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"Viaggiando" nella Bibbia..cosa si "Scopre"?..cosa dicono gli Esegeti?

Ultimo Aggiornamento: 27/06/2013 17:09
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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VI (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]








dal re Ezechia al re Giosia: storia di una riforma




7. Il problema della manutenzione del clero:
pietra d'inciampo alla rinnovazione


Al problema della riforma del culto si legava quello della manutenzione del clero dell'interno.
Tutti quei santuari, sia degli dèi falsi che del vero Dio, avevano i loro sacerdoti.

I poveretti trovavano nei santuari l'unico mezzo di sussistenza. Decretando l'abolizione dei santuari il clero di Gerusalemme decretava la fame e la miseria dei colleghi dell'interno. Problema insolubile circolo vizioso; Ezechia aveva tentato già una riforma del clero senza nessun risultato (II Cron. 31, 2).

Col governo di Manasse tutto era tornato al punto di partenza.
Senza prima dare una soluzione ragionevole al problema concreto del clero, qualunque altra soluzione per promuovere la riforma sarebbe stata come un innesto su un ramo secco.

Per quanto possano essere belli gli ideali, nessuno vuol morire di fame per loro amore.

Gli autori del libro del Deuteronomio si proposero di risolvere il problema del clero e trovarono la soluzione di cui si parla nel libro di Giosia:
una parte del clero dell'interno fu trasferito a Gerusalemme, dove ottenne un impiego di seconda categoria nel tempio (Il Re 23, 8; cf. Dt. 18, 6-8);

un'altra parte ricevette la proibizione di stabilirsi a Gerusalemme (II Re 23, 9) e fu affidata alla carità del popolo (cf. Dt. 14, 27-29).

Affiora la rivalità tra i due cleri e la lotta che si facevano da tempo per conquistare una maggiore influenza sul popolo.

Il clero della capitale voleva guadagnarsi una influenza maggiore nella nazione e voleva centralizzare il culto nelle sue mani.
E ne aveva il mezzo dal momento che il pericolo della magia era grande.

D'altra parte il trasferimento di tutto il clero nella capitale poteva marginalizzare lo stesso clero della capitale.

Il clero dell'interno si vide privato delle sue normali fonti di guadagno. Abbandonato alla carità del popolo o ridotto a un impiego di seconda categoria nel tempio, non vedeva di buon occhio l'azione centralizzatrice dei suoi colleghi di Gerusalemme che godevano condizioni di vantaggio.

Non è poi molto piacevole essere messo di punto in bianco alla stregua dello «straniero, dell'orfano e della vedova» (Dt. 14, 29)!
La previdenza sociale del clero fin da quel tempo costituì un problema e un problema cruciale per l'esito della riforma che si doveva fare.

Sembra proprio che tutta la legislazione corrispondesse soltanto al modo come gli agenti centrali di coordinamento a Gerusalemme sentivano ed affrontavano il problema, in quanto erano persone che da molto tempo pensavano a queste cose e avevano una coscienza illuminata.

Non era certo espressione del problema così come lo sentiva e lo viveva la base, il popolo e il clero dell'interno. Qui si situa la causa del fallimento della riforma.



8. L'esecuzione della riforma e la sua tragica fine

Il re Giosia assunse la riforma come sua missione personale.
Fece di tutto per metterla in pratica.
Corse tutta la nazione da nord a sud (II Re 23, 4-14).
Entrò perfino nel territorio di Israele (II Re 15-20).

Voleva farla finita con tutti i santuari, sia di Jahvé sia degli altri dèi, per purificare la religione dal cancro della superstizione e della magia.

Usò la violenza e arrivò ad uccidere i sacerdoti degli dèi falsi bruciandoli vivi insieme ai loro altari (II Re 23, 20).

Attuò la riforma del clero (II Re 23, 8-9).
Fu molto elogiato:
«Ha fatto ciò che piace a Dio e in tutto ha imitato la condotta di David suo padre senza deviare né a destra né a sinistra» (II Re 22, 2).

È difficile dare un giudizio sul movimento di riforma messo in opera da Giosia.
La morte inattesa e immatura gli impedì di portarla a termine.

Dopo di lui andarono al governo uomini incapaci.
Tutto restò a metà.

Giosia abbatté la vecchia casa e non fece in tempo a costruirne una nuova.

Ancora una volta sarà la situazione internazionale ad influire sull'andamento dei fatti interni del paese dando loro una direzione imprevista.

Nabopolassar, re di Babilonia, la terza potenza mondiale dell'epoca, ereditò dai suoi antenati lo spirito di lotta e di indipendenza e dette inizio alla rivolta contro il potere secolare degli Assiri.

Con battaglie fulminee riuscì a frantumare in pochi anni un potere immenso costruito durante secoli.
L'Assiria agonizzava.

