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Conosciamo le Tre "Figure" DIVINE?...

Ultimo Aggiornamento: 25/12/2010 18:55
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Dalla summa teologica di San Tommaso:

posterò parte dei suoi scritti, riguardante le
tre Personalità Divine "LA TRINITA'"



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Parte 1:






LA PROCESSIONE DELLE PERSONE DIVINE

Dopo aver considerato ciò che riguarda l'unità dell'essenza divina, resta da vedere ciò che riguarda la trinità delle Persone [cf. q. 2, Prol.].
E poiché le Persone divine si distinguono per le loro relazioni d'origine, secondo l'ordine della materia tratteremo prima delle origini o processioni, poi delle relazioni di origine [q. 28] e in terzo luogo delle Persone [q. 29].
Sulle processioni si pongono cinque quesiti:
1. Se in Dio vi siano delle processioni;
2. Se qualcuna di queste processioni possa dirsi generazione;
3. Se oltre alla generazione vi sia in Dio qualche altra processione;
4. Se quest'altra processione non possa dirsi anch'essa generazione;
5. Se in Dio vi siano solo due processioni.

Articolo 1
Se in Dio vi siano delle processioni
Sembra che in Dio non vi possa essere alcuna processione. Infatti:
1. Processione significa movimento, e precisamente movimento verso l'esterno. Ma in Dio non vi è nulla che sia mobile o esterno. Quindi neppure vi è processione.
2. Ciò che procede è diverso da ciò da cui procede. Ora, in Dio non c'è nulla di diverso, ma somma semplicità. Quindi in Dio non vi è alcuna processione.
3. Il procedere da altri pare che ripugni al concetto di primo principio. Ma come si è provato [q. 2, a. 3], Dio è il primo principio. Quindi in lui non vi può essere alcuna processione.

In contrario: Il Signore dice [Gv 8, 42]: "Sono uscito da Dio".

Rispondo: La Sacra Scrittura, trattando di Dio, usa parole esprimenti processione.
Questa processione però fu intesa in diversi modi.
Alcuni la intesero come processione degli effetti dalle loro cause. E così la intese Ario, il quale diceva che il Figlio procede dal Padre come sua prima creatura, e lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio come creatura di entrambi.
Ma allora né il Figlio sarebbe vero Dio, né lo Spirito Santo.
Ciò però è in contrasto con quanto viene detto del Figlio [1 Gv 5, 20]: "Noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio". E dello Spirito Santo è detto [1 Cor 6, 19]: "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?". Ora, avere un tempio spetta a Dio solo.
Altri invece presero la processione nel senso che le si dà quando si dice che la causa procede nel suo effetto, o in quanto lo produce, o in quanto gli imprime la propria somiglianza. E in questo senso la interpretò Sabellio, il quale affermava che lo stesso Dio Padre è detto Figlio in quanto prese carne dalla Vergine. E diceva che è anche Spirito Santo in quanto santifica e vivifica l'uomo.
Questo senso però è escluso da ciò che il Signore dice di se stesso [Gv 5, 19]: "Il Figlio da sé non può fare nulla", e da molte altre espressioni in base alle quali risulta che il Figlio è distinto dal Padre.
Ora, se si guarda bene, si vede che tanto l'uno quanto l'altro presero il termine processione nel senso di moto tendente all'esterno: quindi né l'uno né l'altro ammise la processione in Dio stesso.
Essendo però ogni processione la conseguenza di qualche azione, come dall'azione che tende a un oggetto esteriore deriva una processione all'esterno, così dall'azione che resta nell'agente si ha una processione che resta nell'interno stesso dell'agente.
E ciò appare molto chiaramente nell'intelletto, la cui azione, cioè l'intendere, rimane in chi intende. Infatti in chiunque intende, per ciò stesso che intende, c'è qualcosa che procede in lui, che è il concetto [o l'idea] della cosa intesa, che sgorga dall'attività della mente e dalla nozione della cosa intesa. Ed è questo concetto, o idea, che viene espresso esternamente con la voce: e viene detto verbo mentale, significato dal verbo orale [o parola].
Ora, essendo Dio al di sopra di tutte le cose, ciò che si dice di lui non va inteso per analogia con le creature inferiori, ma con le superiori, cioè con le sostanze intellettuali; e per di più anche le similitudini desunte da esse sono insufficienti a rappresentare le realtà divine.
Quindi la processione [divina] non va presa nello stesso senso di quella che si verifica nei corpi con il moto locale o con l'azione transitiva di una causa su degli oggetti esteriori, come quella del fuoco su un oggetto scaldato, ma piuttosto come un'emanazione intellettuale, quale è quella del verbo mentale che resta nella mente che lo esprime.
E in questo senso la fede cattolica pone delle processioni in Dio.

Soluzione delle difficoltà: 1. L'argomento ha valore per la processione che è un moto locale, o conseguenza di un'azione tendente a una materia esterna o a un effetto esteriore; ma una tale processione non esiste in Dio, come si è spiegato [nel corpo].
2. Ciò che procede per processione all'esterno deve essere diverso dal principio da cui procede. Ciò che però procede interiormente per processo intellettuale non occorre che sia diverso: anzi, quanto più perfettamente procede, tanto più si identifica con ciò da cui procede. Infatti è chiaro che quanto più perfettamente una cosa viene intesa, tanto più intima resta a chi la intende e più unificata [al principio da cui procede]. Tanto più infatti una cosa si identifica con l'intelletto quanto più l'intelletto attualmente la intende. Quindi, siccome l'intendere di Dio è al vertice dell'[attualità o] perfezione, come si è detto [q. 14, a 1], necessariamente il Verbo divino è una cosa stessa col principio da cui procede, senza alcuna diversità.
3. Procedere da un principio come qualcosa di estraneo e diverso da esso ripugna al concetto di primo principio, ma procedere come qualcosa di intimo e senza alcuna diversità, in maniera intellettuale, è incluso nel concetto di primo principio. Quando infatti diciamo che l'architetto è il principio dell'edificio, nel concetto di questo principio è inclusa l'idea della sua arte; e se l'architetto fosse il primo principio, tale idea sarebbe inclusa nell'idea di primo principio. Ora Dio, che è il primo principio delle cose, sta ad esse come un artefice sta alle sue opere.

Articolo 2
Se in Dio qualche processione possa dirsi generazione
Sembra che nessuna processione in Dio possa dirsi generazione. Infatti:
1. La generazione è una mutazione dal non essere all'essere, cioè l'opposto della corruzione; e ambedue hanno come soggetto la materia. Ma nulla di tutto ciò conviene a Dio. Quindi nella divinità non ci può essere generazione.
2. La processione che esiste in Dio è di ordine intellettuale, come si è spiegato [a. prec.]. Ma tale processione in noi non si dice generazione. Quindi neppure in Dio.
3. Ogni cosa generata riceve il suo essere dal generante. Quindi l'essere, in ogni cosa generata, è un essere ricevuto. Ma l'essere ricevuto non è di per sé sussistente. Ora, siccome l'essere divino, come si è già dimostrato [q. 3, a. 4], è di per sé sussistente, ne segue che nessuna cosa generata ha l'essere divino. Quindi non si può dire che in Dio ci sia generazione.

In contrario: Sta scritto nei Salmi [2, 7]: "Io oggi ti ho generato".

Rispondo: In Dio la processione del verbo prende il nome di generazione.
Per chiarire questo punto si deve notare che la parola generazione viene usata in due sensi.
Primo, in un senso comune a tutte le cose generabili e corruttibili. E così la generazione non è altro che una mutazione dal non essere all'essere.
Secondo, in un senso che è proprio dei viventi: e così la generazione significa l'origine di un vivente da un principio vivente congiunto. E questa è detta propriamente nascita.
Tuttavia non ogni vivente si dice generato, ma in senso rigoroso soltanto quello che procede per via di somiglianza. Quindi i peli o i capelli non hanno natura di cosa generata e di figlio, ma la ha soltanto ciò che procede per via di somiglianza. E non basta neppure una somiglianza generica - infatti i vermi che nascono dall'uomo non si dicono generati da lui, né suoi figli, sebbene vi sia una somiglianza generica -, ma si richiede che il generato proceda come simile nella stessa specie naturale, come l'uomo dall'uomo e il cavallo dal cavallo.
Nei viventi dunque che passano dalla potenza all'atto della vita vi sono tutti e due i suddetti tipi di generazione, come negli uomini e negli animali. Se però c'è un vivente la cui vita non passa dalla potenza all'atto, ammesso che in lui vi sia una processione, essa esclude totalmente il primo tipo di generazione, ma potrà avere l'altro, quello esclusivo dei viventi.-> Ed è in questo modo che in Dio la processione del verbo è una generazione. Esso infatti procede per un'azione intellettuale che è un'operazione vitale; e da un principio congiunto, come si è detto [a. prec.]; e secondo una somiglianza, poiché il concetto dell'intelletto è [immagine o] somiglianza della cosa intesa; e nella stessa natura poiché, come si è dimostrato sopra [q. 14, a. 4], l'intendere e l'essere in Dio sono la stessa cosa. Quindi la processione del verbo in Dio è detta generazione, e il verbo che così procede viene detto Figlio.

Soluzione delle difficoltà: 1. La difficoltà riguarda la generazione presa nel primo senso, in quanto cioè comporta un passaggio dalla potenza all'atto. Ma come si è già detto [nel corpo], tale generazione non si trova in Dio.
2. In noi l'intendere non è la sostanza dell'intelletto: quindi in noi il verbo che procede per operazione intellettiva non è della stessa natura dell'intelletto da cui procede. Quindi [a questo suo procedere] non conviene propriamente e completamente l'idea di generazione. L'intendere divino, invece, è la stessa sostanza di colui che intende, come si è dimostrato altrove [q. 14, a. 4]: perciò il verbo che ne procede procede come un sussistente della stessa natura del suo principio. Per cui esso è detto in senso proprio generato e Figlio.
Quindi la Scrittura, per significare la processione della Sapienza divina, usa termini appartenenti alla generazione dei viventi, cioè le parole concepimento e parto: è detto infatti in persona della Sapienza divina [Pr 8, 24]: "Quando non esistevano gli abissi io ero già concepita; prima dei colli ero partorita". [Quando parliamo] del nostro intelletto usiamo invece [solo] la parola concezione, poiché nel nostro verbo mentale c'è solo la somiglianza della cosa intesa, senza che vi sia l'identità della natura.
3. Non tutto ciò che può dirsi avuto in un soggetto può anche dirsi ricevuto: altrimenti non si potrebbe dire che le cose create hanno tutta la loro sostanza da Dio, poiché non c'è un soggetto ricettivo di tutta la sostanza.
Così dunque ciò che in Dio è generato ha l'essere dal generante, non però come se quell'essere fosse ricevuto in una materia o soggetto (poiché ciò ripugna all'essere divino essenzialmente sussistente); si dice invece che è avuto in quanto chi procede ha da altri l'essere divino che ha, senza però essere altra cosa dall'essere divino. Infatti questo nella sua perfezione contiene ugualmente sia il verbo che procede intellettualmente, sia il principio da cui questo verbo procede: come contiene, secondo quanto abbiamo già visto [q. 4, a. 2], tutto ciò che rientra nella sua perfezione.

Articolo 3
Se in Dio, oltre alla generazione del verbo, vi sia una seconda processione
Sembra che in Dio non vi sia una seconda processione, oltre alla generazione del verbo. Infatti:
1. Per la stessa ragione per cui si ammette questa [seconda], se ne dovrebbe poi ammettere una terza, e poi una quarta, e così si andrebbe all'infinito, il che è inammissibile. Bisogna quindi fermarsi alla prima, in modo che in Dio non vi sia che un'unica processione.
2. Per ogni natura non c'è che un solo modo di essere comunicata. E ciò perché le operazioni hanno la loro unità e diversità in base al termine. Ora, la processione che si trova in Dio è solo per comunicare la natura divina. Essendo dunque questa una sola, come si è detto [q. 11, a. 3], una sola deve essere la processione in Dio.
3. Se in Dio ci fosse un'altra processione diversa da quella del verbo, non potrebbe essere che quella dell'amore, risultante dall'operazione della volontà. Ma questa processione non può essere distinta da quella intellettuale dell'intelletto, poiché in Dio la volontà non differisce dall'intelletto, come si è già dimostrato [q. 19, a. 1]. Quindi in Dio non c'è un'altra processione oltre a quella del verbo.

In contrario: Lo Spirito Santo procede dal Padre, come è detto nel Vangelo [Gv 15, 26]. Ora, egli è distinto dal Figlio, secondo quanto è scritto [Gv 14, 16]: "Io pregherò il Padre, ed egli vi manderà un altro Consolatore". Quindi in Dio c'è un'altra processione oltre a quella del verbo.

Rispondo: In Dio ci sono due processioni: quella del verbo e un'altra ancora.
A chiarimento di ciò si tenga presente che in Dio c'è soltanto la processione per azione immanente, e non quella che tende a un termine estrinseco.
Ora, una tale azione nella natura intellettuale appartiene all'intelletto e alla volontà: secondo l'azione dell'intelletto si ha la processione del verbo, mentre secondo l'operazione della volontà si trova in noi un'altra processione, cioè quella dell'amore, mediante la quale l'amato si trova nell'amante, a quel modo in cui mediante la concezione del verbo la cosa espressa o intesa è in chi la intende.
Quindi, oltre alla processione del verbo, si pone in Dio un'altra processione, quella dell'amore.

Soluzione delle difficoltà: 1. Non c'è bisogno di giungere all'infinito nel numero delle processioni divine. Infatti in una natura intellettuale le processioni immanenti si arrestano a quella della volontà.
2. Contrariamente a quanto si verifica nelle altre realtà, tutto ciò che è in Dio è Dio, come si è detto [q. 3, aa. 3, 4]. Quindi con ogni processione immanente in Dio si comunica la natura divina; il che non avviene nelle altre nature.
3. Sebbene in Dio la volontà non differisca dall'intelletto, tuttavia la volontà e l'intelletto richiedono che le loro processioni abbiano tra loro un ordine. Infatti non si dà la processione dell'amore se non in rapporto a quella del verbo [mentale]: poiché la volontà non può amare se non ciò che è appreso dall'intelletto. Come dunque abbiamo un ordine del verbo rispetto al principio da cui procede, quantunque in Dio l'intelletto e il verbo mentale siano essenzialmente la stessa cosa, così, sebbene in Dio siano la stessa cosa la volontà e l'intelletto, tuttavia, dato che l'amore non può procedere se non dal verbo mentale, ne viene che la processione dell'amore [anche] in Dio ha una distinzione di ordine da quella del verbo.

Articolo 4
Se la processione dell'amore in Dio sia una generazione
Sembra che la processione dell'amore in Dio sia una generazione. Infatti:
1. Ciò che nei viventi procede in somiglianza di natura procede come generato e nato. Ma in Dio ciò che procede come amore procede in somiglianza di natura, altrimenti sarebbe di natura diversa da Dio, e si avrebbe una processione all'esterno. Quindi in Dio ciò che procede come amore procede come generato e nato.
2. La somiglianza appartiene all'amore non meno che al verbo, per cui si dice [Sir 13, 15] che "ogni creatura vivente ama il suo simile". Se dunque a motivo della somiglianza conviene al verbo che procede di essere generato e di nascere, pare che l'essere generato debba convenire anche all'amore che procede.
3. Non può dirsi contenuto in un genere ciò che non è contenuto in qualcuna delle sue specie. Se quindi in Dio vi è una processione di amore, è necessario che oltre a questo nome generico [di processione] essa ne abbia anche un altro speciale. Ma non si può dare altro nome che quello di generazione.
Perciò sembra che in Dio anche questa processione dell'amore sia una generazione.

In contrario: Se così fosse, lo Spirito Santo, che procede come amore, procederebbe come generato. Ma ciò è contrario a quanto è detto nel Simbolo Atanasiano: "Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio, non come fatto, né creato, né generato, ma come procedente".

Rispondo: La processione dell'amore in Dio non può essere detta generazione.
A chiarimento di ciò è da notare che tra l'intelletto e la volontà c'è questa differenza, che l'intelletto passa all'atto in quanto l'oggetto inteso è in esso per la sua somiglianza [o rappresentazione]; invece la volontà passa all'atto non perché ci sia in essa una rappresentazione di ciò che è voluto, ma perché ha in sé una certa inclinazione verso la cosa voluta.
Quindi la processione propria dell'intelletto è per somiglianza: e può essere detta generazione perché il produrre un proprio simile è caratteristico della generazione.
Invece la processione della volontà non è secondo una somiglianza, ma piuttosto secondo un certo impulso o spinta verso qualcosa.
Quindi ciò che in Dio procede come amore non procede come generato o figlio, ma piuttosto come spirito: nome, questo, con cui si indica un moto vitale e una spinta, come si dice che uno è spinto dall'amore a fare qualcosa.

Soluzione delle difficoltà: 1. Tutto ciò che è in Dio è una stessa cosa con la natura divina. Quindi la vera ragione per cui una processione si distingue dall'altra non può essere desunta da questa unità, ma va ricavata dall'ordine che c'è tra di esse. E tale ordine si ricava dalla natura dell'intelletto e della volontà. Quindi dall'indole di queste facoltà tutte e due le processioni in Dio traggono il nome che ne esprime la natura speciale. Ed è per questo che ciò che procede a modo di amore, sebbene riceva la natura divina, tuttavia non si dice nato.
2. Si deve dire che la somiglianza appartiene al verbo e all'amore in modo diverso: al verbo in quanto esso è una certa immagine della cosa intesa, come il generato lo è del generante; all'amore invece non in quanto esso è l'immagine [della cosa amata], ma perché la somiglianza porta ad amare. Quindi non segue che l'amore sia generato, ma solo che il generato è il principio dell'amore.
3. Dio, come si è detto sopra [q. 13, a. 1], non può essere nominato che [a partire] dalle creature. Ora, siccome nelle creature la natura non si comunica che mediante la generazione, tra le processioni divine ha un nome proprio e speciale soltanto la generazione.
Quindi la processione che non è una generazione rimane senza un nome particolare. La si può tuttavia chiamare spirazione, poiché è la processione dello spirito.

Articolo 5
Se in Dio vi siano più di due processioni
Sembra che in Dio vi siano più di due processioni. Infatti:
1. Come si attribuisce a Dio la scienza e la volontà, così gli si attribuisce anche la potenza.
Se dunque dalla parte dell'intelletto e della volontà si hanno in lui due processione, pare che ce ne debba essere una terza dalla parte della potenza.
2. Sembra che alla bontà in modo particolare convenga di essere principio di processione, dato che il bene tende a diffondere se stesso. Quindi si direbbe che in Dio vi debba essere qualche processione anche secondo la bontà.
3. La fecondità è maggiore in Dio che in noi. Ma in noi non c'è una sola processione concettuale, bensì molte: poiché da un verbo procede un altro verbo, e similmente da un amore un altro amore.
Quindi in Dio vi debbono essere più di due processioni.

In contrario: In Dio non vi sono che due procedenti, cioè il Figlio e lo Spirito Santo. Quindi non vi sono che due processioni.

Rispondo: In Dio non vi possono essere processioni se non secondo le azioni immanenti.
Ora, in una natura intellettuale e divina queste non sono che due sole, cioè l'intendere e il volere.
Il sentire infatti, che pare anch'esso un'azione immanente, è estraneo alla natura [puramente] intellettuale; e non è del tutto fuori del genere delle azioni transeunti, poiché si compie mediante l'azione del sensibile sul senso.
Resta dunque che in Dio non vi possono essere altre processioni se non quelle del verbo e dell'amore.

Soluzione delle difficoltà: 1. La potenza è il principio dell'azione che si esercita su di un altro soggetto: quindi da essa proviene l'azione ad extra. Per questo dall'attributo della potenza non si denomina la processione di una persona divina, ma soltanto la derivazione delle creature.
2. Come dice Boezio [De hebdom.], il bene appartiene all'essenza e non all'operazione, se non forse come oggetto della volontà. Dovendo dunque le processioni divine essere desunte dalle operazioni, ne segue che dalla bontà e da simili attributi non si hanno altre processioni oltre a quelle del verbo e dell'amore, in quanto Dio intende e ama la sua essenza, la sua verità e la sua bontà.
3. Come si è già detto [q. 14, a. 7; q. 19, a. 5], Dio con un semplicissimo atto intende e vuole ogni cosa. Quindi in lui non vi può essere processione di un verbo dal verbo, né di un amore dall'amore, ma in Dio c'è un solo verbo e un solo amore perfettissimi. E in ciò si manifesta la sua perfetta fecondità.







SEGUE.....


Una stretta di [SM=g1902224]




Pierino





[Modificato da mlp-plp 18/04/2010 14:31]
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Dalla summa teologica di San Tommaso:

posterò parte dei suoi scritti, riguardante le
tre Personalità Divine "LA TRINITA'"

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parte 2:




LE RELAZIONI DIVINE

Passiamo ora a considerare le relazioni divine.
A questo proposito si pongono quattro quesiti:
1. Se in Dio vi siano delle relazioni reali;
2. Se tali relazioni siano la stessa essenza divina o qualcosa di aggiunto esternamente;
3. Se in Dio vi possano essere più relazioni fra loro realmente distinte;
4. Quale sia il numero di queste relazioni.

Articolo 1
Se in Dio vi siano delle relazioni reali
Sembra che in Dio non vi siano delle relazioni reali. Infatti:
1. Boezio [De Trin. 4] dice: "Quando le nostre categorie si riferiscono a Dio, quelle che gli si possono riferire si mutano nella categoria di sostanza; però in nessun modo gli possiamo attribuire la relazione".
Ma tutto ciò che è realmente in Dio possiamo a lui attribuirlo. Quindi in lui non c'è realmente alcuna relazione.
2. Boezio asserisce nello stesso libro [6] che "nella SS. Trinità la relazione del Padre al Figlio, e quella di ambedue allo Spirito Santo, è come quella di un'identica cosa a se stessa". Ma questa è solo una relazione di ragione: poiché ogni relazione reale richiede due termini reali.
Quindi le relazioni che si pongono in Dio non sono reali, ma solo di ragione.
3. La relazione di paternità è una relazione di principio. Ora, l'espressione: Dio è il principio delle creature non implica una relazione reale, ma solo di ragione.
Quindi neppure la paternità è una relazione reale. E lo stesso si deve dire delle altre relazioni che si attribuiscono a Dio.
4. La generazione in Dio avviene come processione del verbo mentale. Ma le relazioni che derivano dalle operazioni intellettuali sono relazioni di ragione.
Quindi in Dio la paternità e la filiazione, che sono desunte dalla generazione, sono soltanto relazioni di ragione.

In contrario: Il Padre non è detto tale se non per la paternità, e il Figlio per la filiazione.
Se dunque la paternità e la filiazione non sono realmente in Dio, ne segue che egli non è Padre e Figlio realmente, ma solo secondo il nostro modo di concepire: e questa è l'eresia di Sabellio.

Rispondo: Vi sono in Dio alcune relazioni reali.
Per chiarire questo punto si deve notare che solo nella categoria della relazione si trovano alcune specie che non sono reali, ma soltanto di ragione.
Il che non avviene nelle altre categorie: poiché queste altre, come la quantità e la qualità, prese anche secondo il loro concetto essenziale, significano qualcosa di inerente al soggetto.
Invece la relazione, presa secondo il suo concetto essenziale, comporta solo un ordine a qualche altra cosa. E tale ordine qualche volta è nella natura stessa delle cose: come quando queste per natura sono tra loro ordinate e tendono l'una all'altra. E le relazioni di questo tipo sono necessariamente reali.
Come nei gravi c'è l'inclinazione e la tendenza verso il centro della terra, e perciò vi è in essi un ordine o relazione a questo centro. E lo stesso avviene in altre cose simili. Invece talvolta il rapporto espresso dai termini relativi si trova soltanto nella ragione che conosce e confronta un termine con l'altro; e allora si ha una relazione soltanto di ragione: come quando questa mette in rapporto l'uomo con l'animale come la specie al genere.-> Ora, quando un soggetto procede da un principio di uguale natura, tutti e due, ossia ciò che procede e il suo principio, necessariamente convengono nello stesso ordine, e perciò le relazioni che li uniscono sono di necessità relazioni reali. Essendo dunque le processioni divine in identità di natura, come si è detto [q. 27, a. 3, ad 2], anche le relazioni che ne seguono sono necessariamente relazioni reali.

Soluzione delle difficoltà: 1. Si dice che la relazione, secondo la sua natura di relazione, non può essere in alcun modo attribuita a Dio in quanto la natura propria di tale categoria non viene desunta dal soggetto in cui si trova, ma dal riferimento all'altro [termine della relazione]. Con ciò però Boezio non ha voluto escludere da Dio le relazioni, ma solo affermare che esse, secondo la loro propria natura, non si predicano in quanto inerenti, ma piuttosto in quanto riferentisi all'altro termine.
2. La relazione indicata dall'espressione identica cosa è una relazione puramente di ragione se [la cosa] è presa come identica sotto ogni aspetto: poiché una tale relazione non può consistere che in un certo rapporto, stabilito dalla mente, di una cosa con se stessa, presa sotto due considerazioni diverse. Diverso è invece il caso quando si dice che due cose numericamente distinte sono identiche nel genere o nella specie. Quindi Boezio paragona le relazioni che sono in Dio a quella di identità non in tutto, ma solo in quanto con tali relazioni la sostanza [divina] non acquista diversità, proprio come nel caso della relazione di identità.
3. Siccome le creature procedono da Dio secondo una diversità di natura, Dio si trova fuori di tutto l'ordine delle creature; e il rapporto che egli ha verso le creature non proviene dalla sua natura, poiché egli non le produce per una necessità intrinseca, ma da un'azione libera del suo intelletto e della sua volontà, come si è detto [q. 14, a. 8; q. 19, a. 4]. Quindi in Dio non c'è una relazione reale alle creature; però nelle creature c'è una relazione reale a Dio, essendo esse contenute sotto l'ordine divino e dipendendo nella loro natura da Dio. Ma le processioni divine sono secondo l'identità di natura. Quindi il paragone non regge.
4. Le relazioni che sorgono nelle cose per le sole operazioni della mente sono relazioni soltanto di ragione perché poste dalla mente stessa nelle cose intese. Invece le relazioni che seguono le operazioni della mente e intercorrono tra il verbo mentale e il principio da cui procede non sono soltanto di ragione, ma reali: poiché l'intelletto, o la ragione, è qualcosa di reale che ha un rapporto reale con ciò che procede mentalmente, come le realtà corporali hanno una relazione reale con ciò che procede materialmente [da esse]. E in questo senso la paternità e la filiazione esistono in Dio realmente.

Articolo 2
Se la relazione in Dio sia identica alla sua essenza
Sembra che in Dio la relazione non sia identica alla sua essenza. Infatti:
1. S. Agostino [De Trin. 5, 5] dice: "Non tutto ciò che si predica di Dio sta a indicare la sostanza, poiché alcune cose si dicono di lui in ordine ad altro, come egli è detto Padre in ordine al Figlio; ora, queste [espressioni] non stanno a indicare la sua sostanza". Quindi la relazione non è l'essenza divina.
2. Lo stesso S. Agostino [De Trin. 7, 1] asserisce: "Nelle cose che sono denominate da una relazione, oltre a questa c'è in esse qualcos'altro, come nell'uomo-padrone e nell'uomo-servo". Se dunque in Dio ci sono delle relazioni bisogna che in lui, oltre alla relazione, ci sia anche qualche altra cosa. Ma quest'altra cosa non può essere che l'essenza. Quindi questa si distingue dalle relazioni.
3. L'essere di ogni cosa relativa è il riferirsi ad altro, come dice Aristotele [Praed. 5, 24]. Se dunque la relazione fosse identica all'essenza, ne seguirebbe che l'essere dell'essenza divina sarebbe una semplice relazione; ma ciò ripugna alla perfezione dell'essere divino, che è massimamente assoluto e sussistente, come si è detto [q. 3, a. 4]. Quindi la relazione non è l'essenza divina.

In contrario: Tutto ciò che non è l'essenza divina è una creatura.
Ma la relazione viene attribuita a Dio come qualcosa di reale. Se dunque essa non si identifica con l'essenza divina, [allora] è qualcosa di creato, e come tale non meritevole di adorazione latreutica; il che va contro quanto si canta nel Prefazio: "Noi adoriamo la Trinità delle Persone, l'uguaglianza nella maestà divina".

Rispondo: È risaputo che Gilberto Porretano errò su questo argomento, ma poi ritrattò il suo errore nel Concilio di Reims.
Diceva infatti che le relazioni in Dio sono assistenti, ossia apposte dall'esterno.
Per chiarire questo punto è necessario osservare che in ognuno dei nove generi di accidenti si devono distinguere due elementi. Il primo è l'essere che conviene a ognuno di tali generi in quanto accidenti. E questo, comune a tutti [e nove], è l'essere nel soggetto, poiché l'essere dell'accidente è appunto l'essere in [un soggetto].
L'altro elemento a cui si deve badare è ciò che forma la ragione propria di ciascun genere e ne è l'elemento distinguente.-> Ora, negli altri generi diversi dalla relazione, come nella quantità e nella qualità, anche questo elemento distinguente viene preso in rapporto al soggetto: poiché la quantità è detta misura della sostanza, e la qualità è una disposizione della sostanza. Invece l'elemento distinguente della relazione viene preso in rapporto non al soggetto in cui si trova, ma a qualcosa di esterno. Se dunque anche nelle creature consideriamo le relazioni secondo ciò che loro compete di proprio, cioè come relazioni, troviamo che sono assistenti, non fissate intrinsecamente: poiché allora significano il rapporto che, in certo qual modo, parte dalla stessa cosa che viene riferita per tendere verso un'altra. Se invece le stesse relazioni vengono considerate come accidenti, allora sono inerenti al soggetto e hanno in esso un essere accidentale.
Ma Gilberto Porretano considerò le relazioni solo nel primo modo. Ora, tutto ciò che nelle creature ha un essere accidentale, trasferito in Dio ne acquista uno sostanziale, poiché in Dio non c'è nulla di accidentale, ma tutto ciò che è in lui è la sua stessa essenza. Così dunque la relazione che esiste realmente in Dio, da quel lato in cui nelle creature ha un essere accidentale, in Dio ha quello sostanziale dell'essenza divina, assolutamente identico ad essa. Invece in quanto relazione non indica alcun ordine all'essenza, ma piuttosto al suo correlativo.
E così è chiaro che la relazione esistente realmente in Dio è realmente identica all'essenza; e non ne è distinta se non per una differenza concettuale, in quanto nella relazione è incluso l'ordine al termine correlativo, ordine che non è incluso nel concetto di essenza.
È dunque evidente che in Dio l'essere della relazione non è diverso da quello dell'essenza, ma è la stessa e identica cosa.

Soluzione delle difficoltà: 1. S. Agostino con quelle parole non vuol dire che la paternità, od ogni altra relazione che si trova in Dio, non sia identica nel suo essere all'essenza divina, ma soltanto che non si predica come sostanza, cioè come esistente nel soggetto a cui viene attribuita, bensì in quanto si riferisce a un altro termine. - E per questo si dice che in Dio non vi sono che due predicamenti. Poiché gli altri comportano un ordine al soggetto di cui si predicano, tanto secondo il loro essere quanto secondo la loro ragione specifica, mentre invece nulla di quanto è in Dio, data la sua somma semplicità, può avere altro rapporto col soggetto in cui si trova che non sia quello di identità.
2. Come nelle creature che sono denominate da una relazione non c'è soltanto questa relazione, ma anche qualcos'altro di assoluto, così anche in Dio, sebbene in modo differente. Nelle creature infatti ciò che si trova oltre a quanto è significato dal nome relativo è un'altra cosa; in Dio invece è la stessa e identica cosa, cioè la sostanza divina, la quale però non è perfettamente espressa dal nome relativo, non essendo limitata al significato di tale nome. Si è detto infatti, parlando dei nomi divini [q. 13, a. 2], che in Dio vi è assai più di quanto si possa esprimere con qualsiasi nome.
Quindi non segue che in Dio, oltre alle relazioni, vi sia qualche altra cosa realmente, ma soltanto se si considera la natura propria dei nomi.
3. Se la perfezione divina non contenesse nulla di più di quanto è significato dal nome relativo, il suo essere sarebbe imperfetto, poiché consisterebbe nella semplice relazione: come non sarebbe sussistente se non contenesse nulla di più di quanto viene significato con il nome "sapienza". Essendo invece la perfezione dell'essenza divina maggiore di quanto possa esprimersi a parole, se un nome relativo, o qualsiasi altro nome, non significa qualcosa di perfetto, non ne segue che l'essenza divina sia imperfetta: poiché, come si è detto [q. 4, a. 2], essa racchiude in se stessa ogni genere di perfezione.

Articolo 3
Se le relazioni esistenti in Dio si distinguano realmente fra di loro
Sembra che le relazioni esistenti in Dio non si distinguano realmente fra di loro. Infatti:
1. Più cose identiche a una medesima sono identiche tra loro. Ma ogni relazione esistente in Dio si identifica realmente con la sostanza divina. Quindi tali relazioni non si distinguono realmente fra di loro.
2. Come la paternità e la filiazione si distinguono dall'essenza divina solo per il proprio concetto espresso dai nomi, così anche si distinguono la bontà e la potenza. Ma la bontà e la potenza in Dio non sono realmente distinte per questa distinzione concettuale. Quindi neppure la paternità e la filiazione sono distinte.
3. In Dio non c'è distinzione reale se non per l'origine. Ma una relazione non scaturisce dall'altra. Quindi le relazioni non sono distinte realmente fra di loro.

In contrario: Dice Boezio [De Trin. 6]: "In Dio la sostanza mantiene l'unità, mentre la relazione moltiplica la trinità". Se dunque le relazioni non si distinguono realmente, in Dio non si avrà una trinità reale, ma solo di ragione; e questo è l'errore di Sabellio.

Rispondo: Per ciò stesso che a un soggetto si attribuisce qualcosa, gli si deve attribuire anche tutto ciò che è incluso nel concetto di tale cosa: come a chiunque si attribuisce l'umanità si deve attribuire anche la razionalità.
Ora, nel concetto di relazione è incluso il rapporto di una cosa a un'altra opposta in modo relativo.
Poiché dunque in Dio vi sono delle relazioni reali, come si è detto [a. 1], ci deve anche essere un'opposizione reale. E tale opposizione include nel suo concetto la distinzione.
Quindi in Dio ci deve essere una distinzione reale, non già in quanto vi è in lui di assoluto, cioè nell'essenza, che è somma unità e semplicità, ma in ciò che è relativo.

Soluzione delle difficoltà: 1. L'assioma aristotelico [Phys. 3, 3]: "se due cose sono identiche a una terza sono identiche anche fra di loro", vale per quelle cose che sono identiche tanto nella realtà quanto nel concetto, come p. es. abito e vestito; non vale invece per quelle che sono diverse nel concetto.
Per cui il Filosofo dice nello stesso luogo che, sebbene l'azione si identifichi col moto, e così pure la passione, non ne segue però che l'azione sia identica alla passione: perché nell'azione è incluso il riferimento del moto al principio da cui proviene, mentre nella passione è incluso [il riferimento] al soggetto nel quale il moto è ricevuto.
E allo stesso modo, sebbene la paternità sia realmente identica all'essenza divina, e così pure la filiazione, tuttavia queste due cose nei loro concetti includono rapporti opposti. Quindi sono distinte l'una dall'altra.
2. La potenza e la bontà non includono nel loro concetto alcuna opposizione: perciò il paragone non regge.
3. Sebbene, propriamente parlando, le relazioni non nascano o procedano l'una dall'altra, tuttavia sorgono dai termini opposti della processione di una cosa da un'altra.

Articolo 4
Se in Dio vi siano soltanto quattro relazioni reali, cioè la paternità, la filiazione, la spirazione e la processione
Sembra che in Dio non vi siano soltanto quattro relazioni reali, cioè la paternità, la filiazione, la spirazione e la processione. Infatti:
1. Si deve tener conto in Dio anche delle relazioni esistenti fra l'intelletto e la cosa intesa, e tra la volontà e l'oggetto voluto: relazioni, queste, che sembrano anch'esse reali, e non sono comprese fra le precedenti. Quindi in Dio non ci sono solo quattro relazioni reali.
2. Le relazioni reali in Dio sorgono dalla processione intellettuale del verbo. Ma secondo Avicenna [Met. 3, 10] le relazioni mentali si moltiplicano all'infinito. Quindi in Dio c'è un numero infinito di relazioni.
3. Come si è detto sopra [q. 15, a. 2], in Dio da tutta l'eternità ci sono le idee [archetipe] le quali, come pure si è detto [l. cit.], si distinguono tra loro solo per il diverso ordine alle creature. Quindi in Dio c'è un numero molto maggiore di relazioni che non le quattro suddette.
4. L'uguaglianza, la somiglianza e l'identità sono anch'esse relazioni, ed esistono in Dio da tutta l'eternità. Quindi da tutta l'eternità ci sono in Dio più relazioni che le [quattro] suddette.

In contrario: Sembra invece che ve ne siano meno di quelle quattro poiché, come dice Aristotele [Phys. 3, 3], "è identica la strada da Atene a Tebe e da Tebe ad Atene". Quindi, per la medesima ragione, sembra che sia identica la relazione del padre al figlio, detta paternità, e quella del figlio al padre, detta filiazione. E così non sono quattro le relazioni in Dio.

Rispondo: Secondo il Filosofo [Met. 5, 15] ogni relazione si fonda o sulla quantità, come il doppio, la metà, ecc., oppure sull'azione e la passione, come quella che c'è tra chi fa e ciò che è fatto, tra padre e figlio, tra padrone e servo, e simili.
Ma non essendovi in Dio quantità (poiché egli, come dice S. Agostino [Contra Ep. Manich. 15], è "grande, ma non in estensione"), ne segue che ogni relazione reale che c'è in lui non può avere altro fondamento che l'azione. Non però quella da cui procede qualcosa al di fuori di lui poiché, come si è detto [a. 1, ad 3; q. 13, a. 7], le relazioni fra Dio e le creature non sono in lui reali.
Quindi non possono esserci relazioni reali in Dio se non per quelle azioni in virtù delle quali si hanno processioni non al di fuori, ma dentro Dio stesso.
Ora, come si è detto [q. 27, a. 5], queste processioni sono soltanto due: una per l'azione dell'intelletto, ed è la processione del verbo, l'altra per l'azione della volontà, ed è la processione dell'amore.
A ognuna di queste processioni poi corrispondono due relazioni opposte: una del procedente dal suo principio, l'altra del principio stesso.
La processione del verbo è poi detta generazione, nel significato rigoroso proprio degli esseri viventi. Ora, nei viventi di vita perfetta la relazione che conviene al principio della generazione si dice paternità, mentre la relazione di ciò che procede per generazione dal principio è detta filiazione.
Invece la processione dell'amore, come si è detto [q. 27, a. 4], non ha un nome proprio: quindi neppure hanno un nome proprio le relazioni che ne seguono. Si chiama però spirazione la relazione del principio di questa processione, mentre [si chiama] processione la relazione del procedente; sebbene questi due nomi appartengano alle processioni od origini, e non alle relazioni.

Soluzione delle difficoltà: 1. Negli enti in cui l'intelletto e il suo oggetto, la volontà e ciò che è voluto sono cose diverse, la relazione della conoscenza all'oggetto e del volere alla cosa voluta è reale. Non è così però in Dio, nel quale si identificano assolutamente l'intelletto e l'oggetto, la volontà e la cosa voluta, poiché è intendendo se medesimo che egli intende tutte le cose; e lo stesso si dica della volontà e della cosa voluta. Quindi in Dio queste relazioni non sono reali, come non è reale la relazione di una cosa con se stessa. Tuttavia è reale la relazione al verbo: poiché il verbo va inteso come il termine che procede dall'azione intelligibile, e non come la cosa intesa. Quando infatti intendiamo, p. es., una pietra, si dice verbo l'idea che di essa si forma l'intelletto.
2. In noi le relazioni di ordine intellettuale possono moltiplicarsi all'infinito perché l'uomo con un atto intende la pietra, e con un altro intende di averla intesa, e con un altro ancora intende questo stesso intendere; e così all'infinito si moltiplicano gli atti dell'intendere, e conseguentemente le relazioni intese. Ciò però non ha luogo in Dio, che tutto intende con un unico atto.
3. Le relazioni delle idee alle cose esistono in quanto oggetto della conoscenza di Dio. Quindi dalla loro pluralità non segue che in Dio ci siano più relazioni, ma solo che egli conosce più relazioni.
4. Le relazioni di uguaglianza e di somiglianza in Dio non sono relazioni reali, ma soltanto di ragione, come verrà spiegato in seguito [q. 42, a. 1, ad 4].
5. [S. c.]. La strada da un luogo a un altro e viceversa è la stessa, però i rapporti sono diversi. Quindi da tale identità [della strada] non si può concludere che sia identica la relazione di padre a figlio e di figlio a padre. Si potrebbe invece dirlo di un'eventuale realtà assoluta interposta fra di loro.




LE PERSONE DIVINE

Premesso quanto era necessario sapere sulle processioni e sulle relazioni, dobbiamo affrontare lo studio delle Persone [cf. q. 27, Prol.].
E in primo luogo le considereremo in se stesse, quindi nei loro rapporti [q. 39].
Ora, le Persone in se stesse bisogna considerarle innanzi tutto in generale, poi singolarmente [q. 33]. E nella considerazione generale delle Persone sembra che rientrino questi quattro temi:
primo, il significato del nome persona;
secondo, il numero delle Persone [q. 30];
terzo, le conseguenze del numero delle Persone, e cioè l'opposizione, la diversità, la somiglianza e simili [q. 31];
quarto, la nostra conoscenza delle Persone divine [q. 32].
Sul primo tema si pongono quattro quesiti:
1. Come si definisca la persona;
2. Quali rapporti essa abbia con l'essenza, con la sussistenza e con l'ipostasi;
3. Se il termine persona si possa attribuire a Dio;
4. Che cosa significhi attribuito a Dio.

Articolo 1
Definizione della persona
Sembra che la definizione della persona data da Boezio [De duab. nat. 3], cioè "la persona è una sostanza individuale di natura razionale", non sia accettabile. Infatti:
1. I singolari non si definiscono. Ora, persona significa qualcosa di singolare. Quindi è fuori luogo definire la persona.
2. Sostanza, che fa parte della definizione di persona, o sta per sostanza prima o sta per sostanza seconda. Se sta per sostanza prima l'aggiunta di individuale è superflua: essendo appunto la sostanza prima quella individuale. Se invece sta per sostanza seconda, allora l'aggiunta è falsa, per l'opposizione che c'è tra il sostantivo e l'aggettivo, essendo sostanze seconde i generi e le specie. È dunque una definizione male assegnata.
3. Nella definizione di una cosa reale non si devono mettere nomi di [seconda] intenzione. Non sarebbe infatti bene dire che l'uomo è una specie dell'animale, essendo uomo un nome di realtà, e specie un nome di [seconda] intenzione. Quindi, siccome persona è un nome di realtà (poiché significa una sostanza di natura razionale), nella sua definizione non è usato a proposito il termine individuale, che è un nome di [seconda] intenzione.
4. La natura, come dice Aristotele [Phys. 2, 1], "è un principio di moto e di quiete nel soggetto in cui si trova non accidentalmente, ma per se stessa". Ma la persona si trova anche in soggetti del tutto immobili, come in Dio e negli angeli. Quindi nella definizione di persona non si doveva mettere natura, ma piuttosto essenza.
5. L'anima separata è una sostanza individuale di natura razionale. E tuttavia non è una persona. Quindi la persona è stata male definita da Boezio.

Rispondo: Sebbene l'universale e il particolare si trovino in tutti i generi [o predicamenti], tuttavia l'individuo si ha specialmente nel genere della sostanza.
Infatti la sostanza è individuata da se stessa, mentre l'accidente è individuato dal suo soggetto, che è la sostanza: la bianchezza infatti è questa qui [e non un'altra] perché è in questo soggetto. Quindi gli individui sostanziali, a preferenza degli altri, hanno un nome proprio, e sono detti ipostasi o sostanze prime.
L'individuo particolare poi si trova in un modo ancora più speciale e più perfetto nelle sostanze razionali, che hanno il dominio dei propri atti e che si muovono da se stesse, non già spinte dall'esterno come gli altri esseri; e le azioni d'altra parte si verificano proprio nelle realtà particolari.
Quindi, fra tutte le altre sostanze, gli individui di natura razionale hanno un nome speciale. E questo nome è persona.
Nella suddetta definizione dunque si mette sostanza individuale per significare il singolare nel genere della sostanza, e si aggiunge di natura razionale per indicare il singolare nelle sostanze razionali.

Soluzione delle difficoltà: 1. Sebbene non si possa definire questo o quel singolare determinato, si può però benissimo definire lo stato di singolarità: e così Aristotele definisce la sostanza prima [Praed. 3]. E nella stessa maniera Boezio definisce la persona.
2. Secondo alcuni, la sostanza posta nella definizione della persona sta per la sostanza prima che è l'ipostasi. Né è superflua [a loro giudizio] l'aggiunta di individuale. Poiché con il nome di ipostasi o di sostanza prima si vuole escludere lo stato di universalità e la condizione di parte (poiché l'uomo in genere non lo diciamo un'ipostasi, e neppure diciamo che lo sia una mano, essendo essa una parte), mentre con l'aggiunta di individuale si esclude dalla persona la ragione di assumibilità: poiché la natura umana in Cristo non è persona, essendo stata assunta da un soggetto più nobile, cioè dal Verbo di Dio. - Però è meglio dire che sostanza è presa in generale, come ancora divisibile in prima e seconda, e quindi con l'aggiunta di individuale si viene a indicare la sostanza prima.
3. Siccome le differenze sostanziali non ci sono note o non hanno nome, qualche volta siamo costretti a usare in loro vece differenze accidentali, come quando si dice che il fuoco è un corpo semplice, caldo e secco: poiché gli accidenti propri sono gli effetti e la manifestazione delle forme sostanziali. E allo stesso modo si possono usare i nomi di [seconda] intenzione per definire le cose, in quanto essi fanno le veci dei nomi mancanti. Ed è per questo che il termine individuale viene posto nella definizione della persona, per indicare cioè il modo di esistere che conviene alle sostanze particolari.
4. Come dice il Filosofo [Met. 5, 4], il nome natura in origine fu usato per indicare la generazione dei viventi, che viene detta nascita. E siccome questa generazione procede da un principio intrinseco, tale nome fu esteso a indicare il principio intrinseco di qualsiasi moto. E così Aristotele [Phys. 2, 1] definisce la natura. Siccome poi questo principio può essere formale o materiale, comunemente tanto la forma quanto la materia si dicono natura. Essendo poi la forma il principio perfettivo dell'essenza di qualsiasi cosa, questa essenza, espressa dalla definizione, è detta comunemente anch'essa natura.
E in questo senso è qui usata.
Per cui Boezio [De duab. nat. 1] dice che "la natura è la differenza specifica costitutiva di ciascuna cosa": infatti la differenza specifica è quella che completa la definizione e viene desunta dalla forma propria della cosa.
Quindi era più conveniente che nella definizione di persona, che è un singolare di un certo genere determinato, si usasse il nome di natura anziché quello di essenza, poiché quest'ultimo nome è desunto dall'essere, che è la realtà più comune.
5. L'anima è soltanto una parte dell'uomo: e come tale, anche separata, dal momento che ritiene la capacità di riunirsi [al corpo] non può essere detta sostanza individuale come l'ipostasi o la sostanza prima; e così è della mano e di qualsiasi altra parte dell'uomo. Quindi non le conviene né la definizione né il nome di persona.

