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"Viaggiando" nella Bibbia..cosa si "Scopre"?..cosa dicono gli Esegeti?

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    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XII (quinta parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

    il discorso della montagna:
    consiglio, legge o ideale?



    7. Discutendo le opinioni



    Il discorso della montagna, visto e capito nel contesto totale della vita di Gesù, non è una legge.

    Una legge si cerca di sapere bene come sia,
    si studia; si spiega, si analizza.

    In questo senso il discorso della montagna non è legge.

    È inutile studiarlo, spiegarlo, perché è impossibile osservarlo come si osserva un'altra legge qualunque.

    È inutile far forza sul giuridicismo e sulla giurisprudenza, a niente servono il legalismo e la casistica, così care ai farisei.

    Svuoteremmo il discorso della montagna, riducendolo a una legge umana, che si osserva solo con lo sforzo umano.

    Sparirebbe, allora, tutto il dinamismo del nuovo, del Regno di Dio, che sta alla radice.

    Inoltre il discorso della montagna diventerebbe il peso più insopportabile.

    E non è possibile, perché Gesù dice:
    «il mio giogo è soave, il mio peso è leggero» (Mt. 11. 30).

    Gesù ha condannato i farisei, che spiegavano la legge di Dio come se fosse una semplice legge umana (cf. Mt. 23, 4).

    Se così fosse, infelici i poveri e gli ignoranti che non conoscono la legge e non sanno spiegarla.

    Invece, Gesù chiamò «beati» i poveri e promise loro il Regno (Mt. 5-3).

    Non si può ammettere che colui che disse:
    «venite a me, o voi tutti che siete afflitti, oppressi dalla fatica e sopraccaricati e io vi consolerò;

    prendete su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mite ed umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre» (Mt. 11, 28-29),

    non si può ammettere che Gesù abbia dato una legge che, invece di riposo, dà solo preoccupazione, angustia e scrupoli.

    La preoccupazione, l'angustia e lo scrupolo incominciano dove il discorso della montagna è slegato dalla persona di Cristo, dalla sua amicizia, per essere spiegato e osservato alla stregua di una legge, appena con mentalità giuridica.

    Tuttavia, Cristo non ha reso la vita più facile.
    Proprio al contrario.

    Cristo raggiunge l'uomo, come l'uomo vuol essere raggiunto nella vita, squarciandogli un orizzonte nuovo, svegliando in lui, come risposta, l'amore, il coraggio, la capacità di resistere, la speranza, l'iniziativa e la creatività.

    Il discorso della montagna non è fatto per portarci alla disperazione e poi gettarci nelle braccia dalla misericordia come diceva Lutero.

    È vero che il discorso della montagna ci dà la coscienza chiara dei nostri limiti e delle nostre debolezze.

    Ci prova che da soli noi siamo incapaci di fare quello che Dio ci domanda, ma nel contesto generale della vita di Gesù, il cristiano scopre e incontra, dietro il discorso della montagna e alla sua radice, la persona di Gesù Cristo, si accorge del suo amore e della sua amicizia e vede che, aderendo a Lui, potrà arrivare ad osservare quello che il discorso della montagna suggerisce.

    A questo punto però, ci mancano del tutto i criteri umani per dare un giudizio, come ci mancano per spiegare la vita di Gesù, così come l'abbiamo vista prima.

    I criteri di Dio sono altri e ci confondono.

    Se questo fosse davvero l'obbiettivo del discorso della montagna, diremmo che Gesù poteva essere più chiaro, perché non lo si può capire dalle parole che lo compongono.

    In nessun luogo sta scritto che il discorso della montagna è fatto per buttarci nella disperazione e, di rimbalzo, nelle braccia della misericordia di Dio, disgustati da tutto quello che facciamo.

    Sarà possibile che Gesù tratti gli uomini come quel Signore che mandò i suoi servi per una strada complicatissima e quasi intransitabile, perché giungessero a disperarsi, per poi sentirsi dire:
    «Avete visto che da soli non ce la fate?
    Venite, entrate in macchina con me, che vi porterò io alla meta»?

    Il discorso della montagna non è per una piccola élite di preti e monache e alcuni laici, tra i più generosi.

    È per tutti.


    Gesù non ha parlato solo per gli apostoli, ma per la «moltitudine». (cf.
    Mt. 5, 1-12).

    Gesù non ha mai pensato ad una religione di élite.

    A misura che tutti escono dall'Antico Testamento e incontrano Cristo, tutti varcano la soglia del discorso della montagna.

    Bisogna sapere, però, se tutti sono già in condizioni di entrare nel Nuovo Testamento.

    Non si tratta di dire:
    «cerchiamo di facilitare le cose al popolo e lasciamogli osservare solo i dieci comandamenti».

    Non abbiamo né il diritto né il potere di farlo.

    Si tratta di aiutare il popolo perché si metta sulla strada che, dai dieci comandamenti, porta al discorso della montagna, attraverso l'adesione a Cristo.

    Per questo, noi tutti abbiamo ancora un piede nell'Antico Testamento, coll'intenzione di uscirne, bene o male, perché nasca in noi quella pianta nuova, che nessuno sa cosa sia;
    viene da Dio ed è proprio quella che tutti sognano.

    Siamo tutti in marcia verso la perfezione:
    «Siate perfetti, come vostro Padre celeste è perfetto».

    Il discorso della montagna non serve solo a comunicare una nuova mentalità.

    Il cristianesimo non è fatto di idee e di mentalità, è «conversione», cioè azione concreta.

    Soprattutto verso la fine del discorso della montagna, Gesù insiste di più sulla necessità" della prassi.

    Invece di parlare di mentalità nuova, sarebbe meglio dire «forza nuova».

    Il Vangelo assomiglia alla sonda, che cerca nelle profondità del suolo gli strati di petrolio.

    Quando ne raggiunge uno, il liquido prezioso esce in getto spontaneo, che poi va a scaldare le stufe, a far funzionare i motori, a far correre le macchine.

    Il vangelo perfora il suolo dell"io', scopre, là in fondo, forze nuove di imprevedibili energie.

    Queste forze balzano fuori trasformando la vita e mettendo in moto la macchina di una società migliore.

    La perforazione si chiama «coscientizzazione».

    La coscientizzazione, nel nostro caso, è la percezione del proprio valore e si dà, quando l'uomo scopre l'appello di Dio nella sua vita.

    L'appello di Dio è come le radici dei grandi alberi:
    si perdono in ramificazioni infinite, nelle viscere della terra, come vasi capillari molto fragili, ma, messi insieme, fanno nascere il tronco, che affronta le più violente bufere.

    Dio chiama molto umilmente;
    nelle cose insignificanti del terribile quotidiano.




    8. Piste generali per l'interpretazione del discorso della montagna


    Da tutto quello che abbiamo detto fin qui, possiamo trarre alcune conclusioni, per capire meglio il discorso della montagna.

    Il discorso della montagna è il giudizio di Gesù sulla vita umana.

    La vita umana, ben vissuta, dovrebbe essere così.
    Ci propone l'ideale.
    L'ideale non si osserva.
    Verso un'ideale, l'uomo cammina, tentando di raggiungerlo.
    Sarò giudicato, non per il fatto di averlo raggiunto;
    ma per il fatto di aver camminato verso di lui, con fedeltà.

    Il confronto con l'Antico Testamento (Mt. 5, 21-48) ci dice così:
    La legge dell'Antico Testamento, i dieci comandamenti sono i primi passi di una strada, che, se continuiamo a camminare, ci porta al tipo di vita descritto dal discorso della montagna e va a finire a Dio.

    Anche per l'uomo, che sta ancora nell'Antico Testamento, l'esigenza si impone con la stessa insistenza.

    La differenza, tra l'Antico Testamento e il Nuovo Testamento, consiste nell'accorgersi della portata che questa esigenza ha nella vita.

    Nell'Antico Testamento l'esigenza divina ordinava:
    «non uccidere» (Mt. 5, 21).

    Se l'uomo sarà fedele e camminerà per questa strada di «non uccidere», Dio si farà più vicino a lui, gli si manifesterà di più e l'uomo, a causa della percezione più chiara dell'amicizia di Dio con lui, si accorgerà meglio delle esigenze di «non uccidere» per la sua vita umana, e finirà col riconoscere che Dio si impone con la stessa insistenza quando chiede:

    «non t'arrabbiare»; ovvero, si accorgerà di aver osservato, davvero, il «non uccidere», quando sarà riuscito a strapparsi dal cuore la radice dell'assassinio, che è l'ira.

    Perciò è difficile cogliere il senso delle frasi di Mt. 5, 21, 23 e delle altre che seguono.

    In Gesù, Dio è arrivato così vicino agli uomini, che non c'è alcun dubbio circa le esigenze divine nella vita umana.

    Si riassumono tutte nel nuovo comandamento dell'amore.

    I dieci comandamenti sono dieci piste, aperte nella vita umana, per educare l'uomo all'amore e al dono di sé (Mt. 7, 12).


    Le beatitudini (Mt. 5, 1-12), che sembrano mettere tutto a testa in giù, dimostrano che i criteri di Dio sono ben altri.

    Abbattono e trasformano il nostro mondo, così ben organizzato, secondo i criteri della nostra sicurezza personale e collettiva, criteri nostri, nati in parte dalla fondamentale diffidenza dell'uno contro l'altro, di una nazione contro un'altra nazione.

    Perciò coloro che sono allegri, i grandi, tutti quelli che godono dei vantaggi in forza dell'organizzazione terrena di questo mondo, tutti questi non valgono per Iddio, tanto quanto valgono per il mondo.

    Quando il nuovo affiora, tutto cambia.

    «Felici quelli che piangono, perché saranno consolati;

    felici quelli che soffrono ingiustizia, perché possederanno il Regno;

    felici gli umili, perché avranno in eredità la terra;

    felici i puri perché vedranno Dio».

    Le beatitudini sono la più grande minaccia che mai fu pronunciata contro l'umanità, chiusa in se stessa, preoccupata della sua sicurezza.

    Il maggior prodotto del nostro tempo è la marginalizzazione.

    Proprio i marginalizzati della società sono proclamati felici.

    Segno che, quando verrà il Regno, finirà l'ingiustizia,
    che oggi produce gli emarginati.

    Nel discorso della montagna il rapporto con Dio sta su altre basi.

    Non si basa su quello che noi facciamo per Iddio, ma su quello che Dio fa per noi;
    nella elemosina,
    nella preghiera,
    nel digiuno,
    il nostro atteggiamento dovrà essere radicalmente differente (Mt. 6, 1 -19).

    Chi pensa che tutto dipende da lui, farà di tutto per moltiplicare le preghiere, credendo che le sue parole e le sue opere abbiano una grande forza per muovere Iddio.

    Chi invece si accorge di essere gratuitamente sostenuto da Dio, farà di tutto per mostrargli la sua gratitudine e si appellerà non tanto alle opere quanto all'impegno che Dio ha preso con lui, di sostenerlo fino alla vita eterna.

    Esige che Dio compia il suo impegno e Dio non resiste mai.
    Perciò sarà ascoltata la sua preghiera (Mt. 7, 7-11).

    Il nuovo rapporto con Dio implica un nuovo rapporto con i beni materiali (Mt. 6, 19-21.24).

    È questione di ottica e di punto di vista da cui si guardano la vita e il mondo (Mt. 6, 22-23).

    Il punto di vista e l'ottica sono I differenti, perché alla luce di Dio l'uomo si accorge meglio del senso della sua vita.

    Sa dare il giusto peso alle preoccupazioni per il cibo, per la bevanda e per il vestito.

    Preoccupazioni più che necessarie alla vita, ma non certo le più importanti (Mt. 6, 25-34).

    Gesù non è venuto a riformare questa o quella parete della casa;
    è venuto a guarire la radice dell'albero, a rinforzare le fondamenta della casa.

    Migliorando queste, migliora tutto.

    Il discorso della montagna si dirige alla radice delle azioni umane:
    vuole sincerità radicale davanti a Dio, davanti alla propria coscienza e davanti agli altri.


    Solo a misura che la persona scopre chi è, le diventa possibile essere radicalmente sincera.

    Tante apparenze mascherano il nostro io, e noi neppure ce ne accorgiamo.

    Per questo, il processo di conversione o di trasformazione, che il discorso della montagna esige per portarci alla sincerità radicale, è un processo doloroso, che incontra molta resistenza, sia dentro di noi, che dentro la società.

    Sarà oggetto di ogni specie di accusa, sotto le quali si nasconde la difesa individuale e collettiva.



    SEGUE..



    una stretta di [SM=g1902224]



    Pierino





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    [SM=g6198] [SM=g6198] CAPITOLO XIII [SM=g6198] [SM=g6198]

    le parabole:
    rivelare il divino nell'umano





    1. Difficoltà e incertezze rispetto alle parabole



    Una delle maggiori difficoltà deriva dalle prediche di certi parroci.

    Quando il vangelo della domenica contiene una parabola,sembra che Gesù abbia parlato del Brasile odierno con una precisione matematica:

    la zizzania (Mt. 13, 25) è la moda di oggigiorno;

    il nemico che semina la zizzania sono quelle persone che non ubbidiscono alla Chiesa;

    la pecorella smarrita e ritrovata fra le 100 di quel gregge è proprio quel Tizio... così così... che si è convertito in quella circostanza
    (Lc. 15, 4).

    Il buon samaritano è quel buon signore cattolico che fa la carità alla Chiesa.

    E così via.
    Come fanno a sapere tante cose? Chi ascolta se lo domanda spesso.

    È giusto o no spiegare così le parabole?

    La parabola «del fattore infedele» è molto difficile a spiegarsi
    (Lc. 16, 1-8).

    Fece un mucchio d'imbrogli (v. 5-7) e alla fine si dice che Gesù «elogiò l'amministratore disonesto' perché aveva agito con astuzia» (v. 8).

    Come fa Gesù ad elogiare un tale procedimento?

    Bisogna dunque imitarlo?

    Gesù si serviva delle parabole per educare il popolo ma non le spiegava quasi mai.

    Il popolo sembrava non capirci niente tanto che perfino gli apostoli cercavano di scoprirne il senso (cf. Mc. 4, 10).

    Si accorsero del problema e lo denunciarono:
    «perché il Signore parla in parabole al popolo?»

    Gesù rispose loro:
    «parlo in parabole perché vedendo non si accorgano e ascoltando non capiscano» (Mt. 13, 11-13).

    In conclusione Gesù parla in parabole per ingannare il popolo (cf. Mc. 4, 11-12).

    Che senso hanno le tante parabole che Gesù non spiega?






    2. Due esempi concreti della nostra vita


    Una parabola è una specie di paragone o immagine presa dalla realtà della vita per spiegare un'altra realtà in rapporto al Regno di Dio.

    Ci sono due modi di fare un paragone o una immagine per illuminare un punto oscuro a chi ci ascolta.

    Tutti e due li troviamo nei vangeli.

    Prima però di parlare dei paragoni usati nei vangeli è conveniente illuminare il problema con due esempi presi dalla vita.

    Primo esempio:
    Uno disse a un altro: «Compare, come ti va la vita?»

    Rispose quello: « Vorrei andare a cento all' ora ma non passo gli ottanta.

    Sul rettilineo vado a tutto vapore.
    Sulla salita mi arrampico e nelle curve mi do da fare;
    ma non è uno scherzo».

    Per chi conosce la vita di oggi la risposta, che sembra enigmatica, è chiara.

    Sembra che parli della macchina, ma di fatto pensa alla vita:
    vorrebbe andare a tutta velocità ma non ce la fa e con questo vuol dire che la vita non va poi tanto bene;

    parla di rettilineo ma pensa ai giorni facili della vita, quando tutto corre liscio;

    parla di salita e pensa ai contrattempi;

    dice curve e pensa alle crisi della vita.

    A buon intenditori poche parole.

    In questo esempio concreto si usano i termini della strada ma si pensa a ben altro;

    si parla di macchina ma si pensa ad una determinata maniera di vivere.

    Cosi pure Gesù si serve di paragoni e parla del seminatore,
    del seme che cade lungo la strada,
    sulle pietre,
    tra gli spini e nella terra buona.

    Ma pensa all'apostolo o al predicatore (seminatore),
    alla Parola di Dio (seme),
    al cuore incostante (pietre),
    al cuore distratto (strada),
    al cuore adescato dai piaceri della vita (spini),
    al cuore aperto ben disposto e sincero (terra buona) (cf. Mt. 13,3•8 e 13, 18-23).

    In una parabola del genere posso chiedere spiegazioni su ogni elemento del paragone:
    «che vuol dire?».

    Secondo esempio:
    Parlando a un gruppo di uomini sposati un tale fece questo esempio:
    «C'era un uomo sposato che soleva alzarsi all'alba,
    preparava il caffè per gli altri membri della famiglia,
    metteva la casa in ordine e poi andava a lavorare nei campi.

    Lavorava tutto il giorno, riposava poco, sudava molto fino ad alte ore della notte.

    Tornava a casa felice e contento perché aveva passato un giorno di più dedicato alla sua famiglia».

    Qui non ci si può domandare:
    «che vorrà mai dire alzarsi presto,
    fare il caffè,
    lasciare la casa in ordine,
    lavorare nei campi?

    Che vuol significare quando dice che tornava a casa tranquillo e contento?».

    Sono domande che evidentemente non hanno senso qui, perché i vari elementi del paragone non hanno valore, ossia non hanno un loro significato proprio indipendente.

    Il paragone ha un unico senso nel suo contesto:
    si propone di mettere in rilievo l'operosità e la dedizione di quell'uomo verso la sua famiglia allo scopo di spingere gli uomini sposati che stavano ascoltando a fare lo stesso.

    Nel primo esempio ogni elemento aveva un senso particolare in rapporto ad una determinata maniera di vedere la vita.

    Nel secondo esempio ogni elemento ha la funzione di contribuire ad illuminare il senso totale del paragone.

    Allo stesso modo Gesù usa molti paragoni o parabole di cui non possiamo domandarci:

    «che voleva dire con l'immagine della pecorella smarrita?

    Chi sarà il buon samaritano?

    Che significa la zizzania?

    cosa corrisponde al seme di mostarda?

    Chi è l'uomo che dorme mentre il seme germoglia? (Mc. 4,27).

    E le briciole che cadono dalla mensa a cosa alludono? (Lc. 16,21).

    Nella maggior parte dei paragoni usati da Gesù il contesto ha un unico senso.

    È inutile star lì ad indagare sugli elementi della parabola uno per uno perché non hanno un significato proprio.





    3. Applicazione concreta:
    il «fattore infedele» e la «vigna abbandonata»


    La parabola più difficile a spiegarsi è quella del fattore infedele
    (Lc. 16,1-8), proprio perché ci rompiamo la testa a scoprire il significato di ogni elemento del paragone mentre il significato è unico per tutto l'insieme.

    Il punto più difficile è là dove Gesù fa l'elogio del fattore infedele perché ha agito con saggezza.

    Ma che vuol dire?

    In un'altra occasione Gesù aveva detto:
    «Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe» (Mt. 10,16).

    Paolo dice che il «giorno del Signore verrà come un ladro nel cuore della notte» (I Tess. 5,2); cfr. Mt. 24,43-44; II Pt. 3,10).

    Nessuno ne deduce che il Signore è un ladro, anche se è paragonato a un ladro.

    Nessuno conclude:
    deve essere colomba e serpente.

    Evidentemente in questi tre casi il paragone, è fatto rispetto a una qualità che caratterizza l'opera del ladro e che esprime il modo di fare dei serpenti e delle colombe.

    Il ladro non si fa annunciare, ma viene quando meno te l'aspetti:
    così verrà il Signore alla fine dei tempi.

    La semplicità e l'astuzia sono qualità da imitarsi sull'esempio della colomba e del serpente.

    Lo stesso si dica a rispetto del paragone del fattore infedele.

    C'è una sola differenza:
    nel caso del fattore infedele il paragone non è fatto con un'unica parola (come nel caso del ladro, del serpente e del1a colomba);

    Gesù racconta tutta una storia per mettere in evidenza l'unica qualità valida del fattore infedele.

    Questa deve essere imitata (come il giorno del Signore imita la qualità del ladro che arriva senza essere aspettato in piena notte).

    Qual è allora l'aspetto che Gesù vuol mettere in evidenza nella condotta del fattore infedele?


    Per scoprirlo bisogna fare un minuzioso esame del paragone e vedere dove converge il suo interesse.

    In una pittura tutti gli elementi convergono in un unico punto, che è poi il messaggio che l'autore vuol comunicare.

    Le parabole sono altrettante pitture che con poche pennellate caratterizzano una situazione.

    Esaminando la parabola del fattore infedele si capisce che un bel giorno quell'uomo fu messo alle strette perché il padrone aveva scoperto i suoi imbrogli.

    Avrebbe dovuto dar conto dell'amministrazione e per conseguenza sarebbe stato cacciato via.

    Avrebbe di certo perduto l'impiego.

    Il domani si profilava incerto e ben diverso dal presente.

    Il fattore non si scompone, non si lascia sopraffare dalla realtà;
    ma pensa come fare.

    Esamina e calcola a mente fredda la sua situazione.

    Fa il bilancio delle possibilità:
    «zappare non fa per me... chiedere l'elemosina mi vergogno...

    Lo so io quello che faccio, così quando sarò licenziato avrò chi mi riceve in casa sua» (Lc. 16,3-4).

    Falsifica i conti dei debitori del suo padrone.
    Almeno così, quando sarà senza lavoro, potrà battere alla porta dei debitori.

    Non potranno rifiutarsi, perché lui potrebbe sempre accusarli e portarli davanti al tribunale per frode.

    Il futuro è garantito.

    Sta proprio qui il punto alto che la parabola vuol mettere in evidenza: quell'uomo agì con efficienza, non si lasciò abbattere dalle circostanze ma si assicurò il futuro con destrezza e facendo bene i suoi piani.

    Gesù fissa la sua attenzione sulle qualità che l'episodio mette in evidenza con poche parole.

    Il suo obbiettivo è dirci:
    «perché non fate lo stesso?
    perché anche voi, nel vostro campo, non agite con la stessa accortezza ed efficienza?»

    Infatti, quando Gesù entra nella vita di qualcuno, il futuro di questa vita cambierà radicalmente.

    Non sarà possibile continuare a vivere come prima.

    Gesù vuole che non ci abbandoniamo all'inerzia, ma che affrontiamo molto concretamente la vita alla luce della fede, che facciamo con calma i nostri piani e agiamo con efficienza e scaltrezza per garantirci un nuovo futuro, che è frutto del nostro incontro con Gesù.

    Non ci spinge ad essere disonesti, bensì ad essere efficienti in quello che facciamo nel campo della fede.

    Non domandiamo:
    che vuol dire la parola «amministrazione» in questa parabola?
    che significano i cento barili di olio, i cento sacchi di farina?

    Non significano proprio niente.

    Come nel caso dell'uomo che si alzava presto per fare il caffè, servono soltanto a mettere in luce l'efficienza e la scaltrezza di fronte al futuro in pericolo.

    Fanno parte del quadro come l'albero in fiore vicino alla casa contribuisce a esprimere l'allegria che l'artista voleva comunicarci con la sua pittura.

    La parabola della «vigna abbandonata» (Lc. 20,9-19) è tutt'altra cosa e prende il nome di allegoria.

    Sentendo parlare della «vigna», gli ebrei ricordavano il canto della vigna del profeta Isaia (Is. 5,1-7).

    Sapevano bene che Gesù parlava di una vigna ma pensava al popolo cui Dio prodigò tante tenerezze.

    Gesù parla di «preparare la vigna», ma pensa alla responsabilità del popolo nel date frutti.

    Parla di servi e braccianti che il padrone della vigna mandò a lavorare, ma pensa ai profeti inviati da Dio nell'Antico Testamento.

    Non furono accolti, furono flagellati e rimandati via a mani vuote
    (Lc. 20,10-12).

    Parla del Figlio carissimo che il padrone inviò, sperando che lo rispettassero più degli altri dipendenti, ma pensa a se stesso, l'ultimo inviato da Dio al popolo che i profeti designano come il figlio tanto amato.

    Parla di uccisione del Figlio del padrone della vigna, ma pensa alla sua propria morte.

    Il paragone si chiude con la domanda:
    «Che farà dunque il padrone della vigna?»