Nel 612, cioè dieci anni dopo la scoperta del libro della Legge nel tempio, quando Giosia correva il paese distruggendo i santuari e trasferendo il clero, Ninive, la grande capitale degli Assiri, fu presa dai Babilonesi e rasa al suolo.


Questo fatto è simile all'esplosione della prima bomba atomica di Hiroshima:
finisce un'epoca e ne incomincia un'altra.

L'Assiria si ritirò con le truppe che le restavano verso il nord nell'attuale Siria e là si barricò in un ultimo tentativo di difesa disperata.

E come può accadere, quando la Cina diventa troppo forte, l'America e la Russia diventano amiche;

così l'Egitto, eterno nemico dell' Assiria, si mise a fianco di questa per l'equilibrio del Medio Oriente.

Inviò un esercito di rinforzo per raccogliere i resti dell'esercito assiro barricato nel nord dell'Assiria.
Per arrivare fino là doveva passare per la terra di Giosia.

Giosia, forse spinto dalla presunzione, pensò di cogliere il momento buono per contribuire in qualche modo alla politica internazionale.
Riunì i soldati e andò 'ad aspettare gli Egiziani dietro la gola di Megiddo sul monte Carmelo.
Voleva impedirne il passaggio affrettando così la sconfitta sia degli assiri che degli egiziani.

Aprì il fuoco contro il Faraone per vincerlo in battaglia.
Fece male i calcoli e fu sconfitto nel primo scontro (II Re 23, 29).
Ferito a morte, fu raccolto e portato a Gerusalemme dove morì e fu sepolto tra il compianto generale del popolo che lo considerava un grande amico (II Cron. 35, 23-24).

Si dice che lo stesso profeta Geremia fece l'elogio funebre del re la cui morte uccise l'ultima speranza del popolo (II Cron. 35, 25).
Giosia aveva solo 39 anni.
Morì giovane (cf. II Re 22, 1).

Siamo nell'anno 609. Dodici anni di lavoro intenso per la riforma si chiudevano con una morte stupida ed inattesa.

Il Faraone, di ritorno dalla missione militare a nord della Siria, passò da Gerusalemme e sottomise il regno di Giuda mettendovi a capo l'uomo di sua fiducia (II Cron. 36, 1-4).

Da quel momento tutto andò male;
22 anni più tardi, nel 587, la città fu presa da Nabucodonosor, successore di quel re a cui Giosia aveva dato appoggio pagando con la vita.

Nabucodonosor re di Babilonia, prese la città, la rase al suolo e fece piazza pulita per sempre dell'indipendenza del popolo, che la riconquistò solo nel 1947 d.C., quando si formò lo stato di Israele che oggi deve sostenere le stesse lotte, facendo lo stesso gioco di politica internazionale delle grandi potenze.



9. Bilancio della riforma

La riforma morì con la morte di chi l'aveva promossa.
Come si spiega?
Dove stava lo sbaglio?
A chi attribuirne la causa?

Alla politica interna?
Alla incompetenza dei successori di Giosia?
Allo stesso Giosia?
Alla «Magna Charta» della Riforma?

Se la riforma era stata promossa proprio per evitare il disastro che si realizzò, perché allora non riuscì ad evitare la china che la portò fin là?

Fu troppo debole o troppo forte?
Fu uno sforzo vano senza prospettive di futuro?

C'è un fatto curioso in tutta questa storia.
Geremia, la grande figura religiosa di quel tempo, che fin dal principio ne accompagnò tutti i passi, che predicò la conversione, che pianse amaramente la morte del giovane re, non sembra con le sue profezie aver dato tutto l'appoggio a quanto si faceva in nome della riforma.

Non si identificò col movimento di riforma che il re Giosia portò alle ultime conseguenze.
Perché?

La riforma affrettò o ritardò la catastrofe che sopravvenne così rapidamente nel giro di soli 20 anni, quando i cambiamenti solevano realizzarsi, molto più lentamente che al tempo d'oggi?

È difficile dare un giudizio, perché ce ne mancano gli elementi.
Cercheremo solo di formulare una ipotesi, dal momento che i fatti ci stanno davanti ed esigono risposta e la questione ci interessa perché
anche oggi la Chiesa è coinvolta in un gigantesco sforzo di riforma segnato da avvenimenti di ogni tipo, sia interni che esterni, nazionali e internazionali.

Davanti ad un'opera d'arte si possono fare studi di diverso tipo per cogliere tutta la portata del messaggio che vuole comunicarci:
tuttavia il messaggio colto dal critico d'arte può non essere quello dell'artista.

Ma lo sforzo fatto dal critico di arte rientra nella prospettiva dell'artista:
l'artista vuole che la sua opera susciti la riflessione degli uomini e li metta davanti alla loro coscienza.