Articolo 2
Se persona sia la stessa cosa che ipostasi, sussistenza ed essenza
Sembra che persona sia la stessa cosa che ipostasi, sussistenza ed essenza. Infatti:
1. Boezio [De duab. nat. 3] dice che "i Greci chiamarono ipostasi la sostanza individuale di natura razionale". Ma per noi anche il termine persona ha questo significato. Quindi la persona è lo stesso che l'ipostasi.
2. Come diciamo che in Dio ci sono tre persone, così diciamo che ci sono tre sussistenze; ma non sarebbe così se persona e sussistenza non significassero la stessa cosa. Quindi persona e sussistenza significano la stessa cosa.
3. Boezio [In Cat. Arist., De subst.] dice che usìa, equivalente a essenza, significa il composto di materia e forma. Ora, ciò che è composto di materia e forma è l'individuo [del genere] sostanza, che è detto ipostasi o persona. Quindi sembra che tutti questi nomi significhino la stessa cosa.

In contrario: 1. Boezio afferma [De duab. nat. 3] : "I generi e le specie sussistono soltanto, mentre gli individui non soltanto sussistono, ma anche sottostanno [in funzione di suppositi]". Ma da sussistere sono detti sussistenze, come da sottostare sostanze o ipostasi.
Siccome dunque essere ipostasi o persona non conviene ai generi e alle specie, l'ipostasi e la persona non si identificano con la sussistenza.
2. Inoltre Boezio [In Cat. Arist., De subst.] dice che l'ipostasi è la materia, la usìosis invece, cioè la sussistenza, la forma. Ora, né la materia né la forma possono dirsi persona. La persona perciò differisce dall'ipostasi e dalla sussistenza.

Rispondo: Secondo il Filosofo [Met. 5, 8], il termine sostanza può essere preso in due sensi.
Primo, si dice sostanza la quiddità di una cosa espressa dalla definizione, come diciamo che la definizione esprime la sostanza della cosa: e questa sostanza, che i Greci dicono usìa, noi possiamo chiamarla essenza.
Secondo, si dice sostanza il soggetto o supposito che sussiste nel genere [o predicamento] della sostanza. E questa, presa in generale, può essere indicata con un nome che ne esprime la funzione logica, e allora viene detta soggetto o supposito. La si designa poi anche con tre nomi che esprimono la realtà [concreta], e cioè res naturae, sussistenza e ipostasi, secondo tre diversi aspetti della sostanza presa in quest'ultimo senso.
In quanto cioè esiste in se stessa e non in un altro [soggetto] è detta sussistenza: infatti diciamo sussistenti quelle cose che sussistono in sé e non in altro.
In quanto invece fa da supposito a una natura presa nella sua universalità è detta res naturae: come quest'uomo è una res naturae della natura umana.
In quanto infine fa da supposito agli accidenti prende il nome di ipostasi o sostanza.
Quello poi che questi tre nomi significano universalmente per tutti i generi di sostanze, il termine persona lo significa nel genere delle sostanze razionali.

Soluzione delle difficoltà: 1. Per i Greci ipostasi, secondo il significato proprio della parola, indica l'individuo di qualsiasi sostanza, ma secondo l'uso indica solo l'individuo di natura razionale, attesa l'eccellenza di questa natura.
2. Come noi diciamo al plurale che in Dio vi sono tre persone e tre sussistenze, così i Greci dicono che vi sono tre ipostasi. Però siccome il nome di sostanza, che propriamente corrisponde a ipostasi, per noi è equivoco, dato che alcune volte significa l'essenza e altre volte l'ipostasi, per evitare il pericolo di errore si è preferito tradurre ipostasi col termine sussistenza, anziché con quello di sostanza.
3. L'essenza, propriamente, è ciò che viene espresso dalla definizione. Ora, la definizione comprende i princìpi specifici, e non quelli individuali. Quindi nelle cose composte di materia e di forma l'essenza non significa né la sola forma né la sola materia, ma il composto di materia e di forma comuni, in quanto sono princìpi della specie. Invece il composto formato di questa materia e di questa forma ha natura di ipostasi e di persona. Infatti l'anima, la carne e le ossa appartengono alla struttura dell'uomo, mentre questa anima, questa carne e queste ossa appartengono alla struttura [propria] di questo uomo. Perciò l'ipostasi e la persona aggiungono all'essenza i princìpi individuali; e nei composti di materia e di forma non coincidono con l'essenza, come si è già detto sopra [q. 3, a. 3] parlando della semplicità divina.
4. Boezio dice che i generi e le specie sussistono in quanto il sussistere appartiene ad alcuni individui per il fatto che sono racchiusi in generi o specie del predicamento sostanza, non già nel senso che sussistano le specie o i generi, a meno che non [si parli] secondo l'opinione di Platone [Phaed. 48 s.], il quale riteneva le specie delle cose come sussistenti, indipendentemente dai singolari. Sottostare [in funzione di supposito] appartiene invece a questi medesimi individui in ordine agli accidenti, che sono fuori delle specie e dei generi.
5. L'individuo composto di materia e di forma ha dalla materia la proprietà di sottostare agli accidenti, per cui Boezio [De Trin. 2] afferma: "Una forma semplice non può essere soggetto". Ma il sussistere di per sé [un individuo] lo ha dalla sua forma, che non sopravviene a una realtà già sussistente, ma dà l'essere attuale alla materia, in modo che l'individuo possa così sussistere. Egli quindi attribuisce l'ipostasi alla materia e l'usìosis o sussistenza alla forma per il fatto che la materia è il principio del sottostare [in funzione di supposito], e la forma è il principio del sussistere.

Articolo 3
Se a Dio si possa attribuire il nome di persona
Sembra che, parlando di Dio, non si debba usare il nome di persona. Infatti:
1. Dionigi [De div. nom. 1, 1] scrive: "Circa la sovrasostanziale e occulta divinità non si deve assolutamente aver l'ardire di dire o di pensare se non ciò che è contenuto nella parola divina". Ora, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento non si trova mai usato il termine persona. Quindi quando si parla della divinità non si deve usare il nome persona.
2. Boezio [De duab. nat. 3] dice: "Il nome di persona sembra che abbia avuto origine da quelle maschere con le quali nelle commedia e nelle tragedie si rappresentavano alcuni personaggi: persona infatti è detta da personare [risonare, rimbombare, suonare forte]: poiché per la stessa concavità [della maschera] il suono risulta rafforzato. E i Greci queste maschere [o persone] le dicono pròsopa, dato che poste in faccia, davanti al viso, nascondono il volto". Ma tutto ciò non può convenire a Dio se non in senso metaforico. Quindi il termine persona non può essere attribuito a Dio se non per metafora.
3. Ogni persona è anche ipostasi. Ma non pare che il nome di ipostasi convenga a Dio: infatti esso, secondo Boezio [l. cit.], significa ciò che sta sotto gli accidenti, che in Dio non si danno. E anche S. Girolamo [Epist. 15 ad Dam.] dice che nel nome di ipostasi "sta nascosto il veleno sotto il miele". Quindi il nome persona non va attribuito a Dio.
4. A chi non conviene la definizione non conviene neppure la realtà definita. Ma la definizione di persona sopra [a. 1] riferita non sembra convenire a Dio. Sia perché la razionalità comporta una conoscenza discorsiva, che a Dio non compete, come si è detto sopra [q. 14, a. 7], e così Dio non può dirsi di natura razionale, sia anche perché Dio non può dirsi sostanza individuale: infatti il principio di individuazione è la materia, mentre Dio è immateriale; e non sottostà neppure agli accidenti, come invece dovrebbe per potersi dire sostanza. Quindi a Dio non si può attribuire il nome di persona.

In contrario: Nel Simbolo di S. Atanasio è detto: "Altra è la persona del Padre, altra quella del Figlio, altra quella dello Spirito Santo".

Rispondo: La persona significa quanto di più nobile si trova in tutto l'universo, cioè il sussistente di natura razionale.
Per questo, dovendosi attribuire a Dio tutto ciò che comporta perfezione, dato che nella sua essenza egli contiene tutte le perfezioni, è conveniente che gli venga attribuito anche il nome di persona. Tuttavia non nel modo in cui viene attribuito alle creature, ma in maniera più eccellente, come si fa con gli altri nomi da noi imposti alle creature e applicati a Dio: secondo quanto si è dimostrato sopra [q. 13, a. 3] parlando dei nomi di Dio.

Soluzione delle difficoltà: 1. Sebbene nei libri dell'Antico e del Nuovo Testamento non sia applicato a Dio il nome persona, tuttavia ciò che è indicato da quel nome vi è affermato di Dio in molte maniere: cioè che egli è ente per sé in grado sommo e perfettissimamente intelligente.
Se poi, nel parlare di Dio, non si potessero usare se non quelle parole che sono usate dalla Scrittura, ne verrebbe che nessuno potrebbe parlare di lui in una lingua diversa da quella in cui originariamente furono tramandati i libri dell'Antico e del Nuovo Testamento.
Invece la necessità di disputare con gli eretici spinse a trovare nuovi vocaboli espressivi dell'antica fede. E non c'è motivo di rifuggire da questa novità, poiché non è una cosa profana, dal momento che non discorda dal senso della Scrittura: ora, S. Paolo [1 Tm 6, 20] vuole che si evitino le "novità profane".
2. Quantunque, se si bada alla sua etimologia, il nome persona non convenga a Dio, tuttavia gli conviene, e in grado sommo, se si considera il suo significato.
Siccome infatti nelle commedie e nelle tragedie si rappresentavano personaggi famosi, il nome persona fu imposto per significare soggetti costituiti in dignità.
Di qui venne l'uso della Chiesa di chiamare persone quelli che rivestivano una qualche carica.
Per questo alcuni definiscono la persona come "un'ipostasi contrassegnata da una qualifica connessa con una dignità". E siccome è una grande dignità sussistere come soggetto di natura razionale, perciò, come si è detto [a. 1], ogni individuo di tale natura fu chiamato persona. Ma la dignità della natura divina eccede qualsiasi dignità: perciò a Dio massimamente conviene il nome persona.
3. Se si bada all'origine del nome, ipostasi non conviene a Dio, non sottostando egli ad alcun accidente; però gli conviene quanto al suo significato di realtà sussistente. - S. Girolamo poi dice che sotto quel nome sta il veleno perché, prima che fosse pienamente noto ai latini il suo significato, gli eretici con quel nome ingannavano i semplici inducendoli ad ammettere in Dio più essenze, come ammettevano più ipostasi, dato che il nome di sostanza, a cui in greco corrisponde ipostasi, presso di noi comunemente sta per essenza.
4. Si può dire che Dio è di natura razionale in quanto la ragione, presa in senso generico, significa una natura intellettuale, e non in quanto implica un processo discorsivo. A Dio poi non può convenire di essere individuo nel senso che il principio della sua individuazione sia la materia, ma solo in quanto [individuo] indica incomunicabilità. Essere poi sostanza conviene a Dio in quanto essa dice esistere per sé.
Alcuni tuttavia affermano che la surriferita definizione di persona, data da Boezio, non è la definizione della persona che viene ammessa in Dio. Per cui Riccardo di S. Vittore [De Trin. 4, 22], volendo correggere questa definizione, disse che la persona, in quanto attribuita a Dio, è "un'esistenza incomunicabile di natura divina".

Articolo 4
Se il termine persona significhi una relazione
Sembra che il termine persona non significhi in Dio una relazione, ma la sostanza. Infatti:
1. S. Agostino [De Trin. 7, 6] afferma: "Quando diciamo: "la persona del Padre" non diciamo altro che: "la sostanza del Padre", poiché egli è detto persona in ordine a se stesso, e non in ordine al Figlio".
2. [Quando si domanda] il quid si ricerca l'essenza. Ma come dice S. Agostino nello stesso libro [cc. 4, 6; cf. 5, 9], quando si dice: "Sono tre che fanno testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo", e si chiede: "Tre che cosa?" si risponde: "Tre persone". Quindi il termine persona significa l'essenza.
3. Secondo il Filosofo [Met. 4, 7], il nome significa la definizione della cosa da esso designata; ma la definizione di persona è "sostanza individuale di natura razionale", come si è detto [a. 1]. Quindi il nome persona significa la sostanza.
4. Sia negli uomini che negli angeli la persona non significa una relazione, ma qualcosa di assoluto. Se dunque in Dio significasse una relazione, si applicherebbe equivocamente a Dio, agli angeli e agli uomini.

In contrario: Boezio [De Trin. 6] afferma che ogni nome appartenente alle persone significa una relazione. Ma nessun nome appartiene alla persona più che lo stesso nome di persona: esso perciò significa una relazione.

Rispondo: Circa il significato del nome persona applicato a Dio può portare difficoltà il fatto che, contro la natura dei nomi assoluti, si dica al plurale delle tre persone; e d'altra parte non è un nome che esprima un rapporto, come i nomi relativi.
Quindi ad alcuni parve che il nome persona, semplicemente in forza della parola, in Dio significasse l'essenza, come il nome Dio e il nome sapiente, ma poi, in seguito alle difficoltà degli eretici, per decisione di un Concilio, sarebbe stato adattato a prendere il posto dei relativi: e specialmente se usato al plurale o col partitivo, come quando diciamo tre persone, oppure altra è la persona del Padre, altra quella del Figlio.
Nel singolare invece può stare tanto per l'assoluto quanto per il relativo.
Però questa non pare una spiegazione sufficiente. Perché se in Dio persona, in forza del suo significato, non indica altro che l'essenza, dicendo che in Dio vi sono tre persone si sarebbe data agli eretici l'occasione per una calunnia ancora più grave, invece di rigettare la loro accusa.
Per questo altri sostennero che persona significa simultaneamente l'essenza e la relazione.
E alcuni di costoro affermarono che direttamente significa l'essenza e solo indirettamente [in caso obliquo] la relazione. Poiché persona deriva da per se una: ora, l'unità si riferisce all'essenza, e d'altra parte il per se indica la relazione indirettamente [in caso obliquo]: infatti il Padre viene concepito come sussistente di per sé in quanto distinto dal Figlio mediante la relazione.
Altri invece affermarono il contrario: che cioè la persona significa direttamente la relazione, e solo indirettamente l'essenza, poiché nella definizione di persona la natura è posta in caso obliquo; e questi si avvicinarono di più al vero.
Per chiarire dunque la questione bisogna notare che si può dare un elemento che rientra nel significato di un termine meno universale senza che rientri nel significato di un termine più universale: come razionale è incluso nel significato di uomo, ma non rientra nel significato di animale.
Perciò una cosa è cercare il significato di animale e altra cosa è cercare il significato di quell'animale che è l'uomo. E così pure altro è cercare il significato del termine persona in generale, e altro è cercare il significato del termine persona divina.
La persona in generale infatti, come si è detto [a. 1], significa una sostanza individuale di natura razionale. L'individuo poi è ciò che è indistinto in se stesso e distinto dagli altri. La persona dunque, in qualsiasi natura, significa ciò che è distinto in quella natura: come nella natura umana significa questa carne, queste ossa, questa anima, che sono i princìpi individuanti l'uomo; le quali cose, pur non facendo parte del significato di persona, tuttavia fanno parte di quello di persona umana.
Ora, come si è detto [q. 28, a. 3], la distinzione in Dio non avviene se non per le relazioni di origine. E tali relazioni in Dio non sono come accidenti inerenti al soggetto, ma sono la stessa essenza divina: perciò esse sono sussistenti come sussiste l'essenza divina.
Come dunque la divinità è Dio, così la paternità divina è Dio Padre, il quale è una persona divina. Perciò la persona divina significa la relazione come sussistente. E ciò equivale a significare la relazione a modo di sostanza, cioè di ipostasi sussistente nella natura divina; benché ciò che sussiste nella natura divina non sia altro che la stessa natura divina. Stando dunque a queste premesse è vero che il nome persona significa direttamente la relazione e solo indirettamente l'essenza: non però la relazione in quanto relazione, ma in quanto significata come ipostasi.
Parimenti significa pure direttamente l'essenza e indirettamente la relazione: in quanto l'essenza si identifica con l'ipostasi; ma l'ipostasi in Dio viene significata come distinta da una relazione, e quindi la relazione nel suo significato di relazione rientra nel concetto di persona indirettamente [in caso obliquo]. E in base a ciò si può anche dire che il significato del nome persona non era ben conosciuto prima delle critiche degli eretici: perciò non si usava il termine persona se non come uno degli altri nomi assoluti.
Invece in seguito, per l'adattabilità del suo significato, il termine persona fu portato a fungere da relativo: per cui questo suo stare per il relativo non l'ebbe solo dall'uso, come voleva la prima opinione, ma anche in forza del suo significato.

Soluzione delle difficoltà: 1. Il termine persona appartiene ai nomi assoluti perché significa la relazione non come relazione, ma come sostanza, ossia ipostasi. E in questo senso S. Agostino dice che significa l'essenza, in quanto in Dio l'essenza è lo stesso che l'ipostasi: poiché in Dio il quod est [il soggetto] non differisce dal quo est [l'essenza o natura].
2. Il quid si riferisce alcune volte alla natura espressa dalla definizione, come quando si domanda: Che cosa è l'uomo?, e si risponde: Un animale razionale mortale. Altre volte però si riferisce al soggetto, come quando si domanda: Che cosa nuota nel mare?, e si risponde: Il pesce. E così a chi chiede: Tre che cosa?, si risponde: Tre persone.
3. Nel concetto di sostanza individuale, cioè distinta e incomunicabile, è inclusa, in Dio, la relazione, come si è detto [nel corpo].
4. Il diverso significato di un termine meno universale non comporta equivocazione nel termine più universale [corrispondente].
Sebbene infatti sia differente la definizione propria del cavallo e dell'asino, tuttavia il nome animale conviene loro univocamente: poiché all'uno e all'altro conviene la definizione comune di animale.
Quindi, sebbene nella definizione della persona divina sia contenuta la relazione, e non invece in quella della persona angelica o umana, da ciò non segue che il nome di persona [loro attribuito] sia equivoco. Ma non è neppure univoco: poiché, come si è già detto [q. 13, a. 5], nulla si può predicare univocamente di Dio e delle creature.


SEGUE....


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Pierino




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Dalla summa teologica di San Tommaso:

posterò parte dei suoi scritti, riguardante le
tre Personalità Divine "LA TRINITA'"


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Parte 3:






I MODI DI ESPRIMERE L'UNITÀ E LA PLURALITÀ IN DIO

Consideriamo ora, dopo quanto si è detto, i modi di esprimere l'unità e la pluralità in Dio [cf. q. 29, Prol.].
Su tale argomento si pongono quattro quesiti:
1. Sul nome stesso di trinità;
2. Se si possa dire: il Figlio è un altro rispetto al Padre;
3. Se a un termine essenziale si possa aggiungere una voce restrittiva che esclude altri;
4. Se si possa fare tale aggiunta ai termini personali.

Articolo 1
Se in Dio vi sia una trinità
Sembra che in Dio non vi sia una trinità. Infatti:
1. Ogni nome in Dio significa o l'essenza o la relazione. Ma il termine trinità non significa l'essenza: perché altrimenti si potrebbe predicare delle singole persone. E non significa neppure le relazioni: poiché non è un termine relativo. Quindi il termine trinità non va usato parlando di Dio.
2. Il termine trinità, significando una moltitudine, è un nome collettivo. Ma nessun nome simile si addice a Dio, poiché l'unità espressa dai nomi collettivi è minima, mentre in Dio c'è l'unità massima.
Quindi il termine trinità non va usato parlando di Dio.
3. Tutto ciò che è trino è triplice. Ma in Dio non si dà una triplicità: poiché questa è una specie di disuguaglianza.
Quindi non si dà neppure una trinità.
4. Tutto ciò che è in Dio partecipa dell'unità dell'essenza divina, essendo Dio la sua stessa essenza. Se dunque ci fosse una trinità in Dio, questa dovrebbe essere nell'unità stessa dell'essenza divina.
E così vi sarebbero in Dio tre unità essenziali: il che è eretico.
5. In tutto ciò che si dice di Dio, il concreto può essere predicato dell'astratto: la deità è Dio, la paternità è il Padre. Ma la trinità non si può dire trina: perché allora in Dio ci sarebbero nove entità reali, il che è falso.
Quindi parlando di Dio non si deve usare il termine trinità.
In contrario: Dice S. Atanasio [Symb.] che "si deve venerare l'unità nella trinità e la trinità nell'unità".

Rispondo: Il termine trinità in Dio significa un determinato numero di persone.
Quindi, come si ammette la pluralità delle persone, così si deve ammettere la loro trinità: poiché ciò che il termine pluralità indica in modo indeterminato, [lo stesso, ma] in modo determinato, lo significa il termine trinità.

Soluzione delle difficoltà: 1. Il termine trinità, secondo la sua etimologia, pare che significhi l'unità di essenza delle tre persone, poiché trinità suona come trium unitas [unità di tre].
Tuttavia secondo il significato proprio della parola esprime piuttosto il numero delle persone di un'unica essenza. E per questo non possiamo dire che il Padre sia trinità, poiché non è tre persone. Non significa però le relazioni stesse delle persone, ma piuttosto il numero delle persone così riferite l'una all'altra. Per cui ne deriva che trinità, in forza del suo significato, non appartiene al genere dei termini relativi.
2. Il nome collettivo include nel suo significato due elementi, cioè la pluralità dei soggetti e una certa unità di un qualche ordine: infatti popolo è una moltitudine di uomini compresi sotto un certo ordine. Ora, quanto al primo elemento il termine trinità rientra nei nomi collettivi; quanto al secondo però ne differisce, poiché nella trinità divina non c'è solo unità di ordine, ma anche unità di essenza.
3. Trinità è un nome assoluto: poiché significa il numero ternario delle persone. Triplicità invece significa un rapporto di disuguaglianza: poiché, come si ricava dall'Aritmetica di Boezio [1, 23], è una specie di proporzione disuguale. Quindi in Dio non vi è triplicità, ma trinità.
4. Nella trinità divina c'è il numero e ci sono le persone numerate. Quando dunque diciamo trinità nell'unità non poniamo il numero nell'unità dell'essenza, quasi che questa sia tre volte una, ma poniamo le persone numerate nell'unità della natura, come quando diciamo che i soggetti di una natura sono in quella natura. Viceversa parliamo di unità nella trinità come di una data natura nei suoi soggetti.
5. L'espressione la trinità è trina, in ragione del numero che vi è implicito, indica che tale numero si moltiplica per se stesso, dato che trino include già la molteplicità delle realtà a cui viene applicato.
Quindi non si può dire che la trinità è trina: poiché se la trinità fosse trina ne verrebbe che vi sarebbero tre suppositi in ciascuno dei quali si troverebbe la trinità: come dall'espressione Dio è trino segue che tre sono i suppositi della Deità.

Articolo 2
Se il Figlio sia un altro rispetto al Padre
Sembra che il Figlio non sia un altro rispetto al Padre. Infatti:
1. Altro è termine relativo indicante diversità di sostanza. Se dunque il Figlio è un altro rispetto al Padre, sembra che sia diverso dal Padre; ma ciò è contro S. Agostino [Trin. 7, 4], il quale afferma che con l'espressione tre persone "non vogliamo intendere alcuna diversità".
2. Tutti i soggetti che si distinguono per essere tra loro altri e altri, differiscono in qualcosa. Se dunque il Figlio è un altro rispetto al Padre, ne segue che è differente dal Padre. Ora, ciò è contrario a quanto dice S. Ambrogio [De fide 1, 2]: "Il Padre e il Figlio sono una stessa cosa nella deità, e non c'è tra loro differenza di sostanza, né alcun'altra diversità".
3. Alieno [estraneo] deriva dal latino alius [altro]. Ma il Figlio non è alieno rispetto al Padre: infatti S. Ilario [De Trin. 7, 39] afferma che nelle persone divine "non c'è nulla di diverso, nulla di alieno, nulla di separabile". Quindi il Figlio non è un altro rispetto al Padre.
4. Alius [altro] e aliud [altra cosa] hanno lo stesso significato e differiscono solo per il genere diverso. Se dunque il Figlio è un altro rispetto al Padre, pare che sia anche un'altra cosa rispetto al Padre. In contrario: S. Agostino [De fide ad Petrum 1] dice: "Una è l'essenza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, nella quale non è altra cosa il Padre, altra cosa il Figlio, altra cosa lo Spirito Santo; sebbene come persona altro sia il Padre, altro il Figlio, altro lo Spirito Santo".

Rispondo: Siccome, al dire di S. Girolamo [cf. P. Lomb., Sent. 4, 13], col parlare impreciso si finisce col cadere nell'eresia, parlando della SS. Trinità bisogna procedere con cautela e modestia: poiché, secondo S. Agostino [De Trin. 1, 3], "in nessun altro argomento l'errore è più pericoloso, più faticosa la ricerca, più fruttuosa la scoperta". Ora, quando trattiamo della Trinità dobbiamo evitare, stando nel giusto mezzo, due opposti errori: quello di Ario, che poneva con la trinità delle persone anche una trinità di nature, e quello di Sabellio, che poneva con l'unità di natura anche l'unità di persona.
Per sfuggire all'errore di Ario dobbiamo evitare, parlando di Dio, i termini diversità e differenza, per non compromettere l'unità dell'essenza; possiamo invece usare il termine distinzione, data l'opposizione relativa [delle persone]. Per cui, se in qualche testo autentico della Scrittura ci imbattiamo nelle parole diversità o differenza applicate alle persone divine, le dobbiamo intendere come significanti distinzione. - -> Per non ledere dunque la semplicità dell'essenza divina sono da evitare i termini separazione e divisione, proprie di un tutto suddiviso in parti. Per non compromettere poi l'uguaglianza è da evitare la parola disparità.
E infine per non sopprimere la somiglianza si devono evitare i termini alieno e discrepante. S. Ambrogio [De fide 1, 2] infatti dice che nel Padre e nel Figlio "vi è un'unica divinità senza discrepanza". E S. Ilario, come si è riferito [ob. 3], afferma che in Dio "non c'è nulla di alieno e nulla di separabile". Per non cadere poi nell'errore di Sabellio dobbiamo evitare il termine singolarità, al fine di non negare la comunicabilità dell'essenza divina: per cui, secondo S. Ilario [l. cit.], "è sacrilego dire che il Padre e il Figlio sono un Dio singolare [isolato]". E dobbiamo anche evitare il termine unico, per non escludere il numero delle persone: per cui S. Ilario [l. cit.] afferma che "da Dio si esclude il concetto di singolarità e di unicità". Possiamo tuttavia dire unico Figlio: poiché in Dio non ci sono più Figli; non possiamo però dire unico Dio: poiché la deità è comune a più [persone]. Evitiamo anche l'aggettivo confuso, per non togliere l'ordine di natura tra le persone: cosicché S. Ambrogio [l. cit.] può affermare: "Né ciò che è uno è confuso, né può essere molteplice ciò che non ammette differenza".
Si deve anche evitare il termine solitario, per non distruggere la società delle tre persone. Dice infatti S. Ilario [De Trin. 4, 18]: "Dobbiamo confessare che Dio non è solitario, né diverso".-> Ora, il termine alius [altro], usato al maschile, non comporta se non la distinzione del soggetto: perciò possiamo correttamente dire che il Figlio è un altro rispetto al Padre: poiché è un altro soggetto della natura divina, come è un'altra persona e un'altra ipostasi.

Soluzione delle difficoltà: 1. Altro, poiché suona come un nome individuale, sta a indicare un soggetto: perciò a giustificarne l'uso basta la distinzione di sostanza presa nel significato di ipostasi o persona. La diversità invece richiede la distinzione di sostanza presa nel senso di essenza [o natura]. Quindi non possiamo dire che il Figlio è diverso dal Padre, quantunque sia un altro rispetto al Padre.
2. La differenza comporta una distinzione di forma. Ora, in Dio c'è solo una forma, come è chiaro dalle parole di S. Paolo [Fil 2, 6] [che, parlando del Figlio, dice]: "il quale, sussistendo nella forma di Dio...". Quindi l'aggettivo differente propriamente non può convenire a Dio, come risulta dal testo riportato [nell'ob.]. - Tuttavia il Damasceno [De fide orth. 3, 5], parlando delle persone divine, usa il termine differenza, in quanto le proprietà relative possono essere indicate come forme [differenti]: e perciò afferma che le ipostasi non differiscono tra di loro per la sostanza, ma per delle proprietà determinate. Però [in questo caso] differenza è presa nel senso di distinzione, come si è spiegato [nel corpo].
3. Alieno è ciò che è estraneo e dissimile. Ma tale significato non è incluso nella voce altro: perciò diciamo che il Figlio è un altro rispetto al Padre, sebbene non si possa affermare che sia alieno.
4. Il neutro è un genere indeterminato mentre il maschile, come pure il femminile, è determinato. Per questo giustamente si usa il neutro per indicare l'essenza comune, e il maschile e il femminile per indicare un certo soggetto determinato in una natura comune. Infatti, anche parlando dell'uomo, se si chiede: chi è questo?, si risponde, Socrate, che è il nome di un supposito; se invece si domanda: che cosa è questo?, si risponde: un animale razionale e mortale.
Quindi, siccome in Dio la distinzione riguarda le persone e non l'essenza, noi diciamo che il Padre è alius [altro] rispetto al Figlio, ma non aliud [cioè altra cosa]; e all'opposto diciamo che essi sono unum [una stessa cosa], ma non unus [un solo soggetto].

Articolo 3
Se in Dio a un termine essenziale si possa aggiungere la voce restrittiva solo
Sembra che in Dio ai termini essenziali non si possa aggiungere la voce restrittiva solo. Infatti:
1. Secondo il Filosofo [Elench. 2, 3], solo è "chi non è con altri". Ma Dio è con gli angeli e con le anime sante: perciò non possiamo dire che Dio è solo.
2. Tutto ciò che in Dio si aggiunge a un termine essenziale può essere attribuito tanto alle singole persone quanto a tutte e tre insieme: infatti, siccome con verità si può dire che Dio è sapiente, così possiamo dire: il Padre è Dio sapiente, e la SS. Trinità è Dio sapiente. Ora, S. Agostino [De Trin. 6, 9] afferma: "Va presa in considerazione la sentenza secondo cui il Padre non è il solo vero Dio". Quindi non si può dire Dio solo.
3. Se la voce solo viene aggiunta a un termine essenziale, ciò viene fatto in rapporto a un predicato o personale o essenziale. Ora, non [lo si può fare] in rapporto a un predicato personale: infatti la proposizione: solo Dio è Padre è falsa, poiché anche l'uomo è padre. E neppure in rapporto a un predicato essenziale. Perché se fosse vera la proposizione: solo Dio crea, sarebbe vera anche quest'altra: solo il Padre crea, poiché tutto ciò che si può dire di Dio si può dire anche del Padre. Ma quest'ultima proposizione è falsa, perché anche il Figlio è creatore.
Quindi, parlando di Dio, la voce solo non può essere aggiunta a un termine essenziale.

In contrario:S. Paolo [1 Tm 1, 17] dice: "Al Re dei secoli, al solo incorruttibile, invisibile e unico Dio [onore e gloria nei secoli dei secoli]".

Rispondo: La dizione solo può essere presa come categorematica e come sincategorematica.
Si dice categorematica quella dizione che in modo assoluto afferma di un soggetto il suo significato: come bianco è affermato dell'uomo nell'espressione l'uomo è bianco.
Se dunque la dizione solo è presa in questo senso, in Dio non può essere assolutamente aggiunta ad alcun termine: poiché ne affermerebbe la solitudine in senso assoluto, e così Dio sarebbe solitario; il che è contro quanto abbiamo già spiegato [a. prec.].
Si dice invece sincategorematica quella dizione che implica il rapporto del predicato col soggetto, come ogni o nessuno.
E così è per la dizione solo: poiché esclude ogni altro soggetto dalla partecipazione di quel predicato.- Come quando si dice: solo Socrate scrive, non si vuole intendere che Socrate sia solitario, ma che nessuno gli è compagno nello scrivere; quantunque si trovi in compagnia di molti. Ora, nulla impedisce di aggiungere a un termine essenziale in Dio la voce solo presa in questo senso, in quanto si esclude ogni altra cosa che non sia Dio dalla partecipazione di un predicato: come quando diciamo che solo Dio è eterno, poiché nient'altro all'infuori di Dio è eterno.

Soluzione delle difficoltà: 1. Sebbene gli angeli e le anime sante siano sempre con Dio, tuttavia senza la pluralità delle persone Dio sarebbe solo, cioè solitario. La solitudine infatti non è tolta dalla presenza di soggetti di diversa natura: come si usa dire che uno è solo nel giardino, sebbene vi siano molte piante e molti animali. E allo stesso modo, nonostante la presenza degli angeli e degli uomini, si potrebbe affermare che Dio è solo o solitario nella natura divina se non ci fossero più persone.
Quindi la compagnia degli angeli e delle anime non esclude da Dio la solitudine presa in senso assoluto; e molto meno la solitudine in senso relativo, cioè in rapporto a un predicato.
2. Propriamente parlando, l'aggettivo solo non si riferisce al predicato, che si applica come una forma: [solo] si riferisce infatti al soggetto, in quanto esclude altri soggetti da ciò a cui è aggiunto. Invece l'avverbio soltanto, essendo semplicemente restrittivo, può stare unito tanto al soggetto quanto al predicato. Infatti possiamo dire: soltanto Socrate corre, cioè nessun altro [corre], e anche: Socrate corre soltanto, cioè non fa nient'altro.
Perciò, volendo parlare con proprietà, non si può dire: il Padre è il solo Dio, oppure: la Trinità è il solo Dio, a meno che non si voglia sottintendere un'aggiunta nel predicato, p. es.: la Trinità è il Dio che è il solo Dio. E in tal modo potrebbe essere vera anche la proposizione: il Padre è quel Dio il quale solo è Dio, se il pronome relativo [il quale] si riferisce al predicato [Dio] e non al soggetto [Padre]. Ora, quando S. Agostino afferma che non il Padre, ma la SS. Trinità è il solo Dio, parla da commentatore, come se dicesse che il testo: "Al Re dei secoli, al solo invisibile Dio" non va riferito alla persona del Padre, ma a tutta la Trinità.
3. In ambedue i modi l'aggettivo solo può essere aggiunto a un termine essenziale. Infatti la proposizione solo Dio è Padre ha due significati. Poiché Padre può indicare la persona del Padre; e allora la proposizione è vera, dato che l'uomo non è quella persona. Oppure può indicare soltanto la relazione, e allora la proposizione è falsa, poiché la relazione di paternità si trova, sebbene non in senso univoco, anche in altri soggetti. - Così pure è vera anche quest'altra proposizione: solo Dio crea; ma non ne viene la conclusione: dunque solo il Padre. Poiché, come dicono i dialettici, la dizione restrittiva immobilizza il termine a cui viene applicata, in modo che non si possono sostituire ad esso i soggetti particolari [contenuti sotto quel termine universale]. Infatti dall'affermazione: solo l'uomo è un animale razionale mortale non si può concludere: dunque solo Socrate.

Articolo 4
Se una voce esclusiva possa essere aggiunta a un termine personale
Sembra che una voce esclusiva possa essere aggiunta a un termine personale, anche se il predicato è comune. Infatti:
1. Il Signore parlando al Padre dice [Gv 17, 3]: "Affinché conoscano te, solo vero Dio". Quindi solo il Padre è il vero Dio.
2. È detto nel Vangelo [Mt 11, 27]: "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre", il che è come dire: solo il Padre conosce il Figlio. Ma conoscere il Figlio è una proprietà comune [a tutta la divinità]. Quindi vale la conclusione precedente.
3. La voce esclusiva non esclude quanto è racchiuso nel concetto stesso del termine a cui si unisce: per cui non ne esclude né la parte, né l'universale. Infatti se dico: solo Socrate è bianco, non posso concludere: dunque la sua mano non è bianca, oppure: dunque l'uomo non è bianco. Ora, una persona è inclusa nel concetto dell'altra: il Padre, p. es., nel concetto del Figlio e viceversa.
Quindi, per il fatto che si dice: il solo Padre è Dio non si esclude il Figlio o lo Spirito Santo. E così sembra che questo modo di esprimersi sia legittimo.
4. Inoltre la Chiesa canta: "Tu solo l'altissimo, Gesù Cristo".

In contrario: L'espressione, solo il Padre è Dio può essere spiegata in due maniere, cioè: il Padre è Dio, oppure: nessun altro fuorché il Padre è Dio. Ma questa seconda espressione è falsa: poiché il Figlio, che pure è Dio, è distinto dal Padre.
Quindi anche la proposizione: solo il Padre è Dio è falsa. E lo stesso si dica di altre proposizioni simili.

Rispondo: L'espressione: solo il Padre è Dio può essere intesa in più modi.
Se l'aggettivo solo afferma la solitudine del Padre, la proposizione è falsa, perché allora tale aggettivo è preso in senso categorematico [cf. a. 3].
Se invece è preso in senso sincategorematico, allora l'espressione può essere di nuovo intesa in vari modi.
Se [solo] esclude altri dalla partecipazione della forma del soggetto, allora [la proposizione solo il Padre è Dio] è vera, così da risultarne questo significato: colui con il quale nessun altro è Padre, è Dio. E così la spiega S. Agostino [De Trin. 6, 7] quando afferma: "Diciamo solo il Padre non perché sia separato dal Figlio o dallo Spirito Santo, ma perché, dicendo così, vogliamo intendere che essi insieme con lui non sono il Padre".
Tuttavia nel modo comune di parlare non si dà questo senso, a meno che non si sottintenda qualcosa, come se si dicesse: colui che solo è detto Padre, è Dio.
Nel suo significato proprio invece [l'aggettivo solo] esclude altri dal partecipare al [medesimo] predicato. E presa così la proposizione è falsa se esclude un altro al maschile [alium]; è vera invece se esclude altro al neutro [aliud]: poiché il Figlio è un altro rispetto al Padre, ma non un'altra cosa. E lo stesso si dica dello Spirito Santo.
Tuttavia, come si è detto [a. prec., ad 2], siccome l'aggettivo solo propriamente riguarda il soggetto, esso tende a escludere più alius che aliud. Per cui un tale modo di dire non va generalizzato, ma piamente spiegato se si trova in qualche testo autentico della Scrittura.

Soluzione delle difficoltà: 1. L'espressione te solo vero Dio non va intesa del solo Padre, ma di tutta la Trinità, come spiega S. Agostino [De Trin. 6, 9].
Oppure, se viene intesa della persona del Padre, non esclude le altre persone, data l'unità dell'essenza: cioè quel solo esclude, come si è detto [nel corpo], solamente aliud [al neutro, cioè un'altra cosa].
2. Altrettanto si dica a proposito della seconda difficoltà. Data infatti l'unità dell'essenza, quando si dice qualcosa di essenziale del Padre non si esclude il Figlio, né lo Spirito Santo. - Si deve però badare che nel testo riferito il termine nessuno, contrariamente a quanto potrebbe far credere la parola, non equivale a nessun uomo (poiché in tal caso non ci sarebbe motivo di eccettuare la persona del Padre): invece, secondo l'uso ordinario della lingua, esso è preso in senso distributivo per qualunque natura razionale.
3. Una voce esclusiva non esclude le varie cose che rientrano nel concetto del termine a cui si unisce purché esse, come le parti e l'universale, non differiscano quanto al soggetto. Ma il Figlio e il Padre sono due soggetti distinti: quindi il paragone non regge.
4. Non si dice in modo assoluto che solo il Figlio è l'altissimo, ma che è "il solo altissimo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre".


SEGUE.....





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Pierino





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Dalla summa teologica di San Tommaso:

posterò parte dei suoi scritti, riguardante le
tre Personalità Divine "LA TRINITA'"

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Parte 4:




LA NOSTRA CONOSCENZA DELLE PERSONE DIVINE

Logicamente passiamo ora a trattare della conoscenza che possiamo avere delle divine Persone.
E a questo riguardo si pongono quattro quesiti:
1. Se con la ragione naturale si possano conoscere le Persone divine;
2. Se si debbano attribuire alle Persone divine delle nozioni;
3. Sul numero di queste nozioni;
4. Se circa le nozioni si possano avere opinioni differenti.

Articolo 1
Se la trinità delle divine Persone possa essere conosciuta con la sola ragione naturale
Sembra che con la sola ragione naturale si possa conoscere la Trinità delle Persone divine. Infatti:
1. I filosofi non giunsero alla conoscenza di Dio se non con la ragione naturale: ora, risulta che essi hanno detto molte cose sulla Trinità delle Persone.
Infatti Aristotele [De caelo 1, 1] afferma: "Con questo numero", cioè col tre, "ci industriamo di magnificare il Dio uno, superiore a tutte le perfezioni delle realtà create". - E S. Agostino [Conf. 7, 9] riferisce: "E io vi lessi", cioè nei libri dei Platonici, "non con queste parole, ma in sostanza, che vi sono molte e molteplici ragioni per persuadersi che in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio", e altre simili cose egli riporta con cui viene indicata esattamente la pluralità delle Persone divine.
Anche la Glossa [interlin. su Rm 1, 20; Es 8, 19] [spiegando il fatto] che i maghi del Faraone fallirono al terzo segno [aggiunge]: cioè mancarono nella conoscenza della terza Persona, ossia dello Spirito Santo: dunque ne conobbero almeno due.
Anche Trismegisto [Poemand. 4] disse: "La monade generò la monade e rifletté in se stessa il suo calore": con le quali parole si viene a indicare la generazione del Figlio e la processione dello Spirito Santo. Quindi con la sola ragione si possono conoscere le Persone divine.
2. Afferma Riccardo di S. Vittore [De Trin. 1, 4]: "Ritengo per indubitato che qualsiasi verità possa essere provata non solo con argomenti probabili, ma anche con ragioni apodittiche".
Per cui alcuni vollero provare anche la Trinità delle Persone appellandosi all'infinita bontà di Dio, che [soltanto] nella processione delle Persone divine si comunica in modo infinito.
Altri invece si rifecero al principio che "senza la compagnia di altri non può essere veramente gioioso il possesso di un bene qualsiasi" [Seneca, Epist. 6]. E anche S. Agostino [De Trin. 9, 4 ss.] spiega la Trinità delle Persone con la processione del verbo e dell'amore nella nostra anima: ed è la via che anche noi abbiamo seguìto [q. 27, aa. 1, 3].
Quindi la Trinità delle Persone può essere conosciuta con la sola ragione naturale.
3. Sarebbe superfluo rivelare all'uomo ciò che non può essere conosciuto con la ragione umana. Ma non si può dire che la divina rivelazione del mistero della Trinità sia superflua. Quindi la Trinità delle Persone divine può essere conosciuta dalla ragione umana.

In contrario: Dice S. Ilario [De Trin. 2, 9]: "Non pensi l'uomo di poter penetrare con la sua intelligenza il mistero della [eterna] generazione".
E S. Ambrogio [De fide 1, 10]: "È impossibile capire il mistero della generazione [divina]: la mente viene meno, la voce tace".
Ma come si è dimostrato [q. 30, a. 2], è appunto in base alle origini per generazione e processione che si distinguono le Persone divine.
Quindi si conclude che la Trinità delle Persone non può essere conosciuta con la ragione, dal momento che l'uomo non è in grado di conoscere e di raggiungere con la sua intelligenza se non ciò che offre la possibilità di una dimostrazione cogente.

Rispondo: È impossibile giungere alla conoscenza della Trinità delle Persone divine con la sola ragione naturale.
Si è infatti dimostrato sopra [q. 12, aa. 4, 11, 12] che l'uomo con la sola ragione non può giungere alla conoscenza di Dio se non per mezzo delle creature. Ora, queste conducono a Dio come gli effetti alle loro cause.
Quindi con la ragione naturale si possono conoscere di Dio soltanto quei dati che necessariamente gli convengono per il fatto di essere egli il principio di tutte le cose; e su questo criterio ci siamo basati nel trattato su Dio [q. 12, a. 12]. Ora, la virtù creatrice è comune a tutta la Trinità: quindi appartiene all'unità dell'essenza e non alla pluralità delle persone.
Perciò con la ragione naturale si può conoscere solo quanto fa parte dell'essenza, e non ciò che appartiene alla pluralità delle Persone.
Quelli poi che tentano di dimostrare la Trinità delle Persone con la ragione naturale compromettono la fede in due modi.
Primo, ne compromettono la dignità, poiché la fede ha per oggetto cose del tutto invisibili, che superano la capacità della ragione umana. L'Apostolo infatti [Eb 11, 1] afferma che "la fede è di cose che non si vedono". E altrove [1 Cor 2, 6]: "Tra i perfetti parliamo sì di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta".
Secondo, ne compromettono l'efficacia nell'attirare altri alla fede. Se infatti per indurre a credere si portano delle ragioni che non sono cogenti, ci si espone alla derisione di coloro che non credono: poiché costoro penseranno che noi ci appoggiamo su tali argomenti per credere.
Per tale motivo dunque tutto ciò che è di fede va provato soltanto con i testi [della Scrittura], per coloro che la riconoscono.
Per gli altri invece basta difendere la non assurdità di quanto la fede insegna.
Quindi Dionigi [De div. nom. 2] ammonisce: "Se qualcuno non cede all'autorità della parola di Dio, è del tutto estraneo e lontano dalla nostra filosofia. Se invece ammette la verità della parola", cioè di quella divina, "è con noi, giacché noi pure ci serviamo di tale regola".

