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"Viaggiando" nella Bibbia..cosa si "Scopre"?..cosa dicono gli Esegeti?

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    00 30/09/2009 14:04





    Sarà molto lunga, spero di non "stancarmi"!



    inizio a postare il risultato "di indagini" effettuate durante un
    "lungo viaggio" all'interno delle Sacre Scritture, partendo dalla
    cosidetta Creazione Adamica!


    b.lettura


    -----------------------------------------------------------------



    CAP. I
    [SM=g6198] [SM=g6198] paradiso: mito o realtà [SM=g6198] [SM=g6198]


    1. Qualche difficoltà sul Paradiso

    La scienza oggi dice che l'evoluzione è un'ipotesi molto probabile.
    La Bibbia dice che l'uomo è stato creato direttamente da Dio (Gen. 2, 7) «Fece l'uomo col fango della terra». Chi dei due ha ragione?

    Nel primo racconto della creazione (cf. Gen. 1, 26), l'uomo è creato per ultimo.
    Nel secondo, invece, (cf. Gen. 2, 7) l'uomo è creato per, primo.
    Come si spiega una simile contraddizione?

    Molti miti e leggende dei tempi antichi parlano «dell'albero di vita» (Gen. 2,9), del serpente (Gen. 3, 1), di un'epoca paradisiaca all'inizio dei tempi.

    Il linguaggio della Bibbia può essere interpretato in senso mitico e leggendario?

    Nel Paradiso terrestre sgorga una fonte che alimenta quattro fiumi:
    il Tigri, l'Eufrate, il Nilo, il Gange (Gen. 2, 10-14).
    Dove trovare il luogo geografico di una simile sorgente?

    Come è possibile che Dio faccia dipendere tutta la miseria umana dal peccato di una sola coppia?
    Come è possibile che la donna sia stata formata dalla costola dell'uomo?
    E la formazione dell'uomo dal fango della terra?

    Domande del genere derivano dal fatto che forse incoscientemente attribuiamo al racconto del Paradiso un valore storicoinformativo. Cioè supponiamo che l'autore abbia scritto quelle pagine per farci sapere come andarono concretamente le cose, all'inizio della storia dell'umanità.

    Lo schema mentale col quale leggiamo e giudichiamo il racconto del Paradiso non corrisponde all'intenzione dell'autore che ha scritto quelle notizie.

    2. II punto di vista di chi ha scritto il racconto del Paradiso

    L'autore vive centinaia di migliaia di anni dopo i fatti avvenuti, non gli importa nulla del passato in quanto tale;
    ciò che gli interessa è la situazione che lui sta vivendo.
    C'è qualcosa che non funziona.
    Il futuro è in pericolo.
    Bisogna correre ai ripari.
    Il problema lo tormenta e lo spinge a scrivere.
    Si tratta di un uomo profondamente realista.

    Potremmo riassumere così l'intenzione dell'autore:
    1/ Sente la situazione disastrosa del suo popolo e si propone di denunciare il male, apertamente.

    2/ Non si ferma solo alla denuncia generica, ma tira le conseguenze delle responsabilità in gioco.
    Vuole che il lettore arrivi ad individuare «l'origine» del disagio, del male che è causa di tutto il resto: «il peccato originale».

    3 / Dal momento che la responsabilità è vaga e quasi incosciente, descrive i fatti in modo tale da coscientizzare i suoi fratelli circa una loro possibile colpa.

    4/ Si 'propone di svegliarli ad un agire completo, che stronchi il male dalla radice, in modo da trasformare la situazione di malessere in una di benessere.
    In altre parole, è ciò che la Bibbia chiama: «conversione».

    5/ In fine, garantisce che la trasformazione è possibile, perché la forza che la realizza, che è la volontà di Dio, è più potente della forza che mantiene la situazione di malessere, in questo modo risveglia la volontà di lottare e di resistere al male, e genera speranza e coraggio.



    3. Situazione concreta che l'autore si propone di denunciare

    La capacità di percepire il male dipende, in gran parte, dal grado di cultura.
    La mancanza di acqua, per esempio, è un male per noi, ma non altrettanto per un beduino del deserto.
    L'autore denuncia il male d'accordo con la sua cultura, col suo tipo di coscienza e secondo la sua sensibilità.

    Anzitutto egli denuncia una ambivalenza generale nella vita.

    1/ L'amore umano, così bello in sé, è diventato strumento di dominazione (Gen. 3, 16). Perché?

    2/ La generazione di nuovi figli, destinata ad aumentare la felicità tra gli uomini, avviene tra i dolori del parto (Gen. 3, 16) Perché?

    3/ La vita stessa è ambivalente: voglio vivere, ma la morte sta in agguato (Gen.3, 19). Perché?

