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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. V (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

I Profeti: Dov’è quel dio in cui crediamo?




Popolo eletto:
l'origine del popolo eletto risale a quando Dio lo fece uscire dall'Egitto e strinse con lui un'alleanza.

Era come un titolo nobiliare, fonte di ogni dinamismo e di tutta la forza necessaria per andare avanti.

Ma poco a poco coloro che ne facevano parte se ne valsero per considerarsi privilegiati e confidarono più nel privilegio che nella fedeltà derivante dalla scelta di Dio.

Allora Amos dice:
«così parla il Signore: per me voi siete come il popolo della terra dì Kusc. Vi ho tratto dall'Egitto come feci con i Filistei da Caftor e con gli Aramei/Siri da Kir» (Am. 9, 7).

Nel nostro linguaggio sarebbe come dire:
«mio figlio Gesù Cristo è morto sia per voi cattolici che per i comunisti e per i castristi.
Per me voi non siete migliori di loro».

Gli Aramei/Siri e i Filistei erano i maggiori nemici del popolo di Dio. Dio ha cura di loro come di quelli che credono in lui.

Il solo fatto di appartenere al popolo eletto non conferisce nessuna speranza, nessuna sicurezza.

Figli di Abramo:
Abramo fu il grande amico di Dio e la sua intercessione poteva salvare intere città (cf. Gen. 18, 16-33).

Poter dire:
«siamo della stirpe di Abramo!» (Gv. 8,33) era titolo di gloria.
Ma molti si fermarono al titolo senza fare le opere che fece Abramo.

Giovanni Battista, l'ultimo profeta dell'Antico Testamento, fece sapere a tutti che davanti a Dio i figli di Abramo valgono quanto le pietre:
«non venite a dirmi:
abbiamo Abramo per padre!
Perché Dio può far nascere dei figli di Abramo anche da queste pietre qui» (Lc. 3, 8).
Un altro appoggio cadeva.

La legge di Dio:
Dio ha dato la legge e chi l'osserva sarà salvo (cf. Ger. 8, 8).
Perciò fu necessario spiegare bene la legge per sapere con esattezza che cosa ordinava e garantirsi così la salvezza.

La legge diventò il pretesto per obbligare Iddio.
Paolo dice che sia il pagano (greco), senza la legge, come il giudeo, con la legge, tutti sono schiavi del peccato (Rom. 3, 9).
«Nessuno mai sarà salvo per avere osservato la legge» (Rom. 3, 20).

I profeti abbattono tutti gli appoggi, smante1lano tutti i nascondigli e proiettano la luce della verità in tutti gli angoli oscuri.
Tagliano tutti i fili del telefono che mettono in comunicazione con Dio, fanno saltare tutti i ponti che legano a Dio.

Fanno piazza pulita, aprono una voragine e lasciano tutti nella insicurezza quasi assoluta.
Tutto è abbattuto e criticato come falso, non per se stesso ma in quanto non è più appe1lo di Dio che spinge a camminare verso il futuro della promessa;
anzi è diventato mezzo di comodismo e perfino di oppressione proprio in nome di Dio.

Anche oggi, chissà, il profeta direbbe le stesse cose e farebbe la stessa critica a molte forme che consideriamo ancora sante ed intoccabili.
E come allora neppure oggi il profeta sarebbe riconosciuto come tale ma sarebbe rigettato proprio in nome di Dio.

Lo stesso Gesù fu rigettato in nome di Dio e della tradizione: «Quest'uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato» (Gv. 9, 16).
Né messa alla domenica né rosario né rosa di oro né cattedrale maestosa né Pasqua né acqua benedetta né candela né ex voto niente può «per se stesso» costringere Dio.

Chi si aggrappa a queste cose si aggrappa alla proiezione di se stesso, che certamente non è Dio ma un mito inesistente.
Non è certo il Dio vivo e vero quello che i profeti conoscono da vicino e adorano. Non esiste su questa terra una leva capace di muovere il cielo.
Il profeta si limita a criticare perché l'uomo capisca che insistere su tutte queste formalità, come se avessero in se stesse la forza di costringere Iddio, sarebbe come dialogare con l'eco della propria voce.

Si capisce allora perché il profeta dovette affrontare forti resistenze; egli stava demolendo gli appoggi più radicali della sicurezza umana; basta leggere, per esempio, le considerazioni dell'epistola agli Ebrei sulla sofferenza dei profeti perseguitati (Ebr. 1l, 32-38).

Tutta la critica fatta dai profeti, apparentemente così negativa, essi la facevano spinti dall'idea che avevano di Dio, profondamente in contrasto con il comportamento e le strutture della vita che il popolo conduceva.

Non potevano permettere che l'uomo si alienasse dalla realtà della vita né che la religione fuggisse verso le forme mondane del rito, della cerimonia, del culto.
Significava svuotare il rito, la cerimonia, il culto.

