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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. V (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

I Profeti: Dov’è quel dio in cui crediamo?


1. Domande e notizie preliminari sui Profeti


Come fa un profeta a sapere che Dio gli ordina di dire questo o quello? Come nasce la vocazione di un profeta?
Come distinguere il profeta vero dal falso, se tutti e due affermano di parlare in nome di Dio?

Qual è la missione di un profeta?
Come fa a realizzarla?
Che cosa ci insegna su Dio?
Al giorno d'oggi ci sono ancora i profeti?
Sono queste le domande che affiorano dalla lettura dei libri dei profeti.

I libri dell'Antico Testamento attribuiti ai profeti sono 16, di cui quattro sono detti «maggiori» (Isaia, Geremia - insieme alle lamentazioni e a Baruc - Ezechiele e Daniele) e gli altri 12 sono detti «minori» (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia).

La distinzione fra «maggiori» e «minori» è dovuta al numero dei libri che hanno scritto o che sono loro attribuiti.
Nella Bibbia si parla anche di altri profeti dei quali non abbiamo nessuno scritto, per esempio Elia ed Eliseo.

Molti profeti sono per noi soltanto nomi senza significato.
Non è più possibile sapere chi furono come vissero e perché lottarono. Tuttavia lo studio critico dei loro scritti e della storia, dentro e fuori della Bibbia, permette oggi di costruire la trama complicata delle situazioni umane in cui alcuni di loro furono costretti a vivere ed a portare avanti la loro missione.

«Profeta» e «profezia» sono parole che indicano la previsione del futuro. In realtà però profeta vuol dire «uno che parla in nome di».
Sono uomini che parlano in nome di Dio e che sanno di farlo. .



2. Come nasce la vocazione di un profeta?

È sempre difficile entrare nell'intimità di un altro e alzare il velo del mistero della vita che si svolge fra lui e Dio.

La vocazione di profeta rientra nella sfera del mistero impenetrabile della vita. Riflettendo però sulle piste che essi stessi ci hanno lasciato nelle loro profezie possiamo arrivare a farci un'idea di come nasce la vocazione di un profeta.

Consideriamo due esempi.

Il profeta Amos era un uomo semplice, un uomo del popolo, contadino e pastore (Am. 7, 14). Viveva in un'epoca di progresso economico promosso dal re Geroboamo (783-743) ma che di fatto era il risultato dell'egoismo collettivo di un gruppo.

Ne derivava un'ingiusta divisione di classi che opprimeva gran parte del popolo (Am. 5, 7; 2, 6-7; 3, l0). Quel popolo che Dio aveva liberato era ridiventato schiavo e questa volta dei suoi propri fratelli.
Amos viveva profondamente integrato nella vita del popolo e per questo la sua fede e il suo buon senso gli dicevano che un simile stato di cose era contrario alla volontà di Dio.

Era un paradosso e per lui diventò un problema assillante che non gli permetteva di pensare ad altro.

Tutto gli parlava dell'ingiustizia installatasi nella sua terra e gli faceva prevedere imminente il castigo di Dio:
un muratore che lisciava l'intonaco gli ricorda che Dio livellerà il suo popolo; un cesto di frutta matura gli fa pensare che è maturo il tempo del castigo; il fuoco nella steppa gli dice che Dio incenerisce l'ingiustizia. (cf.Am. 7, 7-9; 8, 1-3; 7, 4-6).

I fatti cominciano a parlare.
Tutto diventa un appello.
In Amos a poco a poco cresce una coscienza.

Finché si decide: Dio vuole che io parli!
«Il leone rugge: chi non ha paura?
Dio ordina: chi non parlerà in suo nome?» (Am. 3, 8).
Lascia tutto e si dirige diritto verso il suo fine (Am. 7, 10-17).

Del profeta Osea sta scritto:
«la missione profetica di Osea, ebbe inizio quando il Signore gli disse: va e sposa una prostituta...» (Os. 1, 2).

L'interpretazione più probabile è questa; Osea si sposò, e benché da parte sua fosse felice, la moglie lo lasciò e si dette alla prostituzione.

Osea continuò ad amarla. L'amore fedele e disinteressato di Osea fece capire alla donna il bene che aveva perduto e tornò ad essere sua sposa. Cosi Osea scopri che aveva in mano la forza dell'amore che trasforma.

Poiché viveva integrato nella vita del popolo scopri nella sua esperienza dolorosa, ma ricca, un significato più vasto.
Il popolo abbandonava Dio, considerato «lo sposo del popolo», e si prostituiva ad altri dèi.

