamo tutti (Sal. 11, 5). «Ognuno viva per sé e si arrangi come meglio può».

Di fatto tolto di mezzo Dio la vita sembra più facile.

L'uomo si sbarazza di una inutile angustia ed è più libero di progredire e di crescere:
«Ecco come vive la gente senza Dio:
tranquilla e felice aumentando sempre più il capitale» (Sal. 72, 12) mentre, chi porta il peso del problema di Dio sembra infelice.

Bisogna avere molta fede per resistere alla tentazione di lasciare tutto:
«alla fine, che mi vale vivere onestamente?

A che mi serve conservar pulite le mani?

Solo a ricevere insulti, dalla mattina alla sera, e ad essere sempre condannato?

Molte volte, sono arrivato al punto di dire:
la faccio finita, seguirò l'esempio dei senza Dio» (Sal. 72, 13-15).

Ma sempre qualcosa diceva all'uomo che una simile decisione non avrebbe risolto niente.

Sarebbe stata solo una fuga:
«Dire così, sarebbe farla finita con te, Signore, e rinnegare la fede dei miei fratelli» (Sal. 72, 15).

Allora egli sceglie di portare il peso della contraddizione di Dio.
Non accetta di condurre una vita più facile e più conforme ai criteri della maggioranza.

Perché, allora?

Il fatto è che questo strano Dio è coinvolto nella vita umana.

Senza di Lui la vita non ha senso:
«Lontano da Te, è impossibile la vita!

Esserti infedele è incominciare a morire.

La felicità io la trovo soltanto se cammino verso il Signore.
La sicurezza della mia vita è Dio, per sempre!» (Sal. 72, 27 -28).
È il problema della sicurezza che tutti cerchiamo, durante tutta la vita.

L'autore del salmo sembra avere incontrato una sicurezza così grande che è capace di vivere tranquillo e sereno in mezzo all'insicurezza ed alle incertezze della vita.

«Possono assalire il mio corpo e farmi anche a pezzi il cuore.

La mia vita ha un altro fondamento.

Il futuro che mi aspetta è Dio eterno» (Sal. 72, 26).

Dio, fondamento e futuro della vita, è capace di darci una indipendenza, una fermezza, una libertà e una sicurezza tali, come di rado si incontrano, ma che, in fondo, sono il desiderio concreto e il supremo ideale di tutti.

Un Dio di questo genere ha davvero qualcosa di comune con la vita dell'uomo.

L'umanità, il realismo e la testimonianza della vita, che traspaiono dai Salmi, confermano che questo Dio non è frutto di autosuggestione, ma è una realtà gratuita, per il bene dell'uomo, Credere in questo Dio porta l'uomo a essere più uomo.

Nel suo cuore sbocciano grandi virtù, quando l'uomo si incontra con questo Dio:

1/ coraggio di vivere: «La mia vita ha il suo
fondamento nel Signore.
Chi potrà scuotermi?

Anche se venisse un esercito contro di me, non avrò paura.
Anche se mi sfideranno a battaglia, non cesserò di sperare» (Sal. 26, 1-3).
Così dice l'uomo maturo, che sa quello che vuole.
Ha trovato la sua sicurezza in Dio.



2/ Tranquillità da fare invidia:
(La gioia che ha invaso il mio cuore è più grande della loro, in mezzo a tante ricchezze.

Tranquillamente vado a dormire e subito mi addormento, perché la pace del mio cuore viene da Te solo, Signore!» (Sal. 4, 8-9).



3/ Nitida percezione delle esigenze della giustizia.
«Chi può avvicinarsi davvero a questo Dio?

Che si esige per vivere alla sua santa presenza?
Le mani pure e il cuore innocente, non attaccarsi alle apparenze, non giurare il falso.

Chi vive in questo modo, avrà la benedizione del Signore».

«Signore, chi potrà ospitarsi nella tua casa?

Chi cammina nell'integrità, realizza la giustizia, dice la verità, non calunnia, non nuoce al suo prossimo, non offende il vicino, disprezza quello che Dio disprezza e stima quelli che amano Dio, giura e non si ritratta, anche se gliene viene danno, non impresta denaro ad usura, non si fa corrompere a danno dell'innocente» (Sal. 14).



4/ Coraggio per denunciare le ingiustizie dei potenti:
«Capi del popolo!
È proprio giusto quello che fate?

State davvero governando gli uomini con rettitudine?
Mi pare proprio di no...

Con malizia preparate i vostri piani, e fate pesare sulla terra la violenza delle vostre mani» (Sal. 57, 2-3).



5/ Chiara percezione della giustizia di Dio, che ispira fiducia sulla sorte di coloro che soffrono ingiustizia:
(Stiano tranquilli i giusti, la giustizia sarà vendicata, i colpevoli pagheranno le opere loro.

E tutti diranno:
Sì, la giustizia non rimarrà senza ricompensa, perché c'è un Dio che giudica gli uomini». (Sal. 57, 11-12).



6/ Rigetto di una religione fatta solo di riti e di norme, senza contenuto:
«A che ti serve ripetere come un pappagallo tutti i miei comandamenti e parlare di religione il giorno intero?

Tu che non hai preso la responsabilità del tuo impegno di vita e hai messo da parte i miei appelli?» (Sal. 49, 16-17).