Se vivessero oggi sarebbero essi stessi i primi a dire che una religione del genere diventa davvero «l'oppio del popolo».
Per convincersene basta leggere e meditare i loro scritti.
Ci resta da esaminare quale fu il lato positivo della critica così radicale fatta dai profeti.



5. Il Dio vivo e vero dei profeti

In conclusione, secondo il modo di vedere dei profeti, tutto era sbagliato?
Benché distruggessero tutti i ponti, uno ne costruivano, capace di stabilire un contatto reale fra Dio e gli uomini, che dava agli uomini la garanzia della presenza di Dio: la fede.
Che significa tutto questo?

I profeti vivono profondamente la presenza di Dio.
Sono uomini di Dio. Dio va al di là di tutte le cose.
Dio non può essere preso al laccio, incanalato;
soggiogato come bestia da traino al carico dei desideri degli uomini.

Dio non si addomestica. L'uomo non si può permettere di invertire le parti, e invece di essere lui a servire Dio, costringere Dio a servirlo, strumentalizzando il rito e il culto che in questo caso si ridurrebbero a una stregoneria battezzata.

Per i profeti Dio è una presenza totalmente gratuita che offre la sua amicizia a chi voglia accettarla.
Ma egli vuole che la sua amicizia sia rispettata.
L'amico che offre amicizia vuole che l'altro abbia fiducia in lui e non che cerchi di garantirsi i beni dell'amicizia con astuzie e raggiri.

Sarebbe come mancare di fiducia e sarebbe motivo sufficiente per negargli l'amicizia per il futuro.
Con il tuo amico non puoi mai riferirti ai regali che gli hai fatto, ai benefici che gli hai elargito per ricevere in cambio l'appoggio dell'amicizia;

basta il fatto di essere amici:
«Senti, caro, tu dici di essere mio amico.
Sta bene.
Se così è, mi arrischio a questa o a quella impresa che interessa pure a te e sono certo che tu mi aiuterai».

Ci si appella all'amicizia in sé e per sé e all'impegno che l'altro ha preso con se stesso in forza dell'amicizia.

Lo stesso succede con Dio.
Si è impegnato con gli uomini offrendo loro la sua amicizia.

Vuole che sia rispettata.
Esige fede e fiducia come condizioni elementari e iniziali per qualunque altro accordo. La sua presenza in mezzo agli uomini è garantita e sicura perché lo ha detto lui.

Ma lui è così forte che può benissimo sottrarsi a qualsiasi incontro indebito (quando cioè mancano fede e fiducia):
vitello d'oro, luogo alto, re, tempio, culto, Gerusalemme, terra, legge, popolo eletto, figli di Abramo, giorno di Jahvé, rosario, candela, ex-voto, processione, precetto domenicale, Pasqua, primi venerdì del mese, preghiera a Santa Rita, cattedrale, tutto è relativo.

Questi elementi non hanno per se stessi nessun potere di garanzia e il giorno in cui diventano mezzi per «comprare il cielo» e per garantirmi la salvezza a mio uso e consumo meritano la critica e la condanna dei profeti anche al giorno d'oggi.

Non che siano cattivi in sé. Possono anche essere cose utili buone e perfino necessarie, quando usate come espressioni di quella fede e di quella fiducia che sono condizione fondamentale per qualsiasi incontro con Dio.

Sono appena frecce indicative che orientano a Dio.
Ma Dio sta sempre al di là di tutto quello che possiamo pensare di lui ed è sempre più vicino a noi di quanto direbbero tutte le possibili espressioni di amicizia, proprio perché è amico.

Queste forme sono valide come i fili del telefono, ma non sono la persona con cui parlo né possono costringerla a parlarmi.
Essa può benissimo attaccare il ricevitore e lasciarmi brontolare con l'eco dei miei desideri.
Se però le mie parole sono espressioni di fede, certamente arrivano a Dio e Dio non fa il sordo.

Proprio perché è fedele, Dio rimane in comunicazione con l'uomo dandogli appoggio e aiuto.

Solo apparentemente i profeti lanciano gli uomini nella più completa incertezza, perché in realtà sono proprio loro a gettare le basi della più incrollabile certezza possibile ad un uomo:
la certezza assoluta che Dio è presente.

Non è lontano da noi; è con noi.
Il suo nome è Emanuele, che vuol dire Dio con noi, forte fedele amico.
Ma egli ci supera, egli è sempre l'’Altro'. Non possiamo addomesticarlo. Il suo rapporto con l'uomo è così libero e sovrano che può sottrarsi al dominio dell'uomo.

L'uomo invece è debole e non riesce a sottrarsi al dominio che un altro uomo gli impone. L'atteggiamento di Dio, allo stesso tempo così vicino e così lontano, è una sfida e una accusa.