Qui si innesta l'esperienza personale di Osea, che illumina la condotta di Dio: Dio continua ad amare il popolo con amore fedele e disinteressato, capace di rigenerarlo e farlo ritornare ad essere il «popolo di Dio», la «sposa fedele di Jahvé».

La coscienza della sua missione si illumina:
annunciare al popolo l'amore gratuito di Dio per provocare una conversione sincera. Per questo le sue profezie sono cos1 violente, cos1 come la gelosia è la più violenta passione dell'uomo.

Gli esempi mostrano che il profeta era un uomo la cui coscienza personale e individuale costituiva il momento alto della coscienza del popolo di Dio. Uno che ascoltava la chiamata di Dio dentro la sua situazione personale perfettamente integrata in quella del popolo.

La percezione chiara dell'esigenza di Dio lo portava anche a percepire come avrebbe dovuto essere la vita del popolo.
Uomo di Dio e uomo del popolo allo stesso tempo.
Vive l'impegno con Dio e con il popolo e sente che non deve più tacere.

Parla con autorità perché parla in nome di Dio, della coscienza e della tradizione secolare del popolo.
La sua vocazione sboccia dal confronto fra la situazione reale e la situazione ideale. Severi castighi aspettano chi pretende parlare in nome di Dio senza essere inviato da lui (Dt. 18, 20).

Per provare l'autenticità della sua missione il profeta predice il futuro. 'Profezie' imminenti.
Le previsioni si avverano e dimostrano che Dio è con lui (Dt. 18, 21-22; Ger. 28, 9; Ez. 33, 33). Cosi si distingue il falso dal vero profeta.



3. Missione e prassi del Profeta: ciò che dice di Dio

La missione e la prassi del profeta sono sempre condizionate dalla situazione concreta del popolo al quale dirige il suo messaggio.
Per ciò che riguarda Iddio, egli è strumento nella sua mano, è inviato al popolo per spingerlo a camminare verso la meta per la quale si è impegnato con Dio nell'alleanza.

Il profeta è per così dire l'uomo che esige dal popolo l'adempimento dell'impegno liberamente assunto con Dio e con se stesso.
Per comprendere quindi la missione e la prassi del profeta è indispensabile descrivere quella parte della vita del popolo che condizionava ]a sua attività e provocava la sua reazione in nome di Dio.

Con l'Esodo il gruppo che uscì dall'Egitto prese coscienza di essere il «popolo di Dio» impegnandosi a realizzare con Dio il progetto di liberazione.

La coscienza di «popolo di Dio» dinamizza il gruppo e lo spinge a camminare sempre, a non fermarsi mai, aprendo la strada del futuro che la forza e la fedeltà di Dio garantiscono.

La convinzione che è alla base del coraggio, della fede della speranza del dono di sé e dell'amore affonda le sue radici nell'esperienza e nella certezza assoluta:
«Dio è con noi come colui che ci chiama momento per momento.
Siamo impegnati con lui e lui è impegnato con noi».

Questa coscienza o esperienza di amicizia profonda, detta pure Alleanza, suscita comportamenti e gesti:
legge, culto, istituzioni, feste, celebrazioni, costumi, come per esempio i pellegrinaggi al tempio, tradizioni che conservano e tramandano il passato e diventano la memoria che influisce sul presente;

immagini e simboli, come per esempio l'arca dell'alleanza e il vitello d'oro; profetismo, sacerdozio, monarchia, orazioni, sapienza popolare ecc.

Lungo questo scenario scorreva la vita intensa del popolo e la coscienza di essere, il popolo di Dio si tramandava di generazione in generazione insieme all'appello di Dio ad essere fedeli.

Comportamenti e strutture scaturivano dalla grande fede che il popolo aveva in Dio.
Erano mezzi per mantenere viva la fede, la speranza, il dono di sé.

Non erano fini a se stessi, erano solo mezzi per raggiungere il fine da cui ricevevano orientamento e critica.

Il giorno in cui per una ragione qualsiasi l'uno o l'altro comportamento non fosse più espressione dell'approfondimento della vita e per ciò non servisse più a trasmettere il valore che lo aveva generato, quel comportamento passava ad essere corretto, criticato o eliminato.

Il criterio dell'eliminazione o della correzione era sempre il progetto originale di Dio in funzione del quale Egli creò il popolo.
I comportamenti e strutture della vita erano creazione dell'uomo, che attraverso di loro esprimeva la sua fede.

Ma il male dell'uomo fu sempre il suo desiderio giusto e inveterato di sicurezza, sia individuale che nazionale.

Appena trovò, dopo averla tanto cercata, una forma di vita che esprimesse la sua convinzione, vi si aggrappò come ad una conquista che gli dava sicurezza.