    Segue la risposta:
    «Sterminerà i vignaiuoli e affiderà la sua vigna ad altri»
    (Lc. 20, 15-16).

    I giudei capirono bene il senso della risposta e dissero:
    «Dio non voglia!»

    ossia:
    «questo mai!»

    Capirono il senso del paragone:
    Gesù li minacciava di trasferire il Regno di Dio ai pagani.

    La parabola o allegoria della «vigna abbandonata» è una delle poche che ci permette di interrogarci su ogni elemento e dettaglio:
    «che significa?».

    Lo stesso si dica della parabola del Buon Pastore (Gv. 10,18) e della «vera vite» (Gv. 15,18).

    In tutte le altre bisogna cercare il significato unico su cui insiste Gesù.

    Possiamo farlo in molte maniere.

    In certe parabole prese dalla vita concreta di ogni giorno succedono cose curiose che non si verificano tutti i giorni:

    per esempio, è raro trovare un pastore che lascia sole cento pecore nel deserto per cercare proprio quell'una che si è perduta (Lc. 15, 3-6);

    è difficile trovare un padre che stia ad aspettare il figlio ingrato che lo ha lasciato senza dargli soddisfazione e per di più gli corra incontro e gli faccia grande festa (figlio prodigo);

    è difficile trovare una donna che perda una lira e per ritrovarla scopi tutta la casa e poi chiami tutte le vicine per raccontare loro la sua avventura e per fare festa (Lc. 15,8-10).

    Chi legge questi fatti si meraviglia perché, pur essendo reali, non succedono tutti i giorni.

    Ma proprio questo vuole la parabola:
    richiamare l'attenzione sulle cose strane che racconta.

    Là dentro si nasconde il significato unico che Gesù vuole annunciare.

    Là tutti gli elementi del paragone convergono.

    A volte però i due tipi di paragone si mescolano;
    quando per esempio Gesù nelle parabole parla di re, di giudice, di padre pensa sempre a Dio.

    Quando parla di figlio del re, di lavoratori del re, di greggi e di vigna, pensa ai profeti e al popolo di Dio.

    Quando dice di «rendere conto» e parla di «raccolto»' e «pesca» pensa al giudizio di Dio sugli uomini.

    Quando parla di festa o di sposalizio, pensa alla gioia del Regno di Dio.

    Come si fa a saperlo?

    Perché Gesù fa come tutti facevano al tempo suo.
    Il metodo delle parabole era molto usato nell'insegnamento.

    Gli altri professori di religione pure lo conoscevano e lo usavano.

    Secondo le regole della metodologia di quel tempo, scoperta e studiata nelle ultime ricerche, tali figure avevano' già il significato che tutti davano loro.

    Gesù quando insegnava, usava il linguaggio del popolo.






    4. Vantaggi dell'insegnamento in parabole


    Tutte le parabole sono immagini prese dalla vita di ogni giorno, note a tutti:
    sono le cose della vita che fanno ridere e fanno piangere, che ci accompagnano dalla mattina alla sera.

    Gesù si dimostrò un grande pedagogo nel servirsi delle cose della vita per spiegare le cose invisibili del Regno di Dio.

    Se io dicessi:
    «Il rinnovamento della Chiesa assomiglia ad una grande strada alberata.
    Quando i rami sono troppo grandi bisogna potarli, per aiutare la crescita dell'albero e impedire che il fogliame lussureggiante assorba tutta la linfa dell'albero e lo inaridisca».

    Chi ha ascoltato il mio discorso, quando passa lungo il viale alberato e vede gli alberi mutilati dalla potatura, si ricorda del paragone e gli alberi incominciano a parlare, convincendolo che è proprio così.

    La vita ci parla di Dio e del suo Regno.

    La raccolta degli elementi delle parabole di Gesù ha messo insieme un curioso mosaico in cui appaiono le più svariate situazioni e aspetti della vita:
    semi,
    aratro,
    luce,
    sale,
    passerotti,
    fiori,
    porci,
    gramigna,
    gigli,
    fieno,
    colombe,
    serpenti,
    feste,
    nozze,
    pane,
    vino,
    fermento,
    commercio,
    amministrazione,
    cenone,
    guerra,
    costruzione,
    torre,
    casa,
    strada,
    spini,
    terra buona,
    pescatore,
    rete,
    bambini,
    pulizie della casa,
    pietre preziose che si perdono,
    perle ritrovate,
    talenti,
    vigna,
    pecorella,
    pastore,
    eredità,
    educazione,
    salario,
    malviventi,
    ricco,
    povero,
    figli ingrati ecc.

    Basta scorrere i Vangeli.

    Ogni cosa è densa di significato.

    Gesù quasi mai spiega i paragoni che usa.
    Qualche volta conclude così:
    «Chi ha orecchie per intendere intenda!» (Mt. 13,9).

    In altre parole suonerebbe così:
    «Ecco tutto.
    Avete udito.
    Ora fate in modo di capire».

    Affida al popolo il compito di scoprire il messaggio.

    Gesù dà all'uomo un voto di fiducia.

    Lo stima abbastanza intelligente per scoprire nelle cose della vita quotidiana il significato delle cose del Regno.

    Non gli offre tutto bello e pronto.

    Invece di risolvere i problemi e dare risposte fatte, Gesù crea problemi e quesiti nella testa degli uomini per costringerli a pensare.

    E gli uomini, pensando vivendo e riflettendo, arriveranno alla soluzione dei problemi che Gesù ha messo loro in mente.

    Tutti gli aspetti e le situazioni svariate della vita, cui Gesù allude con le parabole, diventano eloquenti e interrogano l'uomo.

    Mentre ara il campo e scava il solco, il contadino si ricorda della parola di Gesù:
    «Chi mette mano all'aratro e poi si volta indietro non è adatto per il Regno dei cieli» (Lc. 9,62).

    Gesù rende la vita trasparente.

    Sprigiona un significato nuovo dalle cose della vita.

    Le parabole valgono non solo perché ciascuna di loro offre un insegnamento, ma anche e soprattutto perché, inaugurano una maniera nuova di vedere la vita di ogni giorno:
    ogni cosa si riferisce al Regno di Dio e parla di Lui.

    In un certo senso Gesù è venuto a rendere problematica la vita dell'uomo.

    Quando l'uomo vive troppo tranquillo è segno che qualcosa in lui non va bene.

    Gesù gli suscita tanti problemi e tanti interrogativi con le parabole, non già per tormentarlo ma per metterlo sulla strada giusta che lo porta a Dio, alla felicità.

    Inoltre un’immagine o un paragone possiede una forza di comunicazione ed un potere di evocazione molto superiore a quello di un'arida esposizione teorica.

    Sarà forse più vago e inesatto, ma ci guadagna in profondità ed è molto più pregno di significato.

    Gesù, scegliendo di usare le parabole, non seguì un cammino del tutto nuovo.

    Seguì il metodo pedagogico corrente, ma lo trasformò dal di dentro.

    Seguì piuttosto il metodo dei sapienti che quello dei profeti, almeno quando insegnava al popolo.

    Per i farisei la sua predicazione prese il colore di una denuncia profetica.






    5. Le parabole e il Regno di Dio


    Nel capitolo sul discorso della montagna abbiamo visto che cosa deve essere il Regno di Dio.

    In Gesù, nella sua persona e nel suo lavoro, il Regno di Dio era presente e attuante.

    Quando Gesù introduce le parabole dicendo:
    «A che cosa potremo paragonare il Regno di Dio o con quale parabola potremo simbolizzarlo?» (Mt. 4,30) cerca di spiegare al popolo il senso della sua presenza in mezzo a loro.

    Ogni parabola si propone di spiegare l'uno e l'altro aspetto del suo mistero.

    In altre parabole, specialmente in quelle che pronunciò verso la fine della sua vita, Gesù pensava al Regno che doveva realizzarsi attraverso la sua morte e resurrezione e che sarebbe cresciuto lentamente lungo la storia degli uomini fino alla fine dei tempi.

    La realtà invisibile del Regno è spiegata con gli elementi visibili della vita di ogni giorno.

    Sorge la difficoltà già incontrata prima:

    come faceva Gesù a dire:
    «parlo in parabole perché ascoltando non intendano e vedendo non si accorgano»? (Mc. 4,1112; Mt. 13,11-15).

    Si ha limpressione che la parabola invece di essere scelta per spiegare sia stata scelta proprio per nascondere e per non far capire!

    Forse la risposta è questa:
    io posso parlare della vita servendomi di paragoni del genere:

    «Bisogna squarciare e allargare gli orizzonti,
    bisogna aprire una pista nella foresta,
    mettersi alla stessa lunghezza d'onda,
    raddrizzare la strada,
    gettare l'ancora e ammainare le vele,
    accendere i fari antinebbia e mettere le catene per la neve».

    Sono immagini note a tutti, ma di cui non tutti colgono il senso.

    Chi per esempio pensa che la vita è buona, va bene ed è sicura non capisce perché si parli di « raddrizzare la strada» «allargare gli orizzonti» «aprire la foresta» «metterci nella stessa lunghezza d'onda» ecc.

    Queste immagini significano che la vita non va bene ed allo stesso tempo rivelano una maniera precisa di vedere la vita.

    Così fece Gesù.
    Si servì ,di immagini note a tutti perché scaturite dalla vita.

    Ma non tutti arrivano ad intendere quel senso nuovo e sconosciuto della vita che Lui vuole insegnarci con queste immagini accessibili a tutti.

    Manca la chiave di volta per capirle.

    La chiave è Gesù stesso.

    Finché il popolo non saprà chi è Gesù, non potrà mai cogliere tutto il senso delle immagini che Egli usa.

    Agli Apostoli «fu dato di conoscere il mistero del Regno» (Mt. 13,11) perché loro si ispiravano a Gesù Cristo.

    Non facevano come i farisei e il popolo (che volevano un Gesù su misura), ma cercavano di essere come Gesù voleva che fossero.

    Accettavano Gesù senza mettere condizioni.

    Il loro atteggiamento di apertura di fronte a Gesù era luce capace di rivelare il senso ultimo e vero delle parabole.

    Per gli altri invece le parabole erano solo punti interrogativi.

    Li facevano pensare, inducendoli a rompere gli schemi che si portavano dentro e nei quali avrebbero voluto «inquadrare Gesù».

    La parabola è come la lampada nella mano di una persona:
    incomincia coll'esaminarla per vedere come funziona e finisce con lo scoprire che non illumina se non la leghiamo alla presa della corrente.
    La parabola si rivela nel suo pieno significato ed incomincia ad illuminare davvero solo quando si lega alla persona di Gesù Cristo per mezzo di una conversione sincera a Lui.

    Qui l'uomo incomincia a vedere chiaramente dove mette i piedi.

    Ma la parabola in sé, anche prima di legarsi a Cristo, è capace di portare l'uomo a rendersi conto di come funziona e della capacità che ha di accendersi ed illuminare la strada.

    Dipende dalla forza insita nell'immagine e nel paragone.





    6. Risposte alle difficoltà


    Molte delle applicazioni delle parabole che si sentono nelle prediche e si leggono nei libri derivano piuttosto dalla fertile immaginazione del predicatore che dal testo.

    L'immaginazione usata bene è uno strumento importante per spiegare l'uso delle immagini.

    Bisogna però che chi ascolta abbia buon senso e giudichi con criterio quello che gli viene detto.

    Bisogna fare come dice Gesù:
    pensare ed approfondire per scoprire da sé il senso delle cose.

    La parabola del fattore infedele l'abbiamo già spiegata.

    Ci dice anche che Gesù era più umano di noi e che era integrato nella vita più di noi.

    Non ha avuto paura di usare un esempio preso dalla cronaca nera di ogni giorno.

    In tutto quello che succede, perfino nelle cose peggiori, c'è sempre qualcosa di buono di cui ci si può valere.


    SEGUE...




    Una stretta di [SM=g1902224]



    Pierino





    [Modificato da mlp-plp 22/12/2009 19:53]
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    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XIV [SM=g6198] [SM=g6198]

    i miracoli di Gesù:
    campionario gratuito del futuro che ci aspetta







    1. Difficoltà attuali rispetto ai miracoli


    Salendo al cielo, Gesù lasciò la promessa nei miracoli per chi volesse credere nel suo nome (Mc. 6,17-18).

    Secondo gli atti degli apostoli, nella chiesa dei primi cristiani succedevano molti miracoli.

    Ma oggi, dove sono i miracoli promessi da Gesù?

    A Lourdes?

    Nella galleria dei miracoli dei grandi santuari dove la gente va in pellegrinaggio?

    Dove?

    A Lourdes le statistiche indicano il ribasso dei miracoli.

    Col crescere della investigazione scientifica il miracolo diminuisce.

    La scienza oggi riesce a spiegare tante cose che prima non si spiegavano; non sono più miracoli.

    Ma allora, da che dipende il miracolo?
    Da noi, dalla scienza o da Dio?

    Chi mi dice che quello è un miracolo?
    E i miracoli fatti da Gesù erano proprio miracoli?

    Se applicassimo tutti i criteri della scienza che cosa resterebbe in piedi?

    Leggiamo nei giornali:
    le folle si ammassano intorno all'altare di S. Gennaro.
    Vengono da tutte le parti della regione.
    Arrivano in omnibus,
    in treno,
    in camion,
    in taxi,
    a cavallo,
    a piedi,
    in barella.

    Vengono pregando in pellegrinaggio.

    Negli occhi hanno la luce differente di chi aspetta il miracolo.

    Sono folle in cerca di una grazia, che nella loro fede sono certe di ottenere per quel sangue che si liquefa.

    Leggiamo nel Nuovo Testamento di quasi 2000 anni fa:
    «Lo seguiva una grande folla perché aveva visto i miracoli che Gesù faceva ai malati» (Gv. 6,2).

    «Mettevano i malati lungo le strade e li trasportavano sulle barelle, affinché quando Pietro passava, almeno la sua ombra, li coprisse.

    Anche dalle città vicine accorreva molta gente portando gli infermi» (Atti 5,15-16).

    Qual è la differenza tra un popolo che cercava Gesù e gli apostoli, e un popolo che oggi accorre al sangue di S. Gennaro o alla Madonna del Divino Amore o ad un taumaturgo qualsiasi che opera guarigioni ritenute miracolose?

    In generale pensiamo così:
    un cristiano evoluto e colto non crede poi tanto ai miracoli.

    Il non cristiano o il cattolico tradizionale ci credono fermamente.
    Come si spiega?

    Vorrebbe dire che il cristiano moderno non crede più ai miracoli?

    Che cos'è un miracolo?





    2. Nozioni generali sui miracoli


    La nozione corrente del miracolo ci dice che è un fatto che non si può spiegare naturalmente, che va contro il corso normale delle leggi della natura e che la scienza non sa spiegare.

    Il popolo pensa che il miracolo sia una cosa dell'altro mondo, una cosa che non succede mai e che nessuno potrebbe fare perché è al di sopra delle forze naturali.

    Dice che il miracolo succede quando abbiamo esaurito tutte le altre risorse:
    «Adesso solo Dio può fare qualcosa».

    Come se Dio non fosse ugualmente presente quando siamo noi a fare le cose, e non abbiamo bisogno di Lui per risolvere i nostri problemi.

    Come se Dio non c'entrasse per niente con le cose comuni, naturali, ordinarie, umane che non hanno niente di eccezionale.

    Se così fosse, avrebbero ragione quelli che dicono:
    « Verrà un giorno in cui la scienza sarà capace di spiegare tutto e allora non ci sarà più bisogno di miracoli».

    Inoltre il miracolo è visto come un beneficio di Dio verso chi lo riceve.

    È come un regalo personale che mi spinge a chiedermi «che conversione Dio esige da me?»

    È un beneficio esclusivamente individuale,
    slegato dalla chiesa,
    slegato dal piano di Dio rispetto agli uomini,
    slegato da tutto il resto.

    Insomma, la reazione più comune degli uomini di oggi di fronte al miracolo è questa:
    «Sarà proprio vero?»
    oppure «Che pacchia! »

    La parola miracolo deriva da miraculum, che vuol dire cosa ammirabile}
    un fatto che desta ammirazione.

    Nella Bibbia si parla spesso di «cose ammirevoli» che Dio fa per il suo popolo.

    Non è però miracolo qualunque cosa degna di ammirazione.

    Per esempio:
    un bambino di 3 anni che fa un salto di cinque metri è ammirevole, ma non arriverebbe ad essere qualificato miracolo.

    Miracolo è un fatto, un avvenimento, una realtà che desta stupore perché l'uomo vi riconosce la presenza di Dio che si rivela.

    Un esempio tratto dalla vita quotidiana serve a chiarire ciò che la Bibbia intende per miracolo.

    Un bel giorno Maria, moglie di Francesco, mise un fiore sul davanzale della, finestra, un fiore fresco e dai colori vivaci.

    Voleva che Francesco tornando a casa vedesse il fiore, lo ammirasse, si sentisse contento vedendo che Maria lo amava.

    Era un gesto di amore.

    Quando Francesco rincasò dal lavoro vide il fiore e capì quello che voleva dire.

    Corse da Maria, la baciò e le disse:
    «Grazie Maria, sei un tesoro».

    Molta gente tornando dal lavoro passò sotto quella finestra, vide il fiore e non pensò a niente.

    Neppure avrebbero potuto farlo.

    Il fiore era solo per Francesco.
    Francesco se ne accorse e basta.

    Il fiore era segno di un grande amore,
    di tenerezza,
    di amicizia,
    di presenza,
    di fedeltà.

    Il fiore raggiunge lo scopo per cui Maria lo aveva messo sul davanzale della finestra.

    Non sarebbe stato neppure opportuno che tutti se ne accorgessero.

    Avrebbe violato il segreto di loro due.

    Per tutti gli altri il fiore non significava niente, non era un segno, era solo un fiore come un altro.

    Per Francesco e per Maria il fiore significava un mondo.

    Allo stesso modo Dio mette molte volte un fiore sulla finestra della nostra vita.

    A volte il fiore cade sotto gli occhi di tutti e se ne dovevano proprio accorgere tutti.

    Altre volte, e sono le più spicciole e forse le più belle, il fiore è solo per te.

    La vita è piena di fiori, di segni di Dio che rivelano amore tenerezza amicizia presenza fedeltà potenza forza;
    segni che ti destano meraviglia e ti ricordano l'amico.

    Il fiore destò l'ammirazione di Francesco.
    Rimase estasiato perché vi riconobbe l'espressione dell'amore di Maria per lui.

    Miracolo, come abbiamo detto, è tutto quello che causa ammirazione per il fatto che ci rivela l'amore e l'appello di Dio.

    Così nella Bibbia il miracolo può essere la cosa più comune e la cosa più fuori del comune.

    Una tempesta,
    un tramonto,
    la bellezza della natura e la grazia di un bimbo,
    la manna del deserto e le piaghe d'Egitto.

    Oppure la resurrezione di un morto,
    la guarigione di un paralitico,
    la moltiplicazione dei pani.

    In tutte queste cose il cuore dell'amico riconosce la mano dell'amico, come Francesco vide la mano di Maria in quel fiore sul davanzale.

    Chi non è amico passa oltre e non si accorge di niente.

    Per questo il miracolo, per essere miracolo, non dipende dalla scienza.

    Questa cosa ammirabile non dipende solo da Dio, dipende anche da noi, dal nostro sguardo.

    Dove non esiste sguardo d'amore, neppure Dio può farci niente.

    Gesù non riuscì a fare nessun miracolo a Nazareth, perché lì mancava lo sguardo di amore, mancava la fede di quella gente (Mc. 5,5-6).

    Quando oggi discutiamo sui miracoli ci scordiamo il più delle volte che per potersi accorgere del messaggio di quel fiore, per accorgersi del miracolo, bisogna avere lo sguardo della fede, dell'amore, dell'amicizia.






    3. Caratteristiche del miracolo secondo la Bibbia


    Le parole più usate nella Bibbia per definire ciò che oggi chiamiamo miracolo sono queste:
    segno, forza, cosa ammirabile.

    La caratteristica fondamentale del miracolo secondo la Bibbia consiste nel rivelare la presenza attuante di Dio;
    una forza che agisce e provoca una cosa ammirabile richiama l'attenzione e perciò stesso diventa segno di Dio.

    Non ha nulla a che fare col miracolo, in quanto tale, il fatto che va contro le leggi della natura o non trova spiegazione nella scienza.

    È proprio del miracolo in quanto tale essere segno della presenza attuante di Dio nella vita.

    Nella Bibbia il miracolo è una parola che Dio dice all'uomo per confidargli un segreto, per fargli un invito.

    Sotto questo aspetto la Bibbia riconosce «miracoli», «segni», «cose ammirabili», «espressioni di forza» nella creazione, cioè in cose che per noi non hanno niente a che vedere col miracolo:

    Dio manda la pioggia (Ger. 5,24), manda il sole per illuminare il giorno e la luna per rischiarare la notte (Ger. 31,35); lui governa il susseguirsi dei giorni e delle notti (Ger. 33,20.25).

    «Nei cieli si manifesta la gloria di Dio! Il firmamento proclama la sua forza creatrice!

    Nell'alternarsi dei giorni e delle notti corre un annuncio, si trasmette un messaggio.
    Senza parole, senza discorsi, nessuna voce risuona.

    Eppure il suo mormorio echeggia per tutta la terra e il suo ritmo si propaga fino ai confini dell'universo (Sal. 18,2-5).

    Come sono numerose le tue meraviglie! Vorrei poterle contare, ma sono più numerose dei granelli di rena della spiaggia.

    E anche se arrivassi a contarle, mi troverei alla fine davanti al mistero che sei Tu (Sal. 138,17-18).

    La natura era un grande libro, che rivelava i tratti del volto di Dio. Evidentemente la conoscenza della natura era limitata e pre-scientifica.

    Non si conoscevano ancora le leggi che oggi conosciamo con perfezione sempre crescente.

    Ma non per questo il progresso della scienza ci autorizza a dire che il modo di vedere la natura proprio della Bibbia è oramai superato, e a rinnegare quei tratti del volto di Dio che essa vi scopre.

    Sono cose che non dipendono dagli strumenti di osservazione scientifica, ma unicamente dal mio sguardo di fede.

    Se la scienza mi dice:
    «Quel tramonto,
    il sole,
    la tempesta,
    la pioggia,
    la siccità sono la cosa più naturale del mondo,
    non hanno niente di straordinario»
    il giudizio è giusto e vero.

    La scienza ha tutte le ragioni, ma non per questo al mio sguardo è precluso di vedere là dentro un segno e un riflesso di Dio mio amico e di sentirmi ammirato, o come direbbe la Bibbia, di riconoscervi un miracolo, un segno di Dio per tutti noi.

    Con una uguale prospettiva, la Bibbia riconosce i segni di Dio nella vita quotidiana, nelle cose più comuni dell'esistenza e nella storia del passato.

    Basta leggere i libri dei Proverbi e il libro dell'Esodo.

    La mano di Dio è visibile in tutto e riempie la vita di un'amicizia che ci manca tanto.

    Nella Bibbia, potremmo dire, il miracolo è un fatto bilaterale:
    da una parte suppone l'azione di Dio, dall'altra suppone nell'uomo uno sguardo di fede capace di cogliere il significato di quello che Dio fa.

    Altrimenti sarebbe come un film muto.
    Nessuno ci capisce niente e non ha senso.

    Non sarebbe più «miracolo» nel senso biblico della parola.

    La domanda che sorge nella Bibbia davanti ad un miracolo non è:
    «sarà proprio vero?»
    ma:
    «che cosa Dio mi vuol dire con questo?»
    «Qual è il suo messaggio?»
    «Che vuole Dio da me, da noi?».

    Ci sono miracoli falsi e veri.

    I criteri per distinguerli sono due:
    che siano inseriti nel contesto del piano di Dio e che vadano d'accordo con il resto della rivelazione (cf. Dt. 13,1).

    Non basta che succeda una cosa meravigliosa e prodigiosa perché si possa dire senz'altro:
    «Viene da Dio».

    Gesù stesso dice che verrà gente a fare miracoli molto grandi e ci avverte:
    «State attenti» (Mt. 24-25).


    Dice anche che alla fine ci sarà gente che dirà:
    «Signore, Signore, non abbiamo forse profetizzato in tuo nome?
    Non abbiamo forse cacciato i demoni in tuo nome?
    Non abbiamo fatto miracoli in tuo nome?