Soluzione delle difficoltà: 1. I filosofi non conobbero il mistero della Trinità delle divine Persone per quello che è ad esse proprio, cioè la paternità, la filiazione e la processione, secondo le parole dell'Apostolo [1 Cor 2, 6]: "Parliamo di una sapienza divina, che nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscere", cioè nessuno dei filosofi, come spiega la Glossa [interlin.].
Conobbero tuttavia alcuni attributi essenziali che vengono appropriati alle varie persone, come la potenza al Padre, la sapienza al Figlio e la bontà allo Spirito Santo, come vedremo più avanti [q. 39. a. 7].
Perciò l'espressione di Aristotele: "Ci industriamo di magnificare Dio con questo numero" non va intesa nel senso che egli ponesse il numero tre in Dio, ma vuole soltanto dire che gli antichi usavano il tre nei sacrifici e nelle preghiere per una certa sua perfezione.
Nei libri dei Platonici poi l'espressione: "In principio era il verbo" non sta a indicare il verbo che in Dio è una persona generata, ma soltanto il verbo che è l'idea astratta [e archetipa della realtà], secondo la quale tutte le cose furono fatte, e che viene attribuita per appropriazione al Figlio.
E sebbene [i filosofi] abbiano conosciuto gli attributi appropriati alle tre persone, si dice tuttavia che fallirono al terzo segno, cioè nella conoscenza della terza Persona, perché deviarono dalla bontà che viene appropriata allo Spirito Santo quando, come dice S. Paolo [Rm 1, 21], pur avendo conosciuto Dio, "non lo glorificarono come Dio". Oppure perché i Platonici ponevano un primo essere, che chiamavano padre di tutto l'universo, e dopo di lui un'altra sostanza a lui soggetta, che chiamavano mente o intelletto del padre, nella quale c'erano le idee di tutte le cose, come riferisce Macrobio [Super somn. Scip. 1, cc. 2, 6]: però non parlavano in alcun modo di una terza sostanza distinta che potesse in certo qual modo corrispondere allo Spirito Santo.
Noi invece non ammettiamo che il Padre e il Figlio differiscano in tal modo per natura, ma questo fu l'errore di Origene e di Ario, che in ciò si lasciarono guidare dai Platonici.
Quanto poi all'affermazione di Trismegisto, che cioè "la monade generò la monade e rifletté in se stessa il suo calore", essa non va riferita alla generazione del Figlio e alla processione dello Spirito Santo, ma all'origine del mondo, poiché il Dio unico produsse un unico universo per l'amore di se medesimo.
2. Si può portare un argomento per due scopi.
Primo, per provare in modo rigoroso un dato principio: come nelle scienze naturali si portano argomenti rigorosi per dimostrare che il moto dei cieli ha sempre una velocità uniforme.
Secondo, si può portare un argomento non per dimostrare scientificamente un dato principio, ma soltanto per far vedere come siano legati intimamente al principio, posto [come assioma], gli effetti che ne derivano: come in astronomia si ammettono gli eccentrici e gli epicicli perché, accettata questa ipotesi, si può dare ragione delle irregolarità che nel moto dei corpi celesti appaiono ai sensi; tuttavia questo argomento non è cogente, poiché forse [tali irregolarità] potrebbero essere spiegate anche ammettendo un'altra ipotesi.
Sono dunque del primo genere le ragioni che si portano per provare l'unità di Dio e altre simili verità.
Invece gli argomenti con i quali si vuole provare la Trinità appartengono all'altro genere: supposta infatti la Trinità, quelle ragioni ne mostrano la congruenza, ma non sono sufficienti a provare la Trinità delle Persone.
E ciò appare chiaramente esaminando i singoli argomenti.
Infatti l'infinita bontà di Dio si manifesta anche nella sola produzione delle creature: poiché solo una potenza infinita è capace di produrre dal nulla. Perché infatti Dio si comunichi con infinita bontà non è necessario che da lui proceda un infinito, ma basta che la cosa prodotta partecipi la bontà divina secondo tutta la propria capacità. -Così quel detto: "Senza compagnia non è del tutto gioioso il possesso di un bene", è vero quando in una persona non si trova la bontà nella sua perfezione, e quindi essa ha bisogno della bontà di un altro a sé associato per raggiungerne il pieno godimento. - La somiglianza poi del nostro intelletto con quello divino non prova nulla in modo cogente, dato che l'intelletto non è univoco in Dio e in noi. - Per questo dunque S. Agostino [In Ioh. ev. tract. 27, 7] dice che la fede dà la scienza, ma la scienza non dà la fede.
3. La conoscenza delle Persone divine ci fu necessaria per due motivi.
Primo, per avere un giusto concetto della creazione. Dicendo infatti che Dio ha fatto le cose mediante il Verbo si evita l'errore di quanti dicevano che Dio le ha create per necessità di natura.
E con il porre in Dio la processione dell'amore si indica che egli non ha prodotto le creature per qualche sua indigenza o per qualche causa [a lui] estrinseca, ma solo per amore della sua bontà. Per cui Mosè, dopo aver detto [Gen 1, 1] che "in principio Dio creò il cielo e la terra", aggiunge: "Dio disse: Sia la luce", per far conoscere il Verbo. E continua: "Vide Dio che la luce era cosa buona", per mostrare l'approvazione dell'amore divino. E così [sta scritto] per le altre creature.
Secondo, e principalmente, perché si abbia una giusta idea della redenzione del genere umano, avvenuta con l'Incarnazione del Figlio e l'effusione dello Spirito Santo.

Articolo 2 Se in Dio si debbano ammettere delle nozioni
Sembra che in Dio non si debbano ammettere delle nozioni. Infatti:
1. Dionigi [De div. nom. 1, 1] scrive: "Non si deve avere l'ardire di attribuire a Dio qualcosa all'infuori di ciò che è espresso nella Scrittura". Ma nella Scrittura non si fa cenno delle nozioni. Quindi queste non vanno attribuite a Dio.
2. Tutto ciò che viene attribuito a Dio appartiene o all'unità dell'essenza o alla trinità delle persone. Ora, le nozioni non appartengono né all'unità dell'essenza, né alla trinità delle persone. Infatti non si predicano delle nozioni gli attributi dell'essenza, poiché non si dice che la paternità è sapiente o che crea; e neppure quelli delle persone: poiché non diciamo che la paternità genera o che la filiazione è generata. Perciò le nozioni non vanno attribuite a Dio.
3. Essendo ciò che è semplice conosciuto per se stesso, non gli si devono attribuire dei termini astratti [come le nozioni], che sono [soltanto] mezzi per conoscere. Ora, le persone divine sono semplicissime. Non si devono quindi ammettere delle nozioni nella divinità.

In contrario: Dice S. Giovanni Damasceno [De fide orth. 3, 5]: "Noi rileviamo la differenza delle ipostasi", cioè delle persone, "dalle tre proprietà della paternità, della filiazione e della processione". Quindi in Dio vanno ammesse le proprietà e le nozioni.

Rispondo: Il Prevostino, badando alla semplicità delle Persone divine, pensò che a Dio non si dovessero attribuire le nozioni, e dove le trovava prendeva l'astratto per il concreto: come infatti usiamo dire prego la tua benignità invece che [prego] te benigno, così quando si dice paternità in Dio si intenderebbe Dio Padre.
Però, come si è già dimostrato [q. 3, a. 3, ad 1; q. 13, a. 1, ad 2], nel parlare di Dio non si pregiudica affatto alla sua semplicità con l'uso dei termini astratti e concreti, poiché noi denominiamo le cose nel modo in cui le conosciamo. Ora, il nostro intelletto non può giungere alla semplicità divina considerata in se stessa, e quindi le realtà divine le apprende e le denomina secondo la sua natura, cioè al modo delle realtà sensibili dalle quali dipende il suo conoscere. Ora in queste per indicare le sole forme usiamo termini astratti, mentre per indicare le realtà sussistenti usiamo termini concreti.
Quindi, come si è detto [ib.], anche le realtà divine a motivo della loro semplicità le designamo con termini astratti, e a motivo della loro sussistenza e completezza con termini concreti.
È poi necessario esprimere all'astratto o al concreto non solo i termini essenziali, dicendo deità e Dio, o sapienza e sapiente, ma anche quelli personali, dicendo paternità e Padre.
E a questo ci obbligano principalmente due motivi.
Primo, le obiezioni degli eretici. Infatti noi professiamo che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo sono un Dio solo e tre Persone; allora, come alla domanda: che cos'è che li fa essere un solo Dio?, si risponde che è la natura o deità, così si dovette ricorrere ad altri termini astratti per spiegare in forza di che cosa le persone si distinguono. E tali sono appunto le proprietà o nozioni, espresse all'astratto, come la paternità e la filiazione. Per questo in Dio la natura viene espressa come un quid [o sostanza], la persona invece come un quis [o soggetto] e la proprietà come un quo [cioè come una forma].
Secondo, perché in Dio una stessa persona, il Padre, si riferisce a due persone, cioè al Figlio e allo Spirito Santo. Ora, non [può farlo] con una sola relazione: perché allora anche il Figlio e lo Spirito Santo si riferirebbero al Padre con una stessa relazione, e così ne seguirebbe che il Figlio e lo Spirito Santo non sarebbero due persone distinte, poiché le sole relazioni distinguono le persone della Trinità.
E non si può neppure dire con il Prevostino che, come Dio ha riferimento alle creature in un modo solo, mentre le creature si riferiscono a lui in modi diversi, così il Padre con un'unica relazione si riferisce al Figlio e allo Spirito Santo, mentre questi due si riferiscono a lui con due relazioni. Infatti non si può dire che due relazioni sono specificamente diverse se nel termine correlativo corrisponde loro una sola relazione, dato che la relazione consiste essenzialmente nel suo riferirsi all'altro termine: è infatti necessario che le relazioni di padrone e di padre siano specificamente distinte secondo la diversità della servitù e della filiazione.
Ora, tutte le creature si riferiscono a Dio con la stessa relazione specifica, quella cioè di sue creature; invece il Figlio e lo Spirito Santo non si riferiscono al Padre con delle relazioni di identica natura: per cui non è la stessa cosa.
Di più, come si è già spiegato [q. 28, a. 1, ad 3], non c'è motivo di porre che la relazione fra Dio e le creature sia reale; che poi quelle di ragione siano molte non presenta inconvenienti. Invece la relazione del Padre al Figlio e allo Spirito Santo deve essere reale.
Per cui è necessario che alle due relazioni del Figlio e dello Spirito Santo verso il Padre corrispondano nel Padre due relazioni, una verso il Figlio e l'altra verso lo Spirito Santo
. Di conseguenza, essendo unica la persona del Padre, si dovettero indicare separatamente con termini astratti le relazioni, denominate appunto proprietà e nozioni.

Soluzione delle difficoltà: 1. Sebbene nella Sacra Scrittura non si parli delle nozioni, tuttavia vi si nominano le Persone, nelle quali queste nozioni si trovano come l'astratto nel concreto.
2. Le nozioni in Dio non stanno a indicare delle realtà concrete, ma [soltanto] delle forme ideali che servono a far conoscere le Persone, sebbene queste nozioni o relazioni esistano realmente in Dio, come si è spiegato [q. 28, a. 1].
Quindi tutto quanto dice ordine a qualche atto essenziale o personale non può essere attribuito alle nozioni, poiché il significato particolare di queste ultime non lo comporta. Per cui non si può dire che la paternità genera o crea, e neppure che è sapiente o intelligente.-> Invece si possono attribuire alle nozioni gli attributi essenziali che non hanno uno stretto rapporto con un atto, ma escludono soltanto da Dio le condizioni delle creature: così possiamo dire che la paternità è eterna o immensa, e altre simili affermazioni. E allo stesso modo, data la loro identità reale, i sostantivi personali o essenziali si possono predicare delle nozioni: infatti si può dire: la paternità è Dio, la paternità è il Padre.
3. Quantunque le Persone divine siano semplicissime, tuttavia, senza pregiudicare tale loro semplicità, si possono esprimere in termini astratti le ragioni [o i costitutivi] delle persone, come si è già detto [nel corpo].

Articolo 3
Se le nozioni siano cinque
Sembra che le nozioni non siano cinque. Infatti:
1. Le nozioni proprie delle Persone sono le relazioni che le distinguono; ma queste sono soltanto quattro, come si è detto [q. 28, a. 4]: quindi anche le nozioni sono soltanto quattro.
2. Dio è detto uno perché l'essenza è una, e trino perché le persone sono tre. Se dunque in Dio vi sono cinque nozioni, egli dovrebbe dirsi cinquino: ma ciò è inammissibile.
3. Se essendo tre le persone le nozioni sono cinque, è necessario che in qualche persona vi siano due o più nozioni: come nella persona del Padre si ammette la innascibilità, la paternità e la spirazione comune.
Ora, queste tre nozioni differiscono o realmente o concettualmente.
Se differiscono realmente, allora la persona del Padre è composta di più cose.
Se invece differiscono soltanto concettualmente, allora una potrà predicarsi dell'altra, e come diciamo che la bontà di Dio è la sua sapienza, non differendo realmente l'una dall'altra, così potremmo dire che la spirazione comune è la paternità: ma ciò non può essere ammesso. Quindi le nozioni non possono essere cinque.

In contrario: 4. Pare che siano più [di cinque].
Come infatti ammettiamo la nozione di innascibilità per il fatto che il Padre non procede da nessuno, così si deve ammettere una sesta nozione per il fatto che dallo Spirito Santo non procede un'altra persona.
5. Come è comune al Padre e al Figlio che da essi proceda lo Spirito Santo, così è comune al Figlio e allo Spirito Santo il procedere dal Padre. Come quindi si ammette una nozione comune al Padre e al Figlio [la spirazione comune], così se ne deve ammettere anche una comune al Figlio e allo Spirito Santo [la comune processione].

Rispondo: Si chiama nozione la ragione formale che serve a fare conoscere una persona divina. Ora, la pluralità delle persone divine dipende dall'origine. Ma il concetto di origine comporta un principio [a quo alius] e un termine [qui ab alio]: e da questi due lati si può conoscere una persona.
Quindi non si può conoscere la persona del Padre perché deriva da un altro, ma perché non deriva da nessuno.
E da questo lato la sua nozione è l'innascibilità.
In quanto poi da lui derivano altri, [il Padre] si manifesta in due modi. Poiché in quanto da lui procede il Figlio si rende noto mediante la nozione di paternità, e in quanto da lui procede lo Spirito Santo si rende noto mediante la nozione di spirazione comune. Si viene invece a conoscere il Figlio per il fatto che deriva da un altro nascendo: e così egli si rende noto mediante la filiazione. In quanto poi un altro, cioè lo Spirito Santo, procede da lui, si rende noto allo stesso modo del Padre, cioè mediante la spirazione comune. Si viene infine a conoscere lo Spirito Santo in quanto procede da un altro o da altri: e così egli si rende noto mediante la processione. Non [lo si viene invece a conoscere] per il fatto che un altro sia da lui: poiché nessuna persona divina procede da lui.
Dunque in Dio vi sono cinque nozioni, cioè,
# l'innascibilità,
# la paternità,
# la filiazione,
# la spirazione comune e
# la processione.
Di queste solo quattro sono relazioni, poiché l'innascibilità è una relazione solo per riduzione, come si dirà in seguito [q. 33, a. 4, ad 3].
Quattro sole sono anche le proprietà: poiché la spirazione comune, per ciò stesso che conviene a due persone, non è una proprietà.
Tre soltanto poi sono nozioni personali, cioè costitutive delle persone, e precisamente la paternità, la filiazione e la processione: infatti la spirazione comune e l'innascibilità sono nozioni di persone, ma non personali, come vedremo meglio in seguito [q. 40, a. 1, ad 1].

Soluzione delle difficoltà: 1. Oltre alle quattro relazioni bisogna ammettere, come si è spiegato [nel corpo], un'altra nozione [l'innascibilità].
2. L'essenza divina e le persone divine sono espresse come certe realtà; le nozioni invece sono espresse come ragioni formali che notificano le persone. Quindi, sebbene si dica che Dio è uno per l'unità dell'essenza e trino per la trinità delle persone, non si può dire cinquino per le cinque nozioni.
3. Siccome soltanto l'opposizione delle relazioni produce una pluralità reale in Dio, più proprietà di una stessa persona non si distinguono realmente, poiché tra loro non esiste opposizione di relazioni. Tuttavia non si predicano l'una dell'altra, dato che stanno a indicare formalità diverse della stessa persona: come anche non diciamo che l'attributo della potenza è l'attributo della scienza, sebbene diciamo che la scienza è la potenza.
4. [S. c.]. Come si è visto [q. 29, a. 3, ad 2], la persona comporta dignità, perciò non si può ritenere come nozione dello Spirito Santo il fatto che non proceda da lui un'altra Persona. Ciò infatti non conferisce nulla alla sua dignità, come [invece] il non essere da altri mette in evidenza l'autorità del Padre.
5. [S. c.]. Il Figlio e lo Spirito Santo non hanno in comune un unico e speciale modo di essere originati dal Padre, come [invece] il Padre e il Figlio hanno in comune un modo speciale di produrre lo Spirito Santo. Ora, ciò che è causa della conoscenza [di una persona] deve essere qualcosa di speciale: perciò il paragone non regge.

Articolo 4
Se siano permesse opinioni contrastanti circa le nozioni
Sembra che non siano permesse opinioni contrastanti circa le nozioni. Infatti:
1. S. Agostino [De Trin. 1, 3] dice che "in nessun altro caso è tanto pericoloso l'errore" come in materia di Trinità, alla quale materia certamente appartengono le nozioni. Ma non si danno opinioni in contrasto senza che si abbia l'errore. Quindi non è lecita la libertà di opinione sulle nozioni.
2. Mediante le nozioni si conoscono le persone, come si è spiegato [aa. 2, 3]. Ma circa le persone non è lecito seguire opinioni contrastanti. Quindi neppure circa le nozioni.

In contrario: Negli articoli di fede non vi è nulla che riguardi le nozioni. Quindi a proposito delle nozioni è lecito pensare in un modo o in un altro.

Rispondo: Una cosa può appartenere alla fede in due modi.
Primo, direttamente, in qualità di oggetto principale della rivelazione divina, come l'unità e la trinità di Dio, l'incarnazione del Figlio di Dio e simili. E [naturalmente] è un'eresia sostenere un'opinione erronea su tali argomenti, specialmente se vi si unisce l'ostinazione.
Indirettamente invece appartengono alla fede quelle cose dalla cui negazione deriva qualche conseguenza contraria alla fede: come ad es. se qualcuno negasse che Samuele fu figlio di Elcana: infatti ne verrebbe che la divina Scrittura contiene degli errori.
Quindi su quanto appartiene alla fede in questo secondo modo uno può seguire opinioni erronee senza pericolo di eresia prima che venga considerato o sia stato determinato che da ciò segue qualcosa di contrario alla fede; e tanto più se non vi aderisce con ostinazione.
Se però è chiaro, e specialmente se è stato determinato dalla Chiesa, che da tali idee deriva qualcosa di contrario alla fede, in tal caso il ritenerle sarebbe eresia.
Per questo molte sentenze che prima non venivano ritenute eretiche, ora invece lo sono, poiché adesso si vedono più chiaramente le conseguenze che ne derivano.
Perciò si deve concludere che anche circa le nozioni alcuni, senza pericolo di eresia, poterono seguire opinioni contrastanti, non intendendo essi sostenere con ciò nulla di contrario alla fede. Se però uno ne avesse un'opinione sbagliata avvertendo che ne deriva qualcosa di contrario alla fede, costui cadrebbe nell'eresia. E con ciò risulta evidente la risposta alle difficoltà.


SEGUE....





Una stretta di [SM=g1902224]




Pierino





[Modificato da mlp-plp 10/03/2010 15:20]
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Dalla summa teologica di San Tommaso:

posterò parte dei suoi scritti, riguardante le
tre Personalità Divine "LA TRINITA'"

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parte 5:



LA PERSONA DEL PADRE

Logicamente passiamo ora a trattare delle singole persone in particolare [cf. q. 29, Prol.]. E in primo luogo della persona del Padre.
A questo proposito si pongono quattro quesiti:
1. Se il Padre possa denominarsi principio;
2. Se la persona del Padre sia indicata in modo proprio col nome di Padre;
3. Se, parlando di Dio, si usi la parola Padre più come termine personale che come termine essenziale;
4. Se sia proprio del Padre essere non generato.

Articolo 1
Se il Padre possa dirsi principio
Sembra che il Padre non possa dirsi principio del Figlio o dello Spirito Santo. Infatti:
1. Secondo il Filosofo [Met. 3, 2], principio e causa sono la stessa cosa. Ma non diciamo che il Padre è causa del Figlio. Quindi non si deve neppure dire che ne sia principio.
2. Principio si dice in rapporto al principiato. Se dunque il Padre è principio del Figlio, ne segue che il Figlio è principiato, e per conseguenza creato. Ma ciò è falso.
3. La denominazione di principio si fonda su una priorità. Ma in Dio, come dice S. Atanasio [Symb.], "non c'è né prima né poi". Quindi parlando di Dio non dobbiamo usare il nome di principio.

In contrario: S. Agostino [De Trin. 4, 20] afferma che "il Padre è il principio di tutta la divinità".

Rispondo: Il termine principio non significa altro che ciò da cui qualcosa procede: infatti tutto ciò da cui procede qualcosa in qualunque modo lo diciamo principio, e viceversa. Ora, siccome il Padre è uno da cui altri procedono, ne segue che è principio.

Soluzione delle difficoltà: 1. I Greci, parlando di Dio, usano indifferentemente i nomi di causa e di principio.
I Dottori latini invece non usano il termine causa, ma solo quello di principio. E la ragione sta in questo, che principio è più generico di causa, come causa è più generico di elemento. Il primo punto o la prima parte di una cosa si dice infatti suo principio, ma non sua causa.
Ora, come si è detto [q. 13, a. 11], quanto più un nome è generico, tanto meglio si presta a indicare le realtà divine: perché quanto più i nomi sono precisi, tanto più accentuano il modo di essere delle creature.
Per cui il termine causa implica una diversità di natura e la dipendenza di una cosa da un'altra: [dipendenza] che non è inclusa nel termine principio. Infatti in ogni genere di causa si trova sempre una distanza in perfezione o virtù tra la causa e ciò di cui essa è causa. Invece usiamo il termine principio anche dove non c'è questa differenza, ma soltanto un certo ordine. Come quando diciamo che il punto è il principio della linea, o anche quando diciamo che la prima parte della linea è il principio della linea.
2. I Greci usano dire che il Figlio e lo Spirito Santo sono principiati: questo però non è l'uso dei nostri Dottori. Perché sebbene noi attribuiamo al Padre una certa autorità in quanto principio tuttavia, al fine di evitare ogni occasione di errore, non attribuiamo al Figlio e allo Spirito Santo nulla che possa significare subordinazione o inferiorità. E in questo senso S. Ilario [De Trin. 9, 54] scrive: "Il Padre è maggiore per la dignità di donatore, ma il Figlio, al quale il Padre dà il suo stesso essere, non è minore".
3. Sebbene il termine principio, quanto alla sua etimologia, possa sembrare desunto da una priorità, tuttavia non significa priorità, ma origine. Come infatti si è spiegato [q. 13, a. 2, ad 2; a. 8], il senso di una parola non corrisponde sempre alla sua etimologia.

Articolo 2
Se il nome Padre sia il nome proprio di una persona divina
Sembra che il nome Padre non sia il nome proprio di una persona divina. Infatti:
1. Padre è un nome che indica relazione. Ma la persona è una sostanza individuale. Quindi padre non sta a indicare il nome proprio di una persona.
2. Generante è più generico di padre: poiché ogni padre è generante, ma non viceversa. Ora, come si è già detto precedentemente [a. prec., ad 1], i nomi più comuni e più indeterminati sono più adatti, quando parliamo delle realtà divine. Quindi per indicare una persona divina sono più adatti i termini di generante e di genitore che non quello di padre.
3. Un'espressione metaforica non può essere il nome proprio di nessuno. Ma nell'uomo soltanto per metafora il verbo [mentale] viene chiamato parto o prole [della mente], per cui soltanto in senso metaforico si chiama padre chi lo produce. Quindi neppure in Dio si può chiamare Padre in senso proprio colui che è il principio del Verbo.
4. Ciò che è attribuito alla divinità in senso proprio si predica di Dio prima che delle creature. Ma la generazione va attribuita alle creature prima che a Dio: poiché si ha generazione in senso più proprio quando una cosa deriva da un'altra e si distingue da essa non soltanto in forza di una relazione, ma anche per la sostanza. Quindi il nome di Padre, che viene desunto dalla generazione, non sembra che possa essere il nome proprio di una persona divina.

In contrario: È detto nei Salmi [88, 27]: "Egli mi invocherà: Tu sei mio Padre".

Rispondo: Il nome proprio di una persona significa ciò che la distingue da tutte le altre. Come infatti nel concetto di uomo rientrano l'anima e il corpo, così nel concetto di questo uomo rientrano questa anima e questo corpo, come dice Aristotele [Met. 7, 10]: poiché in forza di essi questo uomo si distingue da tutti gli altri. Ora, ciò che distingue la persona del Padre da tutte le altre è la paternità.
Quindi il termine Padre, che esprime la paternità, è il nome proprio della persona del Padre.

Soluzione delle difficoltà: 1. In noi la relazione non è una persona sussistente: perciò nelle creature il nome padre non significa una persona, ma solo una relazione della persona. Invece in Dio non è così, come falsamente credettero alcuni: infatti la relazione indicata dal termine Padre è [in questo caso] una persona sussistente. Per cui sopra [q. 29, a. 4] abbiamo detto che in Dio il termine persona significa la relazione in quanto sussistente nella natura divina.
2. Ogni cosa, come dice il Filosofo [De anima 2, 4], va denominata specialmente in base alla perfezione e al fine. Ora, la generazione indica semplicemente il divenire, mentre la paternità significa la generazione già completa. Quindi è più adatto per la persona divina il nome di Padre che non quello di generante o genitore.
3. Il nostro verbo [mentale] non è un sussistente di natura umana, per cui non può essere detto propriamente generato o figlio. Invece il Verbo divino è un sussistente di natura divina: per cui in senso proprio, e non per metafora, viene chiamato Figlio, e Padre il suo principio.
4. I nomi di generazione e di paternità, come tutti gli altri nomi che vengono attribuiti a Dio in senso proprio, vanno riferiti prima a Dio che alle creature se si guarda al significato, sebbene non [sia così] se si guarda al loro modo di significare. Quindi l'Apostolo [Ef 3, 14 s.] dice: "Piego le ginocchia davanti al Padre del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ogni paternità in cielo e in terra prende nome". Il che può vedersi così. È chiaro che la generazione viene specificata dal suo termine, che è la forma [o natura] dell'essere generato. E quanto più questa è vicina alla natura del generante, tanto più vera e perfetta risulta la generazione: infatti la generazione univoca è più perfetta di quella non univoca proprio perché appartiene al concetto di generante produrre un essere di forma [o natura] simile alla propria. Quindi anche il fatto che nella generazione divina la forma del generante e del generato sia la stessa numericamente, mentre nelle creature non è la stessa di numero, ma solo di specie, dimostra che la generazione, e di conseguenza la paternità, si trova prima in Dio che nelle creature. Per cui il fatto stesso che in Dio la distinzione tra generante e generato sia data solo da [una diversità di]
relazioni fa vedere meglio quanto sia vera la generazione e la paternità divina.

Articolo 3
Se parlando di Dio il nome Padre sia usato in primo luogo come nome personale
Sembra che parlando di Dio non si usi il nome Padre primariamente come nome personale. Infatti:
1. Ciò che è comune, nel nostro modo di intendere, precede quanto è proprio. Ora il termine Padre, preso come nome personale, è il nome proprio della persona del Padre; invece preso come nome essenziale è comune a tutta la Trinità, poiché a tutta la Trinità diciamo: Padre nostro.
Dunque il termine Padre è usato in primo luogo come nome essenziale e non personale.
2. Un termine che si applica secondo la stessa nozione a più cose non può essere attribuito primariamente [all'una] e secondariamente [all'altra]. Ma la paternità e la filiazione sembra che si dicano sia in quanto una persona divina è Padre del Figlio, sia in quanto tutta la Trinità è Padre di noi o della creatura: poiché al dire di S. Basilio [Hom. 15 de fide] il ricevere è comune alle creature e al Figlio.
Quindi in Dio il termine Padre non viene usato come nome personale prima che come nome essenziale.
3. Non si possono confrontare tra loro attribuzioni non fondate sullo stesso motivo. Ora, il Figlio viene confrontato con le creature a motivo della filiazione o della generazione, secondo le parole di S. Paolo [Col 1, 15]: "Egli è l'immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura". Quindi in Dio non si può considerare la paternità prima come termine personale e poi come termine essenziale, ma allo stesso modo.

In contrario: L'eternità precede il tempo. Ma da tutta l'eternità Dio è Padre del Figlio, mentre soltanto dal principio del tempo è Padre delle creature. Quindi la paternità si attribuisce a Dio prima rispetto al Figlio e poi rispetto alle creature.

Rispondo: Un termine viene attribuito al soggetto che ne esaurisce appieno tutto il significato prima che ad altri soggetti che ne partecipano solo in una certa misura: ad essi infatti viene applicato per la somiglianza [che hanno] con quello in cui si trova in tutto il suo significato, poiché ogni imperfetto deriva da ciò che è perfetto.
Come il termine leone si dice primariamente dell'animale, in cui si trova appieno tutto ciò che è incluso nel concetto di leone, e che quindi viene detto leone in senso proprio; gli uomini invece, nei quali si trova solo qualche qualità del leone, come l'audacia, la forza e simili, vengono detti leoni solo in senso metaforico.
Ora, come si è detto [q. 27, a. 2; q. 28, a. 4], il concetto di paternità e di filiazione si trova perfettamente in Dio Padre e in Dio Figlio, poiché identica ne è la natura e la gloria. Invece nella creatura la filiazione rispetto a Dio non si riscontra secondo una modalità perfetta, non essendo identica la natura del Creatore e della creatura, ma secondo una certa quale somiglianza. E quanto più è perfetta questa [somiglianza], tanto più si avvicina al vero concetto di filiazione.
Infatti di alcune creature, cioè delle irrazionali, Dio è detto padre solo per quella somiglianza che è un semplice vestigio; come ad es., leggiamo nella Scrittura [Gb 38, 28]: "Ha forse un padre la pioggia? o chi ha generato le stille della rugiada?". Di altre invece, cioè delle creature razionali, è padre per quella somiglianza che è un'immagine, secondo quelle parole [Dt 32, 6]: "Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?".
Di alcune creature inoltre è padre per quella somiglianza che è la grazia, e [tali creature] sono anche chiamate figli adottivi, in quanto sono ordinate all'eredità della gloria eterna mediante il dono di grazia ricevuto, come dice l'Apostolo [Rm 8, 16 s.]: "Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio; e se figli, anche eredi". Di alcuni infine [è padre] per quella somiglianza che è la gloria [eterna], in quanto essi possiedono già l'eredità della gloria, secondo quelle altre parole di S. Paolo [Rm 5, 2]: "Ci vantiamo nella speranza della gloria dei figli di Dio". Così dunque è chiaro che in Dio la paternità si dice primariamente in quanto è relazione di Persona a Persona, e non in quanto indica un rapporto di Dio alle creature.

Soluzione delle difficoltà: 1. Secondo il nostro modo di intendere, i termini comuni assoluti precedono i termini propri, essendo inclusi in essi, e non viceversa: pensando infatti alla persona del Padre si pensa [necessariamente] a Dio, ma non viceversa.
Invece i termini comuni che esprimono relazione alle creature sono posteriori a quelli propri che indicano una relazione personale: poiché in Dio la persona che procede, procede in qualità di principio delle creature.
Come infatti l'idea concepita dall'artefice precede l'opera compiuta, che viene riprodotta a immagine e somiglianza di tale idea, così il Figlio procede dal Padre prima delle creature, alle quali poi si attribuisce la filiazione in quanto esse partecipano della somiglianza del Figlio, come attesta S. Paolo [Rm 8, 29]: "Quelli che da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo".
2. Si può dire che ricevere è comune alle creature e al Figlio non in senso univoco, ma per una lontana somiglianza, in ragione della quale egli è chiamato "primogenito delle creature".
Quindi in quel testo S. Paolo, dopo aver detto che alcuni "furono predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo", soggiunge: "perché egli sia il primogenito tra molti fratelli". Ma colui che è Figlio di Dio per natura, a differenza degli altri, ha questo di particolare, cioè di possedere per natura ciò che riceve, come dice anche S. Basilio [l. cit.]. E per questo motivo viene denominato unigenito [Gv 1, 18]: "Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato".
E così è risolta anche la terza difficoltà.

Articolo 4
Se essere ingenito sia una proprietà [esclusiva] del Padre
Sembra che non sia una proprietà [esclusiva] del Padre di essere ingenito. Infatti:
1. Ogni proprietà aggiunge qualcosa al soggetto a cui appartiene. Ora, essere ingenito [o non generato] non aggiunge, ma esclude soltanto qualcosa dal Padre. Quindi non significa una proprietà del Padre.
2. Ingenito può essere preso in senso negativo o privativo. Se è preso in senso negativo, allora tutto ciò che non è derivato per generazione può essere detto ingenito. Ora, né lo Spirito Santo né l'essenza divina derivano per generazione. Quindi appartiene anche a loro di essere ingeniti: e così non si tratta di una proprietà [esclusiva] del Padre. - Se invece è preso in senso privativo, allora ne viene che la persona del Padre dovrebbe essere imperfetta, poiché ogni mancanza significa un'imperfezione. Ma ciò è inconcepibile.
3. Il termine ingenito attribuito a Dio non significa una relazione, non essendo un termine relativo: dunque indica la natura [divina]. E allora ingenito e generato differiscono secondo la natura. Ma il Figlio, che è generato, non differisce dal Padre secondo la natura. Quindi il Padre non deve dirsi ingenito.
4. Proprietà è ciò che conviene a uno solo. Ma essendoci in Dio più di una persona a procedere da altre, pare che nulla impedisca che vi sia anche più di una persona non originata da altre. Quindi essere non-generato non è una proprietà del Padre.
5. Il Padre, come è principio della persona generata, così lo è anche di quella che procede. Se dunque per opposizione alla persona generata si ammette che sia una proprietà del Padre quella di essere non-generato, si dovrebbe ammettere che egli abbia anche come proprietà quella di essere non-procedente.

In contrario: Dice S. Ilario [De Trin. 4, 33]: "È uno da uno", cioè l'Unigenito dall'Ingenito, "per le rispettive proprietà dell'innascibilità e dell'origine".

Rispondo: Come nelle realtà create abbiamo un principio primo e un principio secondo, così nelle persone divine, tra le quali però non esiste anteriorità e posteriorità, c'è il principio non da altro principio che è il Padre, e il principio da altro principio, che è il Figlio.
Ora, nelle realtà create un principio primo si manifesta come tale in due modi:
primo, per il suo rapporto di priorità rispetto alle cose che da esso derivano;
secondo, per il fatto che non deriva da altri.
E così il Padre si manifesta [come primo principio] in rapporto alle persone che procedono da lui mediante la paternità e la comune spirazione; si manifesta invece come principio non da principio per il fatto che non deriva da altri. E ciò appartiene alla proprietà dell'innascibilità, espressa con il termine ingenito.

Soluzione delle difficoltà: 1. Alcuni dicono che l'innascibilità, espressa dal termine ingenito, in quanto è una proprietà del Padre non ha solo un senso negativo, ma implica simultaneamente due cose: che cioè il Padre non è da altri e che gli altri derivano da lui; oppure implica la sua fecondità universale; o anche la sua pienezza fontale.
Però ciò non sembra vero.
Perché allora l'innascibilità non sarebbe una proprietà diversa dalla paternità e dalla spirazione, ma le includerebbe in sé, come un termine più universale include quello particolare: infatti la pienezza fontale e la fecondità non possono significare altro in Dio che il principio dell'origine.
Perciò diciamo con S. Agostino [De Trin. 5, 7] che ingenito sta a indicare la negazione della generazione passiva: infatti egli afferma che "è lo stesso dire ingenito e non figlio". Né da ciò si deve concludere che essere ingenito non sia una nozione propria del Padre: le realtà semplici e prime vengono espresse infatti mediante negazioni; il punto, p. es., viene definito come "ciò che non ha parti".
2. Qualche volta il termine ingenito è preso nel significato di pura negazione.
E in questo senso S. Girolamo dice che lo Spirito Santo è ingenito, cioè non generato.
Altre volte invece è preso in senso privativo, senza però che ciò comporti imperfezione alcuna. La mancanza può infatti verificarsi in vari modi.
Primo, quando il soggetto non ha ciò che altri possiedono per natura, ma che per lui non è naturale, come quando diciamo che la pietra è morta perché manca di quella vita che altre cose naturalmente possiedono.
Secondo, quando un soggetto non ha ciò che per natura è posseduto da altri dello stesso genere: come quando si dice che la talpa è cieca.
Terzo, quando un soggetto non ha ciò che esso stesso per natura dovrebbe avere: e in questo caso la mancanza include un'imperfezione.
Non è però in quest'ultimo senso privativo che ingenito si dice del Padre, ma nel secondo, in quanto cioè un'ipostasi di natura divina non è generata mentre un'altra è generata.
Però in questo senso ingenito si può dire anche dello Spirito Santo.
Quindi, perché sia proprio soltanto del Padre, bisogna ulteriormente includere nel termine ingenito l'idea che la Persona divina di cui viene detto sia principio di altre persone: in modo da venire a negare [implicitamente] che il Padre sia principiato come persona divina.
Oppure si può includere nel termine ingenito l'idea che [il Padre] non solo non è da altro per generazione, ma non lo è in alcun modo. Essere ingenito in questo modo infatti non conviene né allo Spirito Santo, che come persona sussistente deriva da altri per processione, né all'essenza divina, di cui si può dire che è nel Figlio e nello Spirito Santo come derivante da altri, cioè dal Padre.
3. Secondo il Damasceno [De fide orth. 1, 8], ingenito qualche volta equivale a increato: e allora è un attributo sostanziale [cioè della natura], e distingue la natura increata da quella creata.
Altre volte invece significa non derivato per generazione: e allora è un attributo relativo [cioè della persona], ma per riduzione, alla maniera in cui le negazioni si possono ridurre alle affermazioni corrispondenti: come non-uomo si riporta al genere della sostanza, e nonbianco a quello della qualità.
Quindi, siccome generato in Dio è un termine relativo, così anche ingenito è un termine relativo. E così non segue che il Padre, essendo ingenito, si distingua dal Figlio secondo la natura, ma solo secondo la relazione, in quanto cioè si nega al Padre la relazione di Figlio.
4. Come in qualsiasi genere di cose c'è un primo, così nella natura divina c'è un primo principio che non è da altri, e che è detto ingenito. Ammettere pertanto due innascibilità significa ammettere due Dèi e due nature divine. Quindi S. Ilario [De synod., can. 26] afferma: "Siccome Dio è uno solo, non possono essere due gli innascibili". E questo soprattutto perché, se fossero due, uno non potrebbe derivare dall'altro, e così non si distinguerebbero per opposizione relativa, ma dovrebbero distinguersi per diversità di natura.
5. La proprietà del Padre di non derivare da altri si indica meglio escludendo da lui la generazione del Figlio che non la processione dello Spirito Santo. Sia perché la processione dello Spirito Santo non ha un nome particolare, come si è detto [q. 27, a. 4, ad 3], sia perché presuppone naturalmente la generazione del Figlio. Quindi, escluso che il Padre, che pure è il principio della generazione, sia generato, ne viene di conseguenza che non è neppure procedente per la processione propria dello Spirito Santo: poiché lo Spirito Santo non è principio della generazione, ma procedente dal generato.


SEGUE....






Una stretta di [SM=g1902224]




Pierino





[Modificato da mlp-plp 10/03/2010 15:21]
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Dalla summa teologica di San Tommaso:

posterò parte dei suoi scritti, riguardante le
tre Personalità Divine "LA TRINITA'"



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Parte 6:


LA PERSONA DEL FIGLIO

Passiamo a considerare la persona del Figlio [cf. q. 33, Prol.].
Ad essa sono dati tre nomi: Figlio, Verbo e Immagine. Però il termine Figlio è già chiarito in quello di Padre.
Quindi non restano da considerare che i termini di Verbo e di Immagine.
A proposito del Verbo si pongono tre quesiti:
1. Se Verbo in Dio sia un nome essenziale o personale;
2. Se sia un nome esclusivo del Figlio;
3. Se nel termine Verbo sia incluso anche un rapporto con le creature.

Articolo 1
Se in Dio il nome Verbo sia personale
Sembra che Verbo in Dio non sia un nome personale. Infatti:
1. I nomi personali, come Padre e Figlio, vengono attribuiti a Dio presi nel loro senso proprio. Invece, come dice Origene [In Ioh. 1], il verbo è attribuito a Dio solo in senso metaforico. Quindi in Dio non è un nome personale.
2. Secondo S. Agostino [De Trin. 9, 10], "il Verbo è conoscenza con amore". E secondo S. Anselmo [Monol. 63], "per lo Spirito sommo il dire non è che un intuire pensando". Ma conoscenza, pensamento e intuito vengono attribuiti a Dio come termini essenziali. Quindi il verbo non è attribuito a Dio come termine personale.
3. È proprio del verbo essere detto. Eppure, come insegna S. Anselmo [Monol. 62], allo stesso modo in cui intende il Padre, intende il Figlio e intende lo Spirito Santo; e così dice il Padre, dice il Figlio e dice lo Spirito Santo. E parimenti ciascuno di essi è detto. Quindi il nome di verbo si dice dell'essenza divina e non di una persona.
4. Nessuna delle persone divine è fatta. Ma il verbo divino è qualcosa di fatto, poiché nei Salmi [148, 8] sta scritto: "Fuoco, grandine, neve, nebbia, vento di bufera, che fanno il suo verbo". Quindi verbo non è il nome di una persona divina.

In contrario: Insegna S. Agostino [De Trin. 7, 2]: "Come il Figlio dice relazione al Padre, così anche il Verbo a colui di cui è il Verbo". Ma Figlio è un nome personale, perché relativo. Quindi anche Verbo.

Rispondo: Se il termine Verbo è preso in senso proprio, in Dio è un nome personale, e in nessun modo essenziale.
Per capire questo si deve notare che noi prendiamo il termine verbo in tre sensi propri, mentre un quarto senso è improprio o metaforico.
Più comunemente, e in modo più ovvio, chiamiamo verbo [cioè parola] ciò che viene espresso con suoni vocali.
Ma esso proviene dal nostro interno quanto ai due elementi che si riscontrano nel verbo esterno, cioè la voce stessa e il suo significato.
Infatti, secondo il Filosofo [Periherm. 1, 1], la voce significa il concetto della mente; ed essa ancora nasce dall'immaginazione [cf. De anima 2, 8]. Invece i suoni vocali che non significano nulla non possono essere detti parola [verbo].
Quindi la voce esteriore è detta verbo [o parola] perché esprime il concetto interiore della mente.
Di qui si ha che in primo luogo e principalmente si dice verbo il concetto interno della mente, secondariamente la voce che lo esprime e in terzo luogo il fantasma [o immagine sensibile interiore] della voce [che servirà ad esprimerlo].
E queste tre accezioni del verbo sono indicate dal Damasceno [De fide orth. 1, 13] quando egli afferma che "si chiama verbo quel moto naturale della mente per cui essa è in atto, pensa e intende, e che ne è come la luce e lo splendore": prima accezione.
"Ancora, il verbo è ciò che" non si proferisce con la bocca, ma "si pronuncia nel cuore": terza accezione.
"Finalmente il verbo è ancora l'angelo", cioè il nunzio, "dell'intelligenza": seconda accezione.
In senso traslato poi, o metaforico, si dice verbo [o parola], quarta accezione, la stessa cosa significata o fatta mediante la parola: come quando per indicare semplicemente un fatto o per accennare a un comando siamo soliti dire: questo è il verbo che ti ho detto, o [il verbo] che fu comandato dal re.
Ora, in Dio il verbo in senso proprio indica il concetto dell'intelletto. Quindi S. Agostino [De Trin. 15, 10] afferma: "Chi è in grado di capire che cosa sia il verbo non solo prima che risuoni, ma anche prima che il suono si rivesta di un'immagine nella fantasia, può già intravvedere una certa sembianza di quel Verbo di cui fu detto: In principio era il Verbo".
Ora, lo stesso verbo mentale ha la proprietà di procedere da altro, cioè dalla conoscenza di chi lo ha concepito. Se quindi il verbo si applica a Dio in senso proprio significa qualcosa che procede da altro: e questa è una caratteristica dei nomi personali, poiché le persone divine si distinguono appunto in base alle origini, come si è già spiegato [q. 27, Prol.; q. 32, a. 3].
Quindi si deve dire che il nome Verbo, applicato a Dio in senso proprio, è un nome non essenziale, ma solo personale.