Poco a poco si verificò un fenomeno:
questi modi di vivere l'amicizia con Dio, invece di continuare ad essere espressione di una ricerca costante che dinamizzasse e spingesse a camminare sempre verso il futuro, diventavano espressioni di una ricerca di sicurezza umana, perdevano cioè il contatto con la fonte (la coscienza di essere popolo di Dio) e non erano più tramite di vita.

Diminuiva l'esperienza interiore e continuavano inalterabili la struttura e il comportamento esterno, dando l'impressione che niente fosse cambiato.

In realtà però tutta l'impalcatura esterna della fede, le strutture e i comportamenti erano già tutti minati alla base perché mancava la vita reale.

Il comportamento esterno comincia ad essere considerato (da coloro che in esso si rifugiano) come un biglietto d'ingresso che dà diritto all'aiuto di Dio.

Diventa una convenzione sociale, la facciata di una casa che non esiste, solo per illudersi di stare in pace con Dio mentre in realtà la pianta è tagliata alla radice e non ha più vita.

Tali convenzioni sociali, fragili per natura, diventano oggetto di una difesa serrata ed accanita contro chiunque osi attaccarle.

È l'ora dei profeti:
la loro missione e la loro prassi nascono quasi sempre dal corto circuito tra la vita e il comportamento. Denunciano la falsa sicurezza dietro cui si nasconde il popolo per lo più incosciente. Scuotono il popolo e lo spingono a cercare nuove forme di comportamento che possano di nuovo esprimere e stimolare la vita e la fede.

Condannano le forme vuote che contribuivano a mantenere il popolo nella sua apatia. La prima reazione è l'insicurezza del popolo, che si vede privato di ciò che gli dava una certa tranquillità di vita e di coscienza.

Il profeta agisce sempre in nome di Dio.
Mette in evidenza che l'idea di Dio espressa da certe forme di vita e da certi atteggiamenti del popolo non è quella del vero Dio che si rivelò nel deserto ai padri quando li liberò dall'Egitto.

I profeti riescono ad avere una visione così chiara che diventano capaci di denunciare ciò che è sbagliato e difettoso perché sono uomini di Dio. Non tanto insegnano chi sia Dio, quanto lo rivelano nella loro vita, provando che Dio è sempre nuovo e molto più grande di quanto il popolo possa pensare.

Dio non si lascia addomesticare da nessuna cosa, neppure dalla più religiosa.
Vediamolo questo fenomeno ora nella concretezza degli eventi.



4. I profeti criticano l'idea di Dio

Il vitello d'oro:
quando uscirono dall'Egitto costruirono la statua di un torello per dare al popolo l'immagine concreta della forza con cui Dio lo aveva liberato (cf. Es. 32, 4).

L'immagine però nascondeva una insidia molto seria:
identificare Dio con gli altri dèi anch'essi rappresentati in forma di toro;
confondere Dio con la sua immagine;
visualizzare e localizzare eccessivamente la forza divina che non può identificarsi con nessun mezzo e con nessuna immagine.

Più tardi infatti, quando Geroboamo ripristinò l'immagine del toro (I Re 12, 28) per dare carattere religioso alla rivoluzione politica fatta da lui, l'immagine fu causa di apostasia.

Per questo nella Bibbia l'immagine del vitello d'oro è oggetto delle più violente condanne;
non può esprimere la fede in Dio (I Re 12, 31-13, 2).

Luoghi alti:
entrando nella terra promessa, il popolo incominciò ad adorare Dio nei così detti «luoghi alti», all'ombra di alberi frondosi.
Si pensava che là si concentrasse di più la forza di Dio dato che Dio faceva crescere alberi così enormi in luoghi deserti.

Perciò Salomone adorò Iddio nel «luogo alto di Gabaon» (cf. I Re 3, 4) senza causare inconvenienti.

Ma una simile maniera di adorare Dio nascondeva un pericolo:
identificare Dio con gli altri dèi adorati nello stesso modo negli stessi luoghi;

localizzare troppo l'azione di Dio e il luogo dell'incontro con lui.

Perciò, quando il pericolo diventò realtà, insorsero i profeti a condannare una pietà del genere.

La chiamarono «prostituzione sotto gli alberi» (cf. Ger. 3, 1-2.7; Is. 1, 29-31; Os. 2, 6-7).

Invece di esprimere e dinamizzare l'amicizia con Dio, il culto nei luoghi alti portava alla degenerazione della vita. Bisognava criticarlo e condannarlo.

Re e Monarchia:
nella persona del re si personalizzò la grande promessa che diceva: «sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio».
Oggi si direbbe:
«sarò per lui un padre e lui sarà per me un figlio» (II Sam. 7, 14).