Allo stesso modo, nella spiegazione della Bibbia e dei fatti raccontati dalla Bibbia, la parola dell'esegeta non è importante.

Anzi è molto relativa.
L’importante è che l'esegeta, secondo le sue capacità d'interprete, riesca a sprigionare la forza e la luce della parola di Dio perché operi sulle coscienze degli uomini.

Le conclusioni saranno forse differenti da quelle proposte dall'esegeta.
Non ha molta importanza.

È importante che gli uomini si siano fermati, abbiano riflettuto, abbiano confrontato la vita e l'attività con la parola di Dio, abbiano scelto e si siano resi conto alla luce di Dio del perché delle loro posizioni.




lO. L'errore di calcolo che ha fatto crollare la casa in costruzione

Il nuovo modo di vedere la fede sintetizzato nel Deuteronomio sotto forma di progetto concreto di azione era una risposta nata dalle esigenze della realtà, ma in quel momento era pure l'espressione di una piccola minoranza che improvvisamente volle imporsi a tutti.

Si mise in marcia col segnale rosso e contribuì ad accelerare il disastro che aveva intenzione di evitare.
Bisogna aspettare che il semaforo dia il segnale verde, anche se ci mette un po' di tempo, soprattutto quando si tratta di portare il popolo a riformare la mentalità e le pratiche religiose.
Altrimenti si causano disastri.

La riforma drastica che bruciò le tappe del progetto dei teologi di Gerusalemme, anche se era in profonda sintonia con la vita del popolo, fu soltanto teorica, e in pratica rimase senza effetti fino a molto tempo dopo, fino all'epoca che seguì l'esilio.

Si trattò di una riforma imposta dall'alto su schema prestabilito.
Il popolo non riconosceva le sue aspirazioni nella riforma promossa con tanto zelo.

Per questo non la fece sua.

Per questo la riforma morì con l'uomo che la promosse senza lasciare traccia.

Il popolo ha difficoltà a ragionare, né si lascia convincere dalle idee, per quanto chiare e nobili possano essere.

Quando un problema di fede si colloca in termini troppo pratici, come fu nel caso della riforma di Giosia, la teoria applicata drasticamente non approda a nessuna soluzione.
Dà i suoi frutti a distanza di tempo come elemento di coscientizzazione.

Le soluzioni drastiche che tutto ad un tratto applicano un progetto teorico, senza tenere conto della realtà, non funzionano, perché nessun popolo le capisce. Presto o tardi finiscono col fallire.

Il re Giosia non agì con molta comprensione nei riguardi della situazione concreta del clero rurale e del popolo.

Seguiva le norme stabilite da un progetto già pronto, senza chiedersi se era possibile attuarlo in quella forma.
Un carro pesante, quando è tirato d'improvviso con uno strattone, anche se da molto tempo stava aspettando la sua ora, non cammina perché il timone si spezza.

Quando il re volle risolvere il problema non si dette molta pena di consultare il popolo, mentre il buon esito della riforma dipendeva proprio dalla collaborazione del popolo.


Era il popolo che doveva mantenere il clero, che doveva pagare le decime per il tempio, che doveva fare i tre viaggi a Gerusalemme, che doveva osservare tutte le prescrizioni.

Ogni forma di culto pubblico a Dio fu centralizzata in Gerusalemme.
Tutto il resto fu proibito e controllato.
Le prescrizioni prevedevano anche i più piccoli dettagli.

Anche se con retta intenzione, una simile riforma improvvisa privò il popolo da un momento all'altro dell'unico appoggio che aveva per la sua vita in tempi tumultuosi;
appoggio tradizionale che lo aiutava a incontrarsi con se stesso e con Dio, anche se fosse falso.

Da quel giorno in poi chiunque continuasse a praticare qualsiasi altra forma di culto si sentiva come un fuorilegge, su una falsa strada. Privato della sua maniera concreta di adorare Dio, col quale si era identificato durante secoli di vita, e ignorando il raziocinio delle nuove forme di adorazione, il popolo non si ritrova più né con se stesso né con Dio.

In pratica non era sempre possibile andare a Gerusalemme e le tre visite per anno non bastavano a saziare l'intenso desiderio religioso del popolo.
Molto più tardi l'istituzione della sinagoga supplì a questa grave mancanza e rese possibile l'esecuzione della riforma contenuta nel libro del Deuteronomio.

In conclusione il popolo si vedeva collocato al margine del culto ufficiale. Si fece un gran vuoto, senza nulla che potesse riempirlo:
solo forse un'idea.

La vita del popolo diventò una vita senza Dio, almeno di fronte alla legge ufficiale.