Conoscere questo Dio e convivere con Lui è il dono più prezioso che un uomo possa ricevere:
«La tua amicizia mi è più cara della mia stessa vita» (Sal. 62, 4), giacché a causa del contatto con questo Dio, l'uomo ha incominciato a svegliarsi ai veri valori della vita.

È risorto alla gioia di una nuova speranza, ed ha attinto alla fonte nascosta da cui sgorga incessantemente la vera preghiera, con inni, cantici, ringraziamenti, lodi, suppliche.

Si capisce allora il grido:
«Che cosa può bastarmi, sia in cielo che in terra, se sto lontano da Te, Signore?» (Sal. 72, 25).

Il pernio della sua vita è il costante camminare verso questo Dio:
«La felicità, io la trovo camminando sempre verso il Signore» Tutto quanto un uomo fa, in questo senso, risponde ad un appello, che nasce dal più profondo dell'essere:
«Dentro di me una voce mi diceva:
continua a cercare la presenza di Dio.

Per questo vado in cerca di te, Signore, non ti nascondere alla mia ricerca» (Sal. 26, 8-9). Seguire questa voce porta l'uomo là, dove neppure lui può pensare, né prevedere.

Dio è sempre una sorpresa e un imprevisto.

L'immediata conseguenza della sua venuta, è sempre la tenebra.

Cresce e progredisce solo chi ha il coraggio di accettare nella sua vita questo Dio, senza venir meno, nella ferma fiducia che Lui è più forte di qualunque crisi, è capace di sostenerlo e di fargli vincere le difficoltà:
«Grande è la mia fiducia nel Signore; da lui aspetto una parola amica» (Sal.129).

«Ah! Se non avessi la certezza assoluta di arrivare a gustare, un giorno, la bontà del Signore nella terra dei viventi...» (Sal. 26, 13).

Quando tutto crolla, resta solo il sostegno di Dio, che sta con noi, adesso invisibile, ma davvero presente:
«Sei il mio sostegno, Signore, l'unica parte che mi resta nella vita» (Sal.141, 6).

Con questa certezza, l'uomo cammina, dando tempo al tempo, sperando di sentire di nuovo, un giorno, la voce del suo Dio.

Mentre dura la crisi, il suo atteggiamento è quello espresso nel Sal. 62: «Mi aggrappo a te, Signore, e tu mi tieni saldo con le tue mani» (Sal. 62, 9).

L'uomo sa e conosce la legge della vita:
«chi cammina, piange mentre semina la sua semente.

Quando ritorna, tornerà cantando, col carico del suo frumento» (Sal. 125, 6).

Chi non cammina non si accorge di nulla.

Camminando verso la certezza, immersi nella storia, ci si accorge, alla luce di Dio, che tutte le cose sono relative, tutte le forme di vita, le incertezze, i limiti e le insicurezze.

Con questo, l'uomo è capace di lasciare ogni falso sostegno, ogni certezza fallace, e si sveglia ai veri valori, e cerca il suo appoggio e la sua sicurezza nel fondamento e nel futuro della sua vita, che è Dio.

Chi ha provato questo fondamento e questo futuro, ha trovato la vera pace, la pace di Dio, e può dire:
«dentro di me si è fatta una grande pace.

La pace e la serenità sono venute per rimanere.

Come il bambino dopo la poppata:
dorme tranquillo, tra le braccia della mamma» (Sal: 130).
Questo ci dicono' i Salmi, su Dio e su noi stessi.

Toccano il fondo della problematica umana.

Se ben tradotti, possono davvero essere usati come espressione concreta della nostra speranza.

Ci possono perfino aiutare a svegliarci a certi aspetti della vita, ai quali ancora non diamo sufficiente attenzione:



9. Il materiale per l'orazione

Dove trovare il materiale per pregare?

Una sola parola dice tutto:
la vita, la vita che viviamo.

Per gli autori dei Salmi le cose della vita servono da svegliarini.

Vedendo e vivendo la vita, si ricordano di un'altra cosa.

Si ricordano di Qualcuno, che è più grande di tutti:
Dio.

Per loro, la vita, con tutte le cose belle e tristi, la natura, con tutte le sue meraviglie e le sue minacce, la storia e la vita, con tutte le loro peripezie, insomma tutto quello che ti fa ridere e piangere, tutto è diventato trasparente come cristallo, capace di svelarti e ricordarti Dio, tuo amico, che ti chiama, ti interroga, ti incoraggia e ti critica.

Quasi senza saperlo, le cose della vita diventano per loro il materiale e l'argomento di una conversazione, bisbigliata all'orecchio di Dio, l'amico.

Così sono nati i Salmi.

Sono sbocciati dalla vita con Dio.

Se non legassimo tutte le cose alla vita, il discorso sui Salmi sarebbe inutile.

Sarebbe come installare una bellissima televisione, senza legarla alla presa di corrente.

Non serve a niente, sarà un mobile per abbellire la casa;
ma la televisione non è nata per questo.

I Salmi sono serviti per documentare come pregavano un tempo, ma non furono ispirati per essere catalogati nell'archivio.

Furono ispirati, per pregare e per suscitare la preghiera



SEGUE..


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