Il re, diventava così la concretizzazione visibile dell'amicizia di Dio col popolo e lo strumento diretto della volontà di Dio.

Poco a poco però la presenza del re diventò un pretesto per accomodarsi: «dal momento che in mezzo a noi c'è il re, Dio è obbligato ad aiutarci, perché lui stesso ha promesso di mantenere sempre un re sul trono di David» (I Sam 7, 16).
Per questo sorgono i profeti:
il trono di David sarà una casa distrutta (Am. 9, 1); nessuno più della sua stirpe occuperà il trono (Ger. 22, 30), il re d'Israele sparirà per sempre (Os.10.15). Il fatto di avere un re non mette al sicuro nessuno.

Tempio:
era il luogo d'incontro del popolo con Dio:
«come è bella la tua casa Signore!
Muoio dal desiderio d'incontrarmi con te nel luogo dove abiti» (Sal. 83, 2-3).

Pellegrinaggi, processioni, salmi, canti, preghiere tutto era legato al tempio, alla casa di Dio.

«Se abbiamo il tempio, Dio è con noi, coinvolto nei nostri interessi: prendiamoci cura del tempio».

La preoccupazione del tempio faceva dimenticare l'obbligo più grave di vivere la fede di cui il tempio era solo un'espressione.

Per questo Geremia attacca frontalmente il tempio (Ger. 7, 1-15) e dice: «rubare, ammazzare, fare ogni sorta di male e poi venire al tempio e dire:
'ci sentiamo al sicuro', per poi continuare a fare lo stesso.

Voglio trattare questo tempio come ho trattato il tempio di Silo» (Ger. 7,9-10.14).

Tutti sapevano che il tempio di Silo era stato totalmente distrutto.
Il tempio in sé non dà nessuna certezza e non garantisce la protezione di Dio.

Culto:
Il culto era il centro della vita della nazione:
ricordava il passato e lo faceva rivivere nel presente facendo sì che una generazione dopo l'altra si impegnasse nel progetto di Dio e prendesse coscienza dei suoi diritti e dei suoi doveri.

Ma il culto si materializzò nel rito, e slegato dalla fonte viva che era l'esperienza della presenza di Dio, diventò una cambiale a scadenza fissa per comprare la protezione divina.

Per questo si dava tanta importanza alle cerimonie e nessuna alla vita.

Sono i profeti che si accorgono della falsità di questa facciata;
un culto simile non serve a nulla;
«che mi importano i vostri innumerevoli sacrifici?

Non posso più sopportare i vostri olocausti:
quando venite e stendete le mani per pregare, io volto la faccia dall'altra parte!

Moltiplicate pure le orazioni, tanto io non vi ascolto! Mani piene di sangue!» (Is. 1, 11.15). Il culto non assicura per se stesso la protezione di Dio.

Gerusalemme:
Gerusalemme è la città della Pace cantata in tanti salmi, simbolo della forza e della presenza di Dio che agisce nella vita del popolo (cf. Sal. 121, 136, 147). Era il cuore della nazione, la «Montagna Santa».

Ma quella gloria non serviva a niente dal momento che non portava il popolo alla pratica della giustizia.
Perciò Gerusalemme sarà abbandonata da Dio (Ez. 11.22-25).

Sarà rasa al suolo come una città qualunque (Is. 3, 8-9).
Abitare in Gerusalemme non dà nessuna sicurezza.

Terra:
Abramo si mise in cammino verso la terra promessa,conquistata più tardi da Giosuè.

La conquista della terra era il segno che Dio manteneva le sue promesse.

Perciò, abitando la terra, possiamo essere sicuri che Dio è con noi.
Il popolo trovava lì la sua sicurezza e viveva come se già avesse raggiunto la mèta.

I profeti annientano e smascherano una simile presunzione come la più vana delle illusioni:
tutti saranno portati in esilio, dovranno abbandonare la terra (Ger. 13, 15-19) che sarà interamente distrutta (Ger. 4, 23-28).

Il giorno del Signore:
si viveva di speranza.
Un giorno Dio dovrà ben venire a manifestare la sua giustizia: distruggere i cattivi ed esaltare il suo popolo.
Sarebbe stato un giorno di luce.

Vivevano in questa dolce e illusoria speranza trascurando il più importante.
Amos allora dice:
«guai a quelli che vivono aspettando il giorno di Jahvé!... Sarà per voi giorno di tenebre e non di luce!» (Am. 5, 18-20).

Neppure il futuro può dare la sicurezza tranquilla di possedere Iddio.



SEGUE..


[SM=g1916242] con una stretta di [SM=g1902224]


Pierino







[Modificato da mlp-plp 09/10/2009 13:42]
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