Eccolo li, senza più nessun orientamento, in mezzo alla confusione religiosa e politica di quei tempi disastrosi.
Lo choc generato dalla riforma fu troppo forte e il popolo non aveva né criteri né sostegno per sopportare l'applicazione rigorosa delle nuove regole traendone profitto.

Il popolo fu privato del suo diritto.


La morte prematura del re ruppe le dighe e le pratiche pagane dilagarono più numerose di prima per colmare il vuoto scavato dalla riforma.

È significativo che Geremia, uomo del popolo e grande condottiero religioso di quel tempo, per quello che si sa,non abbia dato completo appoggio al movimento.

Eppure se c'era uno che aveva avuto coraggio di criticare gli abusi della religione, questi era proprio Geremia.

Ma quando tutto è confuso non è facile prendere una posizione netta e chiara per dire con certezza che cosa si debba fare.

Sarebbe come un paese che basasse tutta la sua economia sopra un unico prodotto.
Per quanto ricco possa essere, quando arriva l'ora della crisi di quell'unico prodotto, il paese cade in miseria.

Di chi è allora la colpa?

In tempi simili è sempre più facile e più sicuro dire come non dovrebbe essere piuttosto che come deve essere, escludendo ufficialmente altri cammini, altri tentativi, altre esperienze.

Non si tratta di essere fedeli solo a Dio.
La fedeltà a Dio vuole che siamo fedeli anche al popolo.

Il che vuol dire:
la preoccupazione più importante di Dio è il benessere e la felicità degli uomini, il loro sviluppo e la loro piena realizzazione.
Ridurla ad una preoccupazione legalista normativa in nome della purezza della fede, per quanto meravigliosa e giusta possa essere, non è sempre quello che Dio vuole.

Ad un babbo importa anzitutto non tanto che il figlio possegga idee esatte sopra suo padre, ma che riesca nella vita e sia felice.

Quando sarà felice grazie alla bontà di suo padre, avrà pure idee giuste su di lui.

La gloria di Dio non si distingue dalla felicità degli uomini.
Non basta domandarsi soltanto che cosa Dio vuole che io faccia.

Bisogna domandarsi come Dio vuole che io realizzi le cose che aspetta da me. I più grandi sbagli generalmente si fanno non contro la prima esigenza ma contro la seconda.
Siamo fedeli ad una dottrina astratta ma non seguiamo il modo di Dio nel viverla e nel metterla in pratica.

La legge del Deuteronomio conteneva e contiene la giusta dottrina perché la Bibbia ne è depositaria e i cristiani continuano a leggerla fino ad oggi.

Ma il modo con cui gli uomini mettono in pratica e applicano la legge impedisce la sua stessa esecuzione e applicazione.
Tutti hanno agito con la migliore delle intenzioni, nella perfetta obbedienza, ma questo non basta.




11. Conclusione

La Bibbia, portando fino a noi questa storia complicata di riforma, suscita una luce molto grande per orientare la critica.

Ci fa intuire che la Parola di Dio si inserisce nella storia degli uomini in modo tale da rimanere sottoposta alle libere decisioni umane, fino a correre il rischio di non raggiungere il suo fine.

È tutto qui il grande mistero della storia che la Bibbia registra, ma non spiega.

Troviamo nella Bibbia la fede incrollabile che la storia, sostanziata, dinamizzata, orientata dalla Parola di Dio, è sempre una storia vittoriosa.

Tale certezza porta il popolo a prendere decisioni, ad agire.
D'altra parte però queste stesse decisioni e questo agire umano arrivano ad oscurare a volte la presenza della Parola e ad annullarne l'effetto; così almeno sembra, entro i limiti delle nostre possibilità di osservazione e di giudizio.

Quanto successe al tempo di Giosia è preludio di quello che succederà quando «la Parola fatta carne» sarà eliminata dal consorzio umano, uccisa su di una croce, manifestando nella sconfitta la sua forza invincibile.

Tutto ciò serve ad aumentare in coloro che credono in Dio il senso della loro responsabilità.

La complicata storia di una riforma cominciata bene e finita male, perché non rispettò il popolo, dimostra che quel popolo ebbe una storia uguale a quella di qualunque altro popolo.

In mezzo alla confusione generale camminarono i profeti con le loro angustie e le loro speranze, a tastoni, scrutando gli orizzonti per scoprire gli appelli di Dio.

Non sempre indovinarono, non sempre riuscirono a vederci chiaro.
Ma nell'insieme il popolo ha camminato fra alti e bassi ed è arrivato là dove Dio lo voleva.

Il popolo non aveva la linea telefonica che lo mettesse in diretta comunicazione con Dio.
Ma aveva la coscienza che in tutto quello che succede Dio è presente.

La sua storia tormentosa un'impressionante ricerca di Dio.



SEGUE..


una stretta di [SM=g1902224]


Pierino




contatto skype: missoltino 1
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