Soluzione delle difficoltà: 1. Gli Ariani, che fanno capo a Origene [cf. q. 32, a. 1, ad 1], sostennero che il Figlio è diverso dal Padre nella sostanza.
Quindi si sforzarono di dimostrare che il Figlio di Dio non viene detto Verbo in senso proprio, per non essere costretti a riconoscere che il Figlio di Dio, procedendo come verbo, non è estraneo alla sostanza del Padre: infatti il verbo interiore procede da chi lo esprime in modo da rimanere in lui.
Ma se si ammette in Dio un verbo in senso metaforico bisogna anche ammetterne uno in senso proprio.
Infatti una cosa non può essere detta metaforicamente verbo se non a motivo di una manifestazione: cioè o perché manifesta come manifesta il verbo, oppure perché è da questo manifestata. Ma se è manifestata dal verbo, allora è necessario ammettere il verbo che la manifesta.
Se invece viene detta verbo perché manifesta esteriormente, allora ciò che è così esteriormente manifestato non può essere detto verbo se non in quanto esprime l'interiore concetto della mente, che uno manifesta anche con segni esteriori. Quindi, sebbene qualche volta, parlando di Dio, il verbo sia preso in senso metaforico, tuttavia bisogna porre in lui un Verbo in senso proprio, che viene detto in modo personale.
2. Nulla di quanto appartiene all'intelletto è attribuito a Dio in senso personale, eccetto il solo Verbo: poiché soltanto il verbo significa una cosa che emana da un'altra.
Infatti il verbo è ciò che l'intelletto forma in se stesso nell'intendere.Invece l'intelletto stesso in quanto è in atto mediante la specie intelligibile è da concepirsi come qualcosa di assoluto.
E altrettanto si deve dire dell'intendere, il quale sta all'intelletto in atto come l'essere sta alle cose attualmente esistenti: infatti l'intendere significa un'azione che non esce dal soggetto, ma resta in esso.
Quando dunque si dice che il Verbo è notizia [o conoscenza], notizia qui non sta per l'atto dell'intelletto che conosce o per qualche suo abito, ma per ciò che l'intelligenza concepisce nel conoscere. Per cui anche S. Agostino [De Trin. 7, 2] afferma che il Verbo è "la sapienza generata": che poi si identifica con il concetto di chi conosce, concetto che a sua volta può essere detto "notizia generata".
E allo stesso modo si può spiegare [l'espressione di S. Anselmo] che dire, per Dio, è "un intuire pensando ", cioè nel senso che mediante l'intuizione del pensiero divino viene concepito il Verbo di Dio. Però, propriamente parlando, al Verbo di Dio non si può applicare con proprietà il termine pensiero. Dice infatti S. Agostino [De Trin. 15, 16]: "Il Verbo di Dio è detto Verbo, e non pensiero: affinché non si creda che in Dio ci sia qualcosa di mutevole, che ora prenda una forma per diventare verbo e ora la lasci, e così cambi di forme senza ritenerne alcuna". Il pensare, infatti, consiste nella ricerca del vero, e questa non si può trovare in Dio. Quando invece è giunto alla verità, l'intelletto non ricerca più, ma si ferma a contemplarla. Quindi Anselmo prende il pensare in senso improprio, come sinonimo di contemplare.
3. In Dio sia il Verbo, sia il dire, si riferiscono, come termini propri, alle persone e non all'essenza.
Come quindi il Verbo non è comune al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, così non è vero che il Padre, e il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo dicente. Per cui S. Agostino [De Trin. 7, 1] afferma: "In Dio non si deve intendere che ciascuno sia il dicente di quel Verbo coeterno ". Invece l'essere detto conviene a ogni persona, poiché non si dice soltanto il verbo, ma anche la cosa che con tale verbo è intesa e significata.
Così dunque in Dio l'essere detto come verbo conviene a una sola persona; invece l'essere detto come cosa intesa nel verbo e col verbo conviene a tutte e tre le divine persone. Il Padre infatti, intendendo se stesso, il Figlio e lo Spirito Santo e ogni altra cosa contenuta nella sua scienza, concepisce il Verbo: e così tutta la Trinità e ogni creatura viene detta con il Verbo; come l'intelletto umano dice la pietra con il verbo che ha concepito intendendo la pietra.
S. Anselmo invece prende dire in senso improprio, come equivalente di intendere.
E tuttavia sono cose diverse.
L'intendere infatti indica soltanto un rapporto di chi intende alla cosa intesa; rapporto che non include alcuna idea di origine, ma solo una certa informazione, in quanto il nostro intelletto diviene attualmente intelligente mediante la forma della cosa intesa.
Ora, in Dio [l'intendere] comporta un'assoluta identità: poiché in Dio, come si è detto sopra [q. 14, aa. 2, 4], l'intelletto e ciò che esso intende sono assolutamente la stessa cosa. Invece dire comporta principalmente un rapporto al verbo mentale: infatti dire non è altro che proferire il verbo; tuttavia mediante il verbo implica un rapporto alla cosa intesa, la quale nella parola [o verbo] si manifesta a chi intende.
E così in Dio solo la persona che proferisce il Verbo dice, mentre le singole persone e intendono e sono intese, e di conseguenza sono dette nel Verbo.
4. Nel passo citato verbo è preso in senso metaforico, in quanto si dice verbo anche ciò che da esso è significato e fatto. Si dice infatti che le creature fanno il verbo [o la parola] di Dio in quanto eseguiscono effetti a cui sono state ordinate dal Verbo concepito dalla divina sapienza: come si dice che uno fa la parola del re quando compie ciò che gli è stato intimato dalla parola del re.

Articolo 2
Se Verbo sia un nome proprio del Figlio
Sembra che Verbo non sia un nome proprio del Figlio. Infatti:
1. In Dio il Figlio è una persona sussistente. Ma come si vede anche in noi, il verbo non è qualcosa di sussistente. Quindi Verbo non può essere un nome proprio del Figlio.
2. Il verbo deriva per una certa emissione da chi lo esprime. Se dunque il Figlio è Verbo in senso proprio, procede dal Padre soltanto come emissione. Ma questa è precisamente l'eresia di Valentino, come riferisce S. Agostino [De haeres. 11].
3. I nomi propri di una persona esprimono qualche proprietà della medesima. Se dunque Verbo è un nome proprio del Figlio deve indicare una sua proprietà, e allora verrebbero a esserci in Dio più proprietà di quelle che abbiamo già determinato [q. 32, a. 3].
4. Chiunque intende, intendendo produce il verbo. Ora, [anche] il Figlio intende. Quindi vi sarà anche un verbo del Figlio. E allora essere Verbo non sarà una qualifica propria del Figlio.
5. S. Paolo [Eb 1, 3] afferma che il Figlio "tutto sostiene con il verbo della sua potenza": dalle quali parole S. Basilio [Adversus Eunom. 5, 11] deduce che lo Spirito Santo è il verbo del Figlio. Quindi l'essere Verbo non è una proprietà esclusiva del Figlio.

In contrario: S. Agostino [De Trin. 6, 2] dice: "Verbo indica solo il Figlio".

Rispondo: Verbo, applicato a Dio in senso proprio, è un termine o nome proprio della persona del Figlio. Infatti esso significa una emanazione intellettuale, e la persona che in Dio procede per emanazione intellettuale è detta Figlio, e tale emanazione è detta generazione, come si è già spiegato [q. 27, a. 2]. Resta quindi che in Dio soltanto il Figlio è detto propriamente Verbo.

Soluzione delle difficoltà: 1. In noi non è la stessa cosa il nostro essere e il nostro intendere: quindi ciò che in noi ha la natura di intelligibile non appartiene alla nostra essenza.
Invece in Dio il suo essere si identifica con il suo intendere: per cui il Verbo di Dio non è un suo accidente o effetto, ma appartiene alla sua stessa natura. E così è necessario che sia qualcosa di sussistente, poiché tutto ciò che si trova nell'essenza divina è sussistente. Quindi il Damasceno [De fide orth. 1, 13] dice che il Verbo divino "è sostanziale ed ente ipostatico: gli altri verbi invece", cioè i nostri, "sono proprietà dell'anima".
2. L'errore di Valentino, secondo quanto riferisce S. Ilario [De Trin. 6, 9], non fu condannato perché costui aveva detto che il Figlio è dal Padre per emissione, come calunniosamente dicevano gli Ariani, ma per il modo speciale di emissione che egli poneva, come risulta da S. Agostino [l. cit.].
3. Nel nome di Verbo è indicata la stessa proprietà che in quello di Figlio: per cui S. Agostino può affermare: "È detto Verbo per lo stesso motivo per cui è detto Figlio". La stessa nascita infatti, che è la proprietà personale del Figlio, viene indicata con diversi nomi per esprimere sotto vari aspetti tutta la sua perfezione.
Così per indicare che [il Figlio] è consostanziale al Padre è detto Figlio; per indicare che è eterno come il Padre è detto splendore; per mettere in evidenza la perfetta somiglianza [con il Padre] è detto immagine; per sottolineare la perfetta immaterialità della sua generazione è detto Verbo. Poiché non era possibile trovare un nome che da solo esprimesse tutti questi aspetti.
4. L'intendere appartiene al Figlio come gli appartiene di essere Dio: poiché, come si è detto [a. prec., ad 2, 3], l'intendere è un attributo divino essenziale.
Però egli è Dio generato e non Dio generante. E così il Figlio intende, ma non quale generatore di un verbo, bensì quale verbo procedente: in Dio infatti il Verbo non si distingue realmente dall'intelletto divino, ma si distingue solo per la relazione [di origine] da colui che è il principio del Verbo.
5. Quando si dice che il Figlio "tutto sostiene col verbo della sua potenza", qui verbo va preso in senso figurato come effetto del verbo [o della parola]. Quindi la Glossa [interlin. e ord.] dice che qui verbo sta per comando, in quanto cioè è effetto della virtù del Verbo che le cose siano conservate nell'essere, come fu un effetto della potenza del Verbo che venissero prodotte. S. Basilio poi, nell'usare il termine verbo per lo Spirito Santo, si espresse con una parola impropria e metaforica, chiamando cioè verbo di un soggetto tutto ciò che serve a manifestarlo: e in questo senso lo Spirito Santo, manifestando il Figlio, può essere detto verbo del Figlio.

Articolo 3
Se nel nome Verbo sia incluso un rapporto alle creature
Sembra che nel nome Verbo non sia incluso un rapporto alle creature. Infatti:
1. I nomi divini che accennano a un effetto nelle creature si riferiscono all'essenza. Ora Verbo, come si è detto [a. 1], è un termine personale e non essenziale. Quindi non include alcun rapporto alle creature.
2. I nomi che esprimono una relazione alle creature si attribuiscono a Dio a cominciare dall'inizio del tempo, come ad es. Signore e Creatore. Ma Verbo si attribuisce a Dio da tutta l'eternità. Esso quindi non include un rapporto alle creature.
3. Il Verbo [necessariamente] dice relazione al soggetto dal quale procede. Se quindi il Verbo comportasse una relazione alle creature dovrebbe procedere da esse.
4. [In Dio] le idee [archetipe] sono tante quanti sono i rapporti alle creature. Se dunque il Verbo include un rapporto alle creature, ne segue che in Dio non ci sarà un solo Verbo, ma molti.
5. Se il Verbo comporta un ordine alle creature, ciò proviene soltanto dalla conoscenza che Dio ne ha. Ora, Dio non conosce solamente le cose che sono, ma anche le cose che non sono. Quindi nel Verbo sarebbe incluso anche un rapporto a ciò che non è, il che evidentemente è falso.

In contrario: S. Agostino [Lib. LXXXIII quaest. 63] afferma che nel nome di Verbo "viene indicato non solo un rapporto al Padre, ma anche a quelle cose che mediante il Verbo furono prodotte dalla potenza operativa [di Dio]".

Rispondo: Nel Verbo è incluso un rapporto alle creature. Dio infatti conoscendo se stesso conosce ogni creatura. Ora, il verbo mentale rappresenta tutto ciò che attualmente si conosce. Ed è per questo che in noi ci sono tanti verbi quante sono le cose che conosciamo.
Ma Dio con un unico atto conosce se stesso e tutte le altre cose: perciò l'unico Verbo esprime non soltanto il Padre, ma anche tutte le creature. E come la scienza divina in rapporto a Dio è soltanto conoscitiva e in rapporto alle creature è conoscitiva e operativa, così il Verbo divino in rapporto a quanto si trova essenzialmente nel Padre è soltanto espressivo, e in rapporto alle creature è espressivo e operativo. Per cui nei Salmi [32, 9] sta scritto: "Egli parla e tutto è fatto": poiché il Verbo include l'idea di modello di quanto Dio fa.

Soluzione delle difficoltà: 1. Il nome di persona include indirettamente anche la natura: infatti la persona è una sostanza individuale di natura razionale. Quindi il nome di una persona divina in quanto esprime una relazione personale non include un rapporto alle creature, ma lo include [indirettamente] per il fatto che indica anche la natura.
Ora, nulla impedisce che [la persona] in quanto implica l'essenza includa un rapporto alle creature: poiché come è proprio del Figlio di essere Figlio, così gli è proprio di essere Dio generato, ovvero Creatore generato. E in questo modo il termine Verbo include un rapporto alle creature.
2. Siccome le relazioni sorgono dalle azioni, alcuni nomi, quelli cioè che esprimono un'azione che da Dio passa negli effetti esterni, come creare e governare, indicano una relazione alle creature; e tali nomi si dicono di Dio a cominciare dall'inizio del tempo. Invece altri nomi esprimono delle relazioni nate da operazioni che non passano sugli effetti esterni, ma rimangono nel soggetto, come sapere e volere: e questi non si attribuiscono a Dio a cominciare dall'inizio del tempo [ma da tutta l'eternità].
Ora, il Verbo sta a indicare questa seconda specie di relazioni con le creature. E neppure è vero che tutti i nomi che implicano una relazione alle creature si attribuiscono a Dio a cominciare dall'inizio del tempo, ma solo quei nomi che esprimono delle relazioni originate da qualche azione di Dio che passa negli effetti esterni.
3. Le creature non sono conosciute da Dio mediante una scienza da esse desunta, ma mediante la sua stessa essenza.
Quindi, sebbene il Verbo esprima le creature, non ne segue che proceda da esse.
4. Il termine idea sta a indicare principalmente un rapporto alle creature, per cui quando si parla di Dio è usato al plurale, e non è un nome personale.
Il termine Verbo [o Parola] invece sta principalmente a significare il rapporto con colui che [lo] dice, e di conseguenza il rapporto con le creature: in quanto Dio, intendendo se stesso, intende tutte le creature.
E così in Dio il Verbo è uno solo, ed è un nome personale.
5. Anche il Verbo di Dio, come la scienza di Dio, abbraccia le realtà non esistenti: poiché, come insegna S. Agostino [De Trin. 15, 14], nel Verbo di Dio non manca nulla di quanto si trova nella scienza di Dio. Tuttavia delle realtà esistenti il Verbo è espressivo e fattivo; di quelle non esistenti invece è espressivo e manifestativo.


L'IMMAGINE

Parliamo ora dell'Immagine.
Riguardo ad essa si pongono due quesiti:
1. Se l'Immagine applicata a Dio sia un nome personale;
2. Se tale nome sia proprio del Figlio.

Articolo 1
Se l'Immagine in Dio sia un nome personale
Sembra che l'Immagine in Dio non sia un nome personale. Infatti:
1. S. Agostino [De fide ad Petrum 1] dice: "È unica la divinità e l'immagine della SS. Trinità a somiglianza della quale fu fatto l'uomo". Quindi immagine è un nome essenziale e non personale.
2. S. Ilario [De synod., can. 1] afferma che "l'immagine è una specie somigliantissima della cosa riprodotta". Ma specie, o forma, in Dio è un termine essenziale. Quindi lo è anche immagine.
3. Immagine viene da imitare, che indica un prima e un poi. Ma fra le Persone divine non c'è un prima e un poi. Quindi immagine in Dio non può essere un nome personale.

In contrario: Scrive S. Agostino [De Trin. 7, 1]: "Ci può essere qualcosa di più assurdo che prendere immagine come termine assoluto?". Quindi in Dio immagine è un nome relativo. E di conseguenza è un termine che si riferisce alla persona.

Rispondo: Per avere l'immagine è richiesta la somiglianza.
Però non basta una somiglianza qualsiasi, ma si richiede o la somiglianza nella specie, o almeno in un segno caratteristico della specie.
Ora, il segno caratteristico della specie nelle realtà corporali è principalmente la figura: infatti vediamo che le diverse specie di animali hanno figure differenti, ma non [necessariamente] colori diversi. Per cui se su di una parete si stende il colore di una certa cosa, non si dirà che questa rappresentazione ne è l'immagine, se non ne rappresenta la figura. - Tuttavia per avere l'immagine non basta neppure la somiglianza nella specie o nella figura, ma si richiede anche l'origine: poiché, come dice S. Agostino [Lib. LXXXIII quaest. 74], un uovo non è l'immagine di un altro uovo, poiché non è ricavato da esso.
Quindi, affinché una cosa sia veramente l'immagine [di un'altra], è necessario che ne derivi rassomigliando ad essa nella specie, o almeno nel segno della specie.
Ora, in Dio tutto ciò che indica processione od origine è personale. Quindi Immagine è un nome personale.

Soluzione delle difficoltà: 1. Si dice immagine in senso proprio quella cosa che deriva da un'altra rassomigliando ad essa. La cosa invece da cui fu presa la somiglianza viene detta propriamente esemplare, e solo impropriamente immagine.
Tuttavia S. Agostino, nel dire che la divinità della Trinità Santissima è l'immagine riprodotta nell'uomo, volle usare immagine in questo senso [improprio].
2. Il termine specie, posto da S. Ilario nella definizione dell'immagine, sta per forma derivata in un soggetto da un altro soggetto. In questo modo infatti l'immagine può essere detta specie di qualcosa, come si dice forma di qualcosa la realtà stessa che gli è simile, in quanto ha una forma che gli assomiglia.
3. Imitazione, quando si parla delle Persone divine, non significa posteriorità, ma soltanto rassomiglianza.

Articolo 2
Se Immagine sia un nome proprio del Figlio
Sembra che immagine non sia un nome proprio del Figlio. Infatti:
1. Il Damasceno [De fide orth. 1, 13] dice che lo Spirito Santo è "immagine del Figlio". Quindi [immagine] non è un nome proprio del Figlio.
2. Secondo S. Agostino [Lib. LXXXIII quaest. 74] rientrano nel concetto di immagine la somiglianza e l'espressione. Ma ciò conviene anche allo Spirito Santo: poiché anch'egli procede da altri secondo somiglianza. Quindi anche lo Spirito Santo è immagine. Quindi essere Immagine non è proprio del Figlio.
3. Anche l'uomo, al dire di S. Paolo [1 Cor 11, 7], è immagine di Dio: "L'uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio". Quindi ciò non è proprio del Figlio.

In contrario: Dice S. Agostino [De Trin. 6, 2]: "Solo il Figlio è Immagine del Padre".

Rispondo: I Padri greci usano dire che lo Spirito Santo è immagine del Padre e del Figlio.
I latini invece il nome di Immagine non lo attribuiscono che al Figlio: poiché nella Scrittura non si trova riferito che al Figlio.
Infatti S. Paolo [Col 1, 15] afferma: "Egli è l'immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura"; e altrove [Eb 1, 3]: "è irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza".
La ragione poi di questa [riserva dei Padri latini], secondo alcuni, starebbe nel fatto che il Figlio è simile al Padre non solo nella natura, ma anche nella nozione di principio; lo Spirito Santo invece non conviene in alcuna nozione né col Padre né col Figlio.
Ciò però non pare sufficiente.
Poiché dalle relazioni in Dio non può provenire né uguaglianza né disuguaglianza, come spiega S. Agostino [Contra Maxim. 2, 14; De Trin. 5, 6]; e così neppure quella somiglianza che sarebbe richiesta per l'immagine.
Perciò altri dicono che lo Spirito Santo non può essere detto immagine del Figlio per il fatto che non si può parlare dell'immagine di un'immagine.
E neppure lo si può dire immagine del Padre inquantoché l'immagine si riferisce senza intermediari al soggetto di cui è immagine, mentre lo Spirito Santo si riferisce al Padre mediante il Figlio.
E neppure può essere simultaneamente immagine del Padre e del Figlio: poiché sarebbe l'immagine unica di due [Persone distinte], il che è impossibile.
Quindi ne concludono che lo Spirito Santo in nessun modo può essere immagine. - Ma tutto ciò non ha valore.
Come infatti si dirà in seguito [q. 36, a. 4], il Padre e il Figlio sono un unico principio dello Spirito Santo: e così nulla impedisce che del Padre e del Figlio, in quanto sono un unico principio, ci sia un'unica immagine: dal momento che anche l'uomo è una sola immagine di tutta la Trinità.
Perciò si deve procedere diversamente, e dire che come lo Spirito Santo, sebbene nella sua processione riceva, non meno del Figlio, la stessa natura del Padre, tuttavia non è detto nato, così, quantunque riceva una forma simile a quella del Padre, tuttavia non è detto immagine. Poiché il Figlio procede come Verbo, e il concetto di verbo [mentale] implica somiglianza di specie con il soggetto da cui procede; invece [tale somiglianza] non è implicata nel concetto di amore, sebbene convenga a quell'Amore che è lo Spirito Santo, in quanto amore divino.

Soluzione delle difficoltà: 1. Il Damasceno e gli altri Dottori greci usano comunemente il nome di immagine per indicare una somiglianza perfetta.
2. Sebbene lo Spirito Santo sia simile al Padre e al Figlio tuttavia, per i motivi addotti [nel corpo], non è chiamato immagine.
3. L'immagine di una data cosa può trovarsi nei vari soggetti in due differenti modi.
Primo, [può trovarsi] in un soggetto della stessa natura specifica: come l'immagine del re si trova nel suo figlio.
Secondo, [può trovarsi] in un soggetto di natura diversa: come l'immagine del re si trova nella moneta.
Ora, il Figlio (di Dio) è immagine del Padre nella prima maniera; l'uomo invece è detto immagine di Dio nella seconda. Per indicare quindi che nell'uomo l'immagine è imperfetta non si dice semplicemente che l'uomo è immagine, ma a immagine, per designare cioè la tendenza alla perfezione. Del Figlio di Dio invece non si può dire che è a immagine del Padre, poiché ne è l'immagine perfettissima.




SEGUE.....



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Dalla summa teologica di San Tommaso:

posterò parte dei suoi scritti, riguardante le
tre Personalità Divine "LA TRINITA'"


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parte 7:



LA PERSONA DELLO SPIRITO SANTO

Ci rimane ora da trattare della persona dello Spirito Santo [cf. q. 33, Prol.], il quale è chiamato non soltanto Spirito Santo, ma anche Amore e Dono di Dio.
Sullo Spirito Santo si pongono quattro questioni:
1. Se Spirito Santo sia il nome proprio di una persona divina;
2. Se la persona divina chiamata Spirito Santo proceda dal Padre e dal Figlio;
3. Se essa proceda dal Padre per il Figlio;
4. Se il Padre e il Figlio siano un unico principio dello Spirito Santo.

Articolo 1
Se Spirito Santo sia il nome proprio di una persona divina
Sembra che Spirito Santo non sia il nome proprio di una persona divina. Infatti:
1. Nessun nome comune alle tre persone può essere proprio di una sola. Ma Spirito Santo è comune alle tre persone. Infatti S. Ilario [De Trin. 8, nn. 23, 25] dimostra che nella Sacra Scrittura col nome di Spirito di Dio alcune volte è indicato il Padre, come nel passo [Is 61, 1; Lc 4, 18]: "Lo Spirito del Signore è su di me"; altre volte è designato il Figlio, come quando Gesù stesso disse [Mt 12, 28]: "Se io scaccio i demoni in virtù dello Spirito di Dio", volendo con ciò indicare che egli scacciava i demoni con la potenza della sua natura [divina]; altre volte ancora è indicato lo Spirito Santo, ad es. dove si legge [Gl 2, 28; At 2, 17]: "Effonderò il mio Spirito sopra ogni uomo".
Quindi Spirito Santo non è il nome proprio di una persona divina.
2. I nomi delle persone divine sono termini relativi, come dice Boezio [De Trin. 5]. Ma Spirito Santo non è un termine relativo. Quindi non può essere il nome proprio di una persona divina.
3. Essendo Figlio il nome di una persona divina, non si può dire: il Figlio di questo o di quello. Invece si usa dire: lo spirito di questo o di quell'uomo, come in quel brano della Scrittura [Nm 11, 17]: "Il Signore disse a Mosè: Prenderò parte del tuo spirito per darlo a loro". E altrove [2 Re 2, 15]: "Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo". Pare dunque che Spirito Santo non sia il nome proprio di una persona divina.

In contrario: Dice la Sacra Scrittura [1 Gv 5, 7 Vg]: "Sono tre che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo".
"Tre che cosa?" si domanda S. Agostino, e risponde [De Trin. 7, cc. 4, 6; cf. 5, 9]: "Tre persone ". Quindi Spirito Santo è il nome di una persona divina.

Rispondo: In Dio ci sono due processioni; la seconda però, quella dell'amore, non ha un nome proprio, come si è detto sopra [q. 27, a. 4, ad 3]. Quindi anche le relazioni che ne sorgono mancano di un nome proprio, come si è già spiegato [q. 28, a. 4]. E da ciò deriva che neppure la persona che procede secondo questa processione può avere, per lo stesso motivo, un nome proprio.
Tuttavia, come per indicare quelle relazioni furono dall'uso adottati alcuni nomi comuni, cioè processione e spirazione, che propriamente significano più gli atti nozionali che le relazioni, così per designare la persona divina che procede per processione d'amore fu adottato secondo l'uso della Scrittura il nome di Spirito Santo.
E di ciò si possono trovare due motivi di convenienza.
Primo, la comunanza della persona chiamata Spirito Santo. Spiega infatti S. Agostino [De Trin. 15, 19; cf. 5, 11]: "Essendo lo Spirito Santo comune alle due [persone], esso è chiamato propriamente con denominazioni comuni a entrambe: infatti il Padre è Spirito e il Figlio è Spirito; il Padre è santo e il Figlio è santo".
Secondo, il significato proprio [di Spirito Santo]. Nel mondo fisico infatti spirito significa impulso e moto: infatti chiamiamo spirito il fiato e il vento. Ora, è proprio dell'amore muovere e spingere la volontà di chi ama verso la realtà amata. Ma a quelle cose che sono ordinate a Dio viene attribuita la santità.
Quindi convenientemente è detta Spirito Santo la persona divina che procede come l'amore con cui Dio si ama.

Soluzione delle difficoltà: 1. Se l'espressione spirito santo viene considerata come due parole distinte, allora è comune a tutta la Trinità.
Poiché con la parola spirito si indica l'immaterialità della sostanza divina: infatti nel mondo fisico lo spirito [vento o fiato] è una sostanza invisibile e di minima densità: perciò a tutte le sostanze immateriali e invisibili diamo il nome di spirito. Con l'aggettivo santo invece si indica la purezza della bontà divina.
Se al contrario si considera l'espressione Spirito Santo come una parola sola allora, per la ragione già detta [nel corpo], in forza dell'uso della Chiesa essa è stata adottata per designare una delle tre divine persone, quella che procede secondo la processione dell'amore.
2. Sebbene Spirito Santo non sia un termine relativo, tuttavia viene usato come se lo fosse, in quanto fu adottato per designare una persona distinta dalle altre per la sola relazione. - Si potrebbe però anche scorgere in questo termine una relazione se Spirito venisse preso nel senso di spirato.
3. Nel termine Figlio è indicata soltanto la relazione di un soggetto derivante da un principio verso quel principio; in quello di Padre invece è indicata la relazione di principio, e così pure in quello di Spirito, in quanto include l'idea di impulso. Ora, nessuna creatura può essere principio di una persona divina, ma al contrario. Quindi si può dire Padre nostro e Spirito nostro, non però Figlio nostro.

Articolo 2
Se lo Spirito Santo proceda dal Figlio
Sembra che lo Spirito Santo non proceda dal Figlio. Infatti:
1. Secondo Dionigi [De div. nom. 1] "non si deve aver l'ardire di affermare qualcosa della supersostanziale divinità oltre a ciò che ne è detto nella Sacra Scrittura". Ora, questa non dice che lo Spirito Santo procede dal Figlio, ma solo dal Padre, come appare da quel testo [Gv 15, 26]: "lo Spirito di verità che procede dal Padre". Quindi lo Spirito Santo non procede dal Figlio.
2. Nel Simbolo del Concilio ecumenico di Costantinopoli si legge: "Crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre, e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato". Non si doveva dunque in alcun modo aggiungere nel nostro Simbolo che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio: anzi, parrebbero degni di scomunica coloro che fecero tale aggiunta.
3. Dice il Damasceno [De fide orth. 1, 8]: "Affermiamo che lo Spirito Santo è dal Padre e lo diciamo Spirito del Padre; non affermiamo invece che lo Spirito Santo è dal Figlio, sebbene lo diciamo Spirito del Figlio". Quindi lo Spirito Santo non procede dal Figlio.
4. Una cosa non procede dal soggetto in cui riposa. Ma lo Spirito Santo riposa nel Figlio. È detto infatti nella Leggenda di S. Andrea [inizio]: "Pace a voi, e a tutti quelli che credono nell'unico Dio Padre e nell'unico suo Figlio, il solo Signore nostro Gesù Cristo, e nell'unico Spirito Santo che procede dal Padre e rimane nel Figlio". Quindi lo Spirito Santo non procede dal Figlio.
5. Il Figlio procede come verbo [o parola]. Ma noi vediamo che il nostro spirito [o fiato] non procede dalla nostra parola. Quindi neppure lo Spirito Santo procede dal Figlio. 6. Lo Spirito Santo già procede perfettamente dal Padre. Quindi è superfluo dire che procede dal Figlio.
7. "Nelle realtà sempiterne", come dice Aristotele [Phys. 3, 4], "non c'è differenza tra essere e poter essere"; specialmente poi in quelle divine. Ma lo Spirito Santo potrebbe distinguersi ugualmente dal Figlio anche se non procedesse da lui. Infatti S. Anselmo [De process. Sp. Sancti 4] dice: "Sia il Figlio che lo Spirito Santo ricevono l'essere dal Padre, ma in due maniere diverse: poiché mentre il primo lo ha per nascita, l'altro lo ha per processione, in modo che per questo si distinguano tra loro". E aggiunge [ib.]: "Se il Figlio e lo Spirito Santo non fossero per altro distinti, per questo solo già si distinguerebbero". Quindi lo Spirito Santo si distingue dal Figlio anche se non procede da lui.

In contrario: S. Atanasio afferma nel Simbolo: "Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio, non fatto, né creato, né generato, ma procedente".

Rispondo: È necessario affermare che lo Spirito Santo procede dal Figlio.
Se infatti non procedesse [anche] da lui, in nessun modo si potrebbe da lui distinguere come persona. Il che risulta evidente da quanto abbiamo già spiegato [q. 28, a. 3; q. 30, a. 2].
Infatti non si può dire che le persone divine si distinguano tra loro per qualcosa di assoluto, poiché sarebbe così negata l'unità di essenza delle tre [persone]: infatti tutto ciò che in Dio si dice in modo assoluto appartiene all'unità dell'essenza.
Resta dunque che le persone divine si distinguano l'una dall'altra solo per le relazioni. - Però le relazioni non possono distinguere le persone tra loro se non in quanto sono contrapposte. E ciò è dimostrato dal fatto che, pur essendo due le relazioni attribuite al Padre, e cioè una verso il Figlio e l'altra verso lo Spirito Santo, queste, non essendo tra loro opposte, non costituiscono due persone distinte, ma appartengono all'unica persona del Padre.
Se dunque nel Figlio e nello Spirito Santo non vi fossero se non le due relazioni con cui ciascuno di essi si riferisce al Padre, tali relazioni non sarebbero tra loro opposte; come non lo sono le due con le quali il Padre si riferisce ad essi.
Come quindi la Persona del Padre è una [nonostante le due relazioni], così una dovrebbe essere la persona del Figlio e dello Spirito Santo, con due relazioni opposte alle due relazioni del Padre.
Ma questa conclusione è eretica, poiché distrugge la fede nella Trinità.
Quindi è necessario che il Figlio e lo Spirito Santo si riferiscano l'uno all'altro con opposte relazioni. - Ora, in Dio non ci possono essere altre relazioni tra loro opposte se non quelle di origine, come si è già spiegato [q. 28, a. 4]. Ma le opposte relazioni di origine sorgono o dal fatto che un soggetto è principio, o dal fatto che deriva da un principio.
Quindi non rimane altro che affermare o che il Figlio procede dallo Spirito Santo, cosa che nessuno ammette, oppure che lo Spirito Santo procede dal Figlio, come professiamo noi. E ciò è consono all'indole delle due processioni. Si è detto infatti [q. 27, aa. 2, 4; q. 28, a. 4] che il Figlio procede per processione intellettuale come verbo, e lo Spirito Santo per processione di volontà come amore.
Ora, è necessario che l'amore proceda dal verbo: infatti non si ama se non ciò che si conosce. È quindi chiaro che lo Spirito Santo procede dal Figlio.
Anche l'ordine che vediamo nel creato porta alla stessa conclusione.
Infatti non avviene mai che dalla stessa causa procedano effetti molteplici senza ordine, a meno che non si tratti di cose che differiscono soltanto materialmente: come può avvenire per i vari coltelli prodotti dallo stesso artigiano e numericamente distinti senza che vi sia alcun ordine tra loro. Nelle cose invece tra cui non c'è solo una distinzione materiale, c'è sempre un certo ordine nella molteplicità dei prodotti.
Per cui anche nell'ordine delle realtà create risplende la bellezza della sapienza divina.
Se dunque dall'unica persona del Padre ne procedono due altre, cioè il Figlio e lo Spirito Santo, ci deve essere un ordine tra loro.
E non è possibile assegnare un altro ordine diverso da quello di origine, in forza del quale uno procede dall'altro. Se quindi non si vuole ammettere l'assurdo di una distinzione materiale [tra le persone divine], non si può dire che il Figlio e lo Spirito Santo procedano dal Padre in modo tale che uno di essi non proceda anche dall'altro.
Inoltre i Greci stessi ammettono che la processione dello Spirito Santo ha un certo ordine al Figlio. Concedono infatti che lo Spirito Santo è lo Spirito del Figlio, e che procede dal Padre per il Figlio.
Anzi, si dice che alcuni di essi concedono che sia dal Figlio, o che emani da lui; [non ammettono] però che ne proceda. E ciò potrebbe dipendere o da ignoranza o da caparbietà. Infatti, se si bada bene, non è difficile vedere che la parola processione è la più vaga e indeterminata fra tutte quelle che stanno a indicare un'origine. Infatti la usiamo per indicare qualunque origine: come diciamo che la linea procede dal punto, il raggio dal sole, il ruscello dalla fonte, e così in qualsiasi altro caso.
Quindi, [se si ammette] qualche altra parola che significhi origine, si può anche concludere che lo Spirito Santo procede dal figlio.

Soluzione delle difficoltà: 1. Non si deve attribuire a Dio cosa alcuna che non sia contenuta nella Scrittura o espressamente con le parole o per il senso.
Ora, quantunque nella Scrittura non si trovi affermato esplicitamente che lo Spirito Santo procede dal Figlio, tuttavia lo si trova affermato quanto al senso; specialmente là dove il Figlio, parlando dello Spirito Santo, dice [Gv 16, 14]: "Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà".
Si deve poi tenere per regola che quanto nella Scrittura viene detto del Padre, pur con l'aggiunta di un termine esclusivo, va inteso anche del Figlio, a meno che non si tratti di cose che distinguono il Padre e il Figlio mediante le opposte relazioni. Quando infatti il Signore dice [Mt 11, 27]: "Nessuno conosce il Figlio, se non il Padre", non esclude che egli conosca se stesso.
Allo stesso modo dunque, quando si dice che lo Spirito Santo procede dal Padre, anche se vi fosse aggiunto che procede dal solo Padre, con ciò non sarebbe escluso il Figlio: poiché il Padre e il Figlio non si oppongono tra loro nell'essere principio dello Spirito Santo, ma solo nell'essere uno Padre e l'altro Figlio.
2. In ogni concilio fu compilata una professione di fede che prendeva di mira l'errore condannato in quel concilio. Per cui il concilio seguente non compilava un Simbolo diverso dal primo, ma soltanto con qualche aggiunta spiegava, contro le nuove eresie, ciò che implicitamente era contenuto nel Simbolo precedente.
Infatti nelle determinazioni del concilio di Calcedonia [Act. 5] si legge che [i Padri] che parteciparono al concilio di Costantinopoli insegnarono la dottrina riguardante lo Spirito Santo "non aggiungendo qualcosa che mancasse ai [Padri] più antichi (che presero parte a quello di Nicea), ma spiegando il pensiero di questi contro gli eretici".
Poiché dunque al tempo degli antichi concili non era ancora sorto l'errore di coloro che dicevano che lo Spirito Santo non procede dal Figlio, non fu necessario mettere ciò esplicitamente [nel simbolo]. Ma in seguito, sorto quell'errore, in un concilio tenuto in Occidente ciò vi fu inserito esplicitamente per autorità del Romano Pontefice, con l'autorità del quale anche gli antichi concili venivano convocati e confermati. - Tuttavia [questa aggiunta] era già implicita nell'affermazione che lo Spirito Santo procede dal Padre.
3. I primi ad affermare che lo Spirito Santo non procede dal Figlio furono i Nestoriani, come si può vedere da un loro simbolo condannato nel Concilio di Efeso [Act. 6]. E tale errore fu poi seguìto dal nestoriano Teodoreto [Ep. 171 Ad Io. Ant. Episc.], e da parecchi altri dopo di lui, fra i quali ci fu anche il Damasceno. Quindi in questo caso non si può seguire la sua sentenza.
Quantunque alcuni sostengano che il Damasceno, come non afferma che lo Spirito Santo procede dal Figlio, così, neppure lo nega, stando alle parole riferite [nell'ob.].
4. Dicendo che lo Spirito Santo riposa o rimane nel Figlio non si esclude che proceda da lui, dato che anche del Figlio si dice che rimane nel Padre, quantunque da lui proceda. - Si può anche dire che lo Spirito Santo riposa nel Figlio perché l'amore di chi ama [cioè del Padre] riposa in lui [Figlio] quale oggetto amato; oppure si ha di mira la natura umana di Cristo, secondo quelle parole [Gv 1, 33]: "L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza [in Spirito Santo]".
5. In Dio il termine Verbo viene preso per una certa somiglianza non già col verbo orale [o parola], da cui lo spirito [il fiato, il respiro] non procede, perché allora sarebbe verbo soltanto in senso metaforico, ma per una somiglianza con quello mentale da cui procede l'amore.
6. La perfetta processione dello Spirito Santo dal Padre non solo non rende superflua quella dal Figlio, ma la include necessariamente. Essendo infatti identica la virtù del Padre e del Figlio, tutto ciò che proviene dal Padre proviene anche dal Figlio, a meno che ciò non ripugni alla sua condizione propria di Figlio. Il Figlio infatti non procede da se stesso, sebbene proceda dal Padre.
7. Lo Spirito Santo si distingue personalmente dal Figlio perché l'origine dell'uno è diversa da quella dell'altro. Ma la differenza delle due origini sta in questo, che il Figlio procede solo dal Padre, mentre lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. Diversamente infatti le processioni non si distinguerebbero, come si è dimostrato [nel corpo].

Articolo 3
Se lo Spirito Santo proceda dal Padre per il Figlio
Sembra che lo Spirito Santo non proceda dal Padre per il Figlio. Infatti:
1. Ciò che procede dal suo principio per [mezzo di] qualche altra cosa non procede da esso immediatamente. Se dunque lo Spirito Santo procede dal Padre per il Figlio non procede immediatamente dal Padre. Cosa questa che non si può ammettere.
2. Se lo Spirito Santo procede dal Padre per il Figlio, non procederà dal Figlio se non in forza del Padre. Ma ciò in forza di cui un soggetto è tale, lo è maggiormente [Anal. post. 1, 2]. Quindi lo Spirito Santo procederà più dal Padre che dal Figlio.
3. Il Figlio ha l'essere per generazione. Se dunque lo Spirito Santo procedesse dal Padre per mezzo del Figlio, prima dovrebbe essere generato il Figlio e poi procedere lo Spirito Santo. E così la processione dello Spirito Santo non sarebbe eterna. Ma questa è un'eresia.
4. Quando si dice che uno opera per un altro si può anche invertire la frase: come diciamo infatti che il re agisce per il suo ministro, così diciamo pure che questi agisce per il re. Ma in nessun modo si può dire che il Figlio spiri lo Spirito Santo per il Padre. Quindi non si può neppure dire che il Padre spiri lo Spirito Santo per il Figlio.

In contrario: Dice S. Ilario [De Trin. 12, 57]: "Conserva, te ne prego, incontaminato questo voto ardente della mia fede: che io possieda sempre il Padre, te, voglio dire; e adori assieme a te il Figlio tuo; e meriti il tuo Spirito Santo, che procede da te per il tuo Unigenito".

Rispondo: In ogni espressione in cui si dice che uno opera per un altro, la preposizione per indica nel complemento la causa o il principio di quell'atto.
Ma siccome l'azione sta tra l'agente e l'effetto, il complemento a cui è unito il per alcune volte esprime la causa dell'azione secondo che questa deriva dall'agente. E allora determina l'agente ad agire: in qualità o di causa finale, o di causa formale, o di causa efficiente o motiva. Finale quando, p. es., diciamo che un artigiano opera per desiderio del danaro; formale se diciamo che opera per [conformità a] la sua arte; motiva se diciamo che opera per comando di altri.
Altre volte invece il complemento a cui è unita la preposizione per indica la causa dell'azione in quanto questa ha come termine l'effetto: come quando diciamo che un artigiano opera per il martello. Infatti con tale espressione non si vuol dire che il martello abbia determinato l'artigiano ad agire, ma che è stata la causa che ha portato l'artefatto a derivare dall'artigiano; e che anche questa causalità l'ha avuta dall'artigiano. - E ciò corrisponde alla spiegazione di quanti insegnano che la preposizione per alcune volte indica l'autorità, come nell'espressione: il re opera per il suo ministro, mentre invece altre volte indica l'autorità indirettamente, come in quest'altra espressione: il ministro opera per il re.
Ora, siccome il Figlio ha dal Padre di essere principio dello Spirito Santo, si può dire che il Padre per il Figlio spira lo Spirito Santo; oppure, ed è la stessa cosa, che lo Spirito Santo procede dal Padre per il Figlio.

Soluzione delle difficoltà: 1. In ogni azione si deve badare a due cose, cioè al soggetto agente e alla virtù per cui esso agisce: al fuoco, p. es., e al calore per cui riscalda.
Se dunque nel Padre e nel Figlio si considera la virtù per cui essi spirano lo Spirito Santo, allora non si dà alcun intermediario: poiché questa virtù è la stessa e identica [in ambedue].
Se invece si considerano le persone spiranti, allora, siccome lo Spirito Santo procede ugualmente dal Padre e dal Figlio, si trova che lo Spirito Santo deriva immediatamente dal Padre in quanto procede da lui, e ne deriva mediamente in quanto procede dal Figlio. E in questo senso si dice che procede dal Padre per mezzo del Figlio. Come, p. es., Abele derivò immediatamente da Adamo in quanto questi ne fu il padre, e mediatamente in quanto Eva, che ne fu la madre, procedeva da Adamo.
Però questo esempio di una processione materiale è evidentemente poco adatto a significare la processione immateriale delle persone divine.
2. Se il Figlio avesse una sua virtù di spirare lo Spirito Santo numericamente distinta da quella del Padre, ne verrebbe che egli sarebbe come la causa seconda e strumentale [di tale spirazione]: e allora si dovrebbe dire che [lo Spirito Santo] procede più dal Padre che dal Figlio. Essendo però questa virtù spirativa numericamente la stessa nel Padre e nel Figlio, lo Spirito Santo procede ugualmente dall'uno come dall'altro. Qualche volta però questa processione viene attribuita principalmente e in proprio al Padre, dato che il Figlio vi partecipa in virtù del Padre.
3. Come la generazione del Figlio è coeterna al generante, poiché il Padre non esisteva prima che generasse il Figlio, così la processione dello Spirito Santo è coeterna al suo principio. Quindi non fu generato il Figlio prima che procedesse lo Spirito Santo, ma tanto la generazione quanto la processione sono eterne.
4. Non è vero che quando si dice che uno opera per un altro si possano sempre invertire i termini: infatti non possiamo dire che il martello opera per l'artefice.
Diciamo invece che il ministro agisce per il re perché il ministro è padrone dei suoi atti, mentre il martello non opera, ma è solo adoperato: perciò non se ne parla altro che come di uno strumento. Si usa dire dunque che il ministro opera per il re, quantunque questa preposizione per indichi mezzo, perché quanto più un soggetto è elevato nell'ordine dell'agire, tanto più diviene immediato il suo potere sull'effetto: è infatti proprio l'efficacia della causa prima che fa raggiungere il suo effetto alla causa seconda; per cui anche nelle scienze dimostrative i primi princìpi si dicono immediati. E così, se si bada alla coordinazione dei soggetti che agiscono, si dirà che il re opera per il ministro; se invece si bada all'ordine dei loro poteri si dirà che il ministro opera per il re, poiché è il potere del re a far sì che l'azione del ministro raggiunga l'effetto.
Ora, tra il Padre e il Figlio non vi è subordinazione di poteri, ma solo di soggetti [o persone]. Quindi si dice che il Padre spira per il Figlio e non viceversa.

Articolo 4
Se il Padre e il Figlio siano un unico principio dello Spirito Santo
Sembra che il Padre e il Figlio non siano un unico principio dello Spirito Santo. Infatti:
1. Non pare che lo Spirito Santo proceda dal Padre e dal Figlio in quanto sono una cosa sola: non [procede infatti in quanto sono tali] nella natura, perché allora lo Spirito Santo, che ha anch'egli la medesima natura, procederebbe da se stesso; e neppure [in quanto lo sono] in qualche proprietà, poiché evidentemente una stessa proprietà non può convenire a due persone.
Quindi lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio in quanto sono distinti. Quindi essi non formano un solo principio dello Spirito Santo.
2. Quando si dice che il Padre e il Figlio sono un solo principio dello Spirito Santo non si può indicare con ciò un'unità personale: perché allora sarebbero una sola persona. E neppure un'unità di proprietà: perché se per un'unica proprietà il Padre e il Figlio sono un unico principio, per lo stesso motivo, in ragione delle due proprietà esistenti nel Padre, questi sarebbe due princìpi, uno del Figlio e l'altro dello Spirito Santo, il che è inammissibile. Quindi il Padre e il Figlio non sono un unico principio dello Spirito Santo.
3. Il Figlio non è unito al Padre più dello Spirito Santo. Ma il Padre e lo Spirito Santo non formano un unico principio di qualche persona divina. Quindi [non lo formano] neppure il Padre e il Figlio.
4. Se il Padre e il Figlio non sono che un unico principio dello Spirito Santo, questo unico [principio] o è il Padre o non è il Padre. Ma nessuna delle due cose si può ammettere: perché se fosse il Padre, allora il Figlio sarebbe identico al Padre; se invece non fosse il Padre, ne verrebbe che il Padre non è il Padre.
Quindi non si può dire che il Padre e il Figlio formano un unico principio dello Spirito Santo.
5. Se il Padre e il Figlio sono un unico principio dello Spirito Santo, evidentemente si può anche dire l'inverso, e cioè che l'unico principio dello Spirito Santo è il Padre e il Figlio. Ma ciò è falso: poiché il termine principio sta o per la persona del Padre o per quella del Figlio: e in tutti e due i casi la proposizione è falsa.
Quindi è falsa anche la reciproca, cioè che il Padre e il Figlio sono un unico principio dello Spirito Santo.
6. L'unità di due cose nella sostanza le rende identiche. Se dunque il Padre e il Figlio sono un unico principio dello Spirito Santo, ne segue che sono uno stesso e identico principio. Ma questa affermazione molti la negano.
Quindi non si deve concedere che il Padre e il Figlio sono un unico principio dello Spirito Santo.
7. Si dice che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo sono un unico Creatore perché sono un unico principio delle creature. Ma il Padre e il Figlio, per molti [teologi], non sono uno, ma due spiratori. E ciò è conforme a quanto dice S. Ilario [De Trin. 2, 29], che cioè lo Spirito Santo "deve ritenersi derivato dal Padre e dal Figlio come da suoi autori". Quindi il Padre e il Figlio non sono un principio unico dello Spirito Santo.