    Ma io risponderò:
    Non vi ho mai conosciuto!
    Andate lontano da me perché fate il male» (Mt. 7,22.23).

    Il miracolo non dice niente a chi non ha fede.
    Sì e no arriverà a suscitare il problema di Dio.

    Chi ha fede ci vede la mano di Dio, perché sta in sintonia con la frequenza d'onda con cui Dio lancia il suo messaggio.

    Sono criteri che ci possono aiutare, a formulare un giudizio sui miracoli che tutt'oggi si verificano in tanti luoghi.






    4. Storicità dei miracoli di Gesù


    Qualcuno ha negato la storicità dei miracoli di Gesù allegando che furono tutte invenzioni dei cristiani per «canonizzare» Gesù.

    Esistevano divinità miracolose fra i pagani e Gesù doveva pur competere con loro.

    C'erano anche uomini che facevano miracoli, come per esempio Apollonio di Tiana che ne faceva a bizzeffe.

    Perfino tra i giudei c'era gente che operava miracoli.
    Gesù era uno dei tanti.

    Oggi non si pensa più così.
    Gli argomenti sono caduti.

    In genere si negano i miracoli, non tanto a causa degli argomenti addotti ma perché prima ancora di qualsiasi argomento non si crede proprio che il miracolo sia possibile.

    Gli argomenti addotti non valgono per le seguenti ragioni:
    non si può negare in blocco la testimonianza schiacciante dei vangeli.

    Inoltre i miracoli di Gesù non sono effetto di magia, così caratteristica negli altri taumaturghi del tempo.

    Confrontando fra loro i racconti degli altri con quelli dei vangeli, si nota una grande differenza:
    sobrietà e nessuna speculazione dell'aspetto meraviglioso.

    Gesù fa miracoli con la sua autorità e non a richiesta, come facevano i giudei.

    Nei così detti «libri apocrifi», scritti per lo più all'inizio del II secolo, si raccontano miracoli sensazionali del Bambino Gesù del tutto privi di fondamento storico.

    Sono più che altro espressione di una ricerca di sicurezza.

    Quando un bambino si accorge che i genitori non stanno in casa, fa tutto il possibile per sentirsi sicuro.

    Atrofizzato o perduto del tutto il contatto reale con Dio, contatto di fede e di fiducia, si cerca sicurezza nei riti e nei miracoli.
    I quali allora non valgono più per il significato che hanno ma diventano valori in sé e per sé.

    Quanto maggiore è l'aspetto sensazionale e meraviglioso, tanto meglio è. Ma la Bibbia non pensa così.

    Può succedere che, applicando tutti i criteri della scienza moderna, si arrivi a concludere che uno o un altro fatto della vita di Gesù non fu miracolo secondo il criterio che noi oggi ne abbiamo.

    Non per questo cesserebbe di essere miracolo (segno forza cosa ammirabile) nel senso biblico della parola:
    segno della presenza di Dio attuante in mezzo agli uomini.






    5. I miracoli di Gesù come segni


    Abbiamo visto nel cap. 12 che la venuta di Gesù cambiò molte cose e le cambiò dalla radice.

    A causa della sua parola e del suo agire tutto si «ri-orienta» e si ri-compone.

    Da Cristo sboccia e fiorisce una situazione radicalmente nuova:
    una umanità nuova, un mondo nuovo.
    I miracoli fanno parte di questo «rinnovamento» più vasto e ne sono il «segno».

    Nei miracoli si esprime la «forza» che suscita il «mondo nuovo».

    Se facciamo una verifica vediamo che l'azione miracolosa di Gesù raggiunge tutti i settori della realtà:
    malattia,
    fame,
    cecità,
    natura,
    morte,
    peccato,
    demonio,
    volontà,
    tristezza.

    Prende di petto tutti i mali che affliggono gli uomini:

    1. caccia i demoni, causa di tutti i mali;

    2. perdona i peccati che provocano i mali;

    3. domina la volontà fiacca degli uomini e la irrobustisce, perché basta che lui dica:
    «Vieni, seguimi», e un uomo come Levi pianta in asso il lavoro di usuraio con tutto il suo lucro per seguire Gesù Cristo (Mt. 9,9);

    4. domina la natura che minaccia gli uomini perché calma la tempesta, cammina sulle acque e provoca la pesca miracolosa;

    5. vince la fame moltiplicando i pani;

    6. sana ogni tipo di malattia:
    storpi ciechi lunatici muti sordi lebbrosi ecc.;

    7. è superiore alla forza della morte e risuscita tre morti:
    Lazzaro, il figlio della vedova di Naim e la figlia di Giairo;

    8. la sua presenza è motivo di grande allegria e speranza per il popolo.

    Il modo di fare i miracoli ricorda l'azione creatrice di Dio:
    basta una parola per curare malattie, cacciare demoni, calmare il mare, risuscitare i morti (cf. Gen. 1,3).

    La magia non c'entra.
    Con l'arrivo di Gesù si inaugura una nuova creazione.

    Gesù non fa miracoli tanto per farli.
    E neppure per soddisfare la curiosità umana né per autopromozione.

    Li nega ad Erode quando questi gli chiede di vederne qualcuno
    (Lc. 2.3,8).

    Non lo fa neppure per sé, quando sta in croce e gli dicono:
    «scenda adesso dalla croce e gli crederemo» (Mt. 27,42).

    Non ha mai fatto miracoli per scherzo, come fanno pensare gli apocrifi.
    I suoi miracoli sono segni.
    Segni di che?

    In molte circostanze Gesù ci fa intuire il significato dei suoi miracoli: 1. Giovanni Battista manda a chiedergli:
    «Sei tu il Signore che doveva venire o dobbiamo aspettarne un altro?» (Mt. 11,3).

    Gesù risponde:
    «Andate a dire a Giovanni quello che vedete e udite:
    i ciechi riacquistano la vista e gli storpi camminano;
    i lebbrosi sono curati e i sordi odono;
    i morti risuscitano e la Buona Novella è annunciata ai poveri»
    (Mt. 11,4-5).

    I miracoli che Gesù enumera corrispondono a quelli annunciati dal profeta Isaia come segno del tempo messianico.

    2. I farisei dubitavano degli esorcismi di Gesù.
    Gesù risponde:
    «Se caccio i demoni col dito di Dio vuol dire che è arrivato per voi il Regno di Dio» (Lc. 11,20).

    L'espulsione dei demoni è fatta per significare che era arrivato il Regno.

    3. Un'altra volta Gesù sana un paralitico per dimostrare che aveva il potere di perdonare i peccati (Mc. 2,10-12).
    Il miracolo diventa segno del suo potere per stroncare il male alla radice che è il peccato.

    4. Il miracolo della tempesta sedata suscita la domanda:
    «Chi è costui cui il vento e il mare obbediscono?» (Mc. 4,40).

    Il miracolo non è un fatto isolato, ma richiama l'attenzione di Gesù del quale vuol rivelare un aspetto personale.

    5. Risana l'uomo dalla mano secca per dimostrare che Lui è più del sabato (cf. Mc. 3,1-5; 2,27-28).

    6. I miracoli servono a conferire credibilità alle parole e ai messaggi che Gesù dirige al popolo (cf. Gv. 12,37; Lc. 10,13-14').
    I miracoli sono segni per dimostrare che Gesù sta nel Padre, ed il Padre in Lui (Gv 10,38; 14,11).

    I miracoli perciò non sono gesti di grandezza fini a se stessi, indipendenti da ogni altra cosa.

    Hanno uno scopo:
    rivelare agli uomini la persona di Gesù.

    Attraverso di loro Gesù si presenta con la missione che il Padre gli ha dato.

    Gesù non permette che il popolo si fermi ai miracoli, ossia ai benefici senza poi interrogarsi circa il messaggio che Dio vuol comunicargli per mezzo di loro.
    Si lascia cercare dal popolo a causa dei miracoli.
    Basta leggere i Vangeli per convincersene.

    Subito dopo però cerca di portare il popolo a non polarizzarsi sui prodigi ed a ricercarne il significato.

    Quando per esempio il popolo lo seguiva a causa dei miracoli (Gv 6,2) e restò con lui tanto tempo che gli mancò da mangiare, Gesù moltiplicò i pani (Gv 6,11-12).

    Qualche tempo dopo il popolo lo cercò ancora e Gesù disse:
    «Mi cercate non perché avete visto dei segni, ma solo perché avete mangiato il pane e vi siete saziati» (Gv. 6, 26).

    Si interessavano del beneficio e non dei segni, cioè non si preoccupavano di scoprire il significato del messaggio.
    Quella volta Gesù parlò con molta durezza (Gv 6,60) tenendo a distanza il popolo che rimase chiuso nei suoi interessi immediati e non volle aprirsi ad un senso più alto delle cose (cf. Gv. 6,66).

    I miracoli esistono e succedono per aiutare il popolo ad aprirsi al messaggio di Dio, disponendosi ad aderire a Cristo con la fede ed a riconoscere in Lui il Messia, il Figlio di Dio.

    Senza quest'apertura di fede anche il miracolo non serve a niente.
    Gesù per esempio non riuscì a fare nessun miracolo a Nazareth, perché il popolo non aveva fede (Mc. 6,5-6).

    I farisei furono presenti a tutti i miracoli, eppure non credettero
    (Gv. 12,37) perché mancavano di semplicità e di apertura alla verità
    (cf. Gv. 18, 37; 8,39-47).

    Senza queste disposizioni il miracolo è inutile.






    6. I miracoli di Gesù: «campionario gratuito» del futuro


    Oltre ad essere segni del Regno che è venuto, i miracoli sono essi stessi l'inizio della venuta del Regno, «campionario» di quello che il potere e la fedeltà di Dio sapranno realizzare a vantaggio e per mezzo degli uomini che credono.

    Per questo i miracoli, oltre ad essere semplici segni, suscitano anche la speranza, perché testimoniano l'inizio del futuro;
    suscitano la fede perché manifestano la potenza che garantisce il futuro; suscitano il dono di sé e la capacità di lottare e di resistere perché garantiscono che la dedizione alla causa del Regno è valida e non sarà delusa.

    Sotto le mani di Gesù il futuro prende forma concreta, e incomincia a esistere tra gli uomini il Paradiso, dove tutto è ordine, pace, armonia.

    Il Paradiso incomincia con Gesù perché in Lui agisce una forza nuova che è lo Spirito di Dio.

    Lo Spirito che operò nella creazione (Gen. 1, 2), che infuse vita agli uomini (Gen. 2, 7; Gv. 33, 4), che realizzò le grandi meraviglie del passato (Es. 15, lO; Is. 63, 12-14), che riempie l'immensità della terra (Sap. 1, 2), che fu promesso per il futuro come il grande dono di Dio (Gioel. 3,1-5);

    questo Spirito creatore (Sal. 103, 30) Gesù lo possiede in tutta la sua pienezza (Is.11, 2; Lc. 4, 18) e lo comunica a tutti \ quelli che credono in lui (Gv. 16, 12-15) e a tutti coloro che si sforzano di vivere una
    vita umana e degna (cf. Gal. 5, 22).

    Ma sono necessari gli occhi della fede per distinguerne l'azione.

    A volte la forza che costruisce il mondo nuovo e sbocca nel Paradiso trova maggiore disponibilità e opera in modo più intenso e prodigioso in alcune persone:
    S. Francesco, Papa Giovanni XXIII, i santi in generale.

    In tutti però ha gli stessi caratteri:
    lotta contro il male, sforzo di liberazione da tutto quanto opprime l'uomo, tentativo di ristabilire l'ordine la pace l'armonia.



    Anzitutto il miracolo vuol provocare la conversione e il cambiamento, per realizzare il Regno nella vita degli individui e della società:
    «lI Regno di Dio è qui; cambiate vita» (Mc. 1, 15).

    Dipendere sempre dal miracolo e pensare che il miracolo è per se stesso un segno della protezione di Dio e che a niente servirebbe il nostro sforzo, vuol dire ingannare se stesso.

    Laddove il miracolo non riesce a provocare la conversione, ottiene l'effetto contrario e diventa oggetto di giudizio e di condanna (Lc. 10, 13-14; Gv. 15, 24).

    Anche oggi è così:
    fermarsi al miracolo e compiacersene può generare l'effetto opposto a quello che si pensa.

    Miracolo è come la parola di Dio:
    una spada a due tagli (Ebr. 4, 12).






    7. Gesù il Grande Segno o il Grande Miracolo


    I miracoli sono altrettante finestre aperte da Dio sul senso della vita, sui cammini della salvezza.

    Stanno lì davanti a noi soprattutto per renderci attenti a Gesù Cristo. Il Vangelo di Giovanni ce lo insegna con molta chiarezza.

    Nel Vangelo di Giovanni si trovano relativamente pochi miracoli, appena uno di ogni tipo.

    Secondo Giovanni il miracolo non è solo un beneficio fatto a questa o a quella persona, ma è allo stesso tempo rivelazione di uno o di un altro aspetto della salvezza che Dio ha portato agli uomini:
    cambia l'acqua in vino per dimostrare la superiorità del Nuovo Testamento sull'Antico (Gv. 2, 1-11);

    cura il figlio di un ufficiale del re per dimostrare che la fede degli uomini è la prova a distanza del potere di Dio (Gv. 4, 46-54);
    cura il paralitico in giorno di sabato non solo per farlo felice ma anche per rivelare che egli non lavora ad ore fisse, ma come Dio lavora sempre in qualunque momento al bene degli uomini (G v. 5, 1-17);

    moltiplica i pani non solo per saziare la fame del popolo ma anche per rivelare che lui è il Pane della Vita (Gv. 6, 1-59);

    cura il cieco dalla nascita e ridà luce ai suoi occhi spenti non solo per aiutare questo pover'uomo ma anche per rivelare che Lui è la luce del mondo (Gv. 9, 1-7);

    risuscita Lazzaro non solo per aiutare l'amico e liberare dal lutto Marta e Maria ma anche per dimostrare che Lui è la «Resurrezione e la Vita» (Gv. 11, 1-44).


    Tutti i miracoli sono appena una anticipazione del grande e definitivo miracolo della resurrezione in cui si manifestò chi era Gesù e qual è il futuro che Lui vuole realizzare.

    La forza della resurrezione agiva fin d'allora in Gesù e agisce ancora in coloro che credono (cf. Ef. 1, 17-21), provocando attraverso di loro la conversione e la trasformazione della vita e delle strutture che impediscono la realizzazione del Paradiso.






    8. Risposte alle difficoltà suscitate da principio


    Miracolo o legge della natura?
    Il dilemma non esiste.

    Possiamo riconoscere un segno della presenza attuante di Dio nella contemplazione di un tramonto, negli avvenimenti di ogni giorno, nella bellezza di un fanciullo, nella guarigione operata da certe medicine.

    La scienza può dare a tutto ciò la sua spiegazione, ma non arriverà mai al punto da proibirci di dire:
    «Grazie Signore!
    che vuoi da me?»

    Ognuno ha il suo modo di vivere l'amicizia con Dio e interpreta i segni della presenza di Dio a modo suo.

    Potremmo dire che ciascuno ha i suoi miracoli nella sua vita.

    Il criterio è il seguente:
    stare d'accordo col Vangelo;
    provocare un cambiamento di vita;
    non fermarsi al beneficio ma cercare l'appello di Dio che là si rivela; sostenersi nella fede e non favorire la soddisfazione degli aspetti magici che offuscano la presenza gratuita di Dio, legando il potere di Dio a elementi materiali, incapaci di un simile potere.

    È ben possibile che arrivi un giorno in cui la scienza riesca a spiegare tutto ciò che succede a Lourdes.

    Non per questo si dovrà concludere:
    «Qui Dio non c'è».

    Ciò dipende da un altro strumento di misura che è la fede.

    Se Francesco non avesse avuto quella fede e quell'amore che aveva, non avrebbe visto niente nel fiore che Maria mise per lui sul davanzale.

    Avrebbe visto nel fiore, nel vestito, nel cibo, qualcosa che Maria doveva fare per lui dal momento che era sua legittima sposa.

    Quel fiore avrebbe fatto crescere in lui la coscienza che il marito era lui ed a lui la moglie doveva obbedienza.


    L'amore non sarebbe aumentato, anzi sarebbe diminuito e lui sarebbe caduto in un egoismo sempre maggiore.

    Molta gente vede nel miracolo qualcosa che Dio deve fare perché è Dio, perché è padrone.
    Il padrone, si pensa, ha il dovere di dare l'elemosina ai suoi servi.

    La dà però come e quando crede.
    A noi spetta il dovere e il diritto di chiederla.

    Quanto più il padrone fa elemosina, tanto più è padrone, così si pensa. Quanti più miracoli Dio fa, tanto meglio si comporta come Pio.

    Ne deriverebbe che noi, poveri dipendenti uomini, resteremmo sempre nella condizione di dipendenti e di schiavi.

    Non arriveremmo mai ad essere figli di colui al quale chiediamo e dal quale riceviamo elemosina.
    Il miracolo però non è uguale all'elemosina che il padrone concede.

    Il miracolo è un segno di amore che il padre dà al suo figlio.
    Fintanto che non ci formeremo la mentalità di figli, non avremo lo sguardo adatto a scoprire il vero senso del miracolo.

    Miracoli oggi:
    Il grande miracolo, così grande che non lo vediamo neppure perché sta troppo vicino ai nostri occhi, è la vita che si rinnova per la fede in Cristo;

    vita che sempre crea un coraggio nuovo e non si arrende mai;
    vita che sopporta la persecuzione, che arriva a morire ma che risuscita sempre;
    vita che rinnova gli altri solo per il fatto che esiste;
    vita che ci confonde con la sua grande ricchezza, nonostante la povertà in cui viviamo.

    Questo è il grande miracolo ambulante e continuo, provocato dall'azione dello Spirito presente nella vita degli uomini.

    Laddove diminuisce la percezione della forza della vita e dello Spirito, nasce la necessità dei «miracoli» per sostenere la vita.

    Quando gli uomini perdono la sensibilità per percepire la presenza attuante di Dio in mezzo a loro, presenza garantita dalla Parola di Dio, cercano altri mezzi per garantirsi tale presenza;
    e sorgono i 'miracoli'.

    È difficile pronunciare un giudizio sui 'miracoli' che oggi succedono in tutte le parti del mondo, e che riempiono i musei dei grandi santuari.

    C'è chi scuote la testa e dice:
    «poveretti!» Dobbiamo ricordarci sempre di una frase del Vangelo:
    «Lo seguiva una grande folla perché aveva visto i miracoli che aveva fatto ai malati» (Gv. 6, 2).

    Gesù accoglieva il popolo:
    «gli facevano pena perché erano come pecore senza pastore» (Mc. 6, 34).

    Arrivò perfino a permettere che una povera donna che da 12 anni soffriva di emorragie lo toccasse per essere guarita (Mc. 5, 2534).

    Poteva essere un atteggiamento magico e superstizioso ma Gesù non lo condannò.

    Si fa presto a condannare gli atteggiamenti del popolo!
    Ma non è altrettanto facile individuare il vuoto interiore che porta il popolo a cercare i miracoli!

    Invece di giudicare con superficialità il sentimento del popolo, sarebbe più onesto imporsi una revisione seria dei propri atteggiamenti:
    stiamo offrendo noi al popolo una speranza, qualcosa che gli apra la porta di un futuro migliore per il quale valga la pena lottare?

    Perché non riconoscere in questa crescente sete di miracoli (da San Gennaro al Divino Amore agli stregoni di tutti i luoghi) il segno che sta crescendo la disperazione del popolo, oramai incredulo e diffidente verso tutte le soluzioni ufficiali, sia dei governi che della Chiesa?

    Non è questo il caso di «sentir pena del popolo come di pecore senza pastore?»
    e offrirgli in tutta la sua pienezza la «Buona Notizia» del Regno?

    Questo vale non solo per il popolo povero e sottosviluppato.
    Oggi l’oroscopo è di moda e lo troviamo anche nei giornali 'cattolici'.

    Religioni esoteriche vedono crescere il numero dei loro adepti che vengono da tutte le parti, gente istruita che ha tutto quello che vuole dalla vita.

    Gli manca però la vita che cerca.

    Anche costoro vanno errando per le strade della vita come pecore senza pastore, bisognosi di una visione del futuro che sia capace di risvegliare una speranza, una fede, un grande amore.






    SEGUE..



    Una strettina di [SM=g1902224]



    Pierino





    [Modificato da mlp-plp 26/12/2009 12:40]
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    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XV [SM=g6198] [SM=g6198]


    la trasfigurazione di Gesù:
    il senso delle crisi della vita






    1. Obbiettivi di questo capitolo


    Generalmente quando sentiamo parlare di Trasfigurazione pensiamo
    a un fatto determinato nella vita di Gesù.
    Non lo inseriamo nell'ambiente generale della sua esistenza.

    Infatti la Trasfigurazione dà un'impronta alla vita di Gesù.

    Inaugura una fase nuova e differente della sua attività.

    Il fine principale di questo capitolo è illustrare, per mezzo di uno studio sulla Trasfigurazione,
    quell'aspetto particolare della vita e dell'attività di Gesù che ci rivela meglio la sua umanità.

    In genere quando leggiamo i vangeli pensiamo solo alle cose che vi
    sono scritte e non a chi le scrisse né a coloro per i quali furono scritte.

    Non pensiamo cioè agli evangelisti né alla situazione concreta dei
    primi cristiani.

    La narrazione della Trasfigurazione è un esempio tipico sia del perché gli evangelisti parlano tanto
    di Gesù quanto della vita dei primi cristiani, e dell'intenzione che ebbero gli evangelisti nel descriverla.

    Illuminare questa triplice dimensione dei Vangeli (Gesù, i primi cristiani, gli evangelisti) è un altro
    obbiettivo del presente capitolo.

    Il terzo obbiettivo consiste nello spiegare il senso della sofferenza
    e della passione, perché dalla Trasfigurazione in poi la Passione sorge all'orizzonte della vita di Gesù
    che incomincia a parlare della necessità della sofferenza per i suoi discepoli.

    Il presente capitolo potrà così aiutarci ad alzare il velo che
    suole nascondere un aspetto della vita di Gesù e della vita cristiana;

    ci rivela come il piano di Dio si realizza a poco a poco
    attraverso le peripezie della vita di ogni giorno che dipendono
    dalle libere decisioni degli uomini, così come le crisi della vita

    sono occasioni offerte da Dio per farci crescere e per realizzare
    la sua volontà nella nostra vita.





    2. Differenze fra le due fasi dell'attività di Gesù


    Un giorno poco prima della sua trasfigurazione Gesù riunì i
    discepoli e domandò loro:
    «Chi dice la gente che io sia?» (Mc. 8, 27; Mt. 16, 13; Lc. 9, 18).

    D'allora in poi cambia la direzione degli avvenimenti e si notano profonde differenze nell'attività di Gesù.

    Diminuiscono i miracoli:
    Nella prima fase della sua vita in mezzo al popolo, Gesù faceva tanti miracoli.

    Nella seconda fase i miracoli si contano sulla punta delle dita.

    Marco ne riferisce solo due in confronto alle decine del periodo precedente.

    Anche Matteo ha notizia soltanto degli stessi due miracoli, più uno,
    (cf. Mt. 17, 14-21; 20, 29-34 e 17, 24-27).

    Luca conosce solo cinque miracoli, cioè i due di Marco e di Matteo più
    tre.

    Tutto qui.

    Perché tanti miracoli nel primo periodo e così pochi nel secondo?

    Incomincia l'allusione costante alla passione:
    In un primo tempo solo una volta o l'altra si parla della Passione come di una possibilità futura.

    Adesso nella seconda fase la grande preoccupazione di Gesù sono
    i discepoli e la loro educazione.

    Molte volte resta solo con loro e cerca di educarli. (Mc. 9, 28.30.35;
    8, 27-31; 1, 10.23-27.28-31; 9, 38-41).
    Fa perfino un viaggio all'estero, nella regione di Tiro e Sidone, per stare solo con i discepoli.

    Gesù per la prima volta parla di Chiesa (Mt. 16, 18).

    Cambia il modo di trattare il popolo:
    Prima la grande preoccupazione
    di Gesù era il popolo.

    Adesso nella seconda fase, la Passione è una certezza e se ne parla continuamente.

    Gesù arriva al punto di fare profezie sulla passione
    (cf. Mc. 8, 31-32; 9, 30-32; l0, 32-34).