Ricorda all'uomo i suoi limiti:
Uno almeno riesce sempre a fuggire alle sue brame di dominio.
Il comportamento di Dio critica il rapporto di dominio che un uomo esercita su un altro uomo e risveglia in coloro che sono dominati la volontà di fare rispettare la loro dignità.

Dio assume rispetto agli uomini lo stesso atteggiamento che gli uomini devono assumere rispetto agli altri:
l'unico mezzo capace di rendere una persona coerente con se stessa è la fede, la fiducia, l'amore disinteressato.

Quando l'uomo sa mettersi al suo posto davanti a Dio, Dio si sente in dovere di aiutarlo.
Dice il salmo:
«Lo proteggerò perché ha riconosciuto il mio Nome» (Sal.
90, 14).

In altre parole:
«Sono costretto ad aiutarlo perché lui fa sul serio ».
Ma per far questo l'uomo deve buttarsi nel buio, dargli fiducia, assumere un atteggiamento di fede che crede nella parola dell'altro.
Ossia lasciare che l'altro sia se stesso;
lasciare che nella sua vita Dio sia Dio.

Questo ci insegnano i profeti a rispetto di Dio.
La sintesi è contenuta nel nome che Dio stesso si scelse:
«Jahweh» che vuol dire: «io sarò presente».

È pure l'abbreviazione dell'altro:
«io sono colui che sono» (Es. 3, 14) e vuol dire: «certissimamente io sarò sempre presente e ti aiuterò;
ma 'come' e 'quando' ti aiuterò lo decido io.
Conta su di me».

Il nome è un appello alla fede.
Dio dette prova della sua presenza liberatrice:
la prima grande prova fu l'Esodo;
l'ultima prova ancora in corso è la venuta di Gesù Cristo, Emanuele, Dio con noi (Mt. 1, 23).

Questo Dio riconosciuto e vissuto così nella vita concreta è il nucleo da cui parte tutta l'azione profetica.
Ed è allo stesso tempo una nuova maniera di vedere l'uomo.

Ecco perché i profeti, anche in mezzo alle più grandi disgrazie molte volte da loro stessi preannunziate, non perdono mai la speranza.
Per quanto critico possa sembrare il loro intervento nella vita del popolo, il loro messaggio in fondo è sempre di speranza.

La critica entra quando la forma concreta del vivere minaccia di rendere la vita così meschina da soffocare la speranza nel cuore del popolo e soprattutto nel cuore dei poveri.



6. Al giorno d'oggi ci sono ancora i profeti?

I profeti generalmente non 'si servono di un'etichetta né scrivono il loro nome di profeti sul biglietto da visita.


Oggi il movimento profetico nella Chiesa e nel mondo è molto forte.
La critica delle strutture e degli atteggiamenti anacronistici, che ormai non dicono più nulla, è in corso e chi le aprì le porte fu proprio il Concilio Vaticano II.

Come al tempo della Bibbia, il movimento profetico oltre ad essere un movimento di fede all'interno del popolo eletto, era allo stesso tempo una corrente culturale che assunse dentro la Chiesa una dimensione di fede tutta particolare.

Non sono soltanto i cristiani che criticano i comportamenti e le strutture oggigiorno incapaci di esprimere la vita che scaturisce e che incomincia.

I cristiani stanno dentro a tutto questo e ne fanno parte orientandosi con la fede in Dio.

Nella Chiesa di oggi troviamo gente che cerca di neutralizzare l'alienazione in cui si adagiano tanti cristiani, smarriti tra pratiche e osservanze che non sono più espressione di amicizia con Dio ma soltanto espressione di una ricerca ansiosa di sicurezza umana.

Se si mantiene rigidamente la situazione di compromesso sia nella Chiesa che nella società, la colpa non è soltanto del popolo ma anche di quelli che esercitano l'autorità.
Perciò la critica dei profeti ieri come oggi raggiunge chi ha nelle mani il potere.

Anche Gesù fece lo stesso:
criticò i farisei e i capi religiosi.
Del popolo ebbe compassione come di pecore senza pastore.

Per questo la missione profetica è una missione pericolosa, affatto piacevole per chi ne prende coscienza, come il profeta Amos ed Osea. Prima di parlare ci penserà due volte.

Come Mosè (Es. 11-4, 13) e Geremia (Ger. 1, 6) cercherà ragioni e pretesti per sottrarsi a un compito così arduo.

Ma ieri, come oggi, nonostante le proibizioni, i profeti continuano a parlare:
«Dio lo vuole: chi potrà non parlare in nome di Lui? » (Am. 3, 8).



SEGUE..


una stretta di [SM=g1902224]


Pierino




[Modificato da mlp-plp 09/10/2009 13:43]
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