In contrario: Dice S. Agostino [De Trin. 5, 14] che il Padre e il Figlio sono un solo principio, e non due princìpi dello Spirito Santo.

Rispondo: Il Padre e il Figlio sono in tutto e per tutto una stessa cosa, eccetto in quegli aspetti in cui vi è distinzione per l'opposizione delle relazioni.
Ora, siccome nell'essere principio dello Spirito Santo non c'è questa opposizione relativa, ne segue che il Padre e il Figlio sono un unico principio dello Spirito Santo.
Tuttavia alcuni dicono che l'espressione il Padre e il Figlio sono un unico principio dello Spirito Santo è impropria. Poiché il termine principio, preso al singolare, non significando le persone, ma le proprietà, sarebbe usato come aggettivo; e siccome un aggettivo non è determinato da un altro aggettivo, sostengono che non si può dire che il Padre e il Figlio sono un unico principio dello Spirito Santo: a meno che quell'unico [unum] non venga preso come avverbio, in modo da dare questo senso: [il Padre e il Figlio] sono in un unico modo, cioè con un unico procedimento, principio [dello Spirito Santo].
Ma allora si potrebbe analogamente dire che il Padre è due princìpi, cioè del Figlio e dello Spirito Santo, dato che lo è in due modi diversi.
Perciò riteniamo che sebbene il termine principio significhi una proprietà, tuttavia la significa come sostantivo: nel modo in cui si usano i termini padre e figlio anche parlando delle creature. Quindi, come tutti i sostantivi, esso riceve il numero dal concetto stesso che esprime.
Come dunque il Padre e il Figlio sono un unico Dio per l'unità del concetto espresso dal termine Dio, così sono un unico principio dello Spirito Santo per l'unità della proprietà indicata dal termine principio.

Soluzione delle difficoltà: 1. Se si guarda alla virtù spirativa, [si può dire che] lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio in quanto sono una cosa sola per tale virtù spirativa, la quale, come si dirà in seguito [q. 41, a. 5], in un certo senso indica la natura unita a una proprietà. E non c'è nessun inconveniente se un'unica proprietà si trova in due soggetti che hanno la stessa natura.
Se invece si considerano i soggetti della spirazione, allora lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio come da persone distinte, inquantoché procede da essi come amore che li unisce entrambi. 2. Quando si dice: il Padre e il Figlio sono un unico principio dello Spirito Santo, si indica una sola proprietà, che è la forma espressa dal nome. Non segue però che per le sue due proprietà si possa dire che il Padre è due princìpi: poiché ciò implicherebbe una pluralità di soggetti.
3. La somiglianza o dissomiglianza in Dio non si desume dalle proprietà relative, ma dall'essenza. Come quindi il Padre non è più simile a se stesso che al Figlio, così il Figlio non è più simile al Padre di quanto lo sia lo Spirito Santo.
4. Le due proposizioni il Padre e il Figlio sono un unico principio che è il Padre e il Padre e il Figlio sono un unico principio che non è il Padre non sono contraddittorie. Quindi non si è costretti ad ammettere [soltanto] l'una o l'altra. Infatti nell'espressione: il Padre e il Figlio sono un unico principio, principio non ha un'attribuzione precisa, ma confusa, in quanto si riferisce simultaneamente a tutte e due le persone.
Quindi nel ragionamento c'è un sofisma di equivocazione, cioè [si passa arbitrariamente] dall'attribuzione confusa a quella determinata.

5. Anche questa affermazione è vera: l'unico principio dello Spirito Santo è il Padre e il Figlio, poiché il termine principio non sta per una persona soltanto, ma indistintamente per due, come si è spiegato [ad 4].
6. Si può benissimo dire che il Padre e il Figlio sono un identico principio, in quanto principio sta simultaneamente in modo confuso e indeterminato per le due persone.
7. Alcuni dicono che il Padre e il Figlio, sebbene siano un unico principio dello Spirito Santo, tuttavia, data la distinzione di persone, sono due spiratori, come pure sono due spiranti: poiché gli atti si riferiscono ai soggetti.
Per il termine Creatore invece è un'altra questione: infatti lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio in quanto sono due persone distinte, come si è detto [ad 1], mentre le creature non procedono dalle tre persone in quanto sono distinte, ma in quanto sono per essenza un'unica realtà.
Sembra però meglio dire che, figurando spirante come aggettivo e spiratore come sostantivo, il Padre e il Figlio sono due spiranti, data la pluralità dei soggetti, ma non due spiratori, essendo unica la spirazione. Infatti gli aggettivi prendono il numero dal loro soggetto, i sostantivi invece lo hanno da se stessi, cioè dall'idea che esprimono.
L'affermazione poi di S. Ilario che lo Spirito Santo "procede dal Padre e dal Figlio come da autori" va spiegata nel senso che il sostantivo è usato come aggettivo.


DONO QUALE NOME DELLO SPIRITO SANTO

Ora trattiamo del nome Dono [cf. q. 36, Prol.].
A questo proposito si pongono due quesiti:
1. Se Dono possa essere un nome personale;
2. Se sia proprio dello Spirito Santo.

Articolo 1
Se Dono sia un nome personale
Sembra che Dono non sia il nome di una persona divina. Infatti:
1. Ogni nome personale accenna a qualche distinzione in Dio. Ma il nome dono non accenna ad alcuna distinzione esistente in Dio, poiché S. Agostino [De Trin. 15, 19] dice che lo Spirito Santo, "come dono di Dio, è dato in modo che anch'egli, quale Dio, doni se stesso". Quindi dono non è un nome personale.
2. Nessun nome personale può convenire all'essenza divina. Ma come appare chiaramente da un'affermazione di S. Ilario [De Trin. 9, 54], l'essenza divina è il dono che il Padre dà al Figlio. Quindi dono non è un nome personale.
3. Secondo il Damasceno [De fide orth. 3, 21; 4, 18], tra le persone divine non ci sono subordinati né sottoposti. Il dono invece comporta una certa subordinazione sia al soggetto a cui viene dato, sia a quello dal quale è dato. Quindi dono non è un nome personale.
4. Il dono indica una relazione alle creature, quindi viene attribuito a Dio dall'inizio del tempo. Ma i nomi personali si dicono di Dio da tutta l'eternità, come Padre e Figlio. Perciò dono non è un nome personale.

In contrario: Dice S. Agostino [De Trin. 15, 19]: "Come il corpo di carne non è altro che la carne, così il dono dello Spirito Santo non è altro che lo Spirito Santo". Ma Spirito Santo è un nome personale. Quindi anche Dono.

Rispondo: Il termine dono include l'idea di attitudine a essere donato.
Ora, ciò che è donato dice rapporto sia a chi dà sia a chi riceve: poiché non sarebbe dato se non fosse di chi lo dà, e viene dato appunto perché sia di colui a cui viene dato.
Ora, una persona divina si dice di qualcuno o perché deriva da lui, come il Figlio è del Padre, o perché ne è posseduta. D'altra parte noi diciamo di possedere ciò di cui possiamo liberamente fare uso o godere. E in questo modo una Persona divina non può essere posseduta se non da una creatura razionale unita a Dio.
Le altre creature invece possono sì subire la mozione di una Persona divina, non però fino a essere in grado di godere di essa e di operare sotto il suo impulso. Al che invece talora arriva la creatura razionale, p. es. quando è fatta partecipe del Verbo divino e dell'Amore procedente in modo da poter liberamente conoscere con verità Dio, e rettamente amarlo.
Quindi solo la creatura razionale può possedere una Persona divina. Ma per averla in questo modo non le bastano le sole sue forze, per cui è necessario che ciò le sia dato dall'alto: si dice infatti che ci è dato quanto abbiamo da altri.
Perciò a una Persona divina compete di essere data e di essere Dono.

Soluzione delle difficoltà: 1. Il termine Dono accenna a una distinzione di persone, in quanto il dono è di qualcuno come da questi derivante.
Tuttavia lo Spirito Santo dà se stesso in quanto è di se stesso, potendo servirsi o piuttosto fruire di se medesimo: come anche l'uomo libero si dice che è di se stesso. Ed è quanto dice S. Agostino [In Ioh. ev. tract. 29, 3]: "Che cosa è mai tanto tuo quanto te stesso?".
Oppure si potrebbe rispondere meglio ancora che il dono deve essere in qualche maniera di chi lo dà.
Ma questo essere di qualcuno può essere inteso in molti modi.
Primo, può indicare identità, alla maniera riferita da S. Agostino [l. cit.]. E così il dono non è distinto da chi lo dà, ma solo da chi lo riceve. E in questo senso si può dire che lo Spirito Santo dona se stesso.
Secondo, il possessivo può indicare proprietà o dominio: e in questo caso è necessario che il dono sia essenzialmente distinto da chi lo dà. E qui il dono di Dio è qualcosa di creato.
Terzo, l'essere di qualcuno può limitarsi a indicare l'origine: e allora [si dirà che] il Figlio è del Padre, e lo Spirito Santo di ambedue. In quanto dunque si dice che il dono è di chi lo dà in questo terzo modo, allora esso si distingue come persona dal donatore, ed è un nome personale.
2. L'essenza [divina] è detta dono del Padre nel primo dei modi suddetti [cf. ad 1]: poiché l'essenza è del Padre per identità con lui.
3. Il Dono, in quanto è il nome di una persona divina, nei riguardi del donatore non comporta subordinazione alcuna, ma soltanto derivazione. In rapporto invece a chi lo riceve sta a indicare il libero uso e la fruizione, come si è spiegato [nel corpo].
4. Il dono viene così denominato non perché è dato, ma perché è atto a essere dato. Quindi da tutta l'eternità una Persona divina è detta Dono, quantunque venga data nel tempo.
E neppure si può concludere che sia un termine essenziale per il fatto che dice relazione alle creature, ma si può solo dire che include nel suo concetto qualcosa di essenziale: allo stesso modo in cui nel concetto di persona è inclusa implicitamente l'essenza, come si è già fatto osservare [q. 34, a. 3, ad 1].

Articolo 2
Se Dono sia un nome proprio dello Spirito Santo
Sembra che Dono non sia un nome proprio dello Spirito Santo. Infatti:
1. Dono viene da dare. Ora, sta scritto [Is 9, 5]: "Ci è stato dato un Figlio". Quindi essere Dono conviene al Figlio come allo Spirito Santo.
2. Il nome proprio di una Persona significa qualche sua proprietà. Ma dono non significa alcuna proprietà dello Spirito Santo. Quindi non è un suo nome proprio.
3. Lo Spirito Santo può essere detto spirito di qualche uomo, come si è già visto [q. 36, a. 1, ob. 3]. Ma [lo Spirito Santo] non può essere detto dono di un uomo, ma solo Dono di Dio. Quindi dono non è un nome proprio dello Spirito Santo.

In contrario: Dice S. Agostino [De Trin. 4, 20]: "Come per il Figlio l'essere nato significa derivare dal Padre, così per lo Spirito Santo l'essere Dono di Dio significa procedere dal Padre e dal Figlio". Ma lo Spirito Santo ha il proprio nome in quanto procede dal Padre e dal Figlio. Quindi Dono è un nome proprio dello Spirito Santo.

Rispondo: Dono come termine personale è in Dio un nome proprio dello Spirito Santo.
Perché ciò sia chiaro è da notare che, come dice Aristotele [Topic. 4, 4], il dono è un "dare senza resa", cioè un dare senza pensare a una retribuzione: e così indica una donazione gratuita.
Ora, il motivo di una donazione gratuita è l'amore: infatti diamo una cosa gratuitamente a qualcuno perché vogliamo per lui il bene. La prima cosa dunque che gli diamo è l'amore con il quale vogliamo a lui il bene.
Quindi è chiaro che l'amore ha natura di primo dono, da cui provengono tutti i doni gratuiti.
Ora, si è già visto [q. 27, a. 4; q. 37, a. 1] che lo Spirito Santo procede come Amore, quindi procede come primo dono. Per cui S. Agostino [De Trin. 15, 19] dice che "per il Dono che è lo Spirito Santo sono distribuiti molti doni particolari alle membra di Cristo".

Soluzione delle difficoltà: 1. Come il Figlio, procedendo come Verbo, implica l'idea di somiglianza rispetto al principio da cui deriva, per cui è detto propriamente Immagine sebbene anche lo Spirito Santo sia simile al Padre, così dunque anche lo Spirito Santo, procedendo dal Padre come Amore, è detto propriamente Dono quantunque anche il Figlio venga donato.
Infatti il dono stesso del Figlio nasce dall'amore del Padre, secondo quanto è scritto [Gv 3, 16]: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito".
2. Nel termine dono è inclusa l'idea di appartenenza a colui dal quale esso deriva.
E in tal modo è inclusa la proprietà di origine dello Spirito Santo, cioè la processione.
3. Il dono prima di essere dato è solo di chi lo dà, ma dopo che è stato dato è di chi lo ha ricevuto.
Ora, siccome nel concetto di Dono non è inclusa la donazione effettiva, non si può dire che sia dono dell'uomo, ma Dono di Dio che lo dà. Però una volta che è stato dato, allora è spirito o dono dell'uomo.





SEGUE.....




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Dalla summa teologica di San Tommaso:

posterò parte dei suoi scritti, riguardante le
tre Personalità Divine "LA TRINITA'"


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Parte 8:



LE PERSONE IN RAPPORTO ALL'ESSENZA

Dopo quanto si è detto delle Persone divine prese singolarmente, resta da trattare delle Persone in rapporto all'essenza, alle proprietà [q. 40] e agli atti nozionali [q. 41]; e dei rapporti che intercorrono tra di esse [q. 42; cf. q. 29, Prol.].
Per quanto riguarda la prima questione si pongono otto quesiti:
1. Se in Dio l'essenza e la persona siano la stessa cosa;
2. Se si possa dire che le tre Persone sono di una medesima essenza;
3. Se i nomi essenziali si debbano predicare delle Persone al plurale o al singolare;
4. Se gli aggettivi, i verbi o i partecipi nozionali si possano predicare dei nomi essenziali presi in concreto;
5. Se si possano predicare dei nomi essenziali presi in astratto;
6. Se i nomi delle Persone si possano predicare dei nomi essenziali concreti;
7. Se gli attributi essenziali siano da appropriarsi alle Persone;
8. Quali attributi siano da appropriarsi a ciascuna Persona.

Articolo 1
Se in Dio l'essenza e la persona siano la stessa cosa
Sembra che in Dio l'essenza e la persona non siano la stessa cosa. Infatti:
1. In tutte le realtà in cui l'essenza si identifica con la persona o supposito non vi può essere che un unico soggetto per ogni natura, come è evidente in tutte le sostanze separate. Se infatti abbiamo cose che nella realtà sono identiche fra di loro, non se ne può moltiplicare una senza che si moltiplichi anche l'altra.
Ora in Dio, come risulta da quanto si è detto sopra [q. 28, a. 3; q. 30, a. 2], vi è un'unica essenza e tre Persone. Quindi l'essenza non si identifica con la persona.
2. In uno stesso soggetto l'affermazione e la negazione non possono essere simultaneamente vere. Ora in Dio, quanto all'essenza e alle persone, l'affermazione e la negazione sono simultaneamente vere: infatti le persone sono distinte, mentre l'essenza non è distinta.
Quindi la persona e l'essenza non si identificano.
3. Nulla sottostà a se stesso. Ma la persona sta sotto all'essenza, tanto che viene detta supposito, o ipostasi.
Perciò la persona e l'essenza non si identificano.

In contrario: S. Agostino [De Trin. 7, 6] afferma: "Quando noi parliamo della persona del Padre non parliamo di altro che della sostanza [o natura] del Padre".

Rispondo: Per chi considera la semplicità divina la soluzione del quesito è evidente.
Come infatti si è dimostrato sopra [q. 3, a. 3], la semplicità divina richiede che in Dio la natura sia identica al supposito; il quale, nelle sostanze spirituali, non è altro che la persona.
Ma allora sorge la difficoltà di come sia possibile che le persone si moltiplichino mentre l'essenza conserva la sua unità.
Poiché dunque, secondo Boezio [De Trin. 6], "la sola relazione dà origine alla trinità delle Persone", alcuni dissero che in Dio l'essenza e le persone differiscono tra loro allo stesso modo in cui dicevano che le relazioni erano assistenti, considendo in esse solo il rapporto al termine, e non la realtà. Ma secondo quanto si è già visto [q. 28, a. 2], come nelle creature le relazioni sono accidenti, così in Dio sono la sua stessa essenza.
Quindi in Dio l'essenza non differisce in realtà dalla persona; e tuttavia le persone differiscono realmente fra di loro.
Come infatti si è detto [q. 28, a. 4], la persona significa la relazione come un sussistente nella natura divina. Ora, la relazione rapportata all'essenza non differisce realmente, ma solo concettualmente; rapportata invece alla relazione opposta, in forza dell'opposizione, si distingue realmente.
E così si ha un'essenza e tre persone.

Soluzione delle difficoltà: 1. Nelle creature non ci può essere una distinzione di soggetti per semplici relazioni, non essendo queste sussistenti, ma questa deve provenire dai princìpi stessi dell'essenza.
In Dio invece le relazioni sono sussistenti: perciò possono, in quanto opposte tra loro, distinguere le persone. Tuttavia non distinguono l'essenza: poiché neppure le relazioni stesse, in quanto si identificano realmente con l'essenza, si distinguono fra loro.
2. In Dio si può affermare dell'essenza quanto si nega della persona perché esse sono concettualmente distinte, e quindi vale per l'una ciò che non vale per l'altra.
3. Come si è già detto [q. 13, a. 1, ad 2; a. 3], parlando di Dio facciamo uso di nomi tratti dalle realtà create.
Ora, l'essenza delle realtà create viene individuata mediante la materia che sta sotto la natura specifica, ed è per questo che i singoli esseri concreti sono detti soggetti, o suppositi, o ipostasi.
Ed è sempre per tale motivo che anche le persone divine sono dette suppositi o ipostasi, non perché in esse vi sia qualcosa che realmente stia sotto un'altra.

Articolo 2
Se si possa dire che le tre Persone sono di un'unica essenza
Sembra che non si possa dire che le tre Persone sono di un'unica essenza. Infatti:
1. S. Ilario [De Synod., in exp. Fidei Antioch.] asserisce che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo "sono tre per la loro sostanza, ma per la loro armonia sono una cosa sola". Ma la sostanza di Dio è la sua essenza. Quindi le tre Persone non sono di un'unica essenza.
2. Secondo Dionigi [De div. nom. 1], parlando di Dio non si deve asserire se non quanto si trova detto esplicitamente nella sacra Scrittura. Ma in questa non si trova mai detto che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo sono di un'unica essenza. Quindi non lo si deve dire.
3. In Dio l'essenza e la natura sono la stessa cosa. Quindi basterebbe dire che le tre Persone sono di un'unica natura.
4. Non si suol dire che la persona è dell'essenza, ma piuttosto che l'essenza è della persona. Quindi non è neppure conveniente dire che le tre persone sono di un'unica essenza.
5. Secondo S. Agostino [De Trin. 7, 6] non usiamo dire che le tre Persone sono ex una essentia [cioè sono costituite a partire da un'unica essenza], affinché non si pensi che in Dio altra cosa sia l'essenza e altra la Persona. Ma come le preposizioni indicano un passaggio [e quindi una distinzione], così anche i casi obliqui. Quindi per lo stesso motivo non si può dire che le tre persone sono unius essentiae [di un'unica essenza].
6. Parlando di Dio non si deve dire ciò che può essere occasione di errore.
Ma quando si afferma che le tre Persone sono di una sola essenza o sostanza si dà occasione all'errore. Poiché, come fa osservare S. Ilario [De Synod. 68], "affermando che la sostanza del Padre e del Figlio è una si viene a dire o che c'è un solo sussistente con due nomi distinti, o che quell'unica sostanza fu divisa e con essa ne furono formate due imperfette, o che vi fu una sostanza primordiale che da due fu fatta propria e assunta".
Quindi non si può dire che le tre persone sono di un'unica sostanza.

In contrario: Secondo S. Agostino [Contra Maxim. 2, 14] il termine homousios, che fu stabilito nel Concilio Niceno contro gli Ariani, significa appunto che le tre Persone sono di un'unica essenza.

Rispondo: Il nostro intelletto, come è stato detto in precedenza [q. 13, a. 1, ad 2; a. 3], denomina le cose divine non secondo il loro modo di essere, perché così non le può conoscere, ma nel modo in cui le conosce attraverso le creature.
Ora, nelle creature sensibili, da cui l'intelletto umano trae le sue conoscenze, la natura di una data specie è individuata dalla materia: perciò la natura si presenta come forma, e l'individuo come supposito.
Per questo anche parlando delle realtà divine, se si considera il nostro modo di esprimerci, l'essenza si presenta come forma delle tre Persone. Ora, parlando delle creature, noi diciamo che una forma qualsiasi è del soggetto di cui è forma: come la salute o la bellezza di un dato uomo. Non diciamo invece che il soggetto a cui appartiene la forma è di quella forma senza l'aggiunta di qualche aggettivo qualificativo della forma stessa: così, p. es., diciamo: questa donna è di una bellezza singolare; quest'uomo è di una virtù consumata.
Analogamente dunque, anche nel parlare di Dio, per il fatto che abbiamo più persone e una sola essenza diciamo: una è l'essenza delle tre persone [trium Personarum], e: tre Persone di un'unica essenza [unius essentiae], prendendo tali genitivi come indicanti la forma.

Soluzione delle difficoltà: 1. In quel testo [di S. Ilario] sostanza sta per ipostasi, e non per essenza.
2. Sebbene nella Scrittura l'affermazione che le tre Persone sono di un'unica essenza non si trovi esplicitamente, vi si trova tuttavia quanto al senso: p. es. nei brani seguenti [Gv 10, 30]: "Io e il Padre siamo una cosa sola", e [Gv 10, 38; 14, 10]: "Io sono nel Padre e il Padre è in me".
E così in molti altri testi.
3. Natura indica piuttosto principio di operazione, essenza invece deriva da essere. Perciò si possono dire di un'unica natura tutte quelle cose che convengono nella medesima operazione: p. es. tutte le cose che riscaldano.
Invece non si possono dire di un'unica essenza se non quelle che hanno un unico essere. Quindi l'unità divina viene espressa meglio dicendo che le tre Persone sono di un'unica essenza piuttosto che col dire che sono di un'unica natura.
4. L'uso vuole che quando una forma [p. es. la virtù] non ha aggettivi per essere riferita al soggetto di cui è forma, sia accompagnata da questo in qualità di complemento di specificazione: p. es. la virtù di Pietro. Invece il soggetto non può essere riferito alla forma che gli appartiene costruendo questa come complemento di specificazione se non quando si vuole determinare in qualche modo, [con un aggettivo], la forma stessa.
Allora si richiedono due genitivi, dei quali uno indica la forma e l'altro la sua determinazione: p. es., Petrus est magnae virtutis [Pietro è di grande virtù].
Oppure si richiede un genitivo che vale per due genitivi: nella frase, p. es., vir sanguinum iste est [costui è un uomo sanguinario], sanguinum sta per multi sanguinis [di molto sangue].
Ora, poiché l'essenza divina funge da forma rispetto alle persone, è giusto parlare di essenza delle persone. Non sarebbe invece giusto il contrario, a meno che non si voglia determinare la voce essenza con un aggettivo: dicendo p. es. che il Padre è una persona di essenza divina, oppure che le tre Persone sono di un'unica essenza.
5. [In latino] le preposizioni ex o de non indicano un rapporto di causa formale, ma piuttosto di causa o efficiente o materiale. Cause queste che sono sempre distinte da ciò di cui sono causa: poiché nulla è causa materiale o efficiente di se stesso.
Alcuni esseri invece sono la loro stessa forma, come è evidente per tutti gli esseri immateriali.
Per cui quando diciamo: tre Persone di un'unica essenza, dando all'essenza il significato di forma, non stabiliamo una distinzione tra l'essenza e la persona; come invece accadrebbe se dicessimo: tre Persone costituite a partire da [ex] un'unica essenza.
6. Come dice lo stesso S. Ilario [De Synod. 85 s.], "si reca grave pregiudizio alle cose sante se le rigettiamo solo perché altri non le hanno riconosciute come tali.
Così se qualcuno fraintende il termine homousios, a me che importa, se io lo intendo rettamente?". "Diciamo dunque che la sostanza è una per la proprietà della natura generata, non già per divisione, o unione, o partecipazione" [ib. 71].

Articolo 3
Se i nomi essenziali si predichino al singolare delle tre Persone
Sembra che i nomi essenziali, come p. es. Dio, non si predichino delle tre Persone al singolare, ma al plurale. Infatti:
1. Come uomo significa avente l'umanità, così Dio significa avente la divinità. Ma le tre Persone sono tre aventi la divinità. Quindi si deve dire che le tre Persone sono tre dèi.
2. Nella Genesi [1, 1], dove si legge: "In principio Dio creò il cielo e la terra", il testo originale ebraico ha Elohim, che significa dèi o giudici. E si dice così a motivo della pluralità delle Persone. Quindi le tre Persone sono più dèi e non un solo Dio.
3. Il termine cosa usato da solo indica la sostanza. Ora, cosa viene posto al plurale parlando delle tre persone: infatti S. Agostino [De doctr. christ. 1, 5] dice: "Le cose di cui si deve godere sono il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo". Quindi anche gli altri nomi essenziali si possono attribuire al plurale alle tre Persone.
4. Come Dio significa un soggetto che ha la natura divina, così persona significa [in modo più generico] un sussistente di qualsiasi natura intellettuale. Ora, noi diciamo tre Persone, quindi, per lo stesso motivo, possiamo dire tre dèi.

In contrario: Sta scritto [Dt 6, 4]: "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo".

Rispondo: Fra i termini essenziali alcuni indicano l'essenza come sostantivi, altri invece come aggettivi.
I sostantivi si predicano delle tre Persone soltanto al singolare, e non al plurale; gli aggettivi invece si predicano di esse al plurale.
E questo perché i sostantivi indicano le cose come sostanze, gli aggettivi invece le esprimono come accidenti inerenti a un soggetto. Ora la sostanza, come di per sé ha l'essere, così di per sé sola è singolare o plurale. Quindi l'unità o la pluralità del sostantivo si desume dal concetto stesso espresso nel nome.
Gli accidenti invece, come hanno l'essere nel soggetto [a cui appartengono], così da esso ricevono la loro singolarità o pluralità: per cui la singolarità o la pluralità degli aggettivi dipende dal soggetto.
Ora, nelle creature non ci può essere una forma che sia unica per più suppositi, a meno che non si tratti di un'unità di aggregazione, p. es. della forma di una moltitudine organizzata.
Quindi i nomi che esprimono tale forma, se sono sostantivi, si predicano al singolare di più soggetti; non invece se sono aggettivi.
Quindi diciamo che molti uomini sono un collegio, o un esercito, o un popolo; diremo invece che molti uomini sono collegati.
Ora, quando parliamo di Dio, si è già osservato [a. prec.] che l'essenza divina viene denominata a modo di forma, forma semplice e massimamente una, come pure si è dimostrato [q. 3, a. 7; q. 11, a. 4].
Quindi i sostantivi che indicano l'essenza divina vengono attribuiti alle tre Persone al singolare e non al plurale.
Quindi la ragione per cui diciamo che Socrate e Platone e Cicerone sono tre uomini, mentre non diciamo che il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo sono tre dèi, ma un solo Dio, è questa: che in quei tre suppositi della natura umana vi sono tre nature umane, mentre nelle tre Persone divine vi è un'unica natura divina.
I termini essenziali che sono aggettivi si predicano invece al plurale delle tre [Persone], data la pluralità dei suppositi. Quindi diciamo tre esistenti, o tre sapienti, tre eterni, increati o immensi se questi termini sono presi come aggettivi. Se invece vengono presi come sostantivi, allora affermiamo "un unico increato, immenso ed eterno" come è detto nel simbolo atanasiano.

Soluzione delle difficoltà: 1. Quantunque Dio e avente la divinità significhino la stessa cosa, è però diverso il loro modo di esprimerla: poiché Dio è un sostantivo, mentre avente la divinità è un [participio che fa da] aggettivo. Quindi, sebbene vi siano tre aventi la divinità, non ne segue che vi siano tre dèi.
2. Le varie lingue hanno un diverso modo di esprimersi. Come dunque i Greci per la pluralità dei soggetti dicono tre ipostasi, così in ebraico si dice Elohim al plurale. Noi invece non usiamo dire al plurale né dèi né sostanze, affinché il plurale non ricada sulla natura [divina].
3. Il termine cosa è uno dei trascendentali. Per cui quando indica le relazioni divine viene usato al plurale; quando invece sta a indicare la sostanza divina si costruisce al singolare. Ed è per questo che S. Agostino nel passo riferito aggiunge che "la stessa Trinità è una cosa somma".
4. La forma indicata dal termine persona non è l'essenza o la natura, ma la personalità. Essendo quindi tre le personalità, ossia le proprietà personali, nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo, essa si predica dei tre al plurale e non al singolare.

Articolo 4
Se i nomi essenziali concreti possano designare le persone
Sembra che i nomi essenziali concreti non possano designare le persone, così da giustificare questa proposizione: Dio generò Dio. Infatti:
1. Come la logica insegna, per i sostantivi singolari è identico ciò che significano e ciò che designano. Ora, Dio è un nome singolare poiché, come si è detto [a. prec.], non può essere usato al plurale. E siccome significa l'essenza, sembra che designi l'essenza e non la persona.
2. Il predicato non restringe il soggetto mediante il proprio significato, ma solo mediante la propria forma verbale. Ora, nell'espressione Dio crea, Dio sta per l'essenza [divina]. Quindi anche nell'espressione Dio ha generato il termine Dio non può, a motivo del predicato nozionale [ha generato], designare la persona.
3. Se la proposizione Dio genera è vera perché il Padre genera, per l'identico motivo è vera anche quest'altra: Dio non genera, perché il Figlio non genera. E allora ci sarebbero due dèi, il Dio che genera e quello che non genera.
4. Se è vero che Dio genera Dio, o genera il Dio che è lui stesso o genera un altro Dio. Ma non genera se stesso: poiché, come dice S. Agostino [De Trin. 1, 1], "nessuna cosa genera se stessa". E neppure genera un altro Dio: perché non c'è che un Dio solo. Quindi è falso dire che Dio genera Dio.
5. Se [è vero che] Dio genera Dio, genera o quel Dio che è Dio Padre, o un Dio che non è Dio Padre. Se genera quel Dio che è Dio Padre, allora Dio Padre è generato. Se genera un Dio che non è Dio Padre, allora vi sarà un Dio che non è Dio Padre, il che è falso.
Quindi non si può dire: Dio genera Dio.

In contrario: Nel Simbolo Niceno si afferma: "Dio da Dio".

Rispondo: Alcuni ritengono che le voci Dio, e altre simili, di per sé stanno a designare l'essenza; se però ricevono l'aggiunta di una nozione possono anche designare le persone.
E pare che questa opinione sia nata dall'aver considerato soltanto la semplicità divina, la quale richiede che in Dio sia la stessa cosa il soggetto che possiede e ciò che esso possiede: tanto è vero che il soggetto che possiede la divinità, indicato dal nome Dio, è la stessa cosa che la divinità.
Ma per cogliere la proprietà delle espressioni bisogna considerare non solo ciò che esse significano, ma anche il loro modo di significarlo.
Ora, il termine Dio significa l'essenza divina come posseduta da un soggetto, allo stesso modo in cui uomo significa l'umanità posta in un soggetto: quindi altri, più giustamente, dissero che il termine Dio, appunto per il modo concreto di significare, serve propriamente a designare la persona, come anche il termine uomo.
Concludendo: il nome Dio alcune volte sta per l'essenza, come nell'espressione Dio crea: perché allora il soggetto può ricevere tale predicato in forza del proprio significato specifico, che è la divinità.
Altre volte invece designa le persone: o una sola, p. es. nell'espressione Dio genera; o due, come quando si dice che Dio spira; o tutte e tre, come in quel passo della Scrittura [1 Tm 1, 17]: "Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio [onore e gloria]".

Soluzione delle difficoltà: 1. Sebbene il termine Dio significhi come tutti i singolari un'unica forma non moltiplicata, tuttavia assomiglia ai nomi comuni in quanto la forma da esso significata si trova in più soggetti. Quindi non è necessario che stia sempre a designare l'essenza.
2. La difficoltà ha valore soltanto contro chi ritiene che il nome Dio non possa di per sé indicare la persona.
3. Nel designare la persona i due termini Dio e uomo si comportano in modo diverso. Infatti [la forma o] il concetto di umanità espresso dal termine uomo è realmente multiplo nei suoi diversi suppositi, per cui il termine [uomo] di per sé designa la persona anche senza altre determinazioni che servano a designare il suo supposito distinto.
Però l'unità o comunità della natura umana non esiste nella realtà delle cose, ma solo nel pensiero: per cui il termine uomo non designa la natura umana in generale a meno che ciò non risulti da qualche aggiunta, come nell'espressione: l'uomo è una specie.
Invece la divinità, che è la forma significata dal termine Dio, è insieme unica e comune nella realtà. Quindi questo termine di per sé designa esclusivamente la natura in generale, ma il contesto può far sì che esso stia a indicare le persone.
Quindi nell'espressione Dio genera, in forza dell'atto nozionale [generare] il termine Dio sta per la persona del Padre.
Invece nell'espressione Dio non genera nulla si aggiunge che determini il nome della persona del Figlio: quindi la frase può essere intesa nel senso che la generazione ripugna alla natura divina. Se però si aggiunge qualcosa che sia proprio della persona del Figlio, allora l'affermazione può essere vera: p. es. in questa frase: il Dio generato non genera.
Conseguentemente non si può neppure dire che c'è un Dio che genera e un Dio che non genera, a meno che non si aggiunga qualcosa che sia proprio delle due persone: come se, p. es., si dicesse: il Padre è il Dio che genera e il Figlio è il Dio che non genera.
E così non segue che vi siano più dèi: poiché, come si è detto [a. prec.], il Padre e il Figlio sono un solo Dio.
4. La proposizione il Padre genera se [stesso] è falsa, poiché il pronome sé, come riflessivo, fa ricadere l'azione sul soggetto medesimo.
Né può valere contro di ciò quel passo di S. Agostino [Ep. 170 ad Maxim.]: "Dio Padre genera un altro se stesso [alterum se]".
Infatti quel se o è un ablativo, e allora significa: genera un altro [distinto] da sé, oppure esprime un semplice riferimento, e allora sta a indicare l'identità di natura [tra Padre e Figlio]: per cui è una locuzione impropria ed enfatica per dire che genera un altro somigliantissimo a sé.
E anche quest'altra proposizione è falsa: genera un altro Dio. Poiché sebbene il Figlio sia un altro rispetto al Padre, come si è già spiegato [q. 31, a. 2], non si può tuttavia dire che sia un altro Dio: perché si lascerebbe intendere che l'aggettivo altro va riferito al sostantivo Dio: e allora si indicherebbe una diversità nella natura divina.
Alcuni però ammettono la proposizione genera un altro Dio, ma danno ad altro valore di sostantivo, mentre di Dio fanno una semplice apposizione.
Però questo è un modo di parlare improprio e va evitato, potendo essere occasione di errore.
5. La frase Dio genera un Dio che è Dio Padre è falsa: poiché Padre, formando un'apposizione col termine Dio, limita questo nome a designare la persona del Padre: in modo che si ha questo senso: genera un Dio che è lo stesso Padre: cosicché il Padre sarebbe generato, il che è falso.
Quindi è vero il contrario: che cioè Dio genera un Dio che non è Dio Padre.
Tuttavia se Padre fosse preso non come apposizione, ma come predicato di un'altra proposizione sottintesa, in modo da avere questo senso: genera un Dio che è quel Dio che è il Padre, allora l'affermativa sarebbe vera e la negativa falsa.
Ma questa è un'interpretazione un po' forzata.
Quindi è meglio rigettare senz'altro l'affermativa, e ammettere come vera la negativa.
Il Prevostino però sosteneva che tanto l'affermativa quanto la negativa sono false.
Poiché il pronome relativo che nell'affermativa può riferirsi semplicemente al supposito, ma nella negativa si riferisce anche alla natura, oltre che al supposito.
Quindi il senso dell'affermativa sarebbe che alla persona del Figlio conviene di essere il Padre.
E il senso della negativa che l'identità con Dio Padre va negata non soltanto alla persona del Figlio, ma anche alla sua divinità.
Ciò però appare irragionevole: poiché, come dice il Filosofo [Periherm. 6], la stessa cosa può essere oggetto di affermazione e di negazione.

Articolo 5
Se i nomi essenziali presi in astratto possano designare le persone
Sembra che i nomi essenziali presi in astratto possano designare le persone, in modo da giustificare questa proposizione: l'essenza genera l'essenza. Infatti:
1. S. Agostino [De Trin. 7, 2] dice: "Il Padre e il Figlio sono un'unica sapienza, poiché sono un'unica essenza; e considerati come distinti sono sapienza da sapienza, allo stesso modo in cui sono essenza da essenza".
2. All'atto della nostra generazione o del nostro disfacimento si genera o si distrugge quanto è in noi. Ma il Figlio è generato. Essendoci quindi in lui l'essenza divina, sembra che anch'essa venga generata.
3. Dio e la sua essenza, come si è detto [q. 3, a. 3], sono la stessa cosa. Ma si è anche spiegato [a. prec.] che la proposizione Dio genera Dio, è vera. Quindi è vera anche quest'altra: l'essenza genera l'essenza.
4. Qualsiasi predicato può servire a designare il soggetto a cui viene attribuito. Ma il Padre è l'essenza divina. Quindi l'essenza può designare la persona del Padre. Quindi l'essenza [divina] genera.
5. L'essenza è qualcosa che genera: poiché essa si identifica col Padre, il quale genera. Se dunque l'essenza divina non generasse, essa sarebbe qualcosa che nello stesso tempo genera e non genera: ma questo è inconcepibile.
6. Dice S. Agostino [De Trin. 4, 20] che "il Padre è il principio di tutta la divinità ". Ma non è principio se non in quanto genera e spira. Quindi il Padre genera e spira la divinità.

In contrario: Come fa osservare S. Agostino [De Trin. 1, 1], "nessuna cosa genera se stessa". Se dunque l'essenza generasse l'essenza, genererebbe se stessa: poiché in Dio non vi è nulla che si possa distinguere dall'essenza divina.
Quindi l'essenza non genera l'essenza.

Rispondo: Intorno a questo argomento cadde in errore l'abate Gioacchino [da Fiore] il quale, considerando che a motivo della sua semplicità Dio non è altro che l'essenza divina, sosteneva l'ortodossia di questa espressione: l'essenza genera l'essenza, messa alla pari di quest'altra: Dio genera Dio.
Ma in ciò egli si ingannava: poiché, come si è già fatto notare [a. prec.], affinché un'espressione corrisponda a verità non si deve guardare solo al significato, ma anche al modo di significare.
Ora, sebbene Dio e divinità realmente indichino la stessa cosa, non è però uguale il loro modo di esprimerla. Infatti il termine Dio indica l'essenza divina come esistente in un soggetto, e proprio per questo suo modo di esprimerla può normalmente designare la persona: quindi al termine Dio si può unire come predicato quanto è proprietà delle persone, e dire: Dio è generato, o Dio genera, come si è già spiegato [ib.].
Invece la voce essenza, per il suo modo di esprimere, non può designare la persona: poiché serve a indicare la divinità come forma astratta.
Quindi quanto è proprio delle persone e serve a distinguerle tra di loro non può essere attribuito all'essenza: poiché ricadrebbe sull'essenza la distinzione che c'è fra le persone.

Soluzione delle difficoltà: 1. Per esprimere più fortemente l'unità dell'essenza e delle persone talvolta i santi Dottori accentuarono le espressioni più di quanto lo avrebbe permesso la proprietà del linguaggio [teologico].
Quindi queste non devono essere generalizzate, ma debitamente spiegate, riducendo cioè gli astratti ai nomi concreti rispettivi, o anche ai nomi personali: quindi le espressioni essenza da essenza, oppure sapienza da sapienza vanno intese in questo senso: il Figlio, che è la stessa essenza e sapienza, è dal Padre, che è la stessa essenza e sapienza.
Tuttavia fra i nomi astratti si deve tener presente una certa gradazione: infatti quelli che descrivono gli atti [nozionali] sono più prossimi alle persone, poiché gli atti si riferiscono direttamente ai suppositi.
Quindi sono meno improprie le espressioni natura da natura, o sapienza da sapienza che non essenza da essenza.
2. Nelle creature il generato riceve una natura che è numericamente distinta da quella del generante, la quale perciò in lui comincia a esistere come cosa del tutto nuova all'atto della generazione, e cesserà di esistere con la distruzione: per cui viene generata e distrutta indirettamente.
Il Dio generato invece riceve numericamente quella stessa natura che ha il generante. Quindi la natura divina nel Figlio non viene generata, né direttamente né indirettamente.
3. Sebbene Dio e l'essenza divina siano la stessa e identica realtà tuttavia, dato il loro diverso modo di significarla, si deve parlare diversamente dell'uno e dell'altra.
4. A causa della semplicità divina l'essenza si predica del Padre e con lui si identifica. Ma da ciò non segue che essa possa designare il Padre, essendo diverso il modo di significare. L'argomento varrebbe invece per quei termini che vengono predicati l'uno dell'altro, come un universale del particolare.
5. Tra i sostantivi e gli aggettivi c'è questa differenza: che i primi portano con sé il proprio soggetto, non così invece gli aggettivi, i quali si limitano ad applicare il loro significato al sostantivo. Quindi la logica insegna che "i sostantivi designano il supposito, gli aggettivi invece non indicano un soggetto, ma vengono ad esso applicati".
Per questo i sostantivi personali si possono predicare dell'essenza, data la loro identità reale con essa; e non segue che le proprietà personali facciano ricadere sull'essenza le loro distinzioni, ma si applicano semplicemente al soggetto indicato dal sostantivo.
Gli aggettivi nozionali e personali invece non si possono predicare dell'essenza senza l'aggiunta di un sostantivo.
Quindi non possiamo dire: l'essenza è generante.
Possiamo dire tutt'al più che l'essenza è una realtà generante, o che è Dio generante, se realtà e Dio stanno a designare la persona e non l'essenza.
Quindi non c'è alcuna contraddizione nel dire simultaneamente: l'essenza è qualcosa che genera ed è qualcosa che non genera, poiché nella prima proposizione qualcosa designa la persona, nell'altra invece l'essenza.
6. La divinità, in quanto unica per più persone, ha una certa somiglianza con la forma di un nome collettivo. Quindi nell'espressione: il Padre è il principio di tutta la divinità, quest'ultima voce può essere presa per l'insieme delle tre Persone: in quanto cioè fra tutte le Persone divine egli è il principio. E con ciò non è necessario ammettere che sia anche il principio di se stesso: come quando si dice che un cittadino è il capo di tutto il popolo non si vuol dire che lo sia di se stesso.
Oppure [il Padre] può dirsi principio di tutta la divinità non perché generi o spiri la divinità, ma perché generando e spirando la comunica.

Articolo 6
Se le persone possano essere predicate dei nomi essenziali
Sembra che le persone non possano essere predicate dei nomi essenziali concreti, dicendo, p. es.: Dio è le tre Persone, oppure: Dio è la Trinità. Infatti:
1. È certamente falsa questa proposizione: un uomo è tutti gli uomini, non potendo verificarsi in alcun caso concreto: poiché né Socrate, né Platone, né chiunque altro è tutti gli uomini.
Quindi è falsa anche questa: Dio è la Trinità, non essendo vera di alcuna persona divina in particolare: poiché né il Padre, né il Figlio, né lo Spirito Santo sono la Trinità.
Quindi è falsa l'affermazione: Dio è la Trinità. 2. Un termine più ristretto o particolare non si predica di un termine più universale se non in qualità di predicato accidentale, come quando dico: l'animale è uomo; è infatti [soltanto] un caso particolare per l'animale di essere uomo. Ora il nome Dio, secondo il Damasceno [De fide orth. 3, 4], sta alle tre Persone come l'universale al termine particolare.
Quindi è evidente che le persone si possono predicare di Dio soltanto come predicato accidentale.

In contrario: S. Agostino [De fide cath., serm. 1] afferma: "Crediamo che l'unico Dio è un'unica Trinità di nome divino".

Rispondo: Come si è già detto [a. prec., ad 5], gli aggettivi nozionali e personali non possono essere predicati dell'essenza; lo possono invece i sostantivi, data l'identità che c'è tra l'essenza e la persona.
Ora, l'essenza divina si identifica non solo con una singola persona, ma anche con tutte e tre assieme.
Quindi si può predicare dell'essenza tanto una persona, come anche due o tre insieme: dicendo p. es. che l'essenza è il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo.
Ora, abbiamo già visto [a. 4, ad 3] che il nome Dio di per sé sta a designare l'essenza: perciò come è vero che l'essenza è le tre Persone, così è anche vero che Dio è le tre Persone.

Soluzione delle difficoltà: 1. Abbiamo già notato [ib.] che uomo di per sé sta a designare la persona, e solo in forza del contesto può designare anche la natura.
Quindi la proposizione: un uomo è tutti gli uomini è falsa, poiché non si può verificare in nessun caso. Invece il termine Dio di per sé serve a designare l'essenza.
Quindi, sebbene la proposizione Dio è la Trinità non sia vera di nessuna persona, è vera tuttavia per l'essenza [divina]. - Ed è perché non badò a questo aspetto che Gilberto Porretano [Comm. in 2 Boet. De Trin., ad Io. Diac.] la disse falsa.
2. Nella proposizione: Dio o l'essenza divina è il Padre, il predicato è identico al soggetto; e l'uno non sta all'altro come un termine particolare a quello universale, poiché in Dio non ci sono universali né particolari.
Come quindi è per se la proposizione: il Padre è Dio, così lo è anche quest'altra: Dio è il Padre.