    Incomincia a parlare della necessità della croce ai suoi discepoli:
    Non solo parla della sua passione ma anche della necessità
    di soffrire con lui.

    Insiste sulle dure condizioni per poter essere suoi discepoli
    (cf. Mt. 16, 24-28; Mc. 8, 34-38; Lc. 9, 23-27; 14, 27; 17, 33; 12, 9; Mc. 10, 28-31 ecc.).

    Prima, durante il primo periodo, non insisteva così tanto sulla
    necessità di soffrire con Lui.

    La prospettiva delle parabole è differente:
    in un primo tempo Gesù usava molte parabole per illustrare il mistero
    del Regno che deve realizzarsi nel futuro attraverso la passione e la morte.

    L'opposizione dei farisei diventa evidente:
    Nella prima fase si sentiva un'opposizione velata contro Gesù da parte dei capi del popolo.

    In questa seconda fase l'opposizione diventa chiara aperta e irreversibile.

    Queste sono le differenze tra il primo e il secondo periodo
    dell'attività di Gesù, che si scoprono leggendo attentamente i
    Vangeli.

    Una spiegazione si impone:
    quale fu l'avvenimento che impresse una direzione nuova all'attività di Gesù?





    3. Bilancio, revisione e cambiamento di attività nella vita di Gesù


    Gesù lasciò la Palestina e andò nella regione di Tiro e Sidone,
    e tornando di là con i suoi discepoli, quando arrivò vicino a
    Cesarea di Filippi, si fermò e fece un bilancio della situazione
    concreta:

    «Chi dicono gli uomini che io sia?»

    I discepoli enumerarono le opinioni del popolo che erano le più disparate:

    «Dicono che sei Giovanni Battista, Elia, Geremia o uno degli antichi
    profeti». (Mt. 16, 14; Le. 9, 19; Mc. 8, 28).

    Risultato meschino.
    Nessuno ha colto nel segno.
    Tutti hanno sbagliato.

    Nessuno è arrivato a scoprire chi era Gesù.

    Allora.
    Gesù domandò agli Apostoli:

    «E voi?
    chi dite che io sia?»

    Pietro risposte in nome di tutti e proclamò che Gesù era Cristo cioè il Messia, il Salvatore
    promesso da Dio (Mc. 8, 29), e Matteo aggiunse:
    «Tu sei il Figlio di Dio vivo» (Mt. 16, 16).

    Avevano colto nel segno.
    Per loro l'attività di Gesù non era stata inutile.

    Fatto il bilancio del suo agire in mezzo al popolo, quale sarà la reazione di Gesù di fronte alla realtà?

    Gesù fu sempre obbediente al Padre.

    L'obbedienza fu la nota caratteristica della sua vita.

    Paolo dice che Gesù fu obbediente fino alla morte (Fil. 2, 8) e che venne al mondo proprio
    per fare la volontà del Padre (Ebr. 10, 9).

    Gesù stesso lo affermò tante volte:
    «Non faccio niente di mia iniziativa, ma come il Padre mi ha insegnato, così parlo... Faccio
    sempre quello che piace a Lui» (Gv. 8, 28-29).

    Non dobbiamo però intendere l'obbedienza di Gesù come se Lui non avesse bisogno di esaminare i fatti
    e gli avvenimenti, come se per Lui tutto fosse chiaro e lampante.

    Gesù legge la volontà del Padre negli avvenimenti, nella Bibbia, nella situazione concreta.

    Per questo si ritira e prega il Padre nella solitudine durante notti intere (Lc. 6, 12; 9, 18; 5, 16).

    Molte volte la situazione concreta lo spinge a cambiare comportamento (cf. Gv. 4, 31-34).

    La lettera agli Ebrei arriva a dire che Gesù imparò ad obbedire attraverso la sofferenza (Ebr. 5, 8).

    In questo Gesù fu davvero uomo «in tutto uguale a noi eccetto nel peccato» (Ebr. 2, 17-18; 4, 15).

    Non solo cercava di scoprire la volontà di Dio ma la metteva in pratica ad ogni costo.

    Dio rispetta profondamente la libertà degli uomini.
    Nella prima fase della sua attività Gesù annunciò l'arrivo del Regno
    (Mt. 1, 15).

    Mise in azione tutti i segni necessari perché il popolo potesse accorgersi che il Messia promesso era proprio Lui.

    Ma il popolo aveva un'idea così differente del Messia che non arrivò a riconoscerlo in Gesù.

    Gesù in un primo momento non usò per sé il nome di Messia, perché l'espressione era politicamente
    sospetta, come sarebbe oggi la parola sovversivo o coscientizzazione.

    Non voleva aumentare l'equivoco già esistente.

    Realizzò la promessa senza darle un nome.

    Lo doveva scoprire da sé il popolo, e riformare il suo modo di immaginarsi il Regno.

    Ma questo non si avverò.

    La grande opportunità «dell'anno della bontà del Signore» (Lc. 4, 19) fu annunciata e offerta
    a tutti, ma non fu riconosciuta né accolta.

    Dio lasciò l'uomo libero di decidere come realizzare la sua salvezza.

    Il bilancio ne fu la prova lampante.

    Risultò che l'attività di Gesù era arrivata al punto cruciale di una svolta decisiva.

    A partire dalla libera decisione degli uomini di fronte all'annuncio
    del Vangelo, Gesù rivede tutta la sua maniera di agire.

    Vede sotto una luce nuova la realizzazione del Regno di Dio.
    La profezia che parla della sofferenza e della morte del Servo Sofferente di Jahvé (Is. 53, 1-13)
    segna d'ora in poi il suo cammino.

    È questa adesso la volontà del Padre, espressa chiaramente nella Sacra
    Scrittura che Gesù accetta, sebbene con angustia e paura
    (cf. Gv. 12, 27).

    Il rifiuto degli uomini non è valso ad impedire la realizzazione del piano di Dio.

    Al contrario, ha contribuito alla sua realizzazione in un modo differente, per cui si rivela ancora
    meglio la bontà di Dio verso
    gli uomini.

    Sarebbe ozioso domandarsi:
    «Come sarebbe stato il Regno se gli uomini lo avessero accettato fin
    da principio?».

    Nessuno lo può sapere.
    È una delle tante probabilità che non si sono realizzate.






    4. La tentazione nella vita di Gesù


    Nessuno può negare che Gesù fu tentato, dal momento che gli evangelisti ne parlano in modo
    esplicito (Mt. 4, 1-11; Mc. 1, 12-13; Lc. 4, 1-13).

    La lettera agli Ebrei dice che la tentazione fu una delle caratteristiche costanti della vita
    di Gesù (Ebr. 4, 15).

    Gesù fu tentato nel deserto, dove Satana cercò di spingerlo a seguire
    un'altra strada per realizzare la sua missione, diversa da quella
    che Dio gli aveva proposto.

    Gesù reagisce decisamente con frasi prese dalla Bibbia e non permette che Satana
    raggiunga il suo fine.

    Satana è tutto ciò che devia l'uomo dal cammino segnato da Dio.

    Più avanti Pietro sarà chiamato Satana (Mc. 8, 33), perché voleva dissuadere Gesù dal seguire
    il cammino della sofferenza.

    Pietro pensava che un cammino del genere non si addicesse alla dignità di Messia.

    Oltre alle due circostanze in cui appare Satana, Luca allude a lui un'altra volta quando dice:
    «Dopo tutte quelle tentazioni, Satana si allontanò da lui fino alla prossima volta» (Lc. 4, 13).

    Qual’è quest'altra volta?

    Gesù si trova sempre di fronte all'alternativa di seguire il cammino
    voluto dal Padre o il cammino voluto dal popolo.

    Per esempio, dopo la moltiplicazione dei pani il popolo voleva fare
    di Gesù un re.

    «Giudicarono che Gesù era davvero il profeta che doveva venire al mondo» (Gv. 6, 14) e volevano farne
    un Messia a modo loro, un Messia politico e terreno.

    Fu una tentazione per Gesù, che vi resistette fuggendo sulla montagna (Gv. 6, 15).

    Durante la prima fase della sua attività, Gesù cercò di far cambiare al popolo l'opinione che aveva sul Messia e
    sul Regno, accettandolo così com'era senza mettere condizioni e senza andare dietro a preconcetti.

    Non ci riuscì.

    Il popolo persistette nella sua opinione e Gesù lo rispettò.

    Continuamente le velleità del popolo provocano Gesù a lasciare un cammino per un altro.

    È la tentazione, la crisi nella vita di Gesù.

    Satana interferisce cercando di sviarlo dal cammino tracciato dal Padre.

    È come dire che gli uomini tentano continuamente di inquadrare Dio dentro
    i loro progetti umani, senza permettergli di criticarli.

    Ma Gesù non si sposta dalla sua direzione, pregando sempre.

    Non cedette ai facili compromessi del potere e delle aspirazioni del popolo.

    Le cose andavano verso una definizione.

    L'ora della definizione arrivò anche per Gesù:
    capì che non era possibile cambiare la mentalità del popolo, a causa soprattutto dell'influenza
    dei capi, i farisei e gli scribi.

    Mai e poi mai avrebbero accettato il punto di vista di Gesù.

    Sarebbe stato lo stesso che decretare il crollo della loro posizione sociale.
    Per cui le cose erano chiare.

    Gesù a sua volta non cambiava di certo.
    Era inevitabile il conflitto.

    La croce si delineava sull'orizzonte della sua vita.
    La morte violenta non è più solo possibile, è diventata una certezza.

    Penetrando così l'orizzonte degli avvenimenti alla luce della
    missione ricevuta dal Padre e alla luce dell'amore e del rispetto

    verso gli uomini, Gesù comincia a cambiare la direzione della
    sua attività.


    Il suo futuro dipende adesso dalla decisione che Lui stesso prenderà di fronte alla reazione negativa del popolo.

    Decisione di vita o di morte.
    Fu obbediente al Padre, scelse il cammino della fedeltà che lo avrebbe portato fino alla morte.

    La sua decisione fu irremovibile:
    «prese decisamente il cammino
    di Gerusalemme» (Lc. 9, 51) dove sarebbe stato ucciso.

    Tutto ciò non avvenne senza conflitto interiore, senza tentazione, simile a quelle che si dettero
    nel deserto e nell'orto degli ulivi, come ci raccontano i Vangeli.

    Satana ritorna costantemente, per così dire, nella vita di Gesù.

    La Trasfigurazione occupa un posto centrale nel cambiamento che si operò nella vita di Gesù.






    5. Crisi e tentazione nella vita degli apostoli


    Gesù lanciò quella domanda:
    «Chi dicono gli uomini che io sia?» (Mc. 8, 27).

    La risposta gli venne dal bilancio dell'inchiesta sulle opinioni del
    popolo.

    Nessuno ci indovinò.

    Fece la stessa domanda agli apostoli e Pietro rispose per tutti:
    «Tu sei il Messia» (Mc. 8, 29).

    Lo accettavano così com'era, senza condizioni né preconcetti.

    Almeno così sembrava.
    Firmavano il foglio in bianco, disposti a tutto.

    Gesù cominciò subito a riempire il foglio in bianco.
    Le Sue parole esprimevano la decisione già matura dentro di Lui.

    Gesù incominciò col dire ciò che pensava della sua missione messianica.

    Come se dicesse:
    «Ottimo.
    Dunque io sono il Messia, ma dovete sapere che il Messia dovrà soffrire molto, sarà rinnegato dai capi del popolo,
    sarà dato alla morte ma risusciterà» (cf. Mc. 8, 1).

    La rivelazione fu uno choc, un fulmine a ciel sereno per gli apostoli.

    Non andava assolutamente d'accordo con le idee che avevano sul Messia.

    Come il popolo, anch'essi pensavano ad un Messia glorioso, maestoso, giudice severo.

    E adesso l'uomo, che credevano fosse il Messia, viene a raccontare che
    proprio in quanto Messia sarà canzonato, rinnegato, torturato, condannato a morte come un bandito.

    Non entrava nelle loro teste.
    Gli apostoli precipitarono in una crisi di fede.

    Pietro che poc'anzi aveva interpretato il sentimento di tutti dicendo che Gesù era il Messia, anche adesso interpreta
    il sentimento di tutti e dice:
    «Sei pazzo Signore!
    Mai e poi mai ti succederà
    una cosa simile!» (Mt. 16, 22; Mc. 8, 32).

    La reazione di Gesù fu delle più inattese:
    «Vattene Satana!
    Tu mi impedisci il cammino!
    Tu pensi come pensano gli uomini, non come pensa Iddio!
    » (Mt. 16, 23; Mc. 8, 33).

    Cominciò il conflitto, ma Gesù tenne duro nel suo modo di intendere la missione di Messia e di Salvatore.

    Sarà doloroso portarla fino in fondo, perché sarà osteggiata dai migliori amici ed anche dal popolo in generale.

    Gesù non diminuì il problema.

    Non solo disse che Lui avrebbe dovuto soffrire, ma aggiunse che anche loro, gli Apostoli, avrebbero dovuto soffrire,
    rinnegare se stessi, caricarsi la croce sulle spalle e seguirlo. (Mc. 8, 34; Mt. 16, 24-25).

    Non c'era più alcun dubbio.
    Invece di addolcire la pillola, Gesù gliene fa assaporare
    tutta l'amarezza.

    Chi vuole andare con Lui deve sapere ciò che sta facendo, deve sapere ciò che l'aspetta.

    La Trasfigurazione avvenne in questo clima generale:
    Gesù che soffre la tentazione da parte del popolo, che esige da lui tutt'altra cosa, e da parte degli apostoli, che non lo capiscono;

    che soffre in più tutto il disgusto naturale che la morte causa in qualunque persona normale; gli apostoli in profonda crisi non sanno
    più che cosa fare;

    il popolo vuole impadronirsi di Gesù per farne un re e un messia terreno e politico;
    ma è un popolo che non sa quello che fa, come un gregge senza pastore:
    un popolo che merita compassione più che giudizio severo (cf. Mc. 6, 34).

    Questa è la situazione concreta di Gesù e degli apostoli.






    6. La Trasfigurazione nel contesto della vita di Gesù e degli apostoli


    Nella descrizione della Trasfigurazione si allude alle 'tende'
    (Mt. 17, 4; Me. 9, 5; Lc. 9, 33).

    Il racconto incomincia con una precisazione cronologica:
    «sei giorni dopo» (Mt. 17,1; Mc. 9, 2) che non ha nulla a che vedere col testo precedente.

    Che senso hanno queste due osservazioni preliminari?

    Esisteva tra i Giudei una festa chiamata «Festa dei Tabernacoli
    » o «Festa delle Tende».

    Commemorava i 40 anni che i Giudei passarono nel deserto sotto le tende.
    La festa durava sette giorni, durante i quali il popolo aveva l'obbligo di vivere sotto tende improvvisate.

    Se non avesse potuto farlo durante tutti i 7 giorni, lo doveva fare almeno per tutto il settimo giorno.

    Era una festa nazionale pregna di speranza messianica, più o meno come il XX Settembre a Roma.

    Quando i partiti vogliono fare qualche manifestazione di protesta contro il Vaticano, scelgono di preferenza un giorno come questo.

    Anche allora era così.

    In un giorno come quello dei Tabernacoli il popolo si metteva in tumulto, sembrava attendere il Messia con maggiore impazienza:
    «... verrà oggi? ...» Credevano che il Messia sarebbe venuto in un giorno come quello.

    L'aria era carica di speranza messianico-politica.

    Il popolo guardava Gesù sperando e supplicando che si definisse e si proclamasse Messia.

    La tentazione era sempre più forte, più violenta e insistente,soprattutto nell'ultimo giorno di festa.

    «Dopo sei giorni» cioè nel settimo, Gesù cercò un luogo solitario, come
    già un'altra volta quando fuggì sulla montagna (Gv. 6, 15).

    Sale sul monte a pregare (Lc. 9, 28).

    Di fronte alla tentazione che gli viene dal popolo, Gesù si fissa in Dio con l'orazione.

    Porta con sé solo tre apostoli:
    Pietro, Giacomo e Giovanni.

    Là nella solitudine Pietro si ricorda del dovere di mettere su le tende, perché era l'ultimo giorno.
    «È bene per Te, Signore, stare qui con noi;
    facciamo tre tende» (Mt. 17, 4).

    Apparvero due figure:
    Mosè ed Elia che rappresentavano
    l'Antico Testamento;
    e si misero a parlare con Gesù della morte che lo aspettava a Gerusalemme (Lc. 9, 31).

    Il che significa:
    anche l'Antico Testamento, che per gli apostoli era la più alta
    espressione della volontà di Dio, dava ragione a Gesù:
    doveva soffrire perché questo era il piano di Dio indicato dai Profeti.

    Allo stesso tempo Gesù appare tutto glorioso, differente, trasfigurato.

    L'insieme dei fatti offriva agli apostoli il mezzo per vincere la loro crisi di fede.
    Vedevano Gesù totalmente glorificato, di quella gloria che avevano sognato per il Messia.

    Allo Stesso tempo l'Antico Testamento, nella persona dei suoi maggiori rappresentanti Mosè ed Elia, confermava che Gesù doveva proprio soffrire.

    La passione, di cui Gesù aveva tanto parlato e contro la quale si erano ribellati, rientrava proprio nel piano di Dio.

    La croce era il cammino della gloria.
    Non ce n'era un altro.
    Il torto era loro.

    Gesù aveva tutte le ragioni.
    Bisognava cambiare idea e rivedere le proprie posizioni.

    Dal cielo una voce li confermò nella loro conclusione:
    «Questo è il mio figlio tanto amato!

    Dovete ascoltarlo!» (Mc. 9, 7).

    Incomincia la lenta vittoria sulla crisi di fede provocata dallo scandalo della croce.

    Secondo il Vangelo di Luca la Trasfigurazione fu molto simile per Gesù all'agonia dell'orto degli ulivi:
    in tutt'e due i casi vediamo degli uomini che parlano con Gesù sulla passione e morte (Lc. 9, 31).

    Nell'agonia appare un angelo per incoraggiarlo ad accettare la passione e la morte (Lc. 22-43).

    In tutte e due i casi gli apostoli dormono (Lc. 9, 32 e 22, 45).

    Nella Trasfigurazione, mentre Gesù prega, il suo aspetto è glorioso
    (Lc. 9, 29) e nell'agonia, mentre prega, il suo aspetto è ben altro, perché gocce di sangue gli scorrono fino a terra. (Lc. 22, 44).

    Per alzare un poco il velo del mistero che avvolge la persona di Cristo
    e per riuscire a sapere che cosa avvenne dentro di Lui al momento della Trasfigurazione, possiamo ricorrere alla scena dell'agonia
    e dire così: qui Gesù ha l'aspetto di un vero uomo.

    Come qualunque uomo, sente la paura e l'angoscia del1a morte mal'affronta
    con coraggio e preghiera per essere fedele a Dio.
    La sua missione è arrivata al momento critico.

    Per sottrarsi agli inviti del popolo che voleva deviarlo dal suo cammino, si apparta, vuole stare solo con il Padre.

    Mentre prega e riflette sull' Antico Testamento, affronta una situazione uguale a quel1a affrontata col demonio nel deserto,
    servendosi delle parole del1a Sacra Scrittura.

    L'adesione incrollabile di Gesù al Padre riceve una risposta nella Trasfigurazione quando appaiono i due rappresentanti
    dell' Antico Testamento e una voce celeste si fa sentire:
    «Questo è il mio figlio amato in cui trovo quello che amo» (Mt. 17,5).

    Finito tutto, Gesù proibisce ai tre di svelare agli altri quello che hanno veduto (Mt. 19, 9; Mc. 9, 9; Lc. 9, 36).

    Tutto sparisce e resta solo Gesù.

    Gli evangelisti insistono sul particolare:
    solo Gesù!
    Come se volessero dire:
    d'ora in poi l'unica espressione della volontà di Dio in mezzo agli uomini è Gesù Cristo nell'atto di accettare
    la morte, di dare tutto se stesso ai fratelli.

    Gesù in questo preciso atteggiamento è la legge che deve orientare
    la vita.

    A partire da questo momento tanto decisivo incomincia la seconda
    fase della vita di Gesù, come abbiamo detto sopra.






    7. La Trasfigurazione nei Vangeli


    Ogni evangelista descrive il fatto a modo suo.

    Quando tre persone dipingono lo stesso amico, ciascuna
    delle tre lo dipinge in un modo differente, perché ciascuna vede nell'amico un aspetto
    che gli altri non vedono.

    La differenza si rivela nei piccoli tratti.
    Il Vangelo di Matteo (Mt. 17, 1•8) dice che il volto di Gesù
    sembrava il sole;
    parla in una nuvola luminosa;
    afferma che i discepoli ebbero paura quando udirono la voce celeste.

    Gli altri due, Marco e Luca, non danno gli stessi particolari, e pur dicendo che gli apostoli ebbero paura,
    vedono il fatto in un altro
    contesto.

    Accentuando i piccoli tratti caratteristici, Matteo, che scrive per i Giudei convertiti, fa pensare a Mosè che aveva
    il volto splendente come il sole quando scese dalla montagna con le dieci tavole della Legge antica, (Es. 34, 29-35) e ci ricorda la nuvola luminosa che si abbassò sulla
    montagna del Sinai quando Dio dette la sua Legge per mezzo di Mosè.

    Matteo vuol suggerire che l'antica legge fu data per mezzo di Mosè e la nuova legge per mezzo di Gesù Cristo.

    Gesù stesso è la legge nuova, perché Dio ha detto:
    «ascoltatelo» (Mt. 17, 5).

    Come il popolo dell'Antico Testamento ebbe paura quando vide Mosè con
    la Legge, la stessa paura ritorna al momento in cui è data la legge nuova.

    Il Vangelo di Marco (Mc. 9, 2-8) dà pochi tratti caratteristici quando descrive il quadro della Trasfigurazione.
    Racconta solamente quello che se ne diceva, senza preoccuparsi di aggiungervi nessuna opinione personale.

    L'unica cosa pittoresca, molto appropriata a Marco, è il giudizio sul candore delle vesti di Gesù trasfigurato:
    «così bianco che nessuna lavandaia riuscirebbe a fare altrettanto»
    (Mc. 9, 2).

    Il Vangelo di Luca (Lc. 9, 28-36), come abbiamo visto, accentua la somiglianza che esiste tra la Trasfigurazione
    e l'agonia di Gesù nell'orto.

    Ma prima ancora di essere descritto dai tre evangelisti, esisteva il racconto orale della Trasfigurazione
    tramandato dai primi cristiani.

    Perché tramandavano il fatto?

    A quanto sembra i motivi sono vari:
    anzitutto lo scandalo della croce era una pietra d'inciampo molto grande all'evangelizzazione dei giudei (cf. I Cor, 1, 23).

    Come fare perché credessero che un uomo condannato da due tribunali e ucciso scandalosamente sulla croce
    potesse essere accettato come Messia?

    Solo dimostrando che la sofferenza e la croce rientravano nel piano di Dio descritto dall'Antico Testamento.

    La Trasfigurazione risolveva il problema e dimostrava che secondo l'Antico Testamento la croce era il cammino
    del Messia verso la gloria.

    In secondo luogo i cristiani trovavano nell'avvenimento una conferma alla loro fede in Gesù Figlio di Dio,
    dal momento che Dio stesso aveva detto: «Questo è il figlio mio!»

    Infine il racconto rafforzava l'autorità di Gesù Cristo:
    era Lui la Legge e la norma del cristiano:
    «Ascoltatelo!»

    Questa è la storia della Trasfigurazione.

    Uno studio attento di un episodio molto noto della vita di Gesù ce ne ha rivelato aspetti sconosciuti.

    Ci ha dimostrato quanto sia giusta la verità che professiamo:
    Dio si incarnò in Cristo e si fece uomo come noi.

    Forse da oggi saremo capaci di fissare con più attenzione lo sguardo sull'autore della nostra fede, Gesù, che invece di accettare
    la felicità che gli veniva offerta «sofferse la croce» (Ebr. 12, 1-2).



    SEGUE..



    Una stretta di [SM=g1902224]



    Pierino




    [Modificato da mlp-plp 01/01/2010 22:49]
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    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XVI [SM=g6198] [SM=g6198]

    la libertà del cristiano:
    prassi pluralista della stessa fede in Gesù Cristo





    1. Una situazione di conflitto nella Chiesa, sintomo di un male occulto



    Paolo non se la intendeva molto con la comunità di Gerusalemme.