Articolo 7
Se i nomi essenziali siano da appropriarsi alle Persone
Sembra che i nomi essenziali non siano da appropriarsi alle Persone. Infatti:
1. Parlando delle realtà divine si deve evitare quanto può essere occasione di errore contro la fede: poiché, secondo S. Girolamo [cf. P. Lomb., Sent. 4, 13, 2], "parlando con poca esattezza si cade nell'eresia". Ma se si appropria a una Persona ciò che è comune a tutte e tre, si potrebbe credere che ciò convenga a quella sola, o ad essa più che alle altre. Quindi gli attributi essenziali non vanno appropriati alle Persone.
2. Gli attributi essenziali, presi in astratto, sono indicati come altrettante forme. Ma una persona divina non si riferisce all'altra come una forma: poiché la forma e il soggetto di cui è forma non sono mai due suppositi distinti. Quindi gli attributi essenziali, specialmente se presi in astratto, non devono essere appropriati alle Persone.
3. Ciò che è proprio è anteriore a ciò che è appropriato, dato che serve a definirlo. Ora, gli attributi essenziali sono logicamente anteriori alle Persone, come ciò che è comune antecede ciò che è proprio. Quindi gli attributi essenziali non devono essere appropriati [alle Persone].

In contrario: L'Apostolo [1 Cor 1, 24] chiama "Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio".

Rispondo: Per illustrare i misteri della fede era conveniente che si appropriassero alle varie Persone gli attributi essenziali.
Sebbene infatti non si possa dimostrare, come si è detto [q. 32, a. 1], la Trinità delle Persone, tuttavia è utile portare dei chiarimenti mediante cose più note.
Ora, gli attributi essenziali sono più evidenti per la nostra ragione di ciò che riguarda le Persone: poiché alla conoscenza certa degli attributi essenziali noi possiamo giungere attraverso le creature, da cui inizia ogni nostro conoscere, mentre, come si è già dimostrato [ib., ad 1], non possiamo arrivare a [conoscere in questo modo] quanto è proprio delle Persone.
Come quindi per esporre la dottrina intorno alle Persone divine ci serviamo delle somiglianze riscontrate nelle creature, [che sono] vestigi o immagini [di Dio], così [ci possiamo servire] degli attributi essenziali. E questa manifestazione delle Persone divine mediante gli attributi essenziali viene detta appropriazione.
Ora, in due modi si possono manifestare le Persone divine mediante gli attributi essenziali.
Primo, partendo dalle somiglianze: così, p. es., tutto ciò che ha attinenza con l'intelletto viene appropriato al Figlio, il quale procede intellettualmente [dal Padre] come Verbo.
Secondo, partendo dalle dissomiglianze: p. es., al dire di S. Agostino [cf. Ugo di S. Vittore, De Sacram. 1, 2, 8], viene appropriata al Padre la potenza affinché non si creda che in Dio avvenga come tra noi, presso cui i padri per vecchiaia sono deboli e impotenti.

Soluzione delle difficoltà: 1. Nell'appropriare alle varie Persone gli attributi essenziali non si vuole asserire che essi siano esclusivi [di ciascuna di esse], ma solo [si vogliono] illustrare le Persone per via di somiglianza o di dissomiglianza, come si è spiegato [nel corpo].
Quindi non ne può seguire alcun errore, ma piuttosto la manifestazione della verità.
2. Se si facessero le appropriazioni in modo da fare degli attributi essenziali delle proprietà delle Persone, ne seguirebbe che una persona avrebbe rispetto all'altra la funzione di forma. Cosa che S. Agostino [De Trin. 7, 1] esclude là dove chiarisce che il Padre non è sapiente per la sapienza generata, come se solo il Figlio fosse la sapienza; e come se il Padre da solo non potesse essere detto sapiente senza il Figlio.
Il Figlio è detto invece sapienza del Padre perché è sapienza che deriva dalla sapienza del Padre.
Infatti tanto l'uno quanto l'altro sono sapienza per se stessi, e ambedue assieme sono un'unica sapienza.
Quindi il Padre non è sapiente in forza della sapienza che ha generato, ma per la sapienza che è la sua essenza [divina].
3. Gli attributi essenziali di per sé precedono l'idea di Persona nell'ordine logico del pensiero, ma se vengono considerati come appropriati possono anche essere posteriori agli attributi propri delle varie Persone. Così il colore è concepito come posteriore al corpo considerato come corpo; se però si considera il corpo come colorato, allora il bianco è concepito come anteriore al corpo bianco.

Articolo 8
Se gli attributi essenziali siano stati convenientemente appropriati alle varie Persone dai santi Dottori
Sembra che gli attributi essenziali non siano stati convenientemente appropriati alle persone dai santi Dottori. Infatti:
1. S. Ilario [De Trin. 2, 1] dice che "l'eternità è nel Padre, la specie [o bellezza] nell'Immagine, l'utilità nel Dono".
Ora, qui troviamo tre nomi propri delle Persone, cioè: quello di Padre, quello di Immagine, che è proprio del Figlio, come si è detto [q. 35, a. 2], e quello di Dono, riservato allo Spirito Santo, come si è spiegato [q. 38, a. 2].
Troviamo anche tre termini appropriati: poiché l'eternità viene appropriata al Padre, la specie al Figlio, l'utilità allo Spirito Santo. Ma questa appropriazione non sembra ragionevole.
Infatti l'eternità comporta durata nell'essere, la specie è principio dello stesso essere e l'uso o utilità sembra appartenere all'operazione. Ora, né l'essere né l'operazione sono mai stati appropriati a qualche Persona.
Quindi l'appropriazione di quegli attributi alle varie Persone non è esatta. 2. S. Agostino [De doctr. christ. 1, 5] afferma che "nel Padre c'è l'unità, nel Figlio l'uguaglianza, nello Spirito Santo la concordia dell'uguaglianza e dell'unità ".
Ciò però non sembra conveniente, poiché una persona non è denominata formalmente in base a ciò che è appropriato a un'altra: si è detto infatti [a. prec. ad 2; q. 37, a. 2, ob. 1] che il Padre non è detto sapiente per la sapienza generata.
Ora, come S. Agostino aggiunge nello stesso luogo, "le tre [persone] sono tutte e tre unità per il Padre, tutte e tre uguali per il Figlio e tutte e tre concordi per lo Spirito Santo". Non è dunque conveniente quell'appropriazione.
3. Secondo S. Agostino [cf. Ugo di S. Vittore, De Sacram. 1, 2, 6], al Padre va attribuita la potenza, al Figlio la sapienza e allo Spirito Santo la bontà.
Ciò però non sembra giusto.
Infatti la virtù [o forza] si identifica con la potenza. Ora, troviamo nella Scrittura [1 Cor 1, 24] che la virtù o è appropriata al Figlio, "Cristo potenza di Dio", o anche allo Spirito Santo, poiché sta scritto [Lc 6, 19]: "Da lui [cioè dal Verbo] usciva una virtù che guariva tutti". Quindi la potenza non va appropriata al Padre.
4. Sempre secondo S. Agostino [De Trin. 6, 10], "non si devono considerare senza ordine alcuno quelle espressioni dell'Apostolo 'da lui, per lui e in lui'": poiché egli dice da lui per indicare il Padre, per lui per indicare il Figlio, in lui per designare lo Spirito Santo". Ma ciò non sembra esatto.
Infatti l'espressione in lui pare stia a indicare un rapporto di causa finale: e questa è la prima fra tutte le cause. Quindi questo rapporto causale dovrebbe appropriarsi al Padre, che è il principio senza principio.
5. Al Figlio è appropriata la verità, secondo le parole evangeliche [Gv 14, 6]: "Io sono la via, la verità, la vita". E così pure gli si appropria il titolo di libro della vita, poiché l'espressione dei Salmi [39, 8]: "In capo al libro di me è scritto" così viene spiegata dalla Glossa [ord.]: "cioè presso il Padre, mio capo".
E gli è anche appropriata la formula Colui che è: spiegando infatti le parole [Is 65, 1 Vg]: "Eccomi alle genti", la Glossa [interlin.] aggiunge: "Qui parla il Figlio, il quale a Mosè disse: Io sono Colui che sono".
Ma sembra che queste locuzioni costituiscano dei termini propri per il Figlio e non dei termini appropriati. Infatti la verità, secondo S. Agostino [De vera relig. 36], è "la somma somiglianza col principio, senza ombra di dissomiglianza ": è perciò evidente che conviene come attributo personale al Figlio, che [in quanto tale] deve avere un principio. - Così pure l'espressione libro della vita sembra essere un qualcosa di proprio, indicando un essere che è derivato da un altro, giacché ogni libro è scritto da qualcuno. E anche la formula Colui che è pare che sia da riservarsi al Figlio.
Se infatti quando a Mosè fu detto: "Io sono colui che sono" avesse parlato la Trinità, Mosè avrebbe potuto dire: Colui che è Padre e Figlio e Spirito Santo mi ha mandato a voi. E quindi avrebbe anche potuto dire: Quella tale persona [ille] che è Padre e Figlio e Spirito Santo mi ha mandato a voi, indicando una persona determinata. Ma ciò è falso, poiché nessuna persona è Padre e Figlio e Spirito Santo.
Quindi [Colui che è] non indica tutta la Trinità, ma soltanto il Figlio.

Rispondo:Il nostro intelletto, che dalle creature è condotto come per mano fino alla conoscenza di Dio, segue necessariamente in questa conoscenza i medesimi procedimenti che gli sono familiari nello studio delle creature.
Ora, nella considerazione di una qualsiasi creatura ci si presentano successivamente quattro punti di vista.
Primo, si considera la cosa in maniera assoluta, cioè in quanto è un certo ente.
Secondo, si passa a considerarla in quanto è una.
Terzo, si prende in esame la sua capacità di agire e di causare.
Quarto, si studiano le sue relazioni con gli effetti.
Per cui queste quattro considerazioni ricompaiono anche nella nostra conoscenza delle realtà divine.
Dalla prima di queste considerazioni dunque, che consiste nel guardare Dio semplicemente nel suo essere, deriva l'appropriazione proposta da S. Ilario, secondo la quale al Padre viene appropriata l'eternità, la specie al Figlio e l'utilità allo Spirito Santo [cf. ob. 1]. Infatti l'eternità, significando un essere senza principio, ha una certa somiglianza con gli attributi personali del Padre, il quale è principio senza principio.
Invece la specie, ossia la bellezza, presenta una certa analogia con le particolarità personali del Figlio.
Per la bellezza infatti si richiedono tre doti.
In primo luogo l'integrità o perfezione: poiché le cose incomplete, proprio in quanto tali, sono deformi.
Poi [si richiede] la debita proporzione o armonia [tra le parti].
Finalmente la chiarezza o lo splendore: infatti diciamo belle le cose dai colori nitidi e splendenti.
Ora, la prima di queste doti presenta una certa somiglianza con quella proprietà personale del Figlio che consiste nell'avere in sé la natura del Padre in modo integrale e perfetto. E a ciò vuole accennare S. Agostino [De Trin. 6, 10] quando dice che "in lui", cioè nel Figlio, "c'è vita somma e perfetta".
La proporzione poi o armonia è affine alle proprietà del Figlio in quanto egli è l'immagine perfetta del Padre. Infatti diciamo che un'immagine è bella quando rappresenta perfettamente l'oggetto, anche se questo è deforme. E a questo aspetto accenna S. Agostino [l. cit.] con quelle parole: "in lui si trova la perfetta rassomiglianza e la somma uguaglianza".
La terza dote finalmente, [ossia lo splendore], ha affinità con le doti personali del Figlio poiché questi, in quanto Verbo, "è splendore e luce dell'intelletto", come dice il Damasceno [De fide orth. 1, 13]. E S. Agostino [De Trin. 6, 10] vi accenna quando dice: "come Verbo perfetto a cui nulla manca, e arte o sapienza di Dio onnipotente". L'utilità a sua volta presenta una certa affinità con le proprietà personali dello Spirito Santo, se però l'utilità [o usus] è presa in senso lato, in quanto abbraccia anche il godimento [fruitio]: in quanto cioè usare corrisponde ad "avere qualcosa a disposizione della propria volontà", e fruire, come dice S. Agostino [De Trin. 10, 11], corrisponde a "usare con gioia" di una cosa.
Quindi l'utilità, che corrisponde alla fruizione reciproca del Padre e del Figlio, è affine a quell'aspetto tutto personale dello Spirito Santo che è l'Amore. Ed è precisamente quanto dice S. Agostino [De Trin. 6, 10]: "Quella dilezione, compiacenza, felicità o beatitudine fu chiamata utilità da S. Ilario".
L'utilità invece che corrisponde alla nostra fruizione di Dio ha una certa somiglianza con l'altro aspetto proprio dello Spirito Santo, che ce lo fa considerare come Dono.-> Ed è ancora quanto insegna S. Agostino [ib.]: "C'è nella Trinità lo Spirito Santo, dolcezza del Padre e del Figlio, che con ingente larghezza e sovrabbondanza ci inebria".
È chiarito così perché l'eternità, la bellezza e l'utilità siano attribuite e appropriate alle persone, a differenza dell'essenza e dell'operazione.
In queste ultime infatti, essendo esse comuni alle tre Persone, non vi è nulla che abbia un rapporto di somiglianza con le proprietà particolari di una data persona.
La seconda considerazione da farsi nei riguardi di Dio consiste nel considerarlo come uno. E in questo senso S. Agostino appropria al Padre l'unità, al Figlio l'uguaglianza, allo Spirito Santo la concordia o connessione [cf. ob. 2]. È chiaro che tutte e tre queste cose implicano il concetto di unità, ma in modi diversi.
L'unità infatti lo implica per se stessa, senz'altro presupposto. E per questo viene appropriata al Padre, che non presuppone un'altra persona, essendo egli principio senza principio.
L'uguaglianza invece implica il concetto di unità in correlazione con un'altra cosa: poiché si dice uguale la cosa che ha la stessa quantità di un'altra. E per questo l'uguaglianza viene appropriata al Figlio, che è principio derivante da un principio.
La connessione poi implica l'unità esistente tra due cose. Quindi è appropriata allo Spirito Santo, che procede da due.
E da queste considerazioni si può intendere poi l'affermazione di S. Agostino che "le tre [persone] sono un'unità per il Padre, sono uguali per il Figlio, sono concordi o connesse per lo Spirito Santo".
È evidente infatti che ogni cosa viene attribuita [di preferenza] a quel principio nel quale anzitutto essa si trova: così, p. es., si dice che tutti i viventi inferiori vivono per l'anima vegetativa, essendo essa il loro primo principio vitale. Ora, l'unità si riscontra immediatamente nel Padre anche se, per impossibile, non esistessero le altre Persone. Quindi le altre due l'hanno da lui. - Tolte invece le altre Persone, non c'è nel Padre l'uguaglianza, ma essa sorge non appena si pone il Figlio.
Quindi le altre persone che vengono denominate uguali lo devono al Figlio. Non che il Figlio causi l'uguaglianza del Padre, ma perché se non ci fosse un Figlio uguale al Padre, il Padre non potrebbe essere detto uguale: poiché la sua uguaglianza viene considerata anzitutto in ordine al Figlio.
Infatti anche lo Spirito Santo, se può dirsi uguale al Padre, lo deve al Figlio. - Così pure, se si esclude lo Spirito Santo, che è il nesso tra i due, non si potrebbe intendere l'unità di connessione tra il Padre e il Figlio.
Per cui si dice che tutte le Persone sono connesse per lo Spirito Santo: perché solo dopo che si è posto lo Spirito Santo si vede come possano dirsi connessi il Padre e il Figlio.
Dalla terza considerazione invece, che consiste nel prendere in esame l'efficacia di Dio nel causare, si desume la terza appropriazione, quella cioè della potenza, della sapienza e della bontà [cf. ob. 3].
Tale appropriazione, se si bada a quanto di positivo si trova [in forza delle loro denominazioni: Padre, Figlio...] nelle Persone divine, viene fatta per via di somiglianza; se invece si bada a quanto di negativo [in forza di tali denominazioni] c'è nelle creature, allora è fatta per via di dissomiglianza. La potenza infatti presenta l'aspetto di principio. E per questo ha una certa affinità con il Padre celeste, che è il principio di tutta la divinità.-> Invece talora viene a mancare nel padre terreno, in conseguenza della vecchiaia.
La sapienza poi offre una somiglianza col Figlio celeste che, in quanto Verbo, non è altro che il concetto della sapienza. Ma talora viene a mancare nei figli terreni, per la loro tenera età.
La bontà infine, che è il movente e l'oggetto dell'amore, ha una certa analogia con lo Spirito divino, che è l'Amore.
Invece si presenta come elemento estraneo allo spirito terreno, in quanto questo implica l'idea di violenza e di urto, secondo le parole della Scrittura [Is 25, 4]: "Lo spirito dei prepotenti è come una procella che abbatte le muraglie".
Quanto alla virtù, essa è appropriata al Figlio e allo Spirito Santo non nel significato di potenza, ma in quello di effetto della potenza, come le imprese poderose di qualcuno sono dette sue virtù.
Stando finalmente alla quarta considerazione, che consiste nel prendere in esame i rapporti esistenti fra Dio e le realtà create, abbiamo l'appropriazione dei termini ex quo (dal quale), per quem (per il quale) e in quo (nel quale) [cf. ob. 4].
La preposizione ex infatti alcune volte indica un rapporto di causa materiale [ex = di], ma questa causa in Dio non può aver luogo.
Altre volte invece indica un rapporto di causa efficiente [ex = da]. Causalità questa che conviene a Dio a motivo della sua potenza attiva: quindi [l'espressione dal quale] viene appropriata al Padre come la potenza.
La preposizione per invece qualche volta designa una causa intermedia, come quando diciamo che il fabbro opera per il martello.
Allora il per non è un termine appropriato, ma addirittura proprio ed esclusivo del Figlio, secondo l'espressione evangelica [Gv 1, 3]: "Tutto è stato fatto per lui". Non perché il Figlio sia uno strumento, ma perché è un principio derivante da un principio.
Altre volte invece [il per] indica un rapporto con la forma che serve alla causa agente per operare, come quando diciamo che l'artefice opera per la sua arte. E in questo senso il per quem viene appropriato al Figlio allo stesso modo della sapienza e dell'arte.
La preposizione in, infine, indica propriamente un rapporto di contenenza.
Ora, Dio contiene le cose in due modi.
Primo, per le loro idee o immagini rappresentative, cioè in quanto esse sono in Dio come oggetto della sua scienza. E allora l'espressione in lui andrebbe appropriata al Figlio.
Secondo, in quanto egli con la sua bontà le conserva e col suo governo le fa giungere al loro fine. E in questo caso l'espressione nel quale va appropriata allo Spirito Santo, come la bontà.
E non è necessario che il rapporto di causa finale, la prima fra tutte le cause, sia appropriato al Padre, che è il principio senza principio: poiché le Persone divine, di cui il Padre è principio, non procedono da lui come tendenti a un fine, essendo ognuna di esse l'ultimo fine, ma per processione naturale, che è piuttosto rispondente all'attributo essenziale della potenza.
Quanto poi alle altre attribuzioni di cui parlano le difficoltà [cf. ob. 5], rispondiamo che la verità, come si è detto altrove [q. 16, a. 1], per la sua connessione con l'intelletto è un termine appropriato al Figlio, ma non ne è un termine proprio.
La verità infatti può essere considerata, secondo le osservazioni già fatte [ib.], come è nell'intelletto [verità logica e di conoscenza] o come è nelle cose [verità ontologica].
Come dunque [parlando di Dio] intelletto e cosa sono termini che di per sé si riferiscono all'essenza e non alle Persone, così è anche per la verità. - Ora, S. Agostino nella definizione riferita ha di mira la verità in quanto è appropriata al Figlio.
Per quanto riguarda il libro della vita, notiamo che direttamente esso implica l'idea di conoscenza e indirettamente quella di vita: poiché, come si è detto [q. 24, a. 1], esso è la conoscenza che Dio ha di coloro che giungeranno alla vita eterna. Quindi va appropriato al Figlio, sebbene la vita venga appropriata allo Spirito Santo, in quanto include il concetto di moto interiore, che ha una certa affinità con ciò che è proprio dello Spirito Santo, cioè con l'Amore.
Che poi il libro sia scritto da qualcuno non conviene al libro come libro, ma solo come prodotto dell'arte. Quindi esso non comporta di per sé origine e non è un attributo personale, ma solo appropriato a una Persona.
Infine l'espressione Qui est (Colui che è) non viene appropriata al Figlio di per sé, ma per delle considerazioni occasionali: in quanto cioè in quelle parole dette da Dio a Mosè era prefigurata la liberazione del genere umano che fu poi operata dal Figlio.
Tuttavia, se il Qui [Colui che] viene preso come relativo, potrebbe anche essere riferito alla persona del Figlio, e allora significherebbe la persona: nella frase, p. es., il Figlio è il Qui est generato, il relativo è un termine personale, come Dio generato. Preso però senza determinazioni [Qui est] è un appellativo essenziale.
E quantunque il pronome determinativo questi [iste], grammaticalmente parlando, sembri riferirsi a una determinata persona, tuttavia si osservi che qualunque cosa indicabile in particolare può essere grammaticalmente chiamata persona, sebbene non lo sia nella realtà. Diciamo infatti questa pietra, questo asino. Quindi, grammaticalmente parlando, l'essenza divina medesima, significata e designata dal nome Dio, può essere indicata col pronome dimostrativo questi [iste], come appare nella Scrittura [Es 15, 2]: "Questi è il mio Dio e lo glorificherò".




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Parte 9:




LE PERSONE IN RAPPORTO ALLE RELAZIONI O PROPRIETÀ

Passiamo ora a trattare delle persone in rapporto alle relazioni o proprietà [cf. q. 39, Prol.].
Si pongono quattro quesiti:
1. Se le relazioni e le persone siano la stessa cosa;
2. Se le relazioni distinguano e costituiscano le persone;
3. Se, eliminate mentalmente le relazioni dalle persone, le ipostasi restino distinte;
4. Se le relazioni presuppongano concettualmente gli atti delle persone, o viceversa.

Articolo 1
Se in Dio le relazioni e le persone siano la stessa cosa
Sembra che in Dio le relazioni e le persone non siano la stessa cosa. Infatti:
1. Quando due cose sono identiche, moltiplicata l'una viene moltiplicata anche l'altra. Ora invece capita che nella stessa persona divina vi siano più relazioni: nella persona del Padre, p. es., c'è la paternità e la spirazione; oppure avviene che un'unica relazione si trovi in due diverse persone, come la comune spirazione si trova nel Padre e nel Figlio. Quindi la relazione non può identificarsi con la persona.
2. Al dire del Filosofo [Phys. 4, 3] nessuna cosa può essere in se stessa. Ma le relazioni sono nelle persone. E non si può dire che ciò avvenga in forza dell'identità: perché allora sarebbero anche nell'essenza. Quindi le relazioni o proprietà in Dio non si identificano con le persone.
3. Trattandosi di cose identiche, ciò che si predica di una si può predicare anche dell'altra. Ma non tutto ciò che si dice delle persone può dirsi delle proprietà. Diciamo infatti che il Padre genera, ma non diciamo che la paternità è generante. Perciò in Dio le proprietà non si identificano con le persone.

In contrario: Come fa osservare Boezio [De hebdom. 7], in Dio non differiscono il quod est [il soggetto] e il quo est [la forma]. Ora, il Padre è Padre in forza della [forma] della paternità. Quindi il Padre si identifica con la paternità. E per lo stesso motivo anche le altre relazioni si identificano con le persone corrispondenti.

Rispondo: Su questo argomento vi furono diverse opinioni.
Alcuni dissero che le proprietà non sono le persone e neppure si trovano nelle persone. E furono a ciò indotti dal modo di significare proprio delle relazioni, le quali esprimono il loro significato non come qualcosa di inerente a un soggetto, ma come qualcosa che si riferisce a un termine. Per cui, come si è visto [q. 28, a. 2], le dissero assistenti [o contigue].
Ora invece le relazioni si identificano necessariamente con le persone: poiché le relazioni reali sono la stessa essenza divina, la quale a sua volta si identifica con le persone, come si è già spiegato [q. 39, a. 1].
Altri dunque, badando a questa identità, dissero che le proprietà corrispondono indubbiamente alle persone, però non sarebbero nelle persone: poiché, come si è visto [q. 32, a. 2], essi non ammettevano le proprietà in Dio se non come nostri modi di dire. - Ora invece è necessario ammettere le proprietà in Dio, come si è già detto [ib.]. Proprietà che in astratto si indicano come certe forme delle persone. Ma le forme si trovano nel soggetto di cui sono forme: quindi si deve dire che le proprietà sono nelle persone, e ciò nondimeno sono le persone: allo stesso modo in cui diciamo che l'essenza divina è in Dio, eppure è Dio medesimo.

Soluzione delle difficoltà: 1. Le persone e le proprietà sono in realtà la stessa cosa, ma differiscono concettualmente: quindi non ne segue che moltiplicando le une si moltiplichino anche le altre.
Si deve però badare che, data la semplicità divina, c'è in Dio una doppia identità reale rispetto a quelle cose che nelle creature differiscono realmente.
Dato infatti che la semplicità divina esclude la composizione di forma e materia, ne segue che in Dio l'astratto è identico al concreto: p. es. la divinità è Dio
. In quanto poi la semplicità divina esclude la composizione di soggetto e di accidenti, ne segue che qualsiasi attributo di Dio è la sua essenza: quindi la sapienza e la potenza, in Dio, sono la stessa cosa, essendo tutte e due nell'essenza divina. E secondo queste due specie di identificazione le proprietà in Dio si identificano con le persone.
Infatti le proprietà personali si identificano con le persone per lo stesso motivo per cui l'astratto si identifica con il concreto. Sono infatti le stesse persone sussistenti: la paternità è il Padre, la filiazione il Figlio, la spirazione lo Spirito Santo.
Invece le proprietà non personali si identificano con le persone secondo l'altro modo di identificazione, in forza della quale tutto ciò che viene attribuito a Dio è la sua stessa essenza. E in tal modo la spirazione comune è tutt'uno con la persona del Padre e con la persona del Figlio: non perché sia una persona per sé sussistente ma perché, secondo quanto si è detto [q. 30, a. 2], come unica è l'essenza delle due persone, così unica è la proprietà.
2. Si dice che le proprietà sono nell'essenza perché si identificano con essa.
Si dice invece che sono nelle persone non soltanto perché si identificano realmente con esse, ma anche per il loro significato particolare di forme esistenti in un soggetto. E così le proprietà determinano e distinguono le persone, ma non l'essenza.
3. I participi e i verbi nozionali significano gli atti nozionali. Ma gli atti appartengono ai suppositi, mentre le proprietà non hanno il significato di suppositi, ma di forme dei suppositi. Quindi il loro significato particolare impedisce che i participi e i verbi nozionali vengano attribuiti alle proprietà.

Articolo 2
Se le persone si distinguano per le relazioni
Sembra che le persone non si distinguano per le relazioni. Infatti:
1. Le cose semplici si distinguono per se stesse.
Ma le persone divine sono massimamente semplici. Quindi si distinguono per se stesse, e non per le relazioni.
2. Le forme si distinguono tra loro soltanto secondo il loro genere: come il bianco non si può distinguere dal nero se non secondo la qualità. Ma l'ipostasi significa un individuo nel genere della sostanza. Quindi le ipostasi divine non possono distinguersi per le relazioni.
3. L'assoluto è prima del relativo. Ma la distinzione delle divine persone è prima di ogni altra distinzione. Quindi esse non possono distinguersi per le relazioni.
4. Ciò che suppone una distinzione non può essere il primo principio di distinzione.
Ma la relazione suppone una distinzione, essendo questa inclusa nella sua definizione: infatti l'essenza di ciò che è relativo consiste "nell'essere riferito a un'altra cosa". Quindi il primo principio di distinzione in Dio non può essere la relazione.

In contrario: Boezio [De Trin. 6] afferma che "la sola relazione determina la Trinità" delle Persone divine.

Rispondo: Quando più cose formano un'unità, è necessario che vi sia un elemento che le distingua. Ma le tre persone formano un'unità di essenza, quindi bisogna trovare qualcosa per cui esse possano distinguersi numericamente fra di loro.
Ora, si possono rilevare nelle persone divine due princìpi di distinzione, cioè le origini e le relazioni.
Queste poi non differiscono realmente tra loro, ma differiscono per il loro modo particolare di significare: infatti l'origine sta a indicare un atto, p. es. la generazione, mentre la relazione sta a indicare una forma, p. es. la paternità.
Per questo alcuni, considerando che le relazioni dipendono dagli atti, sostennero che in Dio le ipostasi si distinguono per le origini, sicché dovremmo dire che il Padre si distingue dal Figlio perché quegli genera e questi è generato. Quindi le relazioni o proprietà indicherebbero soltanto indirettamente la distinzione delle ipostasi o persone: come nelle creature le proprietà manifestano la distinzione delle singole cose, che invece dipende dalla loro causa materiale.
Ma ciò non può essere ammesso per due motivi.
Primo, perché a far sì che due cose possano apparire distinte è necessario scorgere la loro distinzione in dipendenza da qualcosa di intrinseco: p. es. dalla materia o dalla forma, trattandosi di realtà create. Ora, l'origine non significa qualcosa di intrinseco, ma un passaggio da una cosa a un'altra: così la generazione si presenta come una via che parte dal generante e termina nel generato.
Quindi non è possibile che il generato e il generante si distinguano soltanto per la generazione, ma bisogna scorgere tanto nell'uno quanto nell'altro qualcosa di anteriore per cui essi si distinguono tra loro. Ora, nelle persone divine non troviamo altro che l'essenza e le relazioni, o proprietà.
Ma siccome l'essenza è identica, le persone non possono distinguersi altro che per le relazioni.
Secondo, perché la distinzione tra le persone divine non va intesa come una divisione di qualcosa ad esse comune, dato che l'essenza, che è loro comune, resta indivisa, ma è necessario che gli stessi princìpi che le distinguono le costituiscano anche come entità distinte. E in questo modo appunto le relazioni o proprietà distinguono e costituiscono le Persone o ipostasi, in quanto sono le stesse persone sussistenti: così la paternità è il Padre e la filiazione è il Figlio, non essendoci in Dio differenza fra astratto e concreto.
Invece ripugna al concetto stesso di origine costituire l'ipostasi o la persona. Poiché l'origine, all'attivo, ha il significato di atto che procede da una persona sussistente, e quindi presuppone la persona; l'origine al passivo invece, p. es. la nascita, sta a indicare una persona sussistente in divenire, e quindi non la costituisce.
Perciò è più giusto dire che le persone o ipostasi, anziché dalle origini, sono distinte dalle relazioni.
Sebbene infatti si distinguano in tutti e due i modi, tuttavia secondo la nostra maniera di intendere si distinguono prima di tutto e principalmente per le relazioni.
Quindi il nome Padre non significa soltanto la proprietà, ma anche l'ipostasi: invece il termine Genitore o Generante esprime soltanto la proprietà. Padre infatti significa la relazione che distingue e costituisce l'ipostasi, mentre Generante o Generato significa l'origine, che non distingue e non costituisce l'ipostasi.

Soluzione delle difficoltà: 1. Le persone sono le stesse relazioni sussistenti. Quindi non ripugna alla semplicità delle persone divine l'essere distinte dalle relazioni.
2. Le persone divine non si distinguono tra loro nell'essere sostanziale, né in qualche altro attributo assoluto, ma solo per il rapporto reciproco. Quindi per distinguerle basta la relazione.
3. Quanto più una distinzione è primordiale, tanto più è vicina all'unità.
Quindi deve essere la minima. E così la distinzione delle Persone divine non può essere se non per ciò che distingue in grado minimo, cioè per la relazione.
4. La relazione, quando è un accidente, presuppone certamente la distinzione dei soggetti; quando però è sussistente non presuppone, ma implica essa stessa tale distinzione. Quando infatti si dice che l'essenza del relativo consiste nel riferirsi ad altro, altro designa il correlativo, che non è anteriore, ma simultaneo per natura.

Articolo 3
Se facendo astrazione dalle relazioni le persone possano ancora essere concepite come ipostasi
Sembra che facendo astrazione dalle relazioni le persone possano ancora essere concepite come ipostasi. Infatti:
1. L'idea inclusa in un'altra idea che le aggiunge [una differenza specifica] può essere concepita anche eliminando questa aggiunta: come uomo aggiunge una differenza ad animale, e si può concepire l'animale anche se si elimina l'aggiunta razionale.
Ora, la persona è un'aggiunta fatta al concetto di ipostasi: essa infatti è "un'ipostasi distinta da una proprietà che esprime dignità". Togliendo quindi dalla persona questa proprietà personale, resta ancora l'ipostasi.
2. Ciò che dà al Padre di essere Padre è diverso da ciò che gli dà di essere qualcuno.
Infatti egli è Padre in forza della paternità: se dunque questa gli desse anche di essere qualcuno, il Figlio che non ha la paternità non sarebbe qualcuno. Tolta quindi mentalmente dal Padre la paternità, egli rimane ancora qualcuno: cioè rimane l'ipostasi. Quindi, pur eliminando le proprietà dalle persone, rimangono tuttavia le ipostasi.
3. S. Agostino [De Trin. 5, 6] insegna: "Dire ingenito non è lo stesso che dire Padre: perché anche se egli non avesse generato il Figlio, nulla vieterebbe di dirlo ancora ingenito". Ma se non avesse generato il Figlio non avrebbe la paternità.
Quindi, anche se togliamo questa, rimane tuttavia l'ipostasi del Padre come non generata.

In contrario: S. Ilario [De Trin. 4, 10] afferma: "Il Figlio non ha in proprio altra cosa che l'essere nato". Ma egli è Figlio in forza della nascita. Tolta quindi la filiazione, non rimane l'ipostasi del Figlio. E lo stesso si dica delle altre persone.

Rispondo: Esiste una duplice astrazione [o separazione] mentale.
Una è quella con cui si astrae l'universale dal particolare, p. es. animale da uomo. L'altra invece è quella con cui si astrae la forma dalla materia: come p. es. si astrae la figura del cerchio dalla materia sensibile.
Tra queste due astrazioni c'è però questa differenza, che nella prima, in cui si astrae l'universale dal particolare, non rimane [nella mente] ciò da cui fu astratto l'universale: tolta infatti dall'uomo la razionalità non resta più nella mente il concetto di uomo, ma soltanto quello di animale.
Invece nell'astrazione [formale], che separa la forma dalla materia, l'una e l'altra rimangono [separatamente] nell'intelletto: astraendo infatti la forma del cerchio dal bronzo, restano nel nostro intelletto separatamente il concetto di cerchio e quello di bronzo.
Ora, in Dio non c'è realmente né l'universale né il particolare, né la forma né il soggetto; tuttavia, se si bada al nostro modo di esprimere la realtà divina, vi si trova qualcosa di simile: e in questo senso il Damasceno [De fide orth. 3, 6] afferma che "la sostanza è universale, l'ipostasi invece particolare".
Se dunque parliamo dell'astrazione [totale], con cui si astrae l'universale dal particolare, tolte le proprietà [o relazioni] resta l'essenza comune [alle tre persone divine], non però l'ipostasi del Padre, che figura come particolare.
Se invece parliamo dell'astrazione [formale], che astrae la forma dalla materia, allora togliendo le proprietà non personali rimane il concetto delle ipostasi e delle persone: togliendo p. es. dal Padre l'idea di non generato e di spiratore, rimane il concetto di ipostasi o di persona del Padre.
Se però eliminiamo mentalmente le proprietà personali non si salva il concetto di ipostasi.
Infatti le proprietà personali non sono da concepirsi come qualcosa di sopraggiunto alle ipostasi, alla maniera di una forma che si aggiunge a un soggetto preesistente, ma implicano esse stesse il proprio soggetto [o ipostasi], in quanto sono tutt'uno con le persone sussistenti: come la paternità è lo stesso Padre.
Le ipostasi infatti stanno a indicare qualcosa di distinto in Dio, poiché l'ipostasi è una sostanza individuale. Ora, siccome proprio la relazione costituisce e distingue le ipostasi, come si è detto [a. prec.], ne segue che tolte mentalmente le proprietà personali non rimangono più le ipostasi.
Però, come si è visto [ib.], alcuni pensano che le ipotesi in Dio non vengano distinte dalle relazioni, ma solo dalle origini: così il Padre sarebbe un'ipostasi per il fatto che non è da altri, e il Figlio perché è da altri per generazione.
Le relazioni poi, che verrebbero ad aggiungersi come proprietà apportatrici di dignità, costituirebbero la ragione di persona, e appunto per questo sarebbero chiamate personalità.
Tolte quindi mentalmente queste relazioni resterebbero le ipostasi, ma non le persone.
Ma ciò non può essere, per due motivi.
Primo perché, come si è spiegato [ib.], sono le relazioni che distinguono e costituiscono le ipostasi.
Secondo, perché ogni ipostasi di natura razionale è persona, come si vede dalla definizione che Boezio [De duab. nat. 3] dà della persona: "una sostanza individuale di natura razionale".
Perché quindi si possa dare un'ipostasi che non sia persona bisognerebbe togliere la razionalità dalla natura, non già la proprietà dalla persona.

Soluzione delle difficoltà: 1. La persona non aggiunge all'ipostasi una proprietà che distingue assolutamente, ma che "distingue esprimendo dignità": poiché tutta l'espressione non indica che un'unica differenza.
Ora, la proprietà che distingue riveste dignità in quanto sta a designare un sussistente di natura razionale. Togliendo quindi dalla persona la proprietà atta a distinguere non rimane neppure l'ipostasi; questa invece rimane se si toglie la razionalità dalla natura.
Infatti tanto la persona quanto l'ipostasi sono la sostanza individuale: per cui in Dio la relazione distintiva rientra nel concetto dell'una e dell'altra.
2. Il Padre in forza della paternità non solo è Padre, ma è anche persona ed è qualcuno, ossia ipostasi. Non ne segue tuttavia che il Figlio non sia qualcuno, ossia un'ipostasi, come non segue che non sia una persona.
3. S. Agostino non intende dire che tolta la paternità rimanga l'ipostasi del Padre come non generata, quasi che l'innascibilità costituisca e distingua l'ipostasi del Padre: infatti ciò non può essere poiché, come egli stesso fa osservare [l. cit.], ingenito non afferma nulla, ma nega soltanto.
La sua è invece un'espressione generica, poiché non ogni ingenito è necessariamente Padre.
Eliminata dunque la paternità non rimane in Dio l'ipostasi del Padre come distinta dalle altre persone, ma solo come distinta dalle creature nel senso inteso dai Giudei.

Articolo 4
Se gli atti nozionali siano presupposti alle proprietà
Sembra che gli atti nozionali siano presupposti alle proprietà [personali]. Infatti:
1. Il Maestro delle Sentenze [1, 27] dice che il "Padre è sempre Padre, perché sempre genera il Figlio". Quindi sembra che la paternità concettualmente presupponga la generazione.
2. Ogni relazione presuppone ciò su cui si fonda: come l'uguaglianza presuppone la quantità. Ma la paternità è una relazione fondata sopra l'atto della generazione. Quindi la paternità presuppone la generazione.
3. La nascita sta alla filiazione come la generazione attiva sta alla paternità. Ma la filiazione presuppone la nascita: poiché il Figlio è Figlio in quanto è nato. Quindi anche la paternità presuppone la generazione.

In contrario: La generazione è un'operazione della persona del Padre. Ma la paternità costituisce la persona del Padre. Quindi la paternità concettualmente precede la generazione.

Rispondo: Secondo l'opinione di coloro i quali sostengono che le proprietà non distinguono e non costituiscono le ipostasi, ma servono soltanto a manifestarle già distinte e costituite, si dovrebbe senz'altro dire che le relazioni, stando al nostro modo di intendere, presuppongono gli atti nozionali, per cui sarebbe giustificata questa espressione: è Padre perché genera.
Partendo invece dal presupposto che in Dio le relazioni differenziano e costituiscono le ipostasi, allora bisogna distinguere.
Poiché nella Trinità l'origine può essere indicata all'attivo o al passivo: all'attivo, p. es., è indicata la generazione attribuita al Padre e la spirazione che, presa come atto nozionale, viene attribuita al Padre e al Figlio; al passivo invece [viene indicata] la nascita attribuita al Figlio e la processione dello Spirito Santo.
Ciò posto, senza dubbio le origini indicate al passivo precedono concettualmente le proprietà anche personali delle Persone procedenti: poiché l'origine al passivo sta a indicare il processo per giungere alla persona costituita dalla proprietà.
E similmente anche l'origine all'attivo è concettualmente anteriore alla relazione non personale della persona originante: l'atto nozionale di spirazione, p. es., è concettualmente anteriore alla corrispondente proprietà relativa, senza nome, comune al Padre e al Figlio.
La proprietà personale del Padre può essere invece considerata in due modi.
Primo, come relazione: e presa così presuppone ancora una volta l'atto nozionale, poiché la relazione, in quanto relazione, si fonda sull'atto.
Secondo, come costitutiva della persona: e allora è necessario che l'atto nozionale presupponga la relazione, come l'azione presuppone la persona che la compie.

Soluzione delle difficoltà: 1. Nell'espressione del Maestro delle Sentenze: "è Padre perché genera" il termine Padre è usato soltanto in quanto dice relazione, non in quanto significa la persona sussistente. In questo caso infatti bisognerebbe dire il contrario, che cioè genera perché è Padre.
2. L'obiezione ha valore se la paternità è considerata solo come relazione, e non come costitutiva della persona.
3. La nascita sta a indicare il processo per giungere alla persona del Figlio, per cui concettualmente essa precede la filiazione, anche se prendiamo quest'ultima come costitutiva della persona del Figlio.
Invece la generazione attiva sta a indicare il processo che deriva dalla persona del Padre, e quindi presuppone la proprietà personale del Padre.




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Parte 10:




LE PERSONE IN RAPPORTO AGLI ATTI NOZIONALI

Continuando l'esposizione, tratteremo delle persone in rapporto agli atti nozionali [cf. q. 39, Prol.].
A questo riguardo si pongono sei quesiti:
1. Se alle persone vadano attribuiti degli atti nozionali;
2. Se questi atti siano necessari o volontari;
3. Se in forza di tali atti le persone procedano dal nulla o da qualcosa;
4. Se si debba porre in Dio una potenza relativa agli atti nozionali;
5. Che cosa significhi questa potenza;
6. Se gli atti nozionali possano dare origine a più persone.

Articolo 1
Se alle persone vadano attribuiti degli atti nozionali
Sembra che alle persone non vadano attribuiti degli atti nozionali. Infatti:
1. Insegna Boezio [De Trin. 4] che "tutti i predicamenti, eccetto la relazione, quando vengono trasportati in Dio si immedesimano con la sostanza divina". Ora, l'azione è uno dei dieci predicamenti. Se dunque viene attribuita a Dio deve appartenere all'essenza, non alle nozioni.
2. S. Agostino [De Trin. 5, cc. 4, 5] fa osservare che tutto ciò che viene attribuito a Dio gli viene attribuito o come sostanza o come relazione. Ora, ciò che riguarda la sostanza è indicato con gli attributi essenziali, ciò che invece riguarda le relazioni viene significato con i nomi delle persone e delle proprietà. Quindi, oltre a queste, non vanno attribuiti alle persone gli atti nozionali.
3. L'azione implica sempre la passione come suo corrispettivo. Ma in Dio non si possono ammettere delle passioni. Quindi in lui non si devono ammettere neppure degli atti nozionali.

In contrario: Dice S. Agostino [De fide ad Petrum 2]: "È proprio del Padre generare il Figlio". Ma la generazione è un atto. Quindi in Dio si devono ammettere degli atti nozionali.

Rispondo: Tra le persone divine la distinzione deriva dalle origini. Ma queste non possono essere designate convenientemente se non mediante alcuni atti.
Quindi per indicare in Dio le relazioni di origine fu necessario attribuire alle persone degli atti nozionali.

Soluzione delle difficoltà: 1. L'origine è sempre indicata da un atto.
Ora, a Dio si può attribuire una duplice relazione di origine.
La prima è quella che viene determinata dalla produzione delle creature: e questa è comune a tutte e tre le persone. Per questo le azioni che vengono attribuite a Dio per indicare la derivazione delle creature appartengono all'essenza.
Invece l'altra relazione di origine che troviamo nella divinità viene desunta dalla derivazione di una persona da un'altra. Per cui gli atti o azioni che indicano questi rapporti di origine sono detti nozionali: poiché, come si è visto [q. 32, a. 2], le nozioni non sono altro che i mutui rapporti delle persone.
2. Gli atti nozionali differiscono dalle relazioni delle persone soltanto per il diverso modo di significare, ma in realtà sono la stessa cosa. Tanto è vero che il Maestro delle Sentenze [1, 26] può dire che la generazione e la nascita "sono chiamate con altri termini paternità e filiazione".
Ora, per bene intendere queste affermazioni si deve tener presente che noi cominciamo a conoscere l'origine di una cosa da un'altra in base al moto. Se infatti una cosa viene tolta dalla sua disposizione naturale mediante il moto, è chiaro che ciò proviene da qualche causa.-> E così l'azione, secondo il significato originario del termine, sta a indicare l'origine del moto: infatti il moto che si riscontra in un soggetto mosso da un altro viene detto passione; l'origine invece di tale moto, in quanto parte da un principio e termina nel soggetto che viene mosso, viene detta azione. Per cui, tolto il moto, l'azione non implica se non il rapporto di origine, cioè il procedere da una causa o principio verso ciò che ne deriva.
Quindi, non essendovi in Dio alcun moto, l'azione propria della persona che produce la persona non è altro che il rapporto di principio con la persona che ne deriva. E questi rapporti non sono altro che le stesse relazioni o nozioni. Ma di Dio e delle cose puramente intelligibili noi non possiamo parlare se non alla maniera di quelle sensibili, da cui derivano le nostre conoscenze, e nelle quali le azioni e le passioni, in quanto comportano un moto, sono distinte dalle relazioni che da esse sorgono: perciò fu necessario significare questi rapporti delle persone separatamente, come atti e come relazioni. E così risulta chiaro che [gli atti nozionali e le relazioni] sono in realtà la stessa cosa, differendo soltanto nel modo di significare.
3. L'azione implica [come correlativo] la passione solo in quanto è l'origine di un moto; ma in questo senso non ha luogo nelle persone divine. Nelle quali dunque non si ammette passività alcuna se non in senso grammaticale, cioè quanto al modo di esprimersi: del Padre, p. es., usiamo dire che genera [all'attivo], mentre attribuiamo al Figlio l'essere generato [al passivo].