    Non era colpa sua.

    Alcuni cristiani di là non confidavano in lui.

    Oltre a conservare il ricordo doloroso della persecuzione che Paolo aveva
    fatto contro di loro (Atti 9, 13-26), lo giudicavano troppo avanzato.

    Correva voce che avesse fatto piazza pulita di tutte le tradizioni e che incitasse i giudei del mondo intero a mettere da parte l'osservanza della legge di Mosè (Atti 18, 13; 21, 28) .

    Avrebbe detto che la circoncisione non valeva più niente (Atti 21, 21).

    Più o meno come se oggi qualcuno dicesse che il precetto domenicale, il celibato, il digiuno eucaristico, i nastri, la corona alla Madonna ecc. non valgono più niente.

    Paolo sentiva fino in fondo la mancanza di fiducia dei suoi fratelli nella fede.

    Proprio contro di lui, che aveva dato tutto se stesso per amore di Cristo nel quale anche loro credevano (Gal. 2, 20; II Cor. 10, 1; 11, 22-23; Fil. 3, 5-8).

    Oltre ad essere falsa, l'accusa contro di lui era sintomo di un male occulto.

    Rivelava una divergenza molto profonda tra Paolo e i suoi colleghi di Gerusalemme.

    Le loro idee sul Vangelo e sulla funzione e il posto di Gesù nella vita degli uomini erano radicalmente opposte.

    Paolo giudicava del tutto compatibile con l'unità della fede un certo pluralismo nella maniera di viverla.

    I Giudei convertiti vivevano la fede nella sincerità e nel dono di sé, seguendo le prescrizioni di Mosè: (Atti 21,20; cf. 10, 14-28; 11, 3; 1,46). Paolo non era contrario a questo.

    Anche lui, quando lo credeva opportuno, osservava la legge (I Cor. 9,20).

    Non per questo potevano accusarlo di opportunismo, giacché non cercava il suo interesse.

    Non poteva sopportare la pretesa di certi colleghi di Gerusalemme, che volevano addurre la maniera giudaica di vivere il vangelo come l'unica valida e autentica, imponendola a tutti come passaggio obbligatorio per entrare a far parte della salvezza di Cristo. (Atti 15, 1.5.24).

    Paolo diceva che un pagano convertito al cristianesimo doveva poter vivere la stessa fede a modo suo, differente dai giudei ma con la stessa sincerità e con lo stesso dono totale di sé.

    Ed era proprio qui il punto di divergenza.

    Gli altri non avevano la stessa apertura di spirito e contestavano la tesi di Paolo.

    Forse non agivano neppure con malizia, ma spinti da una coscienza
    deformata.

    Paolo però aveva i suoi dubbi sulla sincerità di costoro (cf. Gal. 2,45; 4, 17; 6,12; Fil. 3, 2).

    Comunque fosse, essi si davano molto da fare e si organizzavano per raggiungere il loro fine.





    2. Dubbi e dissidi interni generati dal conflitto


    Ne venne una grande confusione all'interno della Chiesa (Atti 15, 2).

    Nessuno sapeva più dov'era la Verità.

    Chi aveva ragione?

    Paolo o il gruppo di Gerusalemme, che si nascondeva dietro il nome dell'Apostolo Giacomo? (GaI. 2, 12).

    Perfino Pietro, capo della Chiesa, stava in dubbio, non riuscendo a distinguere il cammino giusto, a causa del carattere eminentemente pratico del problema, e subì l'influenza del gruppo di Gerusalemme
    (Gal. 2, 11-14).

    La Chiesa si trovava al bivio e nessuno sapeva quale fosse il cammino giusto che bisognava prendere.

    Non era stato previsto.

    Cristo non aveva lasciato niente di scritto:
    le norme precedenti non erano capaci di equilibrare il problema totalmente nuovo, che richiedeva creatività, La scelta era difficile: continuando sulla strada dei più moderati non sarebbero caduti nel pericolo della persecuzione, però nessun pagano sarebbe più entrato nella Chiesa per non sottomettersi al rito della circoncisione;
    la Chiesa si sarebbe ridotta ad una setta giudaica che il tempo avrebbe inghiottito.

    Continuando sul cammino di Paolo, il mondo giudeo e romano si sarebbero abbattuti sul cristianesimo, (cf. Atti 13, 45; 13, 50; 14, 2.5; 16, 20) ma la fede si sarebbe aperta a tutti gli uomini indistintamente.

    Che fare?

    Attirare su di sé l'ira di tutti e mettere in pericolo la sopravvivenza della fede per eccesso di velocità, o procedere con più calma e mettere in pericolo la sopravvivenza della fede per morte prematura?

    Paolo era della prima idea e si batté per sostenerla.

    Soffrì molto a causa della sua convinzione.

    I suoi avversari fecero di tutto per screditarlo.

    Tentarono di contestare la sua autorità:
    il Vangelo che predicava era roba sua, non era il Vangelo degli Apostoli Pietro e Giacomo (cf. Gal. 2, 6-9; 1, 19-23).

    Una volta distrutta la sua autorità, tutta la base del suo lavoro sarebbe stata minata.

    Paolo fu costretto a difendersi dimostrando che non c'era nessuna divergenza fra lui e i due grandi apostoli (Gal. 2, 1-10).

    Fece di tutto per sfatare l'impressione che lui fosse un demolitore della legge e della tradizione (cf. II Cor. 11, 21-23; 12, 11; Atti 25,8; 24.14-16; I Cor. 9,20; Rom. 3,31;10, 4).

    È ben possibile che la reazione degli altri contro Paolo fosse causata solo dalla paura della persecuzione.

    È difficile dare un giudizio a distanza di tanto tempo.

    Paolo almeno la pensava così:
    «lo fanno solo per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo!» (Gal. 6, 12). E li chiamava «falsi frate11i,> (Gal. 2, 4;
    II Cor. 11, 26.12-13).






    3. La convinzione di Paolo tradotta in gesti concreti


    Poco importava a Paolo che uno fosse circonciso o no, che fosse un cristiano venuto dal giudaismo o dal paganesimo
    (Gal.6, 15; 5, 6; I Cor. 9, 20).

    A nessuno era proibito di osservare la legge di Mosè.

    Ma allo stesso tempo non sopportava la pretesa addotta da altri, che la legge fosse indispensabile per essere cristiani.

    La salvezza portata da Gesù era aperta a tutti, perché Paolo diceva che bastava la fede in Gesù Cristo, intesa come adesione totale a lui
    (Gal. 3, 22; 2, 15-19.21).

    Di fronte a Cristo tutti siamo uguali.

    Le osservanze, le prescrizioni e quella enormità di norme, tutto passa in secondo piano come mezzo e strumento.

    Perciò quando lo riteneva utile, per farsi cioè giudeo con i giudei, Paolo osservava la legge di Mosè (I Cor. 9, 20).

    Arrivò perfino a circoncidere Timoteo per facilitare il rapporto con i Giudei (Atti 16, 3).

    Ma si oppose energicamente a fare lo stesso con Tito, quando gli altri ne volevano fare una questione di principio (Gal. 2, 3-5; 5, 2).

    Lo stesso si dica delle osservanze giudaiche rispetto al bere e al mangiare.

    Paolo credeva che in tutte queste cose quello che vale è la coscienza (Rom. 14, 1-5).

    Facesse pure ciascuno quello che gli pareva meglio, purché seguisse sempre la sua coscienza e facesse tutto per il Signore (Rom. 14, 6-9), perché alla fine «il regno di Dio non è una questione di mangiare e di bere» (Rom.14, 17).

    Che fossero liberi davvero! (Gal. 5, 1).

    Quando però gli altri pretendevano fare di cose secondarie una questione di principio, allora Paolo reagiva con forza perfino contro lo stesso Pietro (Gal. 2, 11-14) e protestava che le pretese di lui erano contrarie alla volontà di Dio, adatte solo a «fomentare l'orgoglio» (Col. 2, 23).

    Niente di più che semplici prescrizioni umane (Col. 2, 12).

    Paolo aveva orrore dell'uniformità dell'agire imposta in nome della fede.

    Non gli piacevano coloro che non capivano niente di quello che è essenziale e assumevano il ruolo di difensori delle cose secondarie, pretendendo di definire con la loro misura l'ortodossia di un altro.

    Come egli diceva:
    «il regno di Dio non è una questione di mangiare o di bere»;

    noi oggi potremmo dire:
    «il regno di Dio non è questione di comunione data in mano o in bocca, di prete sposato o no, di colore dei paramenti, di veste bianca o marrone, di confessione una volta al mese o una volta all'anno, di Messa con una lettura o tre, di digiuno eucaristico di 50 o 60 minuti, di «e con il tuo spirito» o «egli sta in mezzo a noi», e di una infinità di altre quisquiglie che offuscano la chiarezza della visione.

    Il Regno di Dio è «giustizia e pace allegria nello Spirito Santo» (Rom. 14, 17).

    Quello che vale davvero è «la fede che opera e si manifesta nell'amore» (Gal. 5, 6).

    Tutto il resto è buono valido ed utile in quanto ha la capacità di portarmi a questo e di questo è l'espressione.

    Altrimenti non vale niente; «certamente non viene da Colui che vi chiamò» (Gal. 5, 8).

    In un'altra occasione Paolo arrivò a prendere un atteggiamento che gli deve essere costato molto.

    Tornando a Gerusalemme dopo il III viaggio missionario nel mondo pagano, accettò di portare alcuni uomini al tempio per sciogliere una promessa fatta secondo la legge di Mosè.

    Si trattava di una manovra tattica messa su da alcuni suoi colleghi di Gerusalemme, per dare agli altri l'impressione che Paolo non era contrario alla legge.(Atti 21, 20-24).

    Ma in altri casi, quando era solo problema di convenienze a tavola, Paolo arrivò a scontrarsi con Pietro in pubblico (Gal. 2, 11-14).

    Per motivi di tradizioni e convenienze giudaiche, Pietro si lasciò coinvolgere dal gruppo di Gerusalemme e abbandonò la convivenza con i pagani convertiti mangiando solo con i giudei convertiti.

    Per questa ragione i pagani si sentirono ridotti ad una categoria di cristiani inferiori e si sentirono costretti dalla situazione ad osservare le stesse convenzioni.

    Di fronte a ciò Paolo reagì fortemente:
    «Se tu, pur essendo giudeo, vivi come uno che non è giudeo, come puoi costringere i non-giudei a vivere come i giudei?»
    «Disse questo alla presenza di tutti». (Gal. 2, 14).

    Si vede bene che nonostante fossero in gioco interessi così importanti, la lotta ieri come oggi nasce sempre dalle cose più comuni della vita, cose irritanti, di nessuna importanza; eppure la battaglia si decide proprio là.

    Si avanza di un chilometro conquistandoselo centimetro per centimetro.






    4. La libertà in Cristo


    Quello che stava a cuore a Paolo era soprattutto la sua libertà.

    Libero dalla legge (Gal. 3, 13) libero da tutto per poter in tutto seguire la sua coscienza nuova, nata in lui dal giorno della sua adesione a Cristo (Gal. 5, 1; 2, 4).

    L'obbligatorietà non si impone dal di fuori, nasce dal di dentro.

    Per niente avrebbe cambiato la sua libertà (Fil. 3, 7-9) e non avrebbe permesso che altri impedissero ai pagani di vivere la sua stessa libertà (Gal. 2, 4-5).

    Neppure Pietro, il capo supremo della Chiesa, aveva l'autorità per farlo (Gal. 2, 14).

    Neppure quei «capoccioni»' o «superapostoli» di Gerusalemme (II Cor. 11, 5; 12, 11).

    Li affrontava coraggiosamente perché scriveva:
    «non mi sento affatto inferiore a loro» (II Cor. 12, 11) perché «lo Spirito di Dio sta in me come in loro» (I Cor. 7, 40).

    Partendo da questo punto di vista, Paolo prendeva le sue decisioni non senza consultare gli altri apostoli (Gal. 2, 1-2), che anzi non trovavano niente da ridire di lui, per lo meno in linea di massima (Gal. 2, 6-9).

    Forse nella pratica non riuscivano a capire del tutto perché Paolo agisse così.

    Molta gente infatti non riusciva a seguire l'apertura di Paolo, perché non era passata per la stessa lotta e per la stessa esperienza per cui era passato lui... Paolo, da parte sua, non esigeva che tutti la pensassero come lui.

    Sapeva rispettare la coscienza degli altri.
    Proprio perché era davvero libero, si rendeva schiavo degli altri
    (I Cor. 9, 19).

    Era capace di vedere nell'altro, per quanto debole e tradizionalista egli fosse, un «fratello per cui Gesù è morto» (I Cor. 8, Il).

    E se per caso il suo libero modo di agire fosse una pietra d'inciampo per l'altro, era disposto a non mangiare carne per tutta la vita pur di aiutare il fratello (I Cor. 8, 13).

    Mise in pratica quello che aveva scritto ai Galati:
    «Fratelli, siete stati chiamati alla libertà, non a una libertà che scatena la carne;
    anzi siate schiavi gli uni degli altri per amore» (Gal. 5,13);
    l'amore lo portava a rispettare la coscienza degli altri.

    Chiedeva solo che non gli rendessero più difficile il compito, imponendo restrizioni che non avevano niente a che vedere con la fede in Cristo, e che non nascondessero sotto il manto della fede, e del buon ordine la loro mancanza di coraggio ad affrontare la realtà e le persecuzioni (Gal. 6, 12).

    È importante notare che tutto ciò per Paolo non restava nel campo della teoria o sulla pagina scritta.

    Aveva il coraggio di insegnarlo agli altri mettendolo lui stesso in pratica e assumendo il rischio delle conseguenze.

    Aveva il coraggio di dire ai Galati, popolo semplice e senza molta cultura:
    «Lasciatevi guidare dallo Spirito Santo e non servirete più ai desideri della carne» (GaI. 5, 16).

    I «desideri della carne» erano tutte quelle preoccupazioni circa le osservanze materiali sul mangiare e sul bere, sulle feste e sulle norme e soprattutto sulla circoncisione che doveva farsi nella carne.

    Ma Paolo non si fermava qui.

    Dopo avere indicato agli altri la strada, non si risparmiava quando sorgevano difficoltà con le altre autorità.

    L'impegno di Paolo con Cristo si traduceva concretamente nel suo impegno con gli altri.

    Non stava a fare tante distinzioni teologiche.

    Non faceva tante distinzioni tra teoria e pratica.

    Si appellava alla prassi del suo impegno reale:
    «Da oggi in poi non mi date più gioia, perché io porto nel mio corpo le impronte di Gesù» (Gal. 6, 17).

    Alludeva alla sofferenza e alle torture sopportate per amore degli altri.







    5. Soluzione del problema: accettazione del pluralismo


    Il tempo passava e nella Chiesa aumentava la confusione.

    La convivenza tra i cristiani venuti dal paganesimo e i cristiani venuti dal giudaismo diventava sempre più difficile (Atti 15, 1-5).

    Era urgente risolvere il problema e raggiungere una visione più chiara del Vangelo.

    Convocarono una riunione a Gerusalemme, registrata nella storia come il primo Concilio ecumenico (Atti 15, 6).

    Si discusse a lungo (Atti 15, 7).

    Alla fine parlò Pietro e chiuse il dibattito:
    ciò che salva davvero e libera l'uomo è la sua fede in Gesù Cristo (Atti 15, 11).

    Disse questo non per fare cosa gradita a Paolo, ma perché lui stesso aveva visto e capito per esperienza personale e per luce divina che questo era il cammino giusto (Atti 15, 7-9; 10,44-48).

    Si schiarì l'orizzonte.

    Non fu proibita l'osservanza della legge di Mosè.

    Fu solo condannato il carattere obbligatorio dell'osservanza per i pagani convertiti (Atti 15, 10).

    Giacomo appoggiò la decisione di Pietro (Atti 15, 13-19) e tutti e due si allontanarono definitivamente da quelli che andavano dicendo il contrario (Atti 15, 24).

    Si preoccuparono di lasciare ben chiaro nel comunicato finale della riunione che:
    «Essendo stati informati che alcuni dei nostri, senza nessuna autorizzazione, sono venuti a mettervi sottosopra con certe affermazioni, lanciando la confusione nei vostri cuori, abbiamo deciso all'unanimità di designare alcuni uomini e mandarli a voi insieme ai carissimi Barnaba e Paolo, che hanno messo a repentaglio la loro vita per il nome di nostro Signore Gesù Cristo». (Atti 15, 24-26).

    Accettata la tesi del pluralismo nel modo di vivere la fede in Gesù Cristo, si cercò di concretarla nella pratica, dando le una certa struttura. La tesi è una cosa, la pratica è un altro paio di maniche.

    Nell'applicare la norma generica, gli apostoli seguirono il buon senso.

    Non si poteva esigere, per esempio, da un giudeo convinto, come nel caso di Pietro e Giacomo, che andasse a vivere con i cristiani venuti dal paganesimo.

    Non era neppure necessario.

    Non si poteva esigere da Paolo che si adattasse alle norme della convivenza giudaica.

    Per questo lasciarono a Paolo e Barnaba la cura delle comunità esistenti nel mondo pagano.

    Pietro e Giacomo si sarebbero incaricati delle comunità del mondo giudaico. (Gal. 2, 7-9).

    Tutti però avevano il diritto di vivere la fede in Cristo nella santa libertà della loro coscienza.

    Tuttavia, in vista della reciproca convivenza, i pagani convertiti dovevano osservare quattro norme proposte da Giacomo (Atti 15, 20; 21, 25).

    Tornò la pace (almeno come possibilità reale), fondata sul rispetto e
    sull'accettazione mutua delle divergenze.

    I cristiani riuscirono a scoprire e ad accettare la volontà di Dio in mezzo alla confusione generale.

    Per quanto possa sembrare assurdo, la accettazione realista delle reciproche divergenze lanciò le basi di un riavvicinamento e di una comunione molto più intima e reale di quella che gli altri avrebbero preteso di raggiungere, imponendo a tutti gli stessi legalismi nel modo di vivere la fede in Gesù Cristo.

    Nel Concilio i cristiani conservatori di Gerusalemme, rinunciando alle loro esigenze, tagliarono per così dire il cordone ombelicale e permisero che Cristo nascesse davvero per il mondo intero.

    Proprio a causa della loro magnanimità, che certamente non fu facile, raccolsero la gratitudine e il riconoscimento dei cristiani venuti dal paganesimo.

    Da questa gratitudine nacque alcun tempo dopo una delle più belle iniziative di unità:
    la grande colletta nelle chiese del mondo pagano a favore dei poveri della comunità di Gerusalemme.








    6. Dal pluralismo nasce l'iniziativa dell'unità


    I cristiani di Gerusalemme, con quella concessione piuttosto sofferta, sbarazzarono la strada del messaggio cristiano al mondo pagano.

    Dal mondo pagano, forse a Corinto (II Cor. 8, l0), partì l'iniziativa di retribuire il bene ricevuto (Rom. 15, 27).

    Organizzarono una campagna di fraternità che guadagnò la simpatia e la collaborazione di tutte le comunità della Galazia nell' Asia Minore (I Cor. 16, 1); della Macedonia a nord della Grecia (II Coro 8, 1) e dall'Acaia a sud della Grecia (II Cor. 9, 2).

    Si verificò perfino una certa concorrenza tra di loro per vedere chi dava più denaro (II Cor. 9, 2).

    Furono generosi, nonostante la loro povertà (II Cor. 8, 2-3), perché si parla di una «somma importante» (II Cor. 8, 20).

    Fu una mobilitazione generale delle chiese pagane a favore dei fratelli bisognosi di Gerusalemme.

    Paolo si fece in quattro per questo lavoro.

    Diventò abile mendicante per poter convincere gli altri a dare con generosità (cf.II Cor. cap. 8-9).

    Non dobbiamo confondere questa campagna di fraternità con una delle solite collette.

    Era segno eloquente che lo Spirito Santo non si lascia mai sconfiggere dai fatti nuovi.

    Mai resta prigioniero delle idee degli uomini.

    È Creatore e sa suscitare cose nuove quando gli uomini si arrendono per mancanza di idee, sopraffatti dalla realtà.

    Divenuta ufficiale la divergenza tra i pagani e i giudei, accettati i fatti, riconosciuta la realtà nel primo concilio, questa stessa realtà nuova appena nata (come succede sempre) suscitò subito un altro problema: come mantenere l'unità nelle condizioni nuove?

    Ma c'era di più:
    dal momento in cui i cristiani di Gerusalemme riconoscevano e accettavano gli appelli di Dio negli avvenimenti, furono costretti ad assistere al lento spostamento dell'asse della Chiesa verso il mondo pagano.

    Sapevano oramai che loro sarebbero diventati una piccola minoranza.

    Qual era il loro posto e il loro futuro nella Chiesa?


    Avevano tutti lo stesso Cristo, la stessa fede, lo stesso Padre, lo stesso battesimo, lo stesso Spirito Santo (Ef. 4, 4-6), ma la vita era pluriforme.

    Da uno stesso tronco stavano spuntando i rami più disparati, sempre più differenti gli uni dagli altri a misura che crescevano.

    Però nei rami, per quanto svariati e differenti, scorreva la stessa linfa, che faceva nascere in tutti le stesse foglie e gli stessi frutti:
    frutti di carità divenuta concreta nella vasta campagna di fraternità.

    L'iniziativa, al dire di tutti:
    fu spontanea e non imposta (II Cor. 8, 3.10) e unì le comunità pagane più
    di prima e dette ai fratelli di Gerusalemme una coscienza ben più grande di appartenere alla Chiesa più di prima.

    La campagna faceva perfino parte del movimento per rendere ufficiale il pluralismo esistente nella Chiesa (Gal. 2, lO).

    Era una forma come un'altra di rendere concrete le decisioni del Concilio.

    La campagna non serviva tanto per dare agli altri l'impressione di unità, perché non c'era il pubblico del mondo che battesse le mani all'iniziativa dei cristiani.

    Non si trattava di una facciata per nascondere la più profonda disunione.

    Anzi nacque proprio dall'accettazione realista delle divergenze;
    crebbe proprio in seno al pluralismo.

    Fu la risposta grata dei cristiani pagani alla magnanimità dei colleghi di Gerusalemme, cui dovevano la libertà di vivere la loro fede secondo la loro ispirazione e la loro realtà (cf. Rom. 15, 26-27).

    La disunione era stata vinta perché avevano saputo trovare il senso dell'unità al livello più profondo e più solido del pluralismo, in cui l'amore è libero di dar prova della sua creatività.

    Sarebbe stata impossibile una campagna del genere prima del Concilio di Gerusalemme, quando si litigava ancora sulle idee e ognuno voleva imporre all'altro la propria opinione.

    A quel tempo la campagna sarebbe stata nelle mani di un gruppo uno strumento di più per dominare l'altro gruppo.

    Accettate le diversità e partendo da esse, fiorì l'unità e ogni fiore sbocciò nel suo ambiente con il suo concime e fece bella mostra delle sue qualità e dei suoi colori nella vetrina della Chiesa per rallegrare lo sguardo di tutti i fratelli.

    La campagna provò fino a dove arrivasse l'impegno di ciascuno con Cristo e con i frate11i;
    era il termometro della sua fede, della sua speranza e della sua carità.

    Non era una forma di elemosina da quattro soldi, fatta per mettere a tacere la propria coscienza.







    7. Conclusione


    Non tutti i giudei convertiti riuscirono a vedere le cose in questo modo.

    Non capirono l'immensa apertura del Concilio e continuarono anche dopo a difendere la loro posizione, dando noia a Paolo il più possibile.

    Ma chi vince una guerra non si cura di una piccola scaramuccia.

    Le discussioni, per quanto dolorose, non arrivarono a togliere a Paolo un profondo sentimento di gratitudine.

    Sapeva discernere chiaramente tra l'iniziativa di pochi, anche se pericolosissima e molto sgradevole, e l'iniziativa della Chiesa.

    Tutti questi fatti successero nel passato e non tornano più.

    Oggi però esiste nella Chiesa una situazione di conflitto, che a quanto sembra è sintomo di una profonda divergenza circa il significato del Vangelo.

    Non saremo proprio noi (oggi come allora) ad impedire la venuta al mondo di Cristo, mantenendoci attaccati a schemi e a modi di
    pensare e di vivere che poco o niente hanno a che fare con la fede?