Articolo 2
Se gli atti nozionali siano volontari
Sembra che gli atti nozionali siano volontari. Infatti:
1. S. Ilario [De Synod., can. 25 Sirm.] insegna che "il Padre generò il Figlio senza esservi costretto da naturale necessità".
2. Così l'Apostolo [Col 1, 13] scrive che egli "ci ha trasportati nel regno del Figlio del suo amore". Ma l'amore appartiene alla volontà. Quindi il Figlio fu generato dal Padre volontariamente.
3. Nulla vi è di più volontario dell'amore. Ma lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio come Amore. Quindi procede dalla [loro libera] volontà.
4. Il Figlio procede intellettualmente come Verbo. Ma ogni verbo procede dalla libera volontà di chi lo esprime. Quindi il Figlio procede dal Padre per volontà, non per natura.
5. Ciò che non è volontario è necessario. Se dunque il Padre non generasse il Figlio di sua volontà, si dovrebbe dire che lo genera per necessità, contro quanto insegna S. Agostino [Ad Orosium 7].

In contrario: S. Agostino [l. cit.] afferma che "il Padre non generò il Figlio né per volontà, né per necessità".

Rispondo: L'affermazione: una cosa è, oppure avviene, voluntate [volontariamente], può essere intesa in due modi.
Primo, nel senso che l'ablativo [voluntate] stia a indicare solo una concomitanza: come posso dire che sono uomo di mia volontà, cioè perché voglio essere uomo.
E in questo senso si può affermare che il Padre genera il Figlio volontariamente, come volontariamente è Dio: infatti egli vuole essere Dio e vuole generare il Figlio.
Secondo, nel senso che l'ablativo stia a indicare un rapporto di causa: come quando diciamo che l'artefice opera di sua volontà, perché questa è la causa che lo muove ad agire.
E in questo senso si deve dire che il Padre non genera il Figlio volontariamente; mentre invece volontariamente ha prodotto le creature. Perciò si legge in S. Ilario [De Synod., can. 24 Sirm.]: "Se qualcuno dirà che il Figlio fu fatto da Dio volontariamente come una creatura qualsiasi, sia anatema".
E il motivo di ciò sta nel fatto che la volontà e la natura, nel causare, presentano questa differenza: la natura è determinata a un unico effetto, mentre la volontà non è determinata. E ciò perché l'effetto corrisponde esattamente alla forma in forza della quale ogni cosa agisce. Ora, è chiaro che ogni cosa non ha che una sola forma naturale, quella cioè che le dà l'esistenza: quindi produce un effetto identico a se medesima.
La forma invece per cui agisce la volontà non è una sola, ma ve ne sono molte, quanti sono cioè gli oggetti dell'intelligenza. Quindi ciò che deriva come effetto dalla volontà non ha la stessa natura della causa, ma ha quella natura che la causa ha inteso dargli. Concludendo: la volontà è il principio di quelle cose che potrebbero essere anche diversamente da come sono; la natura invece lo è di quelle che non possono essere se non come sono.
Ora, ripugna che la natura divina possa essere diversamente da come è, mentre ciò è proprio delle creature: poiché Dio è l'essere intrinsecamente necessario, la creatura invece è stata creata dal nulla.
Ed è per questo che gli Ariani, volendo giungere a provare che anche il Figlio è una creatura, dicevano che il Padre ha generato il Figlio volontariamente, dando al termine volontà il significato di causa.
Noi invece dobbiamo dire che il Padre generò il Figlio non per volontà, ma per natura.
Quindi S. Ilario [l. cit.] afferma: "È la volontà di Dio che ha dato l'essere a tutte le creature, mentre è la perfetta nascita da una sostanza impassibile e innascibile che ha dato al Figlio la natura.
Tutte le altre cose infatti furono create quali Dio le ha volute; il Figlio invece, nato da Dio, è tale quale è Dio stesso".

Soluzione delle difficoltà: 1. Il testo di S. Ilario è contro coloro che dalla generazione del Figlio volevano esclusa anche la volontà concomitante, dicendo che il Padre ha generato il Figlio senza avere la volontà di generarlo; come capita a noi uomini di subire contro voglia tante cose, p. es. la morte, la vecchiaia e altre miserie del genere.
E ciò risulta chiaramente dal contesto.
Infatti vi si legge: "Il Padre non ha generato il Figlio senza volerlo, o come forzato o spinto da una necessità naturale contro la sua volontà".
2. L'Apostolo chiama Cristo "Figlio dell'amore del Padre" perché è immensamente amato dal Padre, non perché l'amore sia il principio della generazione del Figlio.
3. Anche la volontà, considerata come una natura, vuole alcune cose naturalmente: la volontà umana, p. es., tende naturalmente alla felicità. E così pure Dio per natura vuole e ama se stesso. Invece, come si è visto [q. 19, a. 3], circa le altre cose la sua volontà è in qualche modo indifferente a volerle come a non volerle.
Ora, lo Spirito Santo procede come Amore in quanto Dio ama se stesso. Quindi procede per natura, quantunque derivi attraverso una processione di ordine volitivo.
4. Negli stessi princìpi razionali è necessario risalire ai primi princìpi che sono conosciuti [immediatamente] per natura. Ora, Dio intende se stesso per natura. Quindi la concezione del Verbo divino è naturale.
5. Si dice che una cosa è necessaria o per un motivo intrinseco, o per qualche motivo estrinseco.
E il motivo estrinseco può intervenire in due modi.
Primo, come causa efficiente e cogente: e in questo caso 'necessario' ha il valore di 'violento'.
Secondo, come causa finale: si dice, p. es., che una cosa è necessaria in ordine al fine quando senza di essa il fine o non può essere raggiunto in alcun modo, o [non può essere raggiunto] pienamente.
Ora, in nessuno di questi due ultimi modi la generazione divina è necessaria: poiché Dio non è ordinato a un fine, e neppure può essere sottoposto a una coercizione. -
Necessario invece per un motivo intrinseco è ciò che non può non essere.
E in questo senso è necessaria l'esistenza di Dio. E allo stesso modo è necessario che il Padre generi il Figlio.

Articolo 3
Se gli atti nozionali producano dal nulla
Sembra che gli atti nozionali producano dal nulla. Infatti:
1. Se il Padre genera il Figlio da qualcosa, lo genera traendolo o da se stesso o da qualche altra cosa.
Se lo trae da qualche altra cosa, siccome ciò da cui una cosa è generata rimane incluso in essa, ne segue che nel Figlio ci sarà qualcosa di estraneo al Padre. E ciò è escluso da S. Ilario [De Trin. 7, 39] quando dice che "in essi non vi è nulla di diverso o di estraneo ".
Se invece il Padre trae il Figlio da se medesimo, siccome ciò da cui una cosa è tratta, se è qualcosa di permanente, acquista gli stessi attributi della realtà che viene generata, - diciamo infatti che l'uomo è bianco, perché l'uomo, quando passa dal non bianco al bianco, rimane uomo -, ne segue o che il Padre perisce una volta generato il Figlio, oppure che il Padre è il Figlio: il che è falso.
Quindi il Padre non genera il Figlio da qualcosa, ma dal nulla.
2. Ciò da cui una cosa è generata è un principio della cosa stessa. Se dunque il Padre genera il Figlio dalla propria essenza o natura, questa sarà un principio del Figlio.
Non ne sarà però il principio materiale, poiché in Dio non c'è materia. Quindi ne sarà il principio efficiente, come lo è il generante del generato.
E così seguirebbe che l'essenza genera: cosa questa che fu già rigettata come falsa [q. 39, a. 5]. 3. S. Agostino [De Trin. 7, 6] dice che le tre Persone non sono da un'unica essenza, dato che l'essenza non è altra cosa che la persona. Ma la persona del Figlio non è una realtà distinta dall'essenza del Padre. Quindi il Figlio non è dall'essenza del Padre.
4. Ogni creatura viene prodotta dal nulla. Ora, il Figlio nelle Scritture è detto creatura. Infatti così parla di se stessa la Sapienza generata [Sir 24, 3]: "Io sono uscita dalla bocca dell'Altissimo, primogenita avanti a ogni creatura". E poco dopo [v. 9] aggiunge: "Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò". Quindi il Figlio non è tratto da qualcosa, ma dal nulla.
E la stessa difficoltà si potrebbe fare per lo Spirito Santo, poiché sta scritto [Zc 12, 1]: "Dice il Signore che ha steso i cieli e fondato la terra e ha creato nell'uomo il suo spirito". E altrove [Am 4, 13]: "Io che formo i monti e creo lo spirito".

In contrario: Dice S. Agostino [De fide ad Petrum 2] che "Dio Padre dalla propria natura, senza principio, generò il Figlio uguale a se stesso".

Rispondo: Il Figlio non è tratto dal nulla, ma dalla sostanza del Padre.
Infatti si è già dimostrato [q. 27, a. 2; q. 33, a. 2, ad 3, 4; a. 3] che in Dio ci sono in senso vero e proprio la paternità, la filiazione e la nascita.
Ma tra la vera generazione, in forza della quale uno procede come figlio, e la produzione esiste questa differenza, che il produttore produce da una materia a lui esterna: l'artigiano, p. es., produce una panca dal legno; invece l'uomo [e chiunque genera] produce il figlio da se medesimo.
Ora, come l'artigiano produce i suoi manufatti dalla materia, così Dio, come si spiegherà in seguito [q. 45, a. 2], produce le cose dal nulla: non nel senso che il nulla passi a far parte della sostanza delle cose, ma nel senso che Dio produce tutta la sostanza delle cose senza presupporrenulla.
Se dunque il Figlio procedesse dal Padre come tratto dal nulla,allora egli starebbe al Padre come sta all'artigiano un manufatto qualsiasi: il quale evidentemente non può essere detto figlio in senso proprio, ma soltanto per una lontana analogia.
Ne viene quindi che se il Figlio di Dio procedesse dal Padre come fatto dal nulla, non ne sarebbe veramente e propriamente il Figlio. Ma ciò è contro la Scrittura [1 Gv 5, 20] che dice: "Noi siamo nel vero suo Figlio Gesù Cristo".
Quindi il vero Figlio di Dio non procede dal nulla, e non è fatto, ma è soltanto generato.
Quando dunque alcuni esseri creati dal nulla sono detti figli di Dio abbiamo un'espressione analogica, che deriva da una certa loro somiglianza col vero Figlio. In quanto dunque egli è l'unico vero e naturale Figlio di Dio è detto unigenito, come si legge nel Vangelo [Gv 1, 18]: "Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato".
È chiamato invece primogenito con un'espressione analogica, in quanto altri esseri sono detti figli adottivi per la somiglianza che hanno con lui, secondo il detto di S. Paolo [Rm 8, 29]: "Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli".
Rimane quindi stabilito che il Figlio di Dio è generato dalla sostanza del Padre, però diversamente da come è generato un figlio dall'uomo.
Poiché nel figlio passa soltanto una parte della sostanza dell'uomo che genera, mentre la sostanza divina non può essere divisa in parti.
Quindi è necessario che il Padre, generando il Figlio, gli abbia trasfusa non una parte, ma tutta la sua natura, restando, come si è spiegato [q. 40, a. 2], la sola distinzione di origine.

Soluzione delle difficoltà: 1. Quando si dice che il Figlio è nato dal Padre, la preposizione de [de Patre] indica il principio consostanziale generante, non il principio [o la causa] materiale. Infatti ciò che viene tratto da una materia preesistente viene prodotto mediante la trasmutazione del soggetto preesistente da una forma a un'altra.
Ora, l'essenza divina non è soggetta a mutazioni, e non è suscettibile di altre forme.
2. L'espressione: il Figlio è generato dall'essenza del Padre starebbe a indicare, secondo il Maestro delle Sentenze [1, 5], un rapporto come di causa efficiente, per cui il senso sarebbe: "Il Figlio è generato dall'essenza del Padre, cioè dal Padre essenza"; poiché anche S. Agostino [De Trin. 15, 13] osserva: "Quando dico dal Padre essenza è come se dicessi con più forza, dall'essenza del Padre".
Però tale spiegazione non sembra che basti a giustificare quella proposizione.
Possiamo benissimo dire infatti che le creature sono da Dio essenza, ma non possiamo dire che sono dall'essenza di Dio.
Quindi si può dire diversamente che la preposizione latina de indica sempre consostanzialità. Ed è per questo che non diciamo che la casa è de aedificatore [cioè dalla sostanza del] costruttore, poiché questi non ne è la causa consostanziale.
Quando invece una cosa si presenta come principio consostanziale di un'altra si può sempre dire che quest'ultima è di o da essa: e ciò vale sia che si tratti di un principio attivo - diciamo infatti che il figlio è dal padre -, sia che si tratti della causa materiale - p. es. si dice che il coltello è di ferro -, sia che si tratti della causa formale, almeno trattandosi di forme sussistenti e non distinte dal loro soggetto: infatti possiamo dire di un dato angelo che è di natura intellettuale.
E proprio in quest'ultimo senso diciamo che il Figlio è generato dall'essenza del Padre [de essentia Patris], poiché l'essenza del Padre, comunicata al Figlio per generazione, sussiste in esso.
3. Quando si dice che il Figlio è generato dall'essenza del Padre, [col termine Padre] si aggiunge qualcosa che serve a salvare la distinzione.
Quando invece si dice che le tre Persone sono dall'essenza divina non si aggiunge nulla che possa comportare la distinzione indicata dalla preposizione da.
Perciò il paragone non regge.
4. Le espressioni che parlano di sapienza creata possono essere riferite non alla Sapienza che è il Figlio di Dio, ma alla sapienza creata che Dio comunica alle creature: p. es. in questo passo [Sir 1, 7 Vg]: "Egli l'ha creata", cioè la sapienza, "nello Spirito Santo e l'ha diffusa sopra tutte le sue opere". E non è impossibile che nello stesso brano la Scrittura parli della Sapienza generata e di quella creata: poiché la sapienza creata è una partecipazione di quella increata.
Oppure ci si può riferire alla natura creata assunta dal Figlio; così l'espressione: "Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò", avrebbe questo senso: era stata prevista la mia unione con la creatura.
Oppure con i due termini creata e generata attribuiti alla Sapienza ci viene insinuato il modo della generazione divina. Nella generazione infatti l'essere che viene generato ci mostra la sua perfezione ricevendo la stessa natura del generante; nella creazione invece abbiamo l'immutabilità di colui che crea, ma la creatura non riceve la natura del suo creatore.
Quindi il Figlio è detto simultaneamente creato e generato per indicare con la creazione l'immutabilità del Padre, e con la generazione l'unità di natura del Padre e del Figlio.
Ed è così che S. Ilario [De Synod., can. 5 Ancyran.] ha commentato questo testo della Scrittura. - Gli altri testi riferiti poi non parlano dello Spirito Santo, ma dello spirito creato, che alcune volte indica il vento o l'aria, altre volte il fiato e talora anche l'anima, o qualsiasi altra sostanza invisibile.

Articolo 4
Se in Dio esista una potenza relativa agli atti nozionali
Sembra che in Dio non esista una potenza relativa agli atti nozionali. Infatti:
1. Ogni potenza o è attiva o è passiva. Ma qui non ci può essere né l'una né l'altra: come infatti si è dimostrato [q. 25, a. 1], la potenza passiva in Dio non ci può essere, e quella attiva non può appartenere a una persona per rispetto a un'altra, dato che le persone divine non sono fatte, come già si è visto [a. prec.].
Quindi in Dio non c'è una potenza relativa agli atti nozionali.
2. Si parla di potenza in relazione a un possibile. Ma le persone divine non sono tra le realtà possibili, bensì tra quelle necessarie.
Quindi rispetto agli atti nozionali, che danno origine alle persone, non si deve parlare di potenza in Dio.
3. Il Figlio procede come Verbo, che è una concezione dell'intelletto, mentre lo Spirito Santo procede come Amore, che appartiene alla volontà. Ma in Dio la potenza riguarda gli effetti che produce, e non l'intendere e il volere, come si è detto [q. 25, a. 1, ad 3, 4].
Quindi in Dio non si può ammettere una potenza per gli atti nozionali.

In contrario: S. Agostino [Contra Maxim. 2, 7] dice: "Se Dio Padre non ha potuto generare un Figlio uguale a sé, dov'è la sua onnipotenza?".
Vi è dunque in Dio una potenza per gli atti nozionali.

Rispondo: Come si pongono in Dio gli atti nozionali, così si deve ammettere in lui una potenza che li riguardi, poiché la potenza non è altro che il principio di un atto.
Ora, siccome il Padre è concepito da noi come principio della generazione, e il Padre e il Figlio come principio della spirazione, è necessario attribuire al Padre la potenza di generare, e al Padre e al Figlio quella di spirare. I
nfatti la potenza di generare non è altro che ciò per cui il generante genera. Ora, ogni generante genera in forza di una facoltà adeguata.
Quindi in chi genera bisogna ammettere la potenza di generare, e in chi spira la potenza di spirare.

Soluzione delle difficoltà: 1. Dagli atti nozionali nessuna persona divina procede nel senso che è fatta: perciò anche la potenza relativa agli atti nozionali può essere ammessa in Dio soltanto rispetto a una persona procedente, non a una persona fatta.
2. Il possibile che è opposto al necessario accompagna la potenza passiva, che in Dio non esiste. Quindi in Dio non vi è nulla di possibile in questo senso; vi si trova invece il possibile che è incluso nel necessario. E in questo senso, come diciamo che è possibile l'esistenza di Dio, così è possibile la generazione del Figlio.
3. Potenza significa principio. Un principio poi implica distinzione dalla cosa di cui è principio. Ora, tra le cose che vengono attribuite a Dio vi è una duplice distinzione: quella reale e quella solo concettuale.
Dio dunque si distingue realmente ed essenzialmente dalle cose di cui è principio per creazione, come una persona si distingue realmente dall'altra di cui essa è principio secondo un atto nozionale.
L'azione invece in Dio si distingue dall'agente solo per una distinzione di ragione: altrimenti in Dio l'azione sarebbe un accidente.
Quindi rispetto a quelle azioni che determinano la derivazione di cose essenzialmente o personalmente distinte da Dio si può attribuire a Dio la potenza nel suo vero concetto di principio [o di causa]. Come quindi ammettiamo in Dio la potenza di creare, così possiamo ammettere la potenza di generare e di spirare. Invece l'intendere e il volere non sono azioni che indichino derivazione di qualcosa che sia distinto da Dio essenzialmente o personalmente.
Quindi rispetto a questi atti non può sussistere in Dio l'attributo della potenza se non secondo il nostro modo di capire e di esprimerci, dato che noi esprimiamo in Dio con termini diversi l'intelletto e l'intendere, nonostante che l'intendere stesso di Dio sia la sua essenza, che non ha principio.

Articolo 5
Se la potenza generativa stia a indicare una relazione o l'essenza divina
Sembra che la potenza di generare o di spirare stia a indicare una relazione, e non l'essenza divina. Infatti:
1. Potenza significa principio, come appare dalla sua stessa definizione: poiché la potenza attiva, come dice Aristotele [Met. 5, 12], è il principio dell'operazione. Ma in Dio il principio riguardante le persone è preso in senso nozionale.
Quindi in Dio la potenza [di generare] indica una relazione, e non l'essenza.
2. In Dio non c'è differenza tra il poter [agire] e l'agire. Ma la generazione in Dio sta a indicare la relazione.
Quindi anche la potenza di generare [indica la relazione].
3. Gli attributi divini che indicano l'essenza sono comuni alle tre Persone.
Ma la potenza di generare non è comune alle tre Persone, essendo propria del Padre. Quindi non significa l'essenza.

In contrario: Come Dio può generare il Figlio, così anche lo vuole. Ma la volontà di generare sta a indicare l'essenza. Quindi anche la potenza di generare significa l'essenza.

Rispondo: Alcuni dissero che la potenza generativa in Dio sta a indicare una relazione.
Ma ciò è impossibile.
Infatti in qualsiasi agente si chiama propriamente potenza il principio per cui esso agisce. Ora, chiunque con la propria azione produce una cosa, la produce simile a se stesso, determinandola secondo la forma di cui si serve per agire: l'uomo generato, p. es., è simile al generante nella natura umana, in virtù della quale il padre ha potuto generare un uomo.
Quindi la potenza generativa in un generante sarà ciò in cui si riscontra la somiglianza del generato con il generante.
Ora, il Figlio di Dio assomiglia al Padre generante nella natura divina. Quindi la natura divina del Padre è in lui la potenza generativa.
Per cui S. Ilario [De Trin. 5, 37] scrive: "La nascita di Dio non può non ritenere quella natura dalla quale proviene: poiché ciò che non trae la propria sostanza da altri se non da Dio non può essere altro che Dio". Perciò col Maestro delle Sentenze [1, 7] bisogna dire che la potenza generativa designa principalmente l'essenza divina, e non la sola relazione.
E designa l'essenza non in quanto questa si identifica con la relazione, come se le indicasse tutte e due alla pari. Sebbene infatti la paternità si presenti come forma del Padre tuttavia, essendone la proprietà personale, sta alla persona del Padre come la forma individuale sta a un individuo creato.
Ora, nelle creature la forma individuale costituisce la persona generante, ma non è il principio per cui essa genera: altrimenti Socrate genererebbe un altro Socrate.
Quindi la paternità non può essere concepita come il principio per cui il Padre genera, ma solo come il costitutivo della persona che genera: altrimenti il Padre genererebbe un altro Padre.
Ciò per cui il Padre genera è invece la natura divina, nella quale il Figlio è a lui simile.
Per questo il Damasceno [De fide orth. 1, 8] dice che la generazione è "opera della natura": non nel senso che la natura sia il generante, ma in quanto è il principio in forza del quale il generante genera.
Perciò la potenza generativa indica direttamente la natura divina e indirettamente la relazione.

Soluzione delle difficoltà: 1. La potenza non indica la relazione stessa di principio, altrimenti sarebbe nella categoria della relazione, ma indica ciò che è il principio: non il principio che corrisponde al soggetto che agisce, ma il principio che è la virtù mediante cui l'agente agisce.
Ora, l'agente è distinto dalla cosa prodotta, e il generante dal generato, ma ciò mediante cui il generante genera è comune al generato e al generante; e tanto più è comune quanto più perfetta è la generazione.
Essendo quindi la divina generazione perfettissima, ciò mediante cui il generante genera è talmente comune al generato e al generante da essere non solo specificamente - come avviene nelle creature -, ma anche numericamente identico. Se quindi si afferma che l'essenza divina è il principio in forza del quale il generante genera, non ne segue che l'essenza divina venga distinta, come invece seguirebbe se si dicesse che l'essenza divina genera.
2. In Dio la potenza generativa si identifica realmente con la generazione, come l'essenza divina si identifica realmente con la generazione e con la paternità; non si identifica però concettualmente.
3. Nell'espressione potenza di generare è indicata direttamente la potenza e indirettamente la generazione: come se si dicesse l'essenza del Padre. Quanto dunque all'essenza così indicata la potenza di generare è comune alle tre persone; quanto invece alla nozione [indirettamente] specificata è propria della persona del Padre.

Articolo 6
Se gli atti nozionali possano dare origine a più persone
Sembra che gli atti nozionali possano dare origine a più persone, in modo da avere in Dio più persone generate o spirate. Infatti:
1. Chiunque ha la potenza di generare può generare. Ma il Figlio ha questa potenza. Quindi anch'egli può generare; non se stesso, evidentemente: quindi un altro Figlio. Quindi in Dio ci possono essere più Figli.
2. S. Agostino [Contra Maxim. 2, 12] dice: "Il Figlio non ha generato un Creatore. Non già perché gli mancasse la potenza, ma perché ciò non era conveniente".
3. La potenza generativa di Dio Padre è maggiore di quella dell'uomo. Ma l'uomo può generare molti figli. Quindi anche Dio: tanto più che con la generazione del Figlio non è diminuita la potenza generativa del Padre.

In contrario: In Dio non c'è differenza tra il potere e l'essere.
Se dunque in Dio vi potessero essere più Figli, vi sarebbero di fatto.
E così le Persone sarebbero più di tre: ma questa è un'eresia.

Rispondo: Come dice S. Atanasio [Symb.], in Dio c'è "un solo Padre, un solo Figlio, un solo Spirito Santo". E di ciò si possono portare quattro ragioni.
La prima è tratta dalle relazioni, che sole distinguono le persone. Essendo infatti le persone divine le stesse relazioni sussistenti, non potrebbero esserci in Dio più Padri o più Figli senza che vi fossero più paternità o più filiazioni.
Ora, ciò non potrebbe avvenire se non per una distinzione di ordine materiale: infatti le forme di un'unica specie si moltiplicano soltanto perché si uniscono alla materia: ma questa in Dio non c'è.
Quindi in Dio non ci può essere che una sola filiazione sussistente: come non ci sarebbe che un'unica bianchezza se questa fosse sussistente.
La seconda ragione è ricavata dalla natura delle processioni.
Dio infatti intende e vuole tutte le cose con un unico e semplice atto. Quindi non vi può essere che un'unica persona procedente come verbo, e questa è il Figlio, e una sola che procede come amore, ed è lo Spirito Santo.
La terza ragione viene desunta dalla maniera del procedere. Poiché le persone, come si è detto [a. 2], procedono per processione naturale, e la natura è determinata a un unico effetto.
La quarta ragione è tratta dalla perfezione delle persone divine.
Infatti il Figlio è perfetto appunto perché in lui si contiene tutta la filiazione divina, e perché è un Figlio solo. E lo stesso si dica delle altre persone.

Soluzione delle difficoltà: 1. Si deve senz'altro concedere che il Figlio ha la stessa potenza che ha il Padre: tuttavia non si può ammettere che egli abbia la potenza generandi [di generare o di essere generato], se generandi è preso come gerundio del verbo attivo, in modo da significare che il Figlio ha la potenza di generare.
Allo stesso modo l'essere del Padre è identico a quello del Figlio, e tuttavia non si può dire che il Figlio è il Padre, per l'aggiunta del termine nozionale. Se però generandi è considerato come gerundivo, nel Figlio esiste la potentia generandi, cioè la possibilità di essere generato.
E lo stesso si dica se generandi è preso come gerundivo impersonale, per cui l'espressione potentia generandi [attribuita al Figlio] avrebbe il significato di potenza di essere generato da qualche persona.
2. Con quelle parole S. Agostino non vuol dire che il Figlio potrebbe generare un altro Figlio, ma soltanto che il fatto di non generare non proviene da impotenza, come si dirà in seguito [q. 42, a. 6, ad 3].
3. L'immaterialità e la perfezione di Dio richiedono che in lui non vi possano essere più Figli, come si è spiegato [nel corpo]. Quindi il fatto che non vi siano più Figli non proviene da una limitazione della potenza del Padre nel generare.




SEGUE.......




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Dalla summa teologica di San Tommaso:

posterò parte dei suoi scritti, riguardante le
tre Personalità Divine "LA TRINITA'"



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Parte 11:




L'UGUAGLIANZA E LA SOMIGLIANZA DELLE PERSONE DIVINE

Infine rimangono da confrontare le persone divine tra loro [cf. q. 39, Prol.].
Primo, parleremo della loro uguaglianza e somiglianza; secondo, delle loro missioni [q. 43]. Riguardo alla prima questione si pongono sei quesiti:
1. Se tra le persone divine abbia luogo l'uguaglianza;
2. Se la persona che procede sia uguale in eternità a quella da cui procede;
3. Se tra le persone divine vi sia un ordine;
4. Se le persone divine siano uguali in grandezza;
5. Se siano una nell'altra;
6. Se siano uguali in potenza.

Articolo 1
Se tra le persone divine vi sia uguaglianza
Sembra che tra le persone divine non vi sia uguaglianza. Infatti:
1. Come dice il Filosofo [Met. 5, 15], l'uguaglianza deriva dal concordare nella quantità. Ora, nelle persone divine non c'è né la quantità continua intrinseca, chiamata estensione, né la quantità continua estrinseca, cioè il luogo e il tempo. E neppure c'è tra di esse l'uguaglianza della quantità discreta, essendo due persone più di una.
Quindi alle Persone divine non conviene l'uguaglianza.
2. Le persone divine, come si è detto [q. 39, a. 2], sono tutte di una stessa e identica essenza. Ma l'essenza viene significata come una forma. Ora, il concordare nella stessa forma non produce uguaglianza, ma solo somiglianza. Quindi tra le persone divine c'è somiglianza, non uguaglianza.
3. Le cose tra cui c'è uguaglianza sono uguali tra loro: infatti l'uguale si dice uguale all'uguale. Ma le persone divine non possono dirsi uguali l'una all'altra. Poiché, come dice S. Agostino [De Trin. 6, 10], "se l'immagine riproduce esattamente e perfettamente l'oggetto di cui è immagine, essa si adegua all'oggetto, ma non questo ad essa". Ora, il Figlio è immagine del Padre: perciò questi non è uguale al Figlio. Quindi tra le persone divine non c'è uguaglianza.
4. L'uguaglianza è una relazione. Ma nessuna relazione è comune alle persone divine: poiché esse si distinguono tra loro appunto per le relazioni. Quindi alle persone divine non può convenire l'uguaglianza.

In contrario: È detto nel Simbolo atanasiano che "le tre persone sono coeterne e uguali tra loro".

Rispondo: È necessario affermare che tra le persone divine c'è uguaglianza.
Infatti, secondo il Filosofo [Met. 10, 5], si ha il concetto di uguale escludendo il più e il meno. Ora, non possiamo ammettere che tra le persone divine ci sia il più e il meno: poiché, come dice Boezio [De Trin. 1], "sono costretti a riconoscere delle discrepanze" nella divinità "coloro che ammettono in Dio il più e il meno, come gli Ariani, i quali con lo stabilire dei gradi distruggono la Trinità e la riducono a una pluralità".
E il motivo è questo, che le cose disuguali non possono avere un'unica quantità. Ma la quantità in Dio non è altro che la sua essenza. Da cui segue che se nelle persone divine ci fosse qualche disuguaglianza, queste non potrebbero avere un'unica essenza: e così le tre persone non sarebbero un Dio solo, il che è inammissibile. Quindi bisogna ammettere l'uguaglianza tra le diverse persone.

Soluzione delle difficoltà: 1. Ci sono due specie di quantità.
La prima è quella di mole, o di estensione, che essendo propria delle realtà corporee non può trovarsi in Dio.
L'altra è la quantità di intensità, che si desume dal grado di perfezione della natura o della forma: si parla p. es. di questa quantità quando un corpo è detto più o meno caldo per indicare che partecipa più o meno perfettamente del calore.
Ora, la grandezza di questa quantità intensiva viene desunta, in primo luogo, dalla sua radice, cioè dalla perfezione della natura o forma: e in questo senso si può parlare di grandezza spirituale, come si parla di un grande calore a motivo della sua intensità e perfezione. E in questo senso S. Agostino [De Trin. 6, 8] dice che "tra le cose che sono grandi senza essere estese, è più grande quella che è migliore": infatti diciamo che è migliore ciò che è più perfetto.
In secondo luogo la grandezza di questa quantità intensiva viene desunta dagli effetti della forma.
Ora, il primo effetto della forma è l'essere: infatti ogni cosa ha l'essere dalla propria forma. L'altro effetto è invece l'operazione: infatti ogni agente agisce in forza della propria forma.
Quindi la misura quantitativa dell'intensità viene desunta sia dall'essere che dall'operazione: dall'essere in quanto le realtà di natura più perfetta sono anche più durature; dall'operazione in quanto le realtà di natura più perfetta sono anche più capaci di agire. Quindi, come dice S. Agostino [De fide ad Petrum 1], l'uguaglianza tra il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo "sta in questo, che nessuno di loro precede l'altro nell'eternità, o lo sorpassa nella grandezza, o lo supera nella potenza".
2. Dove si desume l'uguaglianza dalla quantità di intensità, questa include la somiglianza e vi aggiunge in più l'esclusione di una preminenza.
Infatti le realtà che hanno la stessa forma possono essere dette simili anche se la partecipano in grado differente: l'aria, p. es., può essere detta simile al fuoco nel calore; però non possono essere dette uguali se una partecipa la forma più perfettamente dell'altra.
Ora, il Padre e il Figlio non solo hanno la stessa natura, ma l'hanno anche in modo ugualmente perfetto: perciò il Figlio non solo è detto simile al Padre, per escludere l'errore di Eunomio, ma è detto anche uguale, per escludere quello di Ario.
3. L'uguaglianza e la somiglianza in Dio possono venire espresse in due modi, cioè coi nomi e coi verbi.
Se vengono espresse coi nomi, allora tanto l'una quanto l'altra ammettono la reciprocità, poiché il Figlio è simile e uguale al Padre, e il Padre è simile e uguale al Figlio. E questo perché l'essenza divina non è più nel Padre che nel Figlio: perciò, come il Figlio ha la grandezza del Padre, e quindi è uguale al Padre, così il Padre ha la grandezza del Figlio ed è uguale al Figlio.
Nelle creature invece, come dice Dionigi [De div. nom. 9, 6], "non c'è questa reciprocità di uguaglianza e di somiglianza ". Si dice infatti che gli effetti sono simili alle loro cause, avendone in sé la forma, ma non viceversa, in quanto la forma si trova principalmente nelle cause e solo secondariamente negli effetti.
I verbi invece esprimono l'uguaglianza unita all'idea di movimento.
E sebbene in Dio non esista il moto, tuttavia c'è in lui [il dare e] il ricevere. Quindi, poiché il Figlio riceve dal Padre, diciamo che il Figlio uguaglia il Padre, ma non viceversa.
4. Nelle persone divine non c'è altro che l'essenza in cui comunicano, e le relazioni per le quali si distinguono.
Ora, l'uguaglianza comporta queste due cose: la distinzione delle persone, poiché nessuna cosa può dirsi uguale a se stessa, e l'unità dell'essenza, poiché le persone si dicono uguali tra loro precisamente perché sono di un'unica essenza e grandezza.
È poi chiaro che nessuna cosa si riferisce a se medesima con una relazione reale. Così pure è evidente che una relazione non si riferisce a un'altra mediante una terza relazione: quando infatti diciamo che la paternità si oppone alla filiazione, l'opposizione non è una terza relazione interposta tra la paternità e la filiazione, perché altrimenti in tutti e due i casi si andrebbe all'infinito. Quindi l'uguaglianza e la somiglianza delle persone divine non è un'altra relazione reale distinta dalle relazioni personali [paternità, filiazione, spirazione], ma nel suo concetto include sia le relazioni che distinguono le persone, sia l'unità dell'essenza.
E per questo il Maestro delle Sentenze [1,
31] dice che nelle persone divine "soltanto le denominazioni sono relative".

Articolo 2
Se la persona che procede, il Figlio per esempio, sia coeterna al suo principio
Sembra che la persona che procede, il Figlio p. es., non sia coeterna al suo principio. Infatti:
1. Ario enumera dodici modi di derivazione.
Il primo è quello della linea che nasce dal punto: e qui manca l'uguaglianza della semplicità.
Il secondo è quello dell'emissione dei raggi dal sole: dove manca l'uguaglianza di natura.
Il terzo modo è quello del bollo o dell'impronta lasciata dal sigillo: ove però manca la consostanzialità e l'efficienza della potenza.
Il quarto è quello dell'infusione della buona volontà da parte di Dio: dove ancora manca la consostanzialità.
Il quinto è quello della derivazione dell'accidente dalla sostanza: ma all'accidente manca la sussistenza.
Il sesto modo è quello dell'astrazione delle specie conoscitive dalla materia, come i sensi ricevono la specie dalle realtà sensibili: e qui manca l'uguaglianza [di immaterialità o] di semplicità spirituale.
Il settimo è quello dell'eccitazione della volontà prodotta dal pensiero: ma questa eccitazione richiede il tempo.
L'ottavo modo è quello della mutazione di figura, come quando col bronzo si forma una statua: ma questa è sempre materiale.
Il nono è quello del moto prodotto dal movente: e anche qui si ha causa ed effetto.
Il decimo è quello desunto dalle specie che vengono tratte fuori dal genere [nel quale erano contenute]: ma questo modo non può convenire a Dio, poiché il Padre non si predica del Figlio come il genere della specie.
L'undicesimo è quello della ideazione, secondo cui l'arca esteriore deriva da quella ideale esistente nella mente [dell'artigiano].
Il dodicesimo è quello della nascita, cioè quello del figlio che nasce dal padre: ma qui abbiamo un prima e un poi in ordine di tempo.
È chiaro dunque che in qualunque modo una cosa derivi da un'altra, manca o l'uguaglianza di natura o quella di durata. Se dunque il Figlio deriva dal Padre, si deve dire o che egli è minore del Padre, o che è posteriore, o l'una e l'altra cosa insieme.
2. Tutto ciò che deriva da altro ha un principio. Ma nulla di eterno ha principio. Quindi né il Figlio né lo Spirito Santo sono eterni.
3. Tutto ciò che si corrompe cessa di essere. Quindi tutto ciò che viene generato incomincia a essere: infatti viene generato affinché sia. Ma il Figlio è generato dal Padre. Quindi incomincia a essere, e non è coeterno al Padre.
4. Se il Figlio è generato dal Padre, o è continuamente generato, o si può assegnare un istante della sua generazione.
Se è continuamente generato, siccome ciò che si sta generando è imperfetto, e lo vediamo nelle cose in divenire, cioè nel tempo e nel moto, ne segue che il Figlio è sempre imperfetto, il che è inammissibile. Quindi deve esserci un istante della generazione del Figlio. Quindi prima di quell'istante il Figlio non esisteva.

In contrario: Nel Simbolo atanasiano si legge che "tutte e tre le persone sono coeterne".

Rispondo: È necessario affermare che il Figlio è coeterno al Padre.
Per mettere in chiaro la cosa si osservi che due possono essere i motivi per cui quanto deriva da un principio è ad esso posteriore: primo, dalla parte dell'agente; secondo, dalla parte dell'azione.
Se dalla parte dell'agente, ciò avviene in modi diversi secondo che si tratti di agenti volontari o di cause naturali.
Negli agenti volontari [la posteriorità di quanto ne deriva] è dovuta alla scelta del tempo: poiché come è in loro facoltà la scelta della forma da dare all'effetto, secondo quanto si è già spiegato [q. 41, a. 2], così è in loro potere la scelta del tempo in cui produrlo.
Trattandosi invece di cause naturali, la posteriorità dell'effetto è dovuta al fatto che un agente inizialmente non ha quella perfezione di energia necessaria per agire, ma la acquista dopo qualche tempo: come l'uomo da principio non è atto alla generazione. - Dalla parte dell'azione invece può essere impedito che il principio e quanto ne deriva siano simultanei se l'azione ha un certo svolgimento.
Quindi, pur ammettendo che un agente cominci a compiere un'azione di questo genere dal primo istante in cui esiste, tuttavia il suo effetto non si produrrà nello stesso istante, ma solo in quello che è il termine della sua azione.
Ora, stando a quanto si è detto sopra [ib.], è chiaro che il Padre non genera il Figlio per volontà, ma per natura. Inoltre la natura del Padre è perfettissima da tutta l'eternità. Di più l'azione con cui il Padre produce il Figlio non è un'azione che abbia uno svolgimento: perché altrimenti il Figlio di Dio sarebbe generato con uno sviluppo progressivo, e la sua generazione sarebbe di carattere materiale e soggetta a mutamento, il che è inammissibile.
Rimane dunque stabilito che il Figlio esiste da quando esiste il Padre. Quindi il Figlio è coeterno al Padre; e così pure lo Spirito Santo è coeterno a entrambi.

Soluzione delle difficoltà: 1. Nessuno dei modi di derivazione delle creature può rappresentare perfettamente la generazione divina, come dice S. Agostino [Serm. 38, cc. 6, 8].
Quindi bisogna farsene un'idea ricavandola da questi vari modi per similitudine, affinché ciò che manca in uno possa in certo qual modo essere supplito da un altro.
Per questo il Concilio di Efeso [3, 10] insegna: "Il termine splendore ti manifesti che il Figlio coesiste sempre coeterno al Padre; il termine verbo ti mostri l'impassibilità della sua nascita; il nome Figlio ti insinui la sua consostanzialità".
Ma fra tutte le similitudini la più espressiva è quella del verbo che procede dall'intelletto: poiché il verbo non è posteriore a chi lo esprime, a meno che non sia un intelletto che, [come l'umano], passa dalla potenza all'atto: cosa che di Dio non si può dire.
2. L'eternità esclude l'inizio o il principio temporale, ma non il principio di origine.
3. Ogni corruzione è una mutazione: quindi ciò che si corrompe cessa di essere e incomincia a non essere. Ma la generazione divina non è una trasmutazione, come si è detto [q. 27, a. 2]. Per cui il Figlio viene sempre generato, e il Padre sempre lo genera.
4. Nella categoria del tempo ciò che è indivisibile, cioè l'istante, è diverso da ciò che perdura, cioè dal tempo. Nell'eternità invece l'istante indivisibile dura sempre, come si è detto [q. 10, a. 2, ad 1; a. 4, ad 2]. Ora, la generazione del Figlio non avviene né in un istante del tempo, e meno ancora nel tempo, ma nell'eternità. Quindi, per esprimere meglio la presenzialità e la permanenza eterna [dell'atto della divina generazione], si può dire con Origene [In Hierem. hom. 6] che il Figlio "perpetuamente nasce".
Però è meglio dire, con S. Gregorio [Mor. 29, 1] e con S. Agostino [Lib. LXXXIII quaest. 37], che il Figlio è sempre nato, per indicare con l'avverbio sempre la sua permanenza eterna, e col participio nato la perfezione del generato. Così dunque il Figlio né è imperfetto, né "ci fu un tempo in cui non esisteva", come disse Ario.

Articolo 3
Se nelle persone divine ci sia un ordine di natura
Sembra che nelle persone divine non ci sia un ordine di natura. Infatti:
1. Tutto ciò che è in Dio è o essenza o persona o nozione. Ma l'ordine di natura non significa né l'essenza, né una persona, e neppure una nozione. Quindi tale ordine non esiste in Dio.
2. In tutte le cose in cui vi è un ordine di natura una è prima dell'altra, almeno naturalmente o concettualmente. Ma nelle persone divine, come dice S. Atanasio [Symb.], "non c'è né un prima né un poi". Quindi nelle persone divine non c'è un ordine di natura.
3. L'ordine suppone la distinzione tra le cose. Ma in Dio la natura non ammette distinzioni. Quindi essa non è ordinata. Quindi in Dio non c'è un ordine di natura.
4. La natura divina è l'essenza di Dio; ma in Dio non c'è un ordine di essenza: quindi non c'è neppure un ordine di natura.

In contrario: Ovunque c'è una pluralità senza ordine, lì c'è confusione. Ma come è detto nel Simbolo atanasiano, nelle Persone divine non c'è confusione. Quindi c'è ordine.

Rispondo: L'ordine viene concepito sempre in rapporto a un principio.
Ora, abbiamo princìpi di vario genere, cioè geometrici, come il punto, razionali, come i princìpi della dimostrazione, e i vari generi di cause: quindi abbiamo vari generi di ordini.
Ma tra le persone divine si parla di principio soltanto rispetto alle origini, senza priorità alcuna, come si è spiegato [q. 33, a. 1, ad 3]. Quindi ci deve essere in Dio un ordine rispetto alle origini, ma senza priorità. E questo è chiamato ordine di natura, "in forza del quale", al dire di S. Agostino [Contra Maxim. 2, 14], "uno deriva dall'altro senza che uno sia prima dell'altro".

Soluzione delle difficoltà: 1. L'ordine di natura indica la nozione di origine, ma genericamente, senza alcuna specificazione.
2. Nelle creature, anche quando ciò che deriva da un principio è sincrono ad esso per la durata, se tuttavia si considera ciò che è principio, questo risulta anteriore sia per natura che concettualmente.
Se però si considerano [direttamente] le relazioni di causa e causato, e di principio e principiato, è chiaro che esse sono simultanee, sia naturalmente che concettualmente, essendo l'una cosa inclusa nella definizione dell'altra.
Ora, in Dio le stesse relazioni sono le persone sussistenti in un'unica natura. Quindi in Dio né dalla parte della natura né dalla parte delle relazioni una persona può essere prima dell'altra, neppure per una priorità di natura o concettuale.
3. Parlare di ordine di natura non vuol dire ordinare la natura stessa, ma vuol dire semplicemente che tra le persone divine c'è un ordine secondo la loro origine naturale.
4. Natura implica in qualche modo l'idea di principio o di causa, non invece essenza.
Perciò l'ordine di origine si dice ordine di natura piuttosto che ordine di essenza.

Articolo 4
Se il Figlio sia uguale al Padre in grandezza
Sembra che il Figlio non sia uguale al Padre in grandezza. Infatti:
1. Il Figlio medesimo afferma [Gv 14, 28]: "Il Padre è più grande di me". E l'Apostolo dice di lui [1 Cor 15, 28]: "Il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa".
2. La paternità conferisce dignità al Padre. Ma essa non conviene al Figlio. Quindi il Figlio non ha tutto ciò che appartiene alla dignità del Padre, e di conseguenza non gli è uguale in grandezza.
3. Dove troviamo un tutto e delle parti, più parti sono qualcosa di più di una sola o di un numero minore di esse: tre uomini, p. es., sono più che uno o due. Ma anche in Dio si può trovare il tutto universale e le parti, poiché sotto il termine di relazione o di nozione sono contenute più nozioni. Essendoci dunque nel Padre tre nozioni e nel Figlio due soltanto, ne segue che il Figlio non può essere uguale al Padre.

In contrario: S. Paolo [Fil 2, 6] così parla [del Figlio]: "Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio".