    Non ci è richiesta forse una prova di magnanimità come ai primi cristiani?

    Non dovremmo forse essere realisti e accettare il pluralismo nel modo di vivere la stessa fede in Gesù Cristo?

    O abbiamo paura di affrontare la realtà e le persecuzioni?



    SEGUE..



    Una stretta di [SM=g1902224]





    Pierino




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    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. XVII [SM=g6198] [SM=g6198] (ULTIMO)




    fede nella resurrezione:
    «se dio è con noi chi sarà contro di noi?»

    Abbiamo parlato tanto di resurrezione fin dalla prima pagina.
    Ci è venuta una curiosità:
    «che cosa significa per noi la fede nella resurrezione?»

    Tante cose si possono dire, e in tante maniere, a rispetto della resurrezione.
    Non diremo tutto e neppure ne saremmo capaci.

    Diremo solo quanto basta per rispondere alla domanda che è sorta:
    «che cosa significa per noi oggi fede nella resurrezione?»




    1. Posizioni che ci rendono difficile capire la resurrezione.


    Oggigiorno si parla molto di resurrezione.

    Molte sono le domande:
    che farà Dio nel giorno della resurrezione?

    Il corpo sarà lo stesso di ora?

    Grande così?

    Chi è brutto, brutto rimane?

    E i bambini che muoiono?

    Restano sempre bambini?

    Se tutti risorgeranno in età matura, chissà che monotonia sarà la vita eterna senza la grazia dei bambini!

    E quell'uomo che è morto bruciato e del suo corpo non è rimasto neppure un pezzettino?
    Come se la caverà Dio con lui?

    Tante domande sorgono e provocano discussioni inutili e insolubili.

    Una domanda ne suscita un'altra.

    Come il bimbo che va dietro ad un fiore dopo l'altro, e intanto si allontana sempre più da casa.

    Quando finalmente si ferma, già si è perduto e non sa più da dove è venuto né dove sta andando.

    Scoppia in un pianto dirotto.

    Le domande sulla resurrezione sono simili al pianto di quel bambino.

    Ci dicono che ci siamo perduti lontano da casa nostra, lontani dal vero senso della verità.

    Ci siamo perduti non lungo i difficili sentieri della fede ma nella tela di ragno dei nostri pensieri che
    hanno travisato del tutto il senso della resurrezione.

    Non sappiamo più che farcene per vivere.

    Il buon senso ha fatto capire a tanta gente che certe difficoltà non possono venire da Dio.

    Non servono ad altro che a complicare sempre di più la vita già di per sé tanto difficile.

    Altri non credono nella resurrezione perché non trovano prove sufficienti, capaci di convincerli.

    Dicono che è impossibile provare con la scienza storica il fatto della resurrezione di Cristo, essendo troppi
    i problemi implicati nella questione.

    Altri ancora si mettono a studiare la resurrezione e vogliono sapere per filo e per segno cosa accadde
    in quella domenica di Pasqua, come era il corpo glorioso di Gesù, come si dettero le apparizioni e come si spiegano le contraddizioni registrate nei Vangeli a questo proposito.

    Altri infine studiano la resurrezione cercando di difenderla dalle difficoltà.

    Cercano insomma di rendere la verità della resurrezione un po' più accettabile per l'uomo di oggi.






    2. Come abbordare lo studio sulla fede nella resurrezione?


    Credo che con un cristiano, che afferma di aver fede non si debba incominciare da un'esposizione sulla
    resurrezione, tentando di documentare il fatto della resurrezione di Gesù con argomenti scientifici e cercando di sfatare gli argomenti contrari.

    La resurrezione è una realtà che incide così profondamente nella vita ed ha ripercussioni così profonde su tutto
    quello che facciamo che non è possibile farla dipendere da alcuni argomenti incerti, neppure tutti accettabili.

    Bisogna partire da una base più solida.

    Inoltre chi si mette in questa posizione già va al di sopra della resurrezione, almeno dal punto di vista psicologico,
    perché essa viene a dipendere dalla spiegazione che lui darà.



    Quando la verità della resurrezione viene a dipendere dalla mia spiegazione io per un momento divento padrone della verità.

    La verità esiste e continua ad esistere in forza dei miei argomenti. Difficilmente permetterò allora che la resurrezione,
    che è stata sotto il mio dominio e dipende da me, passi al di sopra di me con le esigenze radicali che comporta nella mia vita.

    Anzi la Bibbia non colloca affatto la difesa della resurrezione come punto di partenza della sua dimostrazione.

    Cominciare lo studio della resurrezione dall'analisi di quello che successe nella domenica di Pasqua ci sembra che
    sarebbe come entrare per la porta che non ci introduce in casa.

    Così facendo ridurremmo a priori la resurrezione ad un fatto isolato del passato, di un tempo completamente finito.

    Ci allontaneremmo sempre di più dalla resurrezione.

    Difficilmente si potrebbe in seguito capire che cosa essa significhi nella nostra vita.

    I primi cristiani non fecero così.

    Nelle lettere di Paolo, che sono anteriori ai Vangeli, si parla quasi ad ogni pagina della resurrezione.. ma quasi mai si parla,
    ad eccezione di una sola volta(I Cor. 15, 1-4) delle circostanze storiche in cui si realizzarono le apparizioni e gli avvenimenti della domenica di Pasqua.

    Quanto alle domande che siamo soliti fare oggi sulla resurrezione, Paolo risponderebbe così:
    «Idiota! Quando mai si è visto un albero o una pianta uguale ad un seme?

    Hai visto mai seminare piante ed alberi?

    Si semina il seme da cui nasceranno piante ed alberi!
    Così tu, che vivi oggi con la tua vita, sei come un seme dal quale, quando muore, nascerà un corpo nuovo, differente,
    spirituale per virtù di Dio.

    Tu incaricati del seme e al resto ci penserà Dio» (citazione sintetica e libera della I Cor. 15, 35-50).

    Resta ancora una domanda:
    «Ma allora che significava per Paolo fede nella resurrezione?».






    3. Differenza tra noi e i primi cristiani


    Molto grande è la differenza tra la nostra maniera di situarci oggi davanti alla resurrezione e la maniera dei primi cristiani
    che incarnavano nella vita la stessa verità.


    Per la maggior parte di coloro che credono nella resurrezione la fede nella resurrezione si riferisce tanto al passato
    come al futuro.

    Al passato:
    perché diciamo nel «Credo»:
    «credo che Gesù Cristo fu crocefisso morì e fu sepolto;

    scese nella regione dei morti e risuscitò il terzo giorno».

    In forza della fede nella resurrezione accettiamo che quasi 2.000 anni fa un sepolcro fu trovato vuoto e che Gesù risuscitò
    apparendo molte volte agli apostoli.

    Al futuro:
    perché recitiamo nel «Credo»:
    «credo nella resurrezione della carne».

    In forza della fede nella resurrezione ammettiamo che un giorno, non si sa quando, i morti risusciteranno tutti.

    La fede nella resurrezione tiene i piedi ben saldi su questi due pilastri, uno nel passato e uno nel futuro.

    E il presente?

    C'è qualche filo che leghi un palo all'altro passando sul nostro presente, che illumini la lampada della vita,
    che ci faccia vedere la strada dove mettiamo i piedi e metta in marcia il motore dell'esistenza?

    Chi vive oggi, che se ne fa della sua fede nella resurrezione?

    Esiste qualche resurrezione nella sua vita?

    Per la maggior parte di noi cristiani di oggi, sembra che la resurrezione abbia poco a che vedere col presente che viviamo.

    È uno di quei misteri della fede difficili e nascosti nella voragine del passato e del futuro, del quale non sappiamo
    bene che uso fare nella vita di ogni giorno.

    Il modo di esprimere questa stessa verità nel Nuovo Testamento è molto differente.

    La prospettiva è un'altra.

    Perché io possa parlare della vita devo pur averla questa vita, devo pur essere vivo!
    Un marziano, ammesso che esista, potrebbe benissimo studiare la nostra vita terrestre, ma la sua sarebbe sempre
    una conoscenza di chi sta al di fuori di quello che studia.

    Per quanto intelligente fosse quel marziano, un qualsiasi contadino della più abbandonata regione saprebbe parlare della
    vita umana sul globo terrestre con più autorità di lui.

    Un cieco che non ha mai visto la luce può ben immaginar si che cosa sia la luce, fare calcoli esatti e complicati,
    ma il bambino che ha gli occhi per vedere la luce del giorno ne sa più del cieco, anche se non riesce a dire tutto quello che vive e sente a rispetto della luce.

    La stessa cosa succede nel Nuovo Testamento quando si parla di resurrezione.

    La fede nella resurrezione era la condizione necessaria per parlare della vita che ne deriva.

    I primi cristiani non si mettevano al di sopra della resurrezione per arrivare a dimostrarla né se ne distanziavano
    per meglio apprezzarla.

    Non si preoccupavano, almeno nei primi tempi, di sapere esattamente quello che successe la domenica di Pasqua
    e neppure cominciavano a studiare la resurrezione difendendola.

    Chi vive non ha bisogno di dimostrare che è nato.

    E neppure ha bisogno di dimostrare che i suoi genitori sono esistiti.

    La resurrezione non ha bisogno di difesa.

    Era la luce che faceva vedere e leggere la vita.

    La fede nella resurrezione era l'ambiente della vita nel quale si viveva e si parlava.

    Era come l'aria che respiravano.

    Tanto chi parlava di resurrezione come chi ne sentiva parlare, tutti vivevano immersi nella stessa atmosfera nuova.

    La fede nella resurrezione era la radice di tutto, come la vita che abbiamo è la radice di tutto quello che si fa nella vita.

    Un ramo non può staccarsi dall'albero per vederlo meglio da lontano.

    Sarebbe lo stesso che morire.

    E neppure gli è necessario dimostrare agli altri che è unito al tronco.

    Basta che dia frutti.

    Sono questi la prova della sua unione col tronco e con la radice.

    Quando il sole è alto nel cielo, nessuno si preoccupa di dimostrare e di difendere l'esistenza del sole.

    Si preoccuperà piuttosto, questo si, di godere della sua luce e del suo calore, per migliorare la sua salute.

    Da questa seconda preoccupazione è nato il Nuovo Testamento.

    Sono due modi molto differenti di affrontare e di vivere la stessa verità.

    Noi oggi collochiamo l'oggetto della nostra fede nella resurrezione nel passato e nel futuro.

    I primi cristiani lo mettevano nel presente.



    Se riflettiamo come il Nuovo Testamento parla della resurrezione, troviamo molti argomenti che possono aiutarci a fare
    una revisione della nostra maniera di vedere e vivere la resurrezione.

    L'irrompere della fede nella resurrezione è qualcosa di cosi nuovo che non entra nelle nostre teste.

    Per cui, prima di studiare questa verità, prima di criticarla e di porle interrogativi, prima ancora di volerla difendere con i
    nostri argomenti, conviene dare la parola al Nuovo Testamento ed ascoltare da esso che cosa intenda per fede nella resurrezione e come si incarni nella vita.

    Altrimenti potremmo creare difficoltà dove non esistono e potremmo difendere cose che non hanno bisogno di difesa,
    perché non hanno niente a che fare con la fede nella resurrezione.






    4. Punto di partenza della fede nella resurrezione:

    percepire i limiti dell'esistenza, barriere che uccidono la vita e la speranza dell'uomo


    Per cogliere tutta la portata della novità di una cosa che irrompe nella vita, bisogna anzitutto esaminare la situazione precedente.

    Proprio nel confronto tra il «prima» e il «dopo» si fa evidente il valore della cosa nuova che si è fatta presente.

    Perciò ci proponiamo di esaminare prima la terra dove fu piantato e crebbe il seme della fede nella resurrezione, per vedere poi
    se questa terra esiste ancora oggi in mezzo a noi.

    Quei due tali discepoli di Gesù, Cleofa e il suo collega, che camminavano per la strada di Emmaus (Lc. 24, 13 seg.),
    erano l'espressione di quello che accadde nella vita degli apostoli dopo la morte di Gesù.

    Essi erano anche espressione di quello che si verificava nella vita dei cristiani che camminavano lungo la strada della storia nel tempo in cui
    Luca registrò questo episodio nel suo vangelo, gente perseguitata che non riusciva più ad integrare nella sua vita la fede nella resurrezione,
    perché la morte uccideva in loro la speranza e non incontravano più quel Cristo vivo in cui credevano.

    Espressione di quello che accade anche oggi nella vita di molta gente.

    «Speravamo che fosse il liberatore ma oggi è già il terzo giorno...»
    (Lc. 24, 21).

    Questo l'amaro lamento dei due.

    Con la morte di Gesù qualcosa morì nella vita degli apostoli, qualcosa che aveva importanza fondamentale.

    La vita per loro era ormai senza senso.


    Prima di allora era cresciuta tanto la loro unione con Gesù che non avrebbero potuto concepire l'esistenza senza di Lui (cf. Gv. 6, 68-69).

    Erano disposti a morire con Lui (cf. Mc. 14, 31), a soffrire per Lui, a morire per Lui, perché senza di Lui nulla avrebbe avuto più senso.

    Per amore di Lui avevano abbandonato tutto quanto possedevano
    (cf. Mt. 10, 28).

    Gesù era l'asse della ruota nella loro vita.

    La morte di,Gesù spezzò l'asse.

    Si impose tragicamente come una barriera intrasponibile tra la situazione presente e l'ideale futuro che avevano alimentato.

    Era meglio uscire da Gerusalemme (cf. Lc. 14, 13) e tornarsene ciascuno al suo lavoro ed al suo buco.

    Niente più da fare.

    Era stata un'illusione, un'utopia, una alienazione credere a questo Gesù e al messaggio che Lui predicava.
    È finito tutto;. «... era già il terzo giorno...».

    La Sua morte li riportò alla dura terra della realtà.

    D'altra parte, poiché il velo del futuro era stato alzato ed essi avevano potuto intravedere le immense possibilità della vita umana
    durante i tre anni di convivenza con Gesù, il desiderio non si spegneva.

    Da quando si era chiuso il futuro con la morte di Gesù, la realtà si era fatta ancora più buia di prima.

    Un altro futuro non li attraeva.

    La morte aveva distrutto tutti i desideri uccidendo radicalmente qualunque aspirazione verso l'avvenire.

    La morte di cui si parla non era solo la morte della croce.

    Era tutta una situazione che culminava nella croce e che portava alla croce chi volesse fare lo stesso cammino di Gesù.

    Le forze della morte erano più vive di sempre:
    l'imperialismo romano, che con una sola parola ratificò la condanna a morte;

    i soldati, che misero in atto la sentenza del governatore Pilato senza che vi fosse nessuna possibilità di impedirlo;

    gli scribi, che se ne rallegrarono;

    i farisei e il farisaismo, che la provocarono manipolando l'opinione pubblica;

    la mentalità fluttuante del popolo e tanti altri fattori.

    Tutto questo si unì in un 'unica forza contro Gesù (cf. Atti 4, 24-28) e riuscì a vincerlo.

    Uccidendo Cristo, uccisero il futuro nel cuore degli apostoli.

    La morte era personificata in questa situazione come una forza orribile che minacciava qualsiasi eventuale tentativo degli apostoli
    di continuare a fare quello che faceva Gesù.

    Tutto era finito.

    Le ombre della morte erano sulla vita, soffocando qualsiasi speranza e minacciando e opprimendo' tutto e tutti.

    Gli apostoli ebbero paura di fronte a questa forza, e fuggirono.
    (Mc. 14, 50-52).

    Sprangarono perfino le porte di casa. (Gv.20, 19).

    Contro uomini atterriti nessuno poteva pensare di far nulla.

    Erano stati sconfitti dalla realtà che li schiacciava.

    La morte di Gesù uccise qualcosa negli apostoli, come la morte del marito uccide qualcosa nella moglie.

    Come la morte dell'amico uccide qualcosa nell'amico che sopravvive.

    Gli apostoli erano morti più dello stesso Cristo.

    Si era inaridita la fonte e l'acqua era finita.

    Avevano distrutto la turbina e si era spenta la luce.

    Questa era anche la situazione dei cristiani che camminavano lungo la strada della vita verso l'anno 75, quando Luca scrisse il suo vangelo.

    Avevano in cuore una grande frustrazione.

    Avevano creduto per molto tempo a Gesù Cristo.

    Si diceva che era vivo, che stava in mezzo alla comunità.

    Avrebbe riportato vittoria sulla morte, e chi credesse in lui avrebbe partecipato della forza che vince la morte.

    Ma dove era Gesù?

    Dove questa vittoria?

    L'impero romano continuava a perseguitare coloro che credevano in Cristo.

    Non permetteva che i cristiani aprissero una nuova strada verso il futuro, dando un nuovo senso alla vita umana.

    I cristiani stavano morendo come criminali comuni nelle prigioni e nell'arena.

    Dov'era il Cristo?


    «Pensavamo che lui fosse il Liberatore, ma oramai...».
    Tra la realtà e il futuro si alzava una barriera insuperabile.

    La morte, personificata nelle strutture dell'impero romano, uccideva la speranza nel cuore dei cristiani.

    Perché continuare a credere?

    Anche oggi molta gente se ne va per le strade della vita:
    gente senza speranza, sconfitta dalla realtà che soffoca e uccide la speranza e distrugge il futuro.

    Forze davanti alle quali l'individuo si sente impotente, che non riesce a dominare che lo superano di molto e mantengono la vita
    in catene senza possibilità di espandersi.

    Sembrano trascinare tutta l'umanità verso una totale schiavitù.

    Qual è l'individuo che può fare qualcosa contro il potere economico, contro il potere della propaganda e dell'opinione pubblica,
    contro il potere dell'ideologia e dello stato totalitario?

    contro il potere della mentalità fluttuante del popolo, contro il potere della moda e delle convenzioni sociali,
    contro il potere dell'ironia e del sarcasmo, contro il potere dell'organizzazione che ad alcuni accorda privilegi ed emargina altri, contro il potere della mistica dello
    sviluppo molte volte contraddittoria?

    Si fa tutto per l'uomo'.

    «L'uomo è la meta» si va dicendo, mentre nel cuore dell'uomo muore la speranza:
    innumerevoli sono le barriere ed i limiti contro i quali sbarra la vita sia personale che familiare, sociale ed internazionale.

    Cresce la coscienza ma allo stesso tempo cresce il torpore.

    Cresce la gente, ma aumenta il vuoto, la disperazione, la solitudine.

    Quanto più aumenta il potere delle acque, tanto più aumenta la resistenza della diga che cerca di dominarle.

    Queste ed altre sono oggi le sentinelle avanzate della morte che stende le sue braccia sulla vita, tutto coprendo
    col suo velo di lutto e tutto minacciando di oppressione.

    Non abbiamo forze per affrontare una simile realtà.

    La morte, questa morte personificata nella situazione concreta, ci supera.

    Si spegne all'orizzonte l'ultima lampada che ancora brillava.

    Ognuno si arrangia come meglio può per non essere inghiottito dal niente e dalla totale frustrazione.

    Ciascuno si cerca un posticino al sole.

    Tanta gente non crede più a niente e a nessuno.

    Giudicano ridicole ed infantili le timide iniziative che si fanno per spezzare il cerchio di ferro dentro il quale la vita muore asfissiata.

    Si accomodano e diventano schiavi soddisfatti, contenti, tranquilli, chiusi in una gabbia d'oro, ma senza coscienza.

    Si ripete oggi, benché a livello più elevato e più civilizzato l'antica «lotta per la vita».

    Sopravvivere a qualunque costo... Ha ancora senso credere a qualcosa?

    In mezzo a tutto ciò cammina il cristiano con la sua fede nella resurrezione, legata a un fatto del passato e ad uno del futuro.

    Che se ne fa della sua fede per suscitare la speranza nel cuore degli uomini?

    La nostra situazione attuale non è poi tanto differente da quella degli apostoli dopo la morte di Cristo.

    Come al tempo di Luca, ce ne andiamo con la fede sotto il braccio, senza sapere bene che farcene.

    Non troviamo una breccia per innestarla nella vita per cui... una muda tanto preziosa finisce col morire anche lei senza dare frutti.

    Il fatto è che non abbiamo coscienza dei limiti e dell'oppressione in cui viviamo.

    C'è chi risolve il problema così:
    la resurrezione si riferisce solo alla situazione che verrà dopo la morte.

    Cercando di lavorare in questa vita per garantirsi la resurrezione in cielo dopo la morte.

    Vedono il mondo solo come una grande officina, dove si aggiustano le macchine della vita perché possano entrare in cielo.

    Ma in un'officina non si può vivere, non è nata per questo!
    Neppure passa loro per la testa che la fede possa influire su qualche aspetto della vita che viviamo oggi qui.






    5. Il nuovo che nasce tra gli uomini per la fede nella resurrezione


    Ma, e qui sta la novità assoluta della resurrezione, il terzo giorno dopo la morte di Gesù, quegli 11 uomini fecero l'esperienza sicura ed
    inconfondibile che Gesù era vivo (Lc. 24, 5.34).

    Era proprio Lui, Lui in persona, quel Gesù col quale avevano convissuto durante tre anni (Atti l0, 40-41).

    Le apparizioni lo confermavano (Lc. 16, 9-14; I Cor. 15, 1-4).

    Era Lui!

    Gesù superò una barriera che nessun uomo mai aveva superato.

    Il Cristo vittorioso sulla morte stava adesso con loro, come un amico!

    L'evidenza era lampante, anche se avevano incontrato qualche difficoltà nel credere subito all'avvenimento nuovo e inatteso
    (Lc. 24, 10-11.37-43; Gv. 20, 25).

    Non c'era più nessun motivo per sentirsi sconfitti dalla realtà.

    Anche loro erano risuscitati.

    Il velo del futuro si squarciò di nuovo per non chiudersi mai più.

    Nacque una speranza nuova.

    Nella loro vita entrò una forza nuova, la forza di Dio, una forza così grande che riuscì a far nascere la vita dalla morte (Ef. 1, 19-20).

    Forza legata alla persona viva di Gesù Cristo, invisibile in sé ma visibile nei suoi effetti.

    Forza più forte di tutto quello che prima era capace di uccidere in loro la speranza.

    Tutte le barriere che impedivano la vita e soffocavano la speranza, tutte erano vinte per sempre:
    la forza dell'imperialismo romano; del farisaismo, dell'opinione pubblica, della mentalità fluttuante del popolo.

    Le forze della morte furono sconfitte.

    La guerra era debellata, anche se la battaglia continuava ancora.

    Era solo questione di tempo.

    Niente più avrebbe oramai potuto spaventarli:
    affrontavano il popolo, i giudei, il sinedrio, i romani, i farisei, la tortura, la prigione. (cf. Atti 2, 14; 4, 8.19.23-31; 5, 29.41; ecc.).

    La vita che era nata in loro già aveva passato le frontiere della morte, era una vita nuova e vittoriosa. (cf. Ef. 2, 6).

    Anche se fossero caduti sotto i colpi della morte, la vita non poteva oramai più morire (cf. I Cor. 15, 54-58).

    Ora sì aveva senso resistere, non conformarsi alla situazione e far qualcosa per trasformarla!

    I cristiani, camminando lungo la strada della vita, perseguitati dall'impero romano, lanciavano la domanda:
    «Dove incontrare questo Cristo vivo?

    Dove scoprire la forza che Lui ci comunica?»

    Risponde Luca col racconto dei due Tizi che se ne andavano lungo la strada di Emmaus.

    Scoprirono il Cristo e lo «riconobbero allo spezzar del pane»
    (Lc. 24.35).

    Nell'ora in cui i cristiani si riuniscono intorno all'eucarestia, quando il pane è spezzato e distribuito, quando celebrano
    e fanno memoria della morte e resurrezione del Signore (I Cor. 11, 26), proprio lì sta la fonte da dove sgorga o dovrebbe sgorgare l'acqua nuova che irriga l'albero della vita
    e lo rende capace di dare frutti.

    Questa convivenza intorno alla mensa apre gli occhi (Lc. 24, 31) e fa sentire la voce di Cristo sia nella parola della Bibbia
    (Lc. 24, 32) sia in quella del compagno anonimo che cammina con me lungo la strada della vita (Lc. 24; 15-16.35).