Rispondo: È necessario affermare che il Figlio è uguale al Padre in grandezza.
Infatti la grandezza di Dio non è altro che la perfezione della sua natura.
Ora, rientra nell'idea di paternità e di filiazione che il figlio mediante la generazione giunga ad avere la stessa perfezione di natura che è nel padre, come la ha anche il padre.
Però negli uomini la generazione consiste nella lenta trasmutazione di un soggetto che passa dalla potenza all'atto: perciò il figlio di un uomo non è uguale al padre fin dal principio, ma lo diviene in seguito con la crescita normale, a meno che non avvenga diversamente per un difetto del principio generativo.
Ora, da quanto fu detto [q. 27, a. 2; q. 33, a. 2, ad 3, 4; a. 3], è chiaro che in Dio c'è in senso vero e proprio tanto la paternità quanto la filiazione. Né si può dire che la potenza del Padre sia stata difettosa nel generare; o che il Figlio raggiunga la sua perfezione poco alla volta e per una lenta trasmutazione.
Quindi si deve dire che il Figlio, già da tutta l'eternità, è uguale al Padre in grandezza. Per questo S. Ilario [De Synod. 73] insegna: "Tolta la debolezza dei corpi, tolto l'inizio del concepimento, tolti i dolori del parto e tutte le umane necessità, ogni figlio per la sua nascita è uguale al padre, essendone l'immagine naturale".

Soluzione delle difficoltà: 1. Quelle parole vanno riferite alla natura umana di Cristo, nella quale egli è minore del Padre, e a lui sottoposto. Ma secondo la natura divina è uguale al Padre.
E ciò corrisponde a quanto asserisce S. Atanasio [Symb.]: "Egli è uguale al Padre per la divinità, minore del Padre per l'umanità".
Oppure, secondo S. Ilario [De Trin. 9, 54]: "Il Padre è maggiore per la dignità di donatore, però non è minore colui a cui viene dato l'identico essere". E altrove [De Synod. 79] lo stesso S. Ilario insegna che "la soggezione del Figlio è pietà naturale", cioè riconoscimento dell'autorità paterna, "mentre la soggezione delle altre cose è debolezza creaturale".
2. L'uguaglianza è desunta dalla grandezza. Ma in Dio la grandezza indica la perfezione della natura, come si è detto sopra [nel corpo; cf. a. 1, ad 1], e appartiene così all'essenza.
Quindi in Dio l'uguaglianza e la somiglianza sono desunte da ciò che è essenziale: e non vi può essere in lui disuguaglianza e dissomiglianza per la distinzione delle relazioni.
Quindi S. Agostino [Contra Maxim. 2, 18] dice: "Si ha il problema dell'origine col domandare da chi deriva; si ha invece quello dell'uguaglianza domandando come è, o quanto è grande ". La paternità dunque costituisce la dignità del Padre come la costituisce la sua essenza, poiché la dignità è qualcosa di assoluto che appartiene all'essenza.
Ora, come la stessa essenza che nel Padre è paternità nel Figlio è filiazione, così la stessa dignità che nel Padre è paternità nel Figlio è filiazione. Quindi è vero che il Figlio ha tanta dignità quanta ne ha il Padre. Però non ne segue che si possa concludere: il Padre ha la paternità, dunque anche il Figlio ha la paternità. Perché [in tale illazione] si passa dall'essenza alle relazioni: infatti identica è l'essenza e la dignità del Padre e del Figlio, ma nel Padre ha la relazione di donatore, nel Figlio invece ha la relazione di ricevente.
3. La relazione in Dio non è un tutto universale, quantunque si predichi delle singole relazioni: poiché tutte le relazioni si identificano nell'essenza e nell'essere, il che ripugna al concetto di universale, le cui parti si distinguono per il loro diverso essere.
E in precedenza [q. 30, a. 4, ad 3] abbiamo spiegato che anche persona in Dio non è un universale. Quindi né tutte le relazioni né tutte le persone prese assieme sono qualcosa di più che una sola: perché in ogni persona c'è tutta la perfezione della natura divina.

Articolo 5
Se il Figlio sia nel Padre e il Padre nel Figlio
Sembra che il Figlio non sia nel Padre, e viceversa [che il Padre non sia nel Figlio]. Infatti:
1. Il Filosofo [Phys. 4, 3] enumera otto modi secondo cui una cosa può essere in un'altra; e secondo nessuno di essi il Figlio è nel Padre o viceversa, come si può vedere percorrendoli a uno a uno.
Quindi il Figlio non è nel Padre, né il Padre nel Figlio.
2. Nessuna cosa si trova in quella da cui è uscita. Ma il Figlio da tutta l'eternità è uscito dal Padre, come dice la Scrittura [Mi 5, 1]: "La sua uscita è dall'antichità, dai giorni più remoti". Quindi il Figlio non è nel Padre.
3. Due opposti non si trovano l'uno nell'altro. Ma il Padre e il Figlio sono opposti relativamente. Quindi uno non può essere nell'altro.

In contrario: È detto nel Vangelo [Gv 14, 10]: "Io sono nel Padre, e il Padre è in me".

Rispondo: Nel Padre e nel Figlio si devono considerare tre cose, cioè l'essenza, la relazione e l'origine; e secondo ognuna di esse il Figlio è nel Padre e viceversa.
Il Padre è nel Figlio secondo l'essenza, perché il Padre è la sua essenza, e senza trasmutarsi comunica questa sua essenza al Figlio; essendo dunque l'essenza del Padre nel Figlio, ne segue che anche il Padre è nel Figlio. E così pure il Figlio è nel Padre, dato che il Figlio è la sua propria essenza che è nel Padre.
E ciò corrisponde a quanto insegna S. Ilario [De Trin. 5, 37 s.]: "L'immutabile Iddio segue, per così dire, la sua natura, generando un altro Dio immutabile.
Quindi possiamo riconoscere come sussistente in quest'ultimo la natura divina, trovandosi Dio in Dio".
- Anche secondo le relazioni è chiaro che uno degli opposti relativi è concettualmente nell'altro.
Così pure secondo l'origine è evidente che la processione del verbo intelligibile non passa all'esterno, ma [il verbo] resta nell'intelletto che lo esprime. E anche ciò che è espresso mediante il verbo è contenuto nel verbo. - E le stesse ragioni valgono per lo Spirito Santo.

Soluzione delle difficoltà: 1. Ciò che si trova nelle creature non basta a dare un'idea esatta delle realtà divine.
Quindi secondo nessuno dei modi che il Filosofo enumera il Figlio è nel Padre, o viceversa. Il modo che più si avvicina, tuttavia, è quello secondo cui si dice che una cosa è nel principio originante: però nelle creature manca sempre l'unità di essenza tra il principio e ciò che deriva da tale principio.
2. L'uscita del Figlio dal Padre avviene secondo una processione immanente, come quella del verbo interiore che sgorga dal cuore e rimane in esso. Quindi in Dio questa uscita ha luogo soltanto secondo la distinzione delle relazioni, non secondo una qualche distanza essenziale.
3. Il Padre e il Figlio si oppongono per le loro relazioni, non per la loro essenza. Tuttavia, come si è detto [nel corpo], anche gli opposti relativi si trovano l'uno nell'altro.

Articolo 6
Se il Figlio sia uguale al Padre nella potenza
Sembra che il Figlio non sia uguale al Padre nella potenza. Infatti:
1. Dice il Vangelo [Gv 5, 19]: "Il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre". Il Padre invece può fare da sé. Quindi il Padre è più potente del Figlio.
2. Il potere di chi comanda e insegna è maggiore del potere di chi ubbidisce e ascolta. Ora, il Padre comanda al Figlio, il quale disse [Gv 14, 31]: "Faccio quello che il Padre mi ha comandato". Inoltre il Padre insegna anche al Figlio, poiché sta scritto [Gv 5, 30]: "Il Padre ama il Figlio, e gli manifesta tutto quello che fa". Così pure il Figlio ascolta [Gv 5, 30]: "Giudico secondo quello che ascolto". Quindi il Padre è più potente del Figlio.
3. Appartiene alla potenza del Padre il poter generare un Figlio uguale a sé. Dice infatti S. Agostino [Contra Maxim. 2, 7]: "Se non potesse generare un Figlio uguale a sé, dove sarebbe l'onnipotenza di Dio Padre?". Ma come si è dimostrato [q. 41, a. 6, ad 1, 2], il Figlio non può generare un Figlio. Quindi il Figlio non può tutto ciò che può il Padre nella sua onnipotenza. E così non è uguale a lui nel potere.

In contrario: Nel Vangelo [Gv 5, 19] leggiamo: "Quello che fa il Padre, anche il Figlio lo fa".

Rispondo: È necessario affermare che il Figlio è uguale al Padre anche nella potenza.
Infatti il potere di agire è una conseguenza della perfezione della natura: vediamo infatti nelle creature che quanto più perfetta è la natura di un agente, tanto più perfettamente esso agisce.
Ora, si è dimostrato [a. 4] che la stessa ragione di paternità e di filiazione richiede che il Figlio sia uguale al Padre nella grandezza, cioè nella perfezione della natura. Conseguentemente si deve anche dire che il Figlio è uguale al Padre nella p
otenza. - E lo stesso si dica dello Spirito Santo rispetto al Padre e al Figlio.

Soluzione delle difficoltà: 1. Le parole evangeliche: "Il Figlio da sé non può fare nulla" non tolgono nulla al Figlio del potere che ha il Padre, poiché subito si aggiunge: "quello che fa il Padre, anche il Figlio lo fa".
Esse invece ci mostrano che il Figlio riceve il potere dal Padre, da cui riceve la natura.
Quindi S. Ilario [De Trin. 9, 48] può affermare: "L'unità della natura divina è tale che il Figlio, pur agendo di per sé, non agisce da sé".
2. Il manifestare del Padre e l'ascoltare del Figlio non indicano se non che il Padre comunica al Figlio la scienza, come gli comunica anche l'essenza. E a ciò stesso può riferirsi il comandare del Padre, avendo egli dato al Figlio da tutta l'eternità, con la generazione, la conoscenza e il volere di ciò che egli doveva fare.- Oppure, e meglio, tutto ciò è da riferirsi a Cristo in quanto uomo.
3. Come la medesima essenza che nel Padre è paternità nel Figlio è filiazione, così è la medesima potenza quella con cui il Padre genera e il Figlio è generato.
Quindi è chiaro che tutto ciò che può il Padre, lo può anche il Figlio.
Non ne segue però che il Figlio possa generare: poiché [in tale illazione] si passa dall'essenza alle relazioni, dato che in Dio la generazione significa una relazione.
Quindi il Figlio ha la stessa onnipotenza del Padre, ma con una diversa relazione.
Il Padre la possiede come donatore, e ciò è indicato col dire che può generare; il Figlio invece la possiede come ricevente, e ciò è indicato col dire che può essere generato.




SEGUE......




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Dalla summa teologica di San Tommaso:

posterò parte dei suoi scritti, riguardante le
tre Personalità Divine "LA TRINITA'"



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Parte 12:



LA MISSIONE DELLE PERSONE DIVINE

Infine passiamo a trattare della missione [o invio] delle Persone divine [cf. q. 42, Prol.].
Su tale argomento si pongono otto quesiti:
1. Se a qualche Persona divina spetti di essere inviata;
2. Se la missione sia eterna o soltanto temporale;
3. In quale modo avvenga la missione invisibile di una Persona divina;
4. Se a qualsiasi Persona spetti di essere inviata;
5. Se tanto il Figlio quanto lo Spirito Santo siano mandati in modo invisibile;
6. A chi venga indirizzata la missione invisibile;
7. Sulla missione visibile;
8. Se qualche Persona mandi se stessa in modo visibile o invisibile.

Articolo 1
Se a qualche Persona divina spetti di essere inviata
Sembra che a nessuna Persona divina spetti di essere inviata. Infatti:
1. L'inviato è minore di chi lo invia. Ma una Persona divina non è minore di un'altra. Quindi nessuna Persona è mandata da un'altra.
2. Chi è inviato si separa da chi lo invia: per cui S. Girolamo [In Ez 5, su 16, 53 s.] dice: "Ciò che è congiunto e unito in un solo corpo non può essere inviato ". Ma come dice S. Ilario [De Trin. 7, 39], nelle Persone divine "non c'è nulla di separabile". Quindi una Persona non è mandata da un'altra.
3. Chi è mandato si allontana da un luogo e ne raggiunge un altro. Ciò però non può convenire a una Persona divina, che è in ogni luogo. Quindi a una persona divina non spetta di essere mandata.

In contrario: Sta scritto [Gv 8, 16]: "Io non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato".

Rispondo: Il concetto di missione include due elementi: il primo è il rapporto tra l'inviato e il mandante, il secondo il rapporto tra l'inviato e la sua destinazione.
Ora, per ciò stesso che uno è inviato appare che egli procede in qualche modo dal mandante: o ne dipende per il comando, come un servo è inviato dal padrone, o per il consiglio, come si dice che il re è inviato a combattere dai suoi consiglieri, o per semplice origine, come si dice che i fiori sono emessi dalla pianta.
E così pure è evidente che il rapporto [di chi è inviato] con il luogo al quale è destinato consiste nel fatto che egli comincia sotto un certo aspetto a essere in quel luogo, o perché prima non vi era in alcun modo, o perché non vi era in quel dato modo.
Ciò posto, a una persona divina può convenire la missione in quanto questa da un lato comporta una processione di origine dal mittente, e dall'altro un nuovo modo di essere in qualche luogo. E così si dice che il Figlio fu mandato nel mondo in quanto per comando del Padre incominciò a essere nel mondo visibilmente mediante l'assunzione della natura umana; tuttavia già prima "era nel mondo", come dice il Vangelo [Gv 1, 10].

Soluzione delle difficoltà: 1. La missione comporta una minorazione o inferiorità nell'inviato quando la dipendenza da chi lo manda è o per comando o per consiglio: poiché chi comanda è più grande, e chi consiglia è più sapiente.
In Dio invece comporta soltanto una dipendenza di origine, la quale, come si è detto [q. 42, aa. 4, 6], è secondo uguaglianza.
2. L'inviato che deve cominciare a essere in un luogo dove prima non era in alcun modo, in forza della sua missione deve muoversi localmente: e così deve separarsi dal mittente. Ciò però non avviene nella missione di una Persona divina: poiché la Persona inviata, come non incomincia a essere dove prima non era, così non lascia di essere dove prima era. Quindi questa missione è senza separazione, implicando solo la distinzione di origine.
3. L'argomento riguarda la missione che comporta un moto locale: missione che in Dio non ha luogo.

Articolo 2
Se la missione sia eterna o soltanto temporale
Sembra che la missione possa essere eterna. Infatti:
1. Dice S. Gregorio [In Evang. hom. 26]: "Il Figlio è mandato per lo stesso motivo per cui è generato". Ma la generazione del Figlio è eterna. Quindi anche la sua missione.
2. Riceve nel tempo una qualifica [nuova] ciò che va soggetto a mutamento. Ma le Persone divine non vanno soggette a mutamento. Quindi la loro missione non è temporale, ma eterna.
3. La missione implica la processione. Ma la processione delle Persone divine è eterna. Quindi anche la missione.

In contrario: S. Paolo [Gal 4, 4] afferma: "Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio".

Rispondo: Fra i termini che indicano l'origine delle divine Persone c'è una certa differenza.
Alcuni infatti in forza del loro significato indicano soltanto un rapporto con il principio, come processione e derivazione.
Altri invece insieme con il rapporto di derivazione implicano anche il termine della processione. E di questi alcuni indicano un termine eterno, come generazione e spirazione: infatti la generazione è la processione di una Persona divina verso la natura divina, e la spirazione passiva comporta la processione dell'Amore sussistente.
Altri invece implicano, assieme al rapporto con il principio, un termine temporale, come missione e donazione: infatti uno è inviato per essere in qualche luogo, e una cosa è donata perché qualcuno cominci a possederla. Ora, per una persona divina essere posseduta da una creatura, o trovarsi in una creatura in modo nuovo, è qualcosa di temporale.
Perciò in Dio missione e donazione sono denominazioni soltanto temporali.
Generazione e spirazione sono denominazioni esclusivamente eterne. Processione e uscita sono insieme temporali ed eterne: poiché il Figlio è proceduto da tutta l'eternità per essere Dio; è proceduto invece nel tempo per essere anche uomo, secondo la missione visibile; o anche per essere nell'uomo, secondo una missione invisibile.

Soluzione delle difficoltà: 1. S. Gregorio [probabilmente] parla della generazione temporale del Figlio dalla Madre, e non di quella eterna dal Padre. - Oppure vuol dire che il Figlio è capace di essere mandato per il fatto stesso che è generato dall'eternità.
2. Se una Persona divina comincia a trovarsi in qualcuno in una maniera nuova, o viene a essere posseduta nel tempo, ciò non va attribuito a una sua mutazione, ma a una mutazione della creatura: a quel modo in cui Dio a cominciare dal tempo è denominato Signore per mutazione delle creature [passate dal nulla all'esistenza].
3. La missione non implica solo la processione da un principio, ma stabilisce anche un termine temporale di tale processione. Quindi la missione è soltanto temporale.
O [possiamo dire che] la missione include la processione eterna e le aggiunge qualcos'altro, cioè l'effetto temporale: infatti la relazione della Persona divina al suo principio non può essere che dall'eternità.
Per cui la processione è detta doppia, cioè eterna e temporale: non che si raddoppi la relazione al principio, ma il raddoppiamento avviene dalla parte del termine temporale ed eterno.

Articolo 3
Se la missione invisibile di una Persona divina avvenga solo mediante il dono della grazia santificante
Sembra che la missione invisibile di una persona divina non avvenga solo mediante il dono della grazia santificante. Infatti:
1. La missione di una persona divina corrisponde alla donazione della medesima.
Se dunque la persona non viene mandata se non secondo il dono della grazia santificante, non sarà la Persona divina a essere donata, ma solo i suoi doni. E questo è l'errore di quanti dicono che non ci è dato lo Spirito Santo, ma i suoi doni.
2. La preposizione mediante [secundum] indica un rapporto di causa. Ora, la grazia non è la causa per cui noi abbiamo la Persona divina, ma al contrario la Persona divina è la causa per cui noi abbiamo la grazia, secondo quanto è scritto [Rm 5, 5]: "L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato". Quindi non è esatto affermare che la Persona divina è inviata mediante il dono della grazia santificante.
3. S. Agostino [De Trin. 4, 20] insegna che il Figlio "è detto inviato quando è percepito nel tempo dalla nostra mente". Ora, il Figlio è conosciuto non solo mediante la grazia santificante, ma anche mediante le grazie gratis datae, come la fede e la scienza. Quindi la Persona divina non ci è data solo mediante il dono della grazia santificante.
4. Rabano Mauro [Enarr. in Epist. Pauli 11, su 1 Cor 12, 11] dice che lo Spirito Santo fu dato agli Apostoli perché compissero dei miracoli. Ora, questo non è un dono di grazia santificante, ma di grazia gratis data. Perciò la persona divina non è data solo attraverso il dono della grazia santificante.

In contrario: S. Agostino [De Trin. 15, 27] dice che "lo Spirito Santo procede temporalmente per santificare le creature".
Ma la missione è una processione temporale. Non avvenendo dunque la santificazione della creatura se non mediante la grazia santificante, ne segue che la missione invisibile della Persona divina si ha in modo esclusivo mediante la grazia santificante.

Rispondo: A una persona divina spetta di essere inviata perché può cominciare a esistere in un modo nuovo in qualcuno; e di essere donata perché può venire in possesso di qualcuno.
Ora, senza la grazia santificante non si ha né l'una né l'altra di queste due cose.
Dio infatti si trova comunemente in tutte le cose per essenza, per potenza e per presenza, come la causa negli effetti che partecipano la sua bontà. Ma al di sopra di questo modo comune ce n'è uno speciale riservato alle creature razionali, nelle quali Dio è presente come ciò che è conosciuto è in chi conosce, e ciò che è amato è in chi ama.
E siccome la creatura razionale, conoscendo e amando, con la sua operazione raggiunge Dio stesso, si dice che Dio, secondo questo modo speciale, non solo è nella creatura razionale, ma anche abita in essa come in un suo tempio.
Quindi nessun altro effetto, all'infuori della grazia santificante, può far sì che una Persona divina sia presente in un modo nuovo nella creatura razionale.
Per cui solo mediante la grazia santificante la Persona divina è mandata e procede nel tempo. - E così pure noi diciamo di avere o possedere solo quelle cose di cui possiamo usare e godere a nostro piacimento. Ora, il poter godere di una Persona divina si ha soltanto mediante il dono della grazia santificante.
E tuttavia con questo medesimo dono della grazia santificante lo Spirito Santo è posseduto, e abita nell'uomo. Per cui lo stesso Spirito Santo è dato e inviato.

Soluzione delle difficoltà: 1. Mediante il dono della grazia santificante la creatura razionale viene elevata non solo fino a usare liberamente del dono creato [che è la grazia], ma anche sino a fruire della stessa Persona divina.
Quindi la missione invisibile avviene mediante il dono della grazia santificante, e tuttavia viene data anche la Persona divina.
2. La grazia santificante dispone l'anima a ricevere la Persona divina; ed è precisamente questo che si vuole affermare quando si dice che lo Spirito Santo è dato mediante il dono della grazia santificante. E tuttavia lo stesso dono della grazia viene dallo Spirito Santo; il che viene indicato da quelle parole: "L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo".
3. Sebbene il Figlio possa essere conosciuto da noi anche per altri suoi effetti, tuttavia non a motivo di questi abita in noi ed è posseduto da noi.
4. L'attività dei miracoli serve a manifestare la grazia santificante, come il dono della profezia e qualsiasi altra grazia gratis data. Per cui S. Paolo [1 Cor 12, 7] chiama quest'ultima: "manifestazione dello Spirito". Si dice dunque che agli Apostoli fu dato lo Spirito Santo per fare miracoli inquantoché fu data loro la grazia santificante accompagnata dal corrispondente segno manifestativo. - Se invece [a qualcuno] venisse dato solo questo segno manifestativo della grazia senza la grazia santificante, non si potrebbe dire puramente e semplicemente che [gli] è stato dato lo Spirito Santo, ma si dovrebbe aggiungere qualche specificazione, come si fa quando si dice che a qualcuno è dato lo spirito profetico o taumaturgico, in quanto gli è stato concesso dallo Spirito Santo il potere di profetare o di operare miracoli.

Articolo 4
Se il Padre possa essere inviato
Sembra che anche il Padre possa essere inviato. Infatti:
1. Per una Persona divina essere inviata corrisponde a essere data. Ma il Padre dà se stesso: infatti non lo si potrebbe avere se egli stesso non si desse. Quindi si può dire che il Padre invia se stesso.
2. Una Persona divina è inviata in quanto abita in noi mediante la grazia. Ma mediante la grazia abita in noi tutta la Trinità, poiché sta scritto [Gv 14, 23]: "Verremo a lui, e prenderemo dimora presso di lui". Quindi tutte le Persone divine sono inviate.
3. Ciò che conviene a una Persona conviene a tutte, eccetto le nozioni e le persone. Ora, la missione non indica una persona e neppure una nozione, poiché le nozioni sono soltanto cinque, come si è spiegato [q. 32, a. 3]. Quindi qualsiasi persona può essere inviata.

In contrario: S. Agostino [De Trin. 2, 5] fa osservare che "solo del Padre non si legge mai che sia stato mandato".

Rispondo: La missione nel suo concetto implica processione da altri e in Dio, come si è detto [a. 1], implica processione di origine. Quindi il Padre, non derivando da altri, in nessun modo può essere inviato, ma lo possono soltanto il Figlio e lo Spirito Santo, che derivano da altri.

Soluzione delle difficoltà: 1. Se col termine dare si vuole esprimere la spontanea comunicazione di qualcosa, si può dire che il Padre dà se stesso, in quanto si offre con liberalità alla fruizione delle creature.
Se invece [col termine dare] si vuole esprimere l'autorità di chi dà su chi è dato, allora in Dio l'essere dato, come l'essere mandato, spetta soltanto a una Persona che deriva da un'altra.
2. La produzione della grazia spetta anche al Padre, che mediante la grazia abita in noi come il Figlio e lo Spirito Santo; tuttavia, siccome egli non deriva da altri, non si dice che è mandato.
Ed è quanto insegna S. Agostino [De Trin. 4, 20]: "Non si dice che il Padre è mandato quando nel tempo viene conosciuto da qualcuno; non ha infatti uno da cui possa procedere".
3. La missione, implicando l'idea di processione dell'inviato dal mandante, include nel suo significato anche la nozione, non in particolare, ma in generale, in quanto cioè essere da altri è comune a due nozioni.

Articolo 5
Se il Figlio possa essere inviato in modo invisibile
Sembra che il Figlio non possa essere inviato in modo invisibile. Infatti:
1. La missione di una Persona divina avviene attraverso i doni di grazia.
Ma tutti questi doni appartengono allo Spirito Santo, poiché sta scritto [1 Cor 12, 11]: "Tutte queste cose è l'unico e medesimo Spirito che le produce". Quindi la missione invisibile non conviene che allo Spirito Santo.
2. La missione di una Persona divina avviene mediante il dono della grazia santificante. Ma i doni che perfezionano l'intelletto non sono doni di grazia santificante, poiché si possono avere anche senza la carità, come dice S. Paolo [1 Cor 13, 2]: "E se avessi il dono della profezia, e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla". Quindi, dato che il Figlio procede come Verbo mentale, sembra che egli non debba essere inviato in modo invisibile.
3. La missione di una Persona divina, come si è spiegato sopra [aa. 1, 4], è una certa processione. Ma la processione del Figlio è diversa da quella dello Spirito Santo. Se quindi ambedue sono mandati, ne è diversa anche la missione. E così o l'una o l'altra sarebbe superflua, dato che una sola è sufficiente per santificare le creature.

In contrario: È detto della Sapienza divina [Sap 9, 10]: "Inviala dai tuoi cieli santi, mandala dal tuo trono glorioso".

Rispondo: Con la grazia santificante tutta la Trinità dimora nell'anima, secondo le parole [Gv 14, 23]: "Verremo a lui, e prenderemo dimora presso di lui".
Ora, la missione di una Persona divina presso qualcuno mediante la grazia invisibile sta a indicare un nuovo modo di inabitazione della medesima, e la sua origine da un'altra Persona.
Quindi, siccome tanto al Figlio quanto allo Spirito Santo conviene di inabitare per grazia e di derivare da altri, tutti e due possono essere mandati invisibilmente.
Il Padre invece, sebbene possa anch'egli inabitare per grazia, tuttavia non può derivare da altri, e quindi neppure può essere mandato.

Soluzione delle difficoltà: 1. Tutti i doni, in quanto sono doni, sono attribuiti allo Spirito Santo, essendo egli in quanto Amore il primo dono, come si è detto [q. 38, a. 2]; tuttavia alcuni doni, a motivo di quanto hanno di speciale, sono appropriati al Figlio, e sono quelli che riguardano l'intelletto. E secondo tali doni si ha la missione del Figlio.
Per cui S. Agostino [De Trin. 4, 20] insegna che il Figlio "allora è mandato a ciascuno in modo invisibile, quando da ciascuno viene conosciuto e percepito".
2. L'anima mediante la grazia diviene conforme a Dio.
Quindi, perché [si possa dire che] una Persona divina è inviata mediante la grazia a una creatura, è necessario che quest'ultima per qualche dono di grazia diventi simile alla Persona divina inviata.
Ora, poiché lo Spirito Santo è Amore, mediante il dono della carità l'anima diventa simile a lui: quindi secondo il dono della carità si ha la missione dello Spirito Santo.
Invece il Figlio è Verbo, ma non un verbo qualunque, bensì un verbo che spira l'Amore: per cui S. Agostino [De Trin. 9, 10] può affermare: "Il Verbo a cui intendiamo alludere è una conoscenza con amore".
Dunque il Figlio non è inviato secondo un perfezionamento qualsiasi dell'intelletto, ma solo secondo un'istruzione dell'intelletto tale che esso prorompa nell'affetto dell'amore, come dice la Scrittura [Gv 6, 45]: "Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me"; e altrove [Sal 38, 4]: "Al ripensarci è divampato il fuoco". Per questo S. Agostino [De Trin. 4, 20] dichiara espressamente: "Il Figlio è mandato quando da qualcuno è conosciuto e percepito"; e qui percezione indica una certa conoscenza sperimentale. E questa propriamente viene chiamata sapienza, quasi sapida scientia, [ossia scienza gustosa], come sta scritto [Sir 6, 22]: "La sapienza è come dice il suo nome".
3. La missione, come si è detto sopra [aa. 1, 3], comporta l'origine della Persona inviata e la sua inabitazione mediante la grazia: se quindi parliamo delle missioni considerando le origini che esse implicano, allora la missione del Figlio si distingue da quella dello Spirito Santo come la generazione si distingue dalla spirazione.
Se invece consideriamo la produzione della grazia, allora le due missioni hanno in comune la stessa radice, che è la grazia, distinguendosi però quanto agli effetti della medesima, che sono rispettivamente l'illuminazione dell'intelletto e l'eccitazione degli affetti.
E così è evidente che l'una non può stare senza l'altra: poiché né l'una né l'altra missione può aver luogo senza la grazia santificante, né una Persona può separarsi dall'altra.

Articolo 6
Se la missione invisibile sia diretta a tutti coloro che sono in grazia
Sembra che la missione invisibile non sia diretta a tutti coloro che sono in grazia. Infatti:
1. I Padri dell'Antico Testamento erano partecipi della grazia santificante.
Ma non sembra che ad essi sia stata diretta la missione invisibile, poiché sta scritto [Gv 7, 39]: "Lo Spirito Santo non era stato ancora dato, perché Gesù non era stato ancora glorificato". Quindi la missione invisibile non è diretta a tutti quelli che sono in grazia.
2. Il progresso nella virtù non si ha senza la grazia.
Ma la missione divina non sembra dipendere dal progresso nella virtù: perché essendo questo continuo, e dato che la carità o cresce sempre o scompare, anche la missione sarebbe continua. Quindi la missione invisibile non è diretta a tutti quelli [che vengono resi] partecipi della grazia.
3. Cristo e i beati hanno la pienezza della grazia.
Ma evidentemente non viene indirizzata ad essi questa missione, poiché la missione si indirizza a chi è distante, mentre Cristo come uomo e i beati sono perfettamente uniti a Dio. Quindi la missione invisibile non è indirizzata a tutti i partecipi della grazia.
4. I Sacramenti della nuova legge contengono la grazia. Eppure nessuno dice che ad essi sia diretta la missione invisibile. Quindi non a tutto ciò che ha la grazia viene diretta la missione invisibile.

In contrario: S. Agostino [De Trin. 15, 27] insegna che la missione invisibile viene fatta per santificare la creatura. Ma ogni creatura che ha la grazia viene santificata. Quindi a ognuna di queste creature è diretta la missione invisibile.

Rispondo: Come si è già spiegato [a. 1], la missione comporta nel suo concetto che l'inviato o incominci a essere dove prima non era, come avviene tra le creature, oppure incominci a essere in un modo nuovo dove già prima si trovava: e in questo secondo senso è attribuita alle Persone divine.
Così dunque, [per conoscere chi è] colui al quale è indirizzata la missione, bisogna considerare due cose: l'inabitazione mediante la grazia e un qualche rinnovamento causato dalla grazia stessa.
La missione invisibile dunque è diretta precisamente a tutti coloro nei quali si riscontrano queste due cose.

Soluzione delle difficoltà: 1. La missione invisibile fu diretta anche ai Padri dell'Antico Testamento. Per cui S. Agostino [De Trin. 4, 20] insegna che il Figlio, come inviato invisibile, "viene a essere negli uomini o con gli uomini; e questo era già avvenuto anche prima nei Patriarchi e nei Profeti".
Quindi le parole: "lo Spirito non era stato ancora dato" vanno intese di quella donazione accompagnata da segni visibili che fu fatta nel giorno di Pentecoste.
2. Anche secondo il progresso nella virtù e l'aumento della grazia avviene la missione invisibile. Dice infatti S. Agostino [ib.] che il Figlio "allora viene inviato, quando da qualcuno viene a essere conosciuto e percepito, per quel tanto che può essere conosciuto e percepito secondo la capacità dell'anima che o progredisce o ha raggiunto la perfezione in Dio".
Tuttavia la missione invisibile avviene principalmente secondo quell'aumento di grazia che si produce quando uno si eleva a nuovi atti o a un nuovo stato di grazia: quando uno, p. es., giunge a fare miracoli o a profetare, oppure quando nel fervore della carità si espone al martirio, o rinuncia a quanto possiede, o mette mano a qualsiasi altra opera straordinaria.
3. Ai beati fu diretta la missione invisibile all'inizio della loro beatitudine.
In seguito poi questa missione invisibile avviene ancora nei loro riguardi non per un'intensificazione della grazia, ma a motivo di nuove rivelazioni che vengono loro fatte: e ciò avverrà fino al giudizio finale. Si tratta quindi di un aumento estensivo della grazia.
A Cristo [come uomo] la missione invisibile fu invece fatta all'inizio del suo concepimento, e mai più in seguito: poiché fin dall'inizio del suo concepimento fu colmato di ogni sapienza e grazia.
4. Nei Sacramenti della nuova legge la grazia c'è in modo strumentale, come la forma di un'opera può trovarsi nello strumento che viene usato per produrla secondo un certo passaggio dall'agente al paziente.
La missione invece è diretta soltanto al termine.
Quindi la missione della persona divina non viene indirizzata ai Sacramenti, ma a coloro che attraverso i Sacramenti ricevono la grazia.

Articolo 7
Se si possa attribuire allo Spirito Santo una missione visibile
Sembra che allo Spirito Santo non si possa attribuire una missione visibile. Infatti:
1. Il Figlio, in quanto visibilmente inviato, è detto minore del Padre.
Ma dello Spirito Santo non si trova mai affermato che sia minore del Padre. Quindi egli non può dirsi inviato in modo visibile.
2. La missione visibile richiede l'assunzione di una qualche creatura: la missione del Figlio, p. es., fu fatta mediante l'incarnazione.
Ora, lo Spirito Santo non ha mai assunto creature visibili. Quindi non si può dire che egli si trovi in modo speciale in alcune creature visibili piuttosto che in altre, escluso il caso che si tratti di segni, come sono i Sacramenti e le figure dell'antica legge.
Quindi lo Spirito Santo non è inviato visibilmente; oppure si deve affermare che la sua missione visibile avviene mediante tutte queste cose.
3. Ogni creatura visibile è un effetto che manifesta tutta la Trinità. Quindi mediante le creature visibili non si manifesta lo Spirito Santo più di un'altra Persona.
4. Il Figlio fu inviato mediante la più nobile delle creature visibili, cioè mediante la natura umana. Se dunque lo Spirito Santo fosse stato inviato visibilmente, avrebbe dovuto esserlo mediante una creatura razionale.
5. Secondo S. Agostino [De Trin. 3, cc. 10, 11; cf. 4, 21], i fatti visibili compiuti per virtù divina vengono prodotti attraverso il ministero degli angeli. Se dunque apparvero [soprannaturalmente] delle immagini visibili, ciò fu per opera di angeli.
E così sono inviati gli stessi angeli, e non lo Spirito Santo.
6. Se lo Spirito Santo è mandato visibilmente, ciò non avviene se non per manifestare la missione invisibile, essendo le realtà visibili manifestatrici di quelle invisibili.
Quindi a coloro a cui non fu fatta la missione invisibile non si sarebbe dovuta fare neppure quella visibile; e al contrario questa si sarebbe dovuta fare a tutti quelli, sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, a cui era stata fatta la missione invisibile: cosa questa evidentemente falsa.
Quindi non si deve dire che lo Spirito Santo è inviato in maniera visibile.

In contrario: La Scrittura [Mt 3, 16] afferma che lo Spirito Santo discese sotto forma di colomba sopra il Signore dopo il suo battesimo.

Rispondo: Dio provvede a tutte le cose secondo il modo proprio di ciascuna.
Ora, come si è detto [q. 12, a. 12], è connaturale all'uomo giungere alle realtà invisibili per mezzo di quelle visibili: perciò era necessario che le realtà invisibili di Dio fossero mostrate all'uomo mediante quelle visibili.
Quindi come Dio, servendosi di certi indizi tratti dalle realtà visibili, manifestò agli uomini in qualche modo se stesso e le eterne processioni delle Persone, così era giusto che per mezzo di creature visibili manifestasse anche le missioni invisibili delle Persone divine.
Diverse però dovevano essere le manifestazioni del Figlio e dello Spirito Santo. Infatti allo Spirito Santo, che procede come Amore, spetta di essere il dono della santificazione; al Figlio invece, che è principio dello Spirito Santo, spetta di essere l'Autore di questa stessa santificazione.
Quindi il Figlio fu mandato visibilmente come Autore della santificazione; lo Spirito Santo invece come indizio di questa santificazione.

Soluzione delle difficoltà: 1. Il Figlio unì a sé in unità di persona la creatura visibile in cui apparve fino al punto che quanto si dice di tale creatura può essere attribuito al Figlio di Dio.
Quindi, a motivo della natura che ha assunto, del Figlio si dice che è minore del Padre. Lo Spirito Santo invece non assunse in unità di persona la creatura in cui apparve, così che gli si possa attribuire quanto si predica di essa. Quindi non può essere detto minore del Padre a motivo di questa creatura visibile.
2. La missione visibile dello Spirito Santo non fu una visione immaginaria, come quella profetica.
Poiché, come spiega S. Agostino [De Trin. 2, 6], "la visione profetica non fu presentata agli occhi del corpo per mezzo di forme corporali, ma avvenne nello spirito per mezzo di immagini spirituali tratte dai corpi; invece la colomba e le lingue di fuoco furono viste con gli occhi del corpo da quanti le videro. E lo Spirito Santo non ebbe neppure con quelle apparizioni il rapporto che il Figlio ebbe con la pietra (in quel passo in cui si dice che la pietra era Cristo). Infatti quella pietra esisteva già in natura, e per la sua funzione particolare fu denominata Cristo, di cui era figura; invece la colomba e il fuoco furono formati in quell'istante per significare lo Spirito Santo. Essi sembrano piuttosto simili alla fiamma che apparve a Mosè nel roveto, e alla colonna che guidava il popolo nel deserto, e ai fulmini e ai tuoni che si udirono quando sul monte fu data la legge: poiché le apparizioni di queste realtà corporee ebbero luogo soltanto per significare qualcosa, e poi scomparire".
È chiaro dunque che la missione visibile non avviene né secondo le visioni profetiche, essendo queste immaginarie e non corporee, e neppure secondo i segni sacramentali dell'Antico e del Nuovo Testamento, nei quali vengono prese come segni delle realtà già preesistenti. Invece lo Spirito Santo si dice che fu inviato visibilmente in quanto fu manifestato mediante alcune creature formate espressamente per indicarlo.
3. Quantunque tutta la Trinità abbia formato quelle creature visibili, tuttavia essa le formò per mostrare l'una o l'altra Persona in particolare.
Come infatti il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo vengono indicati con nomi diversi, così poterono essere manifestati con realtà diverse, benché tra loro non ci sia separazione né diversità alcuna.
4. Come si è già detto [nel corpo], era giusto che la persona del Figlio fosse presentata come Autore della santificazione: perciò era necessario che la sua missione visibile avvenisse mediante una creatura razionale, capace di azione e di santificazione. Invece indizio di santificazione poteva essere qualsiasi altra creatura.
E non era necessario che la creatura visibile formata a questo scopo fosse assunta dallo Spirito Santo in unità di persona, non essendo stata assunta per agire, ma solo per significare.
E anche per questo non c'era bisogno che durasse, dopo aver compiuto la sua funzione.
5. Quelle creature visibili furono formate attraverso il ministero di angeli non per manifestare la loro persona, ma quella dello Spirito Santo.
Poiché dunque lo Spirito Santo si trovava in quelle creature visibili come la realtà rappresentata si trova nel segno che la rappresenta, per questo si dice che per mezzo di esse fu mandato visibilmente lo Spirito Santo, e non un angelo.
6. Non si richiede che la missione invisibile si manifesti sempre esternamente mediante un segno visibile: poiché, come osserva S. Paolo [1 Cor 12, 7], "le manifestazioni dello Spirito vengono concesse per l'utilità" della Chiesa.
E tale utilità consiste nella conferma e nella propagazione della fede mediante segni sensibili.
Il che avvenne in modo speciale in Cristo e negli Apostoli, come dice la Scrittura [Eb 2, 3]: "[La salvezza], dopo essere stata promulgata all'inizio dal Signore, è stata confermata in mezzo a noi da quelli che l'avevano udita".
Quindi la missione visibile dello Spirito Santo giustamente fu diretta in modo particolare a Cristo, agli Apostoli e ad alcuni Santi dei primi tempi sui quali in una certa maniera si stava fondando la Chiesa: in modo però che la missione visibile diretta a Cristo manifestasse la missione invisibile fatta a lui non allora, ma all'inizio del suo concepimento. Ora, nel battesimo di Cristo si compì la missione visibile sotto forma di colomba, animale prolifico, per dimostrare che Cristo aveva il potere di conferire la grazia mediante la rigenerazione spirituale: per cui la voce del Padre proclamò [Mt 3, 17]: "Questi è il Figlio mio prediletto", per indicare che altri sarebbero stati rigenerati a immagine dell'unigenito.
Nella trasfigurazione invece [la missione visibile avvenne] sotto forma di nube splendente per dimostrare la sovrabbondanza della sua dottrina: per cui fu intimato [ib. 17, 5]: "Ascoltatelo ".
Agli Apostoli poi [la missione visibile dello Spirito Santo] fu diretta sotto forma di alito per indicare il conferimento della potestà di ordine nell'amministrazione dei Sacramenti: per cui fu loro detto [Gv 20, 23]: "A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi"; e sotto forma di lingue di fuoco per indicare il magistero della dottrina: per cui sta scritto [At 2, 4]: "Cominciarono a parlare in varie lingue".
Non era invece opportuno che ai Padri dell'Antico Testamento fosse diretta la missione visibile dello Spirito Santo: poiché prima doveva compiersi la missione visibile del Figlio, dato che lo Spirito Santo ha l'ufficio di manifestare il Figlio, come il Figlio il Padre.
Vi furono tuttavia apparizioni sensibili delle Persone divine ai Padri dell'Antico Testamento. Che però non possono essere dette missioni visibili poiché, secondo S. Agostino [De Trin. 2, 17], non avvennero per mostrare l'inabitazione di una Persona divina mediante la grazia, ma per indicare qualche altra cosa.

Articolo 8
Se una Persona divina sia mandata solo da quella da cui procede eternamente
Sembra che una Persona divina sia mandata soltanto da quella da cui procede eternamente. Infatti:
1. S. Agostino [De Trin. 4, 20] afferma che "il Padre non è mandato da nessuno, poiché non deriva da nessuno". Se dunque una Persona è mandata da un'altra, deve derivare da essa.
2. Chi manda ha potere sull'inviato. Ma rispetto a una Persona divina non c'è potere se non a motivo dell'origine. Quindi è necessario che la Persona divina inviata derivi dalla Persona che la manda.
3. Se una Persona divina potesse essere mandata anche da colui dal quale non procede, si potrebbe affermare che lo Spirito Santo è dato dall'uomo, quantunque da lui non derivi.
Ma ciò è contro l'insegnamento di S. Agostino [De Trin. 15, 26]. Quindi una Persona divina non è mandata se non da quella da cui procede.

In contrario: Secondo la Scrittura il Figlio è mandato dallo Spirito [Is 48, 16]: "E adesso mi ha mandato il Signore Dio, e il suo Spirito".
Ora, il Figlio non deriva dallo Spirito Santo.
Quindi una Persona divina può essere mandata anche da quella da cui non procede.

Rispondo: Su questo punto vi sono diversi pareri.
Secondo alcuni una Persona divina non è mandata se non da quella da cui procede ab aeterno. E secondo questo modo di vedere i testi in cui si afferma che il Figlio è mandato dallo Spirito Santo vanno riferiti alla sua natura umana, secondo la quale egli fu inviato dallo Spirito Santo a predicare.
Invece S. Agostino [De Trin. 2, 5] insegna che il Figlio è mandato da se stesso e dallo Spirito Santo; e anche lo Spirito Santo viene inviato da se stesso e dal Figlio [De Trin. 2, 5; 15, 19]: per cui non tutte le Persone divine possono essere mandate, ma soltanto quelle che derivano da altre; tutte però hanno il potere di inviare.
Ora, ambedue le opinioni hanno qualcosa di vero.
Quando infatti si dice che una Persona è mandata si indica sia la Persona che deriva da un'altra, sia l'effetto visibile o invisibile da cui si desume la missione di quella Persona divina.
Se dunque la Persona mittente è indicata come principio della Persona inviata, allora non qualsiasi Persona manda, ma soltanto quella che è il principio della Persona mandata; e in questo senso il Figlio è mandato soltanto dal Padre, e lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio.
Se invece la Persona mittente è considerata come causa degli effetti a cui mira la missione, allora tutta la Trinità manda la Persona inviata.
Da ciò non segue però che anche l'uomo possa dare lo Spirito Santo: poi ché egli non può causare la grazia.
E così vengono risolte le difficoltà.



STOP!



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Pierino





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[SM=g8862]
Leggendo il trattato, ho notato che non appare il
nome del nostro Signore Gesù Cristo.

Secondo Voi, quale potrebbe essere il motivo, per cui
San Tommaso (dottore della Chiesa) non lo menziona?






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Piero scrive





Leggendo il trattato, ho notato che non appare il
nome del nostro Signore Gesù Cristo.

Secondo Voi, quale potrebbe essere il motivo, per cui
San Tommaso (dottore della Chiesa) non lo menziona?



Bella domanda Piè!!!!!

Franco






“Quando si vuol cercare la verità su una questione
bisogna cominciare col il dubbio.
(S. Tommaso d’Aquino)”

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[SM=g6198] [SM=g6198]

Un'altro "particolare" che vorrei far notare, sia a coloro
che per la prima volta "affrontano" il tema Trinitario, sia
ai "trinitari "esperti":

Nella Summa Teologica, San Tommaso inizia il suo discorso sul
Dio/Trinità, parlando del Dio unico....e soltanto in un secondo
tempo affronta il tema della Trinità!



[SM=g8862] come mai?


sarebbero graditi i commenti di qualche "esperto trinitario"! [SM=g7348]







Una stretta di [SM=g1902224]



Pierino



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[SM=g6198] [SM=g6233] [SM=g6135] [SM=g7958] [SM=g6198] [SM=g6233] [SM=g6135]


[SM=g6135] mi è stato richiesto... [SM=g6135]

Rimetto in Pole questo interessantissimo 3D.
Visto che ora, abbiamo anche nel forum delle persone
che possono dare un ottimo supporto a riguardo, vediamo
se "riusciamo" a capire un pò... quel Mistero Divino che è:
La SANTISSIMA TRINITA'.

una stretta di [SM=g1902224]



Pierino


[Modificato da mlp-plp 25/12/2010 18:55]
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