    Luca indica questi tre canali di comunicazione con Cristo e con la forza che emana di Lui:
    il fratello che cammina con noi, la parola di Dio e il convivio degli amici intorno alla stessa fede e allo stesso ideale, nell'Eucarestia.

    Si capisce allora quanto cammino manchi ancora prima che la rinnovazione liturgica in corso possa realmente raggiungere il suo fine.

    Servendosi di questi tre canali, i cristiani troveranno il modo di vincere la crisi e scoprire nella loro vita il senso della loro
    fede nella resurrezione, ossia del1a loro fede in Cristo vivo in mezzo a loro. Credere nella resurrezione non è solo accettare un fatto del passato ed un altro del futuro, ma è anzitutto
    un modo di vivere che nasce dalla scoperta di un amico vivo nella mia vita per la forza di Dio.







    6. La resurrezione non è solo avvenuta ma avviene ed avverrà


    La resurrezione di Gesù Cristo non è un fatto che circa 2000 anni fa dette corda ad un motore che funziona fino ad oggi.

    La resurrezione non è un fatto che è successo e poi è finito.

    Potremmo dire che Gesù ad ogni istante ascolta la voce di Dio che lo chiama alla vita (cf. Gv. 19-21; 6, 57).

    Dio lo risuscita e gli dà una vita nuova con un agire incessante.

    È come la luce:
    funziona mentre la turbina del generatore continua a girare.

    Nel momento in cui la turbina si ferma, la luce si spegne nelle case del popolo.

    Nel momento in cui Dio, per ipotesi assurda e impossibile, cessasse di chiamare alla vita Gesù Cristo, luce del mondo,
    (cf. Gv. 9, 5) si spegnerebbe la Chiesa, il popolo di Dio, i Sacramenti, la Fede; tutto cesserebbe di esistere.


    L'azione di Dio che risuscita Gesù Cristo si può paragonare alla sua azione creatrice:
    il giorno in cui cessasse di pronunciare la parola creatrice, noi tutti cadremmo nel nulla, sapendolo o no.

    Il giorno in cui Dio cessasse di pronunciare la sua parola di salvezza che culmina nella resurrezione, la nostra fede non avrebbe più senso.
    (cf. I Cor. 15, 14-15.17-19).

    L'azione di Dio che risuscita Gesù Cristo non è come l'azione che dà corda all'orologio o accende il motore.

    L'orologio o il motore, una volta messi in moto, camminano da soli, indipendenti dal loro padrone.

    Ma è come il campanello, che suona se io premo il dito sul pulsante.
    È come l'antenna trascontinentale via satellite, che capta le onde di altri continenti.

    Se la trasmittente tace, l'antenna non capta più niente non trasmette più, e il video della televisione diventa nero.

    Nel momento in cui Dio smettesse di dire la parola che risuscita Gesù Cristo, Cristo finirebbe.

    Non sarebbe più niente, non rivelerebbe più niente e lo schermo della nostra fede si oscurerebbe, la nostra parola e la nostra
    testimonianza di fede sarebbero vuote ed atone.

    Una menzogna, uno chèque a vuoto (cf. I Cor. 15, 15).

    In questo caso meglio sarebbe «mangiare e bere perché domani moriremo». (I Cor. 15, 32).

    Ma Dio non leva il dito dal pulsante del campanello, non interrompe la trasmissione, non cesserà mai di chiamare alla vita Gesù.

    Dio non inganna, non frustra.

    Dio è fedele ed è abbastanza forte per continuare a fare quello che ha incominciato.

    Non c'è forza che glielo impedisca.
    Lui sempre vince.

    È la nostra convinzione di fede.
    Su che cosa si basa?






    7. L'ultimo fondamento della fede nella resurrezione


    L'ultimo fondamento, la radice stessa della nostra fede nella resurrezione è la buona volontà di Dio, la buona volontà di
    Qualcuno che si è impegnato con noi in modo irrevocabile.

    La fede nella resurrezione non dipende da una legge cieca e impersonale, non ha niente a che vedere con gli argomenti
    filosofici che difendono l'immortalità dèll'anima, non si basa sul dinamismo irresistibile dell'evoluzione dell'universo che tende
    al bene, e neppure si fonda su un calcolo nostro, basato in ricerche storiche che riescano a provare la storicità della resurrezione
    di Gesù, e neppure dipende dalle prove che confutano gli argomenti contrari.

    La fede nella resurrezione nasce dalla parola amica che Qualcuno pronuncia in nostro favore.

    Così come la parola dell'amico può confermare una persona, restituirle la coscienza di sé e rianimarla ad una nuova speranza,
    la parola amica di Dio raggiunge la persona umana alla radice, le ridà la coscienza di sé, la risuscita ad una nuova vita e la fa vivere per sempre.

    Risuscitando Gesù dai morti, Dio dimostrò concretamente la sua buona volontà con gli uomini, espresse il potere irresistibile
    della sua volontà di salvezza e di liberazione, ne affermò la fedeltà e ci fece sapere fino a che punto nel nostro agire possiamo confidare nella sua buona volontà verso di noi:

    fino al punto di diventare capaci di fare l'impossibile, ossia fino al punto di sperare che dalla morte possa nascere la vita.

    Dio ha cominciato a dimostrare la sua buona volontà fin da quando cominciò a lavorare con gli uomini, chiamando Abramo e liberando il popolo dall'Egitto.

    Ci ha dimostrato, lungo il corso della storia, che l'uomo, quando ha il coraggio di impegnarsi con lui, trova quello che cerca, trova la felicità.

    Il contenuto pieno della parola che cominciò a risuonare alle orecchie di Abramo e la forza totale che essa possiede apparvero nella resurrezione di Cristo.

    In Cristo, un uomo come noi, che visse nella totale apertura e obbedienza al Padre e raggiunse la meta finale nella sua resurrezione;

    Dio non solo lo risuscitò ma lo mise a parte della sua vita, dandogli tutto il potere, e gli consegnò il destino dell'umanità
    (cf. Fil. 2, 8-11).

    D'ora in poi, per sempre, un nostro fratello si trova presso Dio,
    come prova capitale e definitiva che Dio prende sul serio la parola che ci ha dato un giorno (cf. Is. 40, 7-8) e che si può davvero contare su ciò che Lui dice e promette (cf. Ebr. 4, 14-16; 5, 5-10).

    La risurrezione di Cristo è l'espressione permanente dell'impegno irrevocabile di Dio con noi.

    È la prova permanente e suprema della garanzia che segue la promessa.

    È la «nuova e eterna alleanza» di Dio con gli uomini.

    Pertanto credere alla resurrezione non è credere a una cosa, non è credere ad argomenti, ma credere a Qualcuno che opera
    in noi e per noi con potere immenso, capace di far uscire la vita dalla morte, di far diventare nuovo quello che è vecchio, orientandoci verso un futuro di dimensioni smisurate.

    Credere nella resurrezione vuol dire:
    oltrepassare fin d'ora con la speranza che anticipa il futuro i limiti già superati e abbattuti dalla resurrezione di Gesù crocefisso.

    Nessun limite, nessuna barriera, nessuna difficoltà, nessuna cosa di questo mondo sarà capace di uccidere la vita e la
    speranza che è nata nel cuore dell'uomo.

    Credere nella resurrezione non ha niente a che vedere con fuga o alienazione dal mondo verso l'aldilà, o con un cristallizzarsi
    intorno ad un fatto del passato già chiuso del tutto.

    L'oggetto della fede nella resurrezione non sta né nell'eternità del cielo né nell'impenetrabilità del passato, ma nel futuro
    della terra su cui fu piantata ed è piantata fino ad oggi la croce di Cristo.

    Il fatto del passato testimoniato dagli apostoli ne è il fondamento.

    Ma su queste fondamenta si alza l'immensa costruzione della vita che non muore e che rinasce dalle ceneri della morte,
    anticipando il nuovo che sboccia sotto le mani di chi crede in lei.

    Credere nella resurrezione è ciò che Paolo sintetizza con le parole.
    «Se Dio è a nostro favore, chi sarà contro di noi?..

    Chi potrà separarci dall'amore di Cristo?

    Tribolazione?

    Angustia?

    Persecuzione?

    Fame?

    Nudità?

    Pericolo?

    Spada? ...

    In tutte queste cose noi siamo più che vincitori, a causa della forza di Colui che ci amò.

    Sono convinto davvero che né la morte né la vita né gli angeli né i principati né le cose presenti né le future, né le potestà
    né le altezze né gli abissi né qualsiasi altra creatura potrà separarci dall'amore di Dio che sta in Cristo Gesù» (Rom. 8, 31.35-39).

    L'enumerazione è completa:
    niente può separare l'uomo da Dio e dal suo futuro, perché Cristo, che per la resurrezione vinse tutte le forze, sta a fianco di Dio
    e intercede per l'uomo che crede in Lui (Rom. 8, 32-34; Ebr. 5, 7-9).






    8. Conclusione: una sfida


    La visione che i primi cristiani avevano della resurrezione dimostra che il problema fondamentale della fede nella resurrezione
    non si trova fuori di noi, in possibili difficoltà di ordine scientifico.

    È proprio dentro di noi:
    siamo o non siamo capaci di aver coraggio di credere che Dio libera e salva con un potere superiore alle forze della morte?

    La forza della resurrezione si caratterizza per il fatto che opera e si manifesta soltanto nella misura della fede che si ha in lei.

    Non esiste un tasto automatico per mettere in moto il potere di Dio, potere gratuito a nostra disposizione.

    È come il potere dell'amicizia:
    funziona solo in forza della fiducia reciproca e della fede che l'uno ha nell'altro.

    Paolo, volendo che i cristiani ne prendano coscienza, prega per loro e chiede al Padre che tutti arrivino a comprendere
    «qual’è la suprema grandezza del suo potere che agisce in noi uomini di fede, l'efficacia della sua forza che Egli dimostrò in Cristo, risuscitandolo
    dai morti e facendolo sedere alla sua destra in cielo, al di sopra di ogni principato, virtù, dominazione e di ogni altro nome, sia di questo che di quell'altro mondo» (Ef. 1, 19-21).


    Quando nell'uomo nasce una coscienza simile, si mette in moto un potere irresistibile che non cesserà di agire, finché le forze
    della morte non saranno sconfitte dalle forze della vita.

    Il momento alto della fede nella resurrezione non è nel passato, né nel futuro, ma nel presente.

    È l'albero che è nato dal seme piantato nel passato che oggi promette un raccolto copioso per il futuro.

    Radica la vita dell'uomo in una pace profonda, ma agita i suoi rami in un non-conformismo intransigente a rispetto della situazione
    del mondo attuale, non-conformismo che non riesce a far pace col mondo dove si è installato il potere della morte che opprime.

    La chiave di volta della fede nella resurrezione sta nell'uomo, che scopre nella sua vita la forza attuante e permanente di Dio, che è il Dio dei viventi.

    Solo così l'uomo, proprio lui in persona, risuscita e risuscitando si accorge della portata della sua fede nella resurrezione.

    Non saranno certo gli argomenti scientifici che daranno valore alla fede nella resurrezione, ma sarà l'esperienza concreta della resurrezione
    che darà valore agli argomenti che possono difenderla.

    L'unica prova reale della resurrezione, quella che convince, è la vita che oggi risuscita e si rinnova, che oggi vince le forze della morte,
    facendo sì che le forze represse e oppresse della vita siano scoperte e liberate per la gioia e la speranza di tutti.

    Ciò prova che nell'uomo agisce una forza più forte della morte, la forza di Cristo risuscitato.

    Dove sono i segni di resurrezione nella nostra vita, per cui la nostra parola sulla resurrezione di Cristo possa esserne confermata?

    Molte altre cose potrebbero e dovrebbero dirsi per una esposizione completa sulla resurrezione.

    Basta per tutte la finestra che abbiamo aperto, anche se piccola, per farci un'idea della tremenda portata della fede
    nella resurrezione che trasforma la vita degli uomini.



    FINE.


    Seguirà un’introduzione “iniziale”, appena possibile.

    Ringrazio tutti per l’attenzione.




    Una stretta di [SM=g1902224]


    Pierino




    [Modificato da mlp-plp 17/01/2010 16:03]
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    [SM=g6198] [SM=g6198] INTRODUZIONE [SM=g6198] [SM=g6198]



    parte prima:



    La gioia nasce dalla vita del popolo.

    Uno studioso di bibbia riscopre la buona novella entrando a far parte dell'allegria del popolo, e si incarica di raccontarlo a chi non lo sa.






    LA STORIA DEL LIBRO SOTTO FORMA DI PARABOLA

    La parabola della porta:


    Nel paese c'era una casa.

    Era molto antica e ben costruita.

    La porta era bella, larga e si apriva sulla strada, dove passava la gente.

    Era una porta strana.

    La soglia confondeva la strada con la casa, tanto che chi entrava aveva l'impressione di stare ancora fuori.

    A chiunque passasse per quella strada sembrava di entrare e di essere accolto in quella casa.

    Mai nessuno si era preoccupato di questo fatto, naturale come la luce quando il sole brilla in cielo.

    La casa faceva parte della vita del popolo, grazie a quella porta che univa la casa al paese e la gente del paese alla casa.

    Era come il crocicchio dove si svolge la vita, dove ci si ferma a discutere e la gente si incontra.

    Quella porta restava sempre aperta, giorno e notte.

    La soglia era consumata dall'uso.

    Tanta gente, anzi tutti, passavano di lì.

    Un bel giorno ci arrivarono due studiosi.
    Venivano da lontano.
    Erano stranieri.
    Non conoscevano la casa.

    Avevano sentito dire che era antica e bella.

    Erano professoroni che si intendevano di cose antiche.

    Appena videro la casa la giudicarono di grande valore.

    Cercarono la porta e ne trovarono una laterale.

    Di lì cominciarono ad entrare ed uscire per ragioni di studio.

    Non volevano che il rumore li disturbasse;
    il rumore che faceva il popolo sulla porta della strada.

    Volevano starsene in pace per riflettere.

    Se ne stavano dentro casa, lontani dalla porta del popolo, in un angolo buio, tutti assorti a studiare il passato di quella casa.

    Il popolo, entrando nella sua casa, vedeva quei due con i loro libroni e con le loro macchine complicate.

    Vicino a loro la povera gente ammutoliva.

    Se ne stava zitta per non disturbarli.

    Li ammirava tanto e diceva:
    «Stanno studiando la bellezza e la storia di casa nostra.
    Sono scienziati! ».

    Gli studi progredivano.
    I due scoprivano cose che il popolo ignorava (anche se tutti i giorni le vedeva nella sua casa).

    Ottennero il permesso di raschiare qualche parete e scoprirono pitture antiche che illustravano la storia e la vita del popolo, una storia che il popolo ignorava.

    Scavarono vicino alle colonne e riuscirono a ricostruire la storia della casa, una storia di cui nessuno si ricordava.

    Il popolo non conosceva la storia della sua vita e della sua casa, perché il suo passato se lo portava dentro, nel fondo degli occhi che non possono vedere se stessi, ma che vedono tutto il resto, orientando ogni cosa verso la direzione giusta:
    in avanti.

    Quando, di notte, il popolo si riuniva a veglia, i due studiosi si univano alla gente per raccontare le loro scoperte.

    Il popolo ammirava sempre più i due studiosi e il loro lavoro.

    I due circolavano per la casa.

    Il popolo, oramai, quando entrava in casa, ammutoliva.

    Una casa cosi nobile e ricca meritava rispetto.

    La vita povera della strada che le passava accanto, era tutt'altra cosa.

    Là dentro non si poteva vociare e danzare.
    Lo dicevano tutti.
    Tutti oramai pensavano così.


    C'era gente del popolo che non entrava nemmeno più per la porta chiassosa che dava sulla strada! Preferivano il silenzio della porta laterale, quella degli studiosi.

    Schivavano il chiasso del popolo.

    Adesso entravano in casa non più per incontrarsi, per parlare tra di loro, ma per conoscere meglio la bellezza della loro casa, la casa del popolo.

    Ricevevano spiegazioni dagli studiosi sulla casa che pur conoscevano cosi bene (era loro!), e che tuttavia avevano l'impressione di non aver mai conosciuto.

    A poco a poco la casa del popolo non fu più del popolo.

    Tutto il popolo preferiva la porta degli scienziati.

    All'ingresso, ciascuno riceveva una piccola guida con tutte le spiegazioni sulle rarità e scoperte della casa.

    Il popolo si convinse di essere proprio ignorante.

    Gli scienziati - quelli si - sapevano conoscere le cose del popolo meglio dello stesso popolo.

    Tutti finirono col pensare così.

    Oramai, entrando nella casa, che era sua, il popolo restava muto e vergognoso.

    Come se stesse in casa d'altri e di altri tempi a lui sconosciuti.

    Guardava e studiava, seguendo la guida, in piccoli gruppi, aggirandosi per la casa, nella semioscurità.

    Non si ricordava più dei bei tempi passati, quando tutti insieme giocavano e danzavano, proprio lì dove adesso si studiava soltanto, con cipiglio, alla maniera degli scienziati, col libro in mano, recitando la lezione.

    A poco a poco nessuno più si ricordò della porta sulla strada.

    Un turbine di vento addirittura la chiuse.

    Nessuno se ne accorse.

    Ma non la chiuse del tutto.

    Ci rimase una fessura.

    L'erba ci crebbe davanti.

    Le erbacce si fecero alte fino a coprirne l'entrata;
    oramai non ci passava più nessuno.

    Perfino la strada cambiò d'aspetto.

    Adesso era solo strada, niente altro.

    Una strada triste e deserta, un vicolo senza uscita, senza gente del popolo che passando di lì si potesse incontrare.

    La porta laterale accoglieva il popolo che andava a visitare la casa e ne restava estasiato.

    Quante ricchezze che non conosceva!

    L'interno si fece sempre più buio perché mancava la luce che veniva dalla strada.

    Fu necessario accendere le candele.

    Ma la luce artificiale alterava i colori.

    Il tempo passava.

    L'euforia della scoperta si afflosciava.

    Diventava sempre più rara la processione della gente che andava a visitare la casa entrando dalla porta laterale.

    La porta del popolo che dava sulla strada non esisteva più.

    Nessuno più se ne ricordava.

    Il popolo sapiente, un ristretto gruppo di persone e qualche illustre visitatore venuto di fuori, continuava a frequentare la casa del popolo, passando dalla porta dei dottoroni.

    Là dentro teneva le sue riunioni, discutendo sulle cose antiche della casa, cose che appartenevano al passato.

    La casa del popolo non era più del popolo.

    Il popolo dei poveracci passava soltanto per la strada, divenuta deserta e triste.

    A loro non interessavano le antichità.

    Il popolo viveva la vita:
    ecco tutto.

    Eppure qualcosa sembrava mancargli.

    Non avrebbe saputo dire che cosa, perché non se lo ricordava.

    Gli mancava una casa che fosse del popolo.

    I due studiosi, felici per la scoperta, continuavano a studiare.

    Aprirono perfino una scuola per educare i bambini del paese, insegnando loro le cose del passato.

    Ma uno dei due studiosi incominciò a preoccuparsi per la crescente mancanza d'interesse del popolo.

    Non si vedeva quasi più nessuno.

    Si accorse che la vita del paese non era più quella.

    Erano tutti meno contenti.

    Non era come quando loro erano arrivati lì.

    Adesso ognuno pensava solo per sé.

    Non c'erano più gli incontri di allora.

    È vero che c'erano stati dei tentativi di incontrarsi in altri luoghi.
    Ma tutto era finito in una bolla di sapone.

    Gli incontri programmati si erano insabbiati, perché non c'era intesa tra loro...
    Qualcosa, evidentemente, ci mancava.

    Neppure lui sapeva quale.
    Si propose di scoprirlo.
    Si chiedeva fra sé:

    «Chissà perché il popolo non viene più nella sua casa?

    Chissà perché non vengono più qui a conoscere le cose che noi due abbiamo scoperto per loro?

    Perché mai non vengono più in questa casa per conversare, incontrarsi, danzare e giocare, parlare e cantare? ».

    E non trovava risposta ai suoi interrogativi.

    L'altro studioso non aveva notato niente di tutto ciò, assorto com'era nei suoi studi sul passato.

    Anzi rimproverava il suo collega dicendo:
    «Ma tu ti distrai troppo!».

    Voleva che si applicasse di più allo studio del passato e si curasse meno del popolo della strada.

    Alla fine, poi, chi comandava la spedizione era lui!

    Un bel giorno un poverello, senza casa né tetto, si rifugiò tra i cespugli che crescevano al margine della strada, in cerca di riparo.

    Tutt'a un tratto si accorse che c'era una fenditura, come una porta, e vi entrò. Davanti a lui apparve una' casa enorme.

    Una casa così accogliente che si sentì subito a suo agio.

    Gli sembrava di stare per la strada e intanto stava al riparo.

    Il giorno dopo ci tornò.
    Ci tornò sempre.
    Lo raccontò agli amici, poveri come lui.

    Confidava loro la scoperta come fosse un segreto.
    Altri poveri andarono con lui.

    Entrarono tutti, in fila indiana, attraverso la stretta fenditura della porta che dava sulla strada, quella porta che un giorno il vento aveva sbatacchiato senza chiudere del tutto.

    Quell'andirivieni di entrare e uscire per la porta della strada fece seccare l'erba calpestata.

    Per terra si formò un sentiero stretto, battuto.
    Si aprì un nuovo cammino.

    Erano così numerosi oramai gli amici che volevano entrare che un giorno dettero una spallata alla porta e quella cedette.

    L'entrata diventò un po' più larga di prima, e il popolo e la luce inondarono la casa.

    La casa si illuminò tutta, diventò anche più bella.
    Ci si stava anche meglio.
    Il popolo ne era felice.

    La scoperta corse di bocca in bocca e tutti i poveri ne parlavano.

    Ma il segreto se lo tenevano per sé.
    Riguardava solo la gente umile.

    «Quella casa è nostra» andavano dicendo.

    La cosa non poteva tuttavia restare nascosta.

    L'avrebbe potuto supporre solo il popolo ingenuo e semplice che riflette poco e non ha malizia.

    Ogni mattina, quando l'orologio scoccava l'ora di apertura della porta laterale per ricevere gli illustri visitatori, gli spazzini trovavano là dentro i segni della presenza dei poveri.

    Si udivano perfino le loro risatone e i loro discorsi;
    discorsi di gente contenta, realizzata, che non si interessava né delle pitture né dell'arte, e che per entrare non pagava niente;

    risatone di gente che si sentiva bene in casa sua, in quella casa che ricominciava ad essere la «casa del popolo».

    La notizia arrivò all'orecchio dei due studiosi.

    Uno di loro si adirò, l'altro tacque.

    Il primo gridò:
    «Ma quando mai si è vista tanta ignoranza!
    Finiranno col profanare e rovinare la nostra casa!
    Dove va a finire tutto il nostro lavoro?

    Lo studio di tanti anni andrà dunque perduto?».

    Parlava come se il padrone della casa fosse lui!...

    L'altro rimbeccò:
    «La casa non è tua»!
    I due litigarono a causa del popolo.


    Una notte, il secondo studioso si nascose in un angolo della casa.

    Vide il popolo che entrava senza domandare il permesso a nessuno e si metteva a parlare, a danzare, a giocare e tutti si sentivano a loro agio e si incontravano tra loro.

    Gli fece tanto piacere la loro allegria che si scordò delle ricchezze.

    Si entusiasmò tanto che entrò anche lui nel circolo dei poveri e si mise a danzare con loro.

    Danzò, giocò, conversò tutta la notte.

    Quanto tempo era che non faceva più simili cose!
    Mai si era sentito casi felice di vivere!

    Per lui, poi, la gioia era ancora maggiore, perché lui sapeva qual fosse il valore e la bellezza della casa.

    Aveva scoperto solo allora che tutto quello che lui aveva studiato era nato dal popolo, ed era nato affinché il popolo sentisse la gioia di vivere.

    Si accorse che erano queste le risposte alle domande che si era posto prima.

    Lo sbaglio stava nella porta' laterale che aveva sviato il popolo dalla porta della strada, separando la strada dalla casa e la casa dalla strada;

    quella porta aveva reso la casa più scura, più triste, sconosciuta al popolo;
    aveva reso la strada un vicolo cieco, deserto e triste.

    Anche lui, adesso, entrava dalla porta della strada.

    E cosi continuò a fare tutte le notti.

    Il popolo lo accoglieva e già incominciava a conoscerlo, perché il popolo non fa distinzione di persona tra quelli che si uniscono a lui.

    Anche lui era uno del popolo.

    Ogni volta che entrava dalla porta della strada, vedeva la ricchezza e la bellezza della casa sotto una luce che non aveva mai conosciuto fino ad allora;

    quella che veniva dalla strada. La gioia del popolo, la bellezza e la ricchezza della casa gli rivelavano quello che i libri non gli avevano insegnato mai.

    Era come quando, sul finir del giorno, il sole che tramonta
    improvvisamente lancia i suoi raggi gratuiti, rosso-d'oro sul dorso
    maestoso di una montagna, bagnandola di luce smagliante.

    Tutto era cambiato per lui, anche se tutto continuava come prima.

    Niente era cambiato.


    Ma da quel giorno studiava i suoi libri con occhi nuovi e vi scopriva cose che il suo collega non si sognava neppure.

    Stava in mezzo al popolo, partecipava alla sua allegria, via via che gli se ne offriva l'opportunità.

    Parlava col popolo delle ricchezze della casa, viste alla luce che veniva dalla strada e dalla gioia del popolo.

    La sua voce non era pesante e non umiliava nessuno.

    Non faceva azzittire la gente col peso della scienza e del sapere.

    Educava il popolo, tra la gioia di tutti e faceva crescere in tutti il gusto di vivere.

    Era l'anno ????.

    Che cosa speriamo per il futuro:

    ... che si riscopra la porta della strada, abbattendo le erbacce che l'hanno sepolta, che se ne spalanchino i battenti, che si restituisca al popolo la gioia perduta, che si restituisca al popolo quello che era suo.

    ... che torni a cambiare l'aspetto della strada, che la porta spalancata le restituisca la bellezza di un tempo, che la luce della strada ritorni ad invadere la Casa del Popolo perché riappaia la sua autentica bellezza, e svanisca ogni colore artificiale.

    ... che si chiuda la porta laterale, non perché sia cattiva, ma perché tutti, studiosi e visitatori, popolo sofferente e sapiente, tutti insieme, possano gustare la vera gioia di una casa, che è casa di tutti.

    ... che si entri di nuovo dalla strada, che gli studiosi passino da questa entrata, insieme al popolo, mescolati col popolo, affinché la conoscenza delle ricchezze della casa non allontani il popolo, e gli alunni educati alla scuola dei dottori non si dimentichino di appartenere al pOpolo e sappiano restituire al popolo la vita e la gioia che hanno ricevuto da lui.

    ...che si facciano pure studi più profondi sulla bellezza e sulla ricchezza della casa del popolo, ma che si facciano alla luce che viene dalla strada e dalla gioia del popolo, in modo che contribuiscano ad aumentare ancora di più l'allegria che nasce dalla vita di oggi, dalla vita che il popolo vive, dalla vita di ieri, studiata dagli scienziati, dalla vita di domani che tutti speriamo.


    Ci resta un solo problema:
    lo studioso che si è arrabbiato col popolo e che si crede il padrone della casa.

    Il collega che è entrato a far parte dell'allegria del popolo si è impegnato ad andarci a parlare per dirgli: «... senza il popolo, tu non saresti nato...».

    Questa è la parabola della porta che racconta la storia del libro, facendo vedere come è nato e dove sono le sue fonti di informazione.


    È nato di notte, tra la gioia del popolo.
    È nato di giorno, sulla strada triste e deserta.

    È nato di notte e di giorno, insieme ai libri e alle macchine complicate, nell'angolo oscuro della casa del popolo.


    Carlos Mesters 7 marzo 1972 Festa di San Tommaso D'Aquino


    segue....



    Una stretta di [SM=g1902224]




    Pierino









    [Modificato da mlp-plp 21/01/2010 23:40]
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    [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198] INTRODUZIONE [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198]

    parte finale





    Dio dove sei?



    La domanda non è solo di oggi.

    Molta gente se l'è posta prima di noi.

    La risposta decide della direzione che si dà alla vita.

    Ecco perché non è superfluo trovare qualcuno che ci orienti nella ricerca della risposta giusta.

    Tra le molte che sono state date fino ad oggi, ce n'è una che la storia ha registrato e che sempre ci impressiona.

    È la risposta della Bibbia, tradotta in più di mille idiomi, «best-seller» mondiale, con più di un miliardo di copie vendute.





    1


    La Bibbia è come l'album di fotografie di una famiglia;
    c'è un po' di tutto.

    Le fotografie importanti del matrimonio, del battesimo dei figli, della
    casa nuova, ed anche fotografie a prima vista senza alcuna importanza, come quelle di una scampagnata occasionale, in un sabato qualsiasi, perfino senza data.

    I criteri per cui una fotografia è importante e un' altra no sono sempre
    relativi.

    La fotografia, scattata con una macchinetta da quattro soldi, del ragazzino tutto sporco ma sorridente, può essere più importante di un'altra fotografia ufficiale, molto costosa, fatta nello studio di un fotografo.

    Nessuna delle due, del resto, serve per il libretto di lavoro.

    Sarebbero proprio inutili.

    Mentre per l'album di famiglia tutto è importante, tutto ha valore.

    Là dentro c'è di tutto, in un disordine intenzionale che segue il ritmo della vita di famiglia, di cui la raccolta ti dà il ritratto fedele.

    Che allegria per i figli e per i nipoti sfogliare quelle pagine!
    imparano chi sono e da dove vengono.

    Ecco perché tutte le fotografie sono importanti, anche quelle che non lo sembrano affatto.

    Così succede per la Bibbia.

    C'è dentro di tutto:
    fotografie ufficiali e di rito, fotografie occasionali di episodi insignificanti senza neppure la data.

    Alcune furono fatte con lo scopo di documentare gli avvenimenti, altre servono solo a strappare un sorriso dalle labbra di chi le guarda.

    È il ritratto fedele di un popolo, conservato in un disordine intenzionale.

    I figli e i nipoti sfogliano, via via, quelle pagine ingiallite dal tempo per sapere chi sono e per prendere coscienza di appartenere a un popolo.






    2


    Ma perché un album di questo genere è così importante per noi?

    Non ci basta la storia d'Italia così simile ad un album pieno di contrasti?

    Certo!

    Solo che nessuno ci leva dalla testa una domanda fondamentale, alla quale nessuna pagina del nostro album è capace di rispondere esaurientemente:

    Dio dove sta?

    Che c'entra Dio con la storia d'Italia?

    Se Dio è presente in tutta questa storia, quali sono i criteri per riconoscerlo?

    Come fare per dare una direzione sicura alla rotta della storia che noi stessi costruiamo?

    Ognuno di noi ha le sue idee sul futuro.

    Dove troveremo il criterio per il discernimento degli spiriti, affinché possiamo essere sicuri di quello che vogliamo costruire?

    Sono queste le domande che martellano in testa a chi riflette sulla vita, e sono domande serie.

    Dalla risposta che daremo, dipenderà tutto il senso della vita.

    Le stesse domande se le pose il popolo della Bibbia, rispetto alla propria situazione storica, e tentò di rispondervi.

    Le risposte che trovò determinarono la direzione della sua vita.

    Così si mise in cammino e - incredibile a dirsi - arrivò al termine del suo pellegrinaggio:

    la Risurrezione di Cristo.

    Le fotografie conservate nell'album della Bibbia documentano il percorso di questo cammino, dandocene la traccia, dal principio alla fine.

    Molta gente (e siamo noi cristiani) crede che il cammino fatto dal popolo della Bibbia sia proprio quello giusto, quello di Dio.

    Ecco perché i cristiani presentano e leggono la Bibbia come sussidio
    indispensabile alla riflessione, all'analisi della realtà e alla ricerca di risposta per gli interrogativi che nascono dalla vita.

    Noi consideriamo la storia del popolo biblico quasi come modello di una azione bene indirizzata e che ha ricevuto la conferma di Dio.

    Studiamo, quindi, la Bibbia non solo per sapere come andarono le cose,
    là, in quel tempo antichissimo, ma anche e soprattutto per penetrare,
    attraverso le informazioni che la Bibbia ci offre, il senso e il valore
    di quello che sta succedendo oggi, qui, intorno a noi, dentro la nostra storia.

    È questo il carattere dello studio biblico che si sta affermando oggi, con sempre maggiore evidenza.






    3

    Gli studi storici per spiegare la Bibbia non sono stati mai così profondi come negli ultimi cento anni.

    Possiamo dire addirittura che non c'è frase né parola che non sia stata sottoposta ad un'accurata analisi per svelarne il senso, fino in fondo.

    Ne è risultata una letteratura così vasta che si è sentito il bisogno di specializzazione in questo o in quel settore dell'esegesi.

    Esistono, per esempio, specialisti solo per spiegare il libro del profeta Isaia.

    Eppure, questo colossale tesoro scientifico, con tutti i suoi rami di specializzazioni, accumulato durante più di un secolo, ci si presenta, a volte, come un calcolatore elettronico che non funziona, a causa di certi difetti che i tecnici non riescono a identificare.






    4

    Si formulavano le domande, si spingeva il bottone, ma il calcolatore non dava la risposta.

    In realtà il difetto era semplice.

    Il calcolatore era slegato dalla presa di corrente.

    Ma non passava neppure per la testa dei tecnici che il guasto si riducesse solo a un difetto così elementare e così essenziale allo stesso tempo!

    Esaminarono tutti i congegni.

    Non restava più nulla da controllare, eppure non si riusciva a scoprire il guasto.

    Lo scoprì l'uomo di fatica, mentre scopava la stanza, la mattina di un giorno nuovo.

    Lo stesso è accaduto alla spiegazione della Bibbia.

    C'è qualcosa che non funziona bene nella macchina complicata.

    Si spinge il bottone, ma la risposta "alla domanda della vita non viene fuori.

    I tecnici si mettono alla ricerca del guasto;
    basta vedere l'inflazione dei libri che oggi si stampano su:
    «Come leggere la Bibbia».

    E tuttavia, qui, come là, il difetto è elementare ed essenziale allo stesso tempo:

    la spiegazione della Bibbia è slegata dalla vita, quasi esclusivamente preoccupata del passato, preoccupata di raccontarci i fatti per filo e per segno, senza rivelarcene il senso, in rapporto a quello che oggi succede a noi.

    È come se un tale avesse avuto in regalo un microscopio e passasse tutta la vita ad esaminare come funziona, senza mai analizzare neppure un microbo.

    Se si trattasse solo di conoscere il passato, non ci sarebbe bisogno della Bibbia, perché tante cose sono successe nel passato e nessuno se le ricorda.

    Se ci interessa quello che successe al popolo della Bibbia è perché quel popolo lì, per la sua esperienza di vita, ha qualcosa da dire a noi, oggi, sulla nostra vita.

    Questo mi sembra il fine specifico della spiegazione della Bibbia:
    studiare il passato in modo tale da coglierne il messaggio latente, affinché eserciti la sua influenza sulla vita di oggi e presti il servizio che gli è proprio, nella ricerca di risposta alle domande che ci poniamo sull'esistenza.







    5

    Come nel caso del calcolatore elettronico, in quello analogo della spiegazione della Bibbia il guasto lo sta scoprendo il popolo semplice, mentre scopa la stanza della vita, la mattina di un giorno nuovo, con le osservazioni scaturite dalla sua sapienza, dimostrandoci così che a poco o nulla serve per la vita limitare la spiegazione della Bibbia esclusivamente allo studio del passato.

    Spetta al popolo collocare all'esegesi la domanda, così semplice e così importante allo stesso tempo:
    «che c'entra tutto questo con la nostra vita oggi?».

    Infila, così, la spina nella presa, e lega la macchina alla corrente della vita.

    Perciò la preoccupazione principale di “questo libro” non sarà tanto illustrare i fatti che sono accaduti, quanto cercare attraverso uno studio dei fatti accaduti una risposta alle domande che oggi ci poniamo sulla vita;

    restituire alla parola di Dio la funzione di luce ai nostri passi che deve e vuole avere, offrire un sussidio per l'analisi della nostra complessa realtà;

    contribuire, nei limiti del possibile, perché la vita si orienti verso la resurrezione, in cui crediamo e la cui forza opera in coloro che in essa credono (cf. Ef. 1,19-23).







    6

    Constatiamo che oggi esiste una mancanza di comunicazione, una specie di corto circuito fra noi e la Bibbia.

    Non ci capiamo più!

    La Bibbia parla e la sua parola ci suona estranea.

    Di chi la colpa?

    Nostra o della Bibbia?

    Quando due persone non si intendono più succede sempre che una butta sull'altra la colpa della mancata comunicazione.

    Lo stesso facciamo noi con la Bibbia.

    I metodi in circolazione partono, generalmente, dal preconcetto che la colpa è della Bibbia e non nostra.

    Dal momento che la Bibbia, è un libro tanto difficile, è lei che provoca la nostra ignoranza e la nostra incapacità a capirla.

    Stando così le cose, l'iniziazione alla lettura della Bibbia dovrebbe proporsi, anzi tutto, di illuminare il popolo sulle cose difficili che la Bibbia racconta, per ristabilire così la comunicazione interrotta.

    Ma noi pensiamo proprio l'opposto.

    La colpa principale non è della Bibbia, ma nostra, della nostra maniera di intendere la Bibbia.

    Noi non ci proponiamo di illuminare il lettore sulle cose difficili raccontate dalla Bibbia.

    Ci sono tanti buoni libri che lo possono fare.

    Noi ci proponiamo di correggere i difetti della nostra ottica:
    si tratta di cambiare il colore delle lenti con cui leggiamo la Bibbia, Si tratta di togliere la trave che sta nei nostri occhi e dimostrare che quella trave che attribuivamo alla Bibbia, cioè quelle cose difficili raccontate dalla Bibbia, sono soltanto una pagliuzza (cf. Mt. 7, 3).







    7

    Abbiamo fatto l'esperienza della persona timida ed inibita che attribuiva la causa della sua timidezza alla resistenza aggressiva degli altri.

    Poco per volta, l'esperienza quotidiana e la convivenza con gli altri le hanno fatto capire che la causa di tutto era proprio lei.

    Così la realtà della vita e la convivenza con gli altri ci hanno portato a scoprire che la causa della mancanza di comunicazione tra noi e la Bibbia non risiede soltanto né anzitutto nella Bibbia, ma anche e soprattutto in noi.

    L'abbiamo imparato' dal popolo e al popolo lo restituiamo con infinita gratitudine, in “questo libro”.

    C'è successa una cosa curiosa:
    siamo entrati nel mondo della Bibbia per la porta che ci hanno insegnato durante lunghi anni di studio.

    Ma la convivenza col popolo ce ne ha indicata un'altra, molto antica,
    molto usata dai Santi Padri della Chiesa;
    oggi però, per lo più è chiusa e dimenticata.

    Questa porta ci introduce direttamente a scoprire quello che la Bibbia ci vuole rivelare.

    Con “questo libro” vorremmo riuscire a consegnarne la chiave al lettore.

    La soglia di questa porta è corrosa dall'uso di tante generazioni cristiane, nei tempi passati.

    A noi questa porta ha rimesso in luce tutto quello che abbiamo studiato, dandogli un valore nuovo.

    Niente è andato perduto.

    Lo studio fatto in passato era valido.

    Aveva solo un difetto:
    la grande stanza della vita era buia;
    oggi, invece, è irradiata dalla vita e dalla fede di un popolo.

    Noi abbiamo avuto poco da fare:
    solo aprire gli occhi, le orecchie, tutti i nostri sensi, per sentire, ascoltare, guardare, convivere, lasciando entrare liberamente la realtà,
    così com'è, sia quella del nostro mondo e della nostra vita, come quella del mondo e della vita del popolo della Bibbia.

    Ci siamo accorti che, nonostante le differenze, la radice è la stessa e le domande che ne derivano sono le stesse.

    La vita ci ha aiutato a capire meglio la Bibbia e la Bibbia ci ha fatto capire meglio la vita.

    Abbiamo cercato di filtrare le informazioni della vita di oggi alla luce che scaturisce dalla vita del popolo biblico.

    Ne è risultato “questo libro”.
    Esso è nato da molti incontri e riflessioni col popolo.








    8

    «Dio dove sei?» - «Io sono qui. Noi siamo qui».

    Prima di sapere qualcosa su Dio, cerchiamo di sapere un po' chi siamo noi.

    Cerchiamo di conoscere la zolla di terra che calpestiamo;
    di indagare la situazione concreta che suscita le domande:
    «Noi siamo qui» provoca la domanda: «Dio dove sei?».

    Il dialogo con Dio parte da questa nostra realtà concreta;
    ed anche la riflessione contenuta in “questo libro”.

    Nei diciassette capitoli abbiamo passato in rivista diciassette aspetti della realtà viva di «quel» popolo, che sono pure gli aspetti reali della nostra vita.

    Ci rendiamo conto che il popolo, benché con i piedi affondati nella melma e la testa perduta fra le nuvole, ha saputo entrare in sintonia e cogliere gli appelli di Dio, latenti nella realtà.

    E li ha tradotti in vita.

    Ne ha fatto la sua bussola, dando alla vita una direzione sicura, ed è arrivato alla risurrezione.

    L'esempio può servire ad aiutarci ad entrare in sintonia anche noi con l'appello di Dio, che si sprigiona oggi da questa nostra realtà e che, se diventa la nostra vita, possiede la forza di portarci ad una vera risurrezione;

    garantita dalla risurrezione di Gesù Cristo.

    Elenchiamo i diversi aspetti della realtà contenuti in “questo libro”.

    Posero degli interrogativi al popolo della Bibbia e li pongono tutt'oggi, anche a noi.

    Quel popolo seppe dare una risposta valida;
    anche noi siamo sfidati a rispondervi.


    1) Ambivalenza di tutto ciò che esiste e oppressione in ogni aspetto della vita.

    2) Ricerca di un valore assoluto e impegno di trovare il cammino giusto della vita.

    3) Coscienza progressiva dell'oppressione in cui viviamo, da cui si scatena il processo che tenta la liberazione.

    4) Persone contraddittorie niente affatto sante, che si distinguono sulla scena del mondo, esaltate da molti e da molti calunniate.

    5) Inversione dei valori, che mette la religione al servizio della sicurezza umana.

    6) Sforzo di riformare e rinnovare la vita del popolo secondo un progetto che non tiene conto e non rispetta l'opinione del popolo.

    7) Uomini solitari, attaccati da tutti che, in una lotta senza precedenti, si sono messi al servizio del popolo.

    8) La scienza che interpella la religione pretendendo risolvere i problemi della vita.

    9) Il conflitto tra quello che la coscienza detta e quello che ordina la tradizione.

    10) La preghiera e la ricerca di comunicarsi con Dio.

    11) Strutture senza vita, ridotte a vuote convenzioni soociali, perché strappate dalla radice da cui ebbero origine.

    12) Fede in Dio e in Cristo: che cosa è?

    13) Come scoprire il divino nell'umano?

    14) Dove trovare un barlume del futuro che speriamo e per il quale lottiamo?

    15) Qual è il senso delle crisi che incontriamo lungo la vita?

    16) Le contraddizioni della Chiesa rinnovata; chi agisce in un modo chi in un altro.

    17) La forza che vince, che sostiene la fede, suscita speranza e provoca il dono di sé.







    THE END…..


    con questo termino di postare il:

    "lungo viaggio" all'interno delle Sacre Scritture, partendo dalla
    cosidetta Creazione Adamica!


    [SM=g7958] [SM=g7958] fatene Buon Uso... [SM=g7958] [SM=g7958]

    Ringrazio tutti..


    ciao con una stretta di [SM=g1902224]



    Pierino







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  • Elyy.
    00 21/01/2010 22:07

    Grazie per il tuo lavoro Piero, spero di farne buon uso anch'io


    [SM=g1902224] Ely





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    [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198] lo rimetto in Pole... [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198]
    perchè richiestomi da una persona....che "faticava" a trovarlo!





    una stretta di [SM=g1902224]




    Piero














    [Modificato da mlp-plp 11/08/2010 22:26]
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    mlp-plp, 26/06/2010 20.27:




    [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198] lo rimetto in Pole... [SM=g6198] [SM=g6198] [SM=g6198]
    perchè richiestomi da una persona....che "faticava" a trovarlo!





    una stretta di [SM=g1902224]




    Piero

















    Sì. E' fatto davvero bene e strutturato in modo da essere di facile comprensione anche per la gente meno dotta. Ottima idea quella di aprire questo topic.




    La verità non è qualcosa di statico ma è basata su una conoscenza progressiva, in grado di mettere in discussione anche i precedenti concetti raggiunti usando il modello del metodo scientifico
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    Veramente interessante.
    Bravo Piero!!
    [SM=g8916]
    Ora me lo copio-incollo così me lo leggo con la dovuta calma e riflessione per poter almeno fare qualche commento adeguato.

    Vincy
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    00 08/12/2010 13:31





    [SM=g6198] [SM=g6198] su richiesta della nostra Principessac [SM=g6198] [SM=g6198]




    ""si rimette in Pole"" [SM=g7348]




    Una stretta di [SM=g1902224]



    Piero




    contatto skype: missoltino 1
    I nostri amici





  • principessac
    00 08/12/2010 13:38
    grazie Piero leggero' con calma [SM=g1902224]
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    00 08/12/2010 14:06
    maaaa non è che c'è lhai in formato word o altro per metterlo in linea e scaricarlo direttamente? senza farci tutti i copia e incolla?perchè leggerlo al pc è veramente faticoso [SM=g7321]
    --------------------------------------------------
    AVER PAURA DEL DIAVOLO E' UNO DEI MODI DI DUBITARE DI DIO ...
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    00 08/12/2010 14:10
    Re:
    lovelove84, 08/12/2010 14.06:

    maaaa non è che c'è lhai in formato word o altro per metterlo in linea e scaricarlo direttamente? senza farci tutti i copia e incolla?perchè leggerlo al pc è veramente faticoso [SM=g7321]







    [SM=g7958] [SM=g6198] [SM=g7958] è già in formato Word [SM=g7958] [SM=g6198] [SM=g7958]

    ..basta unire il tutto..
    se sei "pelandrona", vedrò di accontentarti! [SM=g8108] [SM=g8108] (ma non a breve)




    una strettina di [SM=g1902224]



    Piero





    [Modificato da mlp-plp 08/12/2010 14:11]
    contatto skype: missoltino 1
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  • principessac
    00 08/12/2010 16:45
    piero mi complimento per la tua accurata descrizione di alcuni passi biblici anche se io credo che la bibbia sia quasi tutta da prendere alla lettera [SM=g8920]
  • cavdna
    00 10/12/2010 19:15
    Re:
    vi saluto in CRISTO SIGNORE

    mia cara sorella "principessac" che scrivi :

    principessac, 08/12/2010 16.45:

    ...............anche se io credo che la bibbia sia quasi tutta da prendere alla lettera [SM=g8920]




    R I S P O S T A

    mia cara sorella


    veramente interessante questa Tua affermazione

    potresti spiegarti precisare meglio [SM=g8862]

    grazie [SM=g7958] [SM=g1902224]

    vi saluto in CRISTO RISORTO

    [Modificato da cavdna 10/12/2010 19:17]
  • principessac
    00 10/12/2010 19:19
    Re: Re:
    cavdna, 10/12/2010 19.15:

    vi saluto in CRISTO SIGNORE

    mia cara sorella "principessac" che scrivi :




    R I S P O S T A

    mia cara sorella


    veramente interessante questa Tua affermazione

    potresti spiegarti precisare meglio [SM=g8862]

    grazie [SM=g7958] [SM=g1902224]

    vi saluto in CRISTO RISORTO



    alcuni passi della bibbia sono da ritenere simbolici altri letterali

  • cavdna
    00 10/12/2010 19:29
    Re: Re: Re:
    vi saluto in CRISTO SIGNORE

    mia cara sorella "principessac" che scrivi :
    principessac, 10/12/2010 19.19:


    alcuni passi della bibbia sono da ritenere simbolici altri letterali




    R I S P O S T A

    mia cara sorella


    ma non avevi affermato la stessa cosa anche prima??? [SM=g8862]

    io chiedevo qualcosa di più specifico

    evidentemente ho preteso troppo

    grazie [SM=g7958] [SM=g1902224] [SM=g7958]

    vi saluto in CRISTO RISORTO



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