    4/ La terra, destinata a produrre alimento per l'uomo, produce solo «triboli e spine» (Gen. 3, 18). Perché?

    5/ Il lavoro, che dovrebbe essere mezzo di sussistenza, nasconde alcunché di incomprensibile:. molto sforzo e poco rendimento (Gen. 3, 19). Perché?

    6/ Esiste inimicizia tra uomini ed animali. La vita non corre sicura. Il pericolo dei serpenti è reale.
    Perché la vita combatte la vita? (Gen. 3, 15).

    7/ Dio, creatore e amico degli uomini, di fatto, però, genera la paura (Gen. 3, 10\ Perché?

    Inoltre, l'autore constata una violenza estrema: Caino uccide Abele, un uomo litiga con un altro uomo e si vendica fino a 77 volte (Gen. 4, 24).
    Verifica che la vita di fede è - di fatto decrescente e si riduce ad un rito, ad una mescolanza di magia e superstizione, in cui il divino e l'umano si confondono (Gen. 6, 1-2).

    Nota, infine, una totale disintegrazione dell'umanità:
    non ci intendiamo più, tutti litigano gli uni con gli altri, tutti vogliono dominare.
    L'uomo vive sulla difensiva (Torre di Babele, Gen. 11, 1-9).

    Intorno a lui si verifica una situazione di caos completo.
    La maggior parte non ne ha coscienza e contribuisce ad aumentarla sempre di più.
    L'autore vuole che gli altri si accorgano del pericolo che corrono, andando di questo passo.
    Egli è un autentico «non-conformista». Perché?

    È convinto che non si può dare la colpa a Dio.
    E neppure si può dire:
    «Pazienza! Prendiamola come viene! È Dio che vuole così!»
    Non gli passa neppure per la testa di cercare in Dio o nella religione il rimedio per una falsa pazienza che viene a patti con la situazione.
    La sua fede gli dice:
    «Dio non vuole tutto questo!».

    Ne derivano due domande fondamentali:

    1/ Come Dio vorrebbe, allora, che fosse il mondo?

    2/ Se il mondo non è come Dio vuole, chi ne è il responsabile?
    La sua fede in Dio ha fatto di Lui un uomo cosciente che non si adatta alla situazione.
    Questa, anzi, lo spinge a resistervi, a cercare una soluzione e a stimolare gli altri perché raggiungano il suo stesso livello di coscienza:
    «Se Dio non vuole che il mondo sia così com'è, io non posso contribuire perché continui così come sta! ».


    SEGUE…







    una stretta di [SM=g1902224]




    Pierino














    [Modificato da mlp-plp 09/12/2011 22:32]
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    00 30/09/2009 14:46
    Interessante...


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    [SM=g7958]Ely







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    Re:
    Elyy., 30/09/2009 14.46:

    Interessante...


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    [SM=g7958]Ely










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    "Viaggiando" nella BIBBIA...

    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. I [SM=g6198] [SM=g6198] (seguito)

    4. Dio come vorrebbe il mondo? Situazione ideale.


    Neppure l'autore sa come dovrebbe essere il mondo.
    Sa soltanto che Dio è buono, giusto, verace.
    Per cui si immagina una situazione diametralmente opposta a quella che egli conosce.

    Una situazione di radicale benessere:il Paradiso.
    Nel Paradiso' descritto dal Gen. 2, 4-25:

    l/la donna non è più dominata dal marito ma è la sua compagna, in tutto uguale all'uomo (Gen. 2, 22-24);

    2/ la vita non finisce mai, perché c'è «l'albero della vita» (Gen. 2, 9);

    3/ la terra produce alberi e frutti abbondanti e non è deserta (Gen.2, 8-9);

    4/ il lavoro non opprime, anzi è leggero e rende molto, perché aver cura di un giardino alberato non richiede troppa fatica (Gen. 2, 15);

    5/ la fertilità della terra è garantita da un'abbondanza d'acqua che nessun'altra parte del mondo possiede (Gen. 2, 10-14);

    6/ gli animali, invece di essere nemici dell'uomo, gli obbediscono e lo servono (Gen. 2, 18-20);

    Dio è amico degli uomini ed ha familiarità con loro perché passeggia, chiacchiera con Adamo (Gen. 3, 8); 8/ non esiste violenza, né abuso (in senso magico) delle cose divine e neppure dominio arbitrario sugli altri.

    È la perfetta armonia:
    armonia tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e gli altri uomini, tra l'uomo e gli animali, tra l'uomo e la natura.
    È l'ordine radicale; tutto l'opposto del caos che egli conosce e soffre nella vita quotidiana.

    Non esiste più ambivalenza.
    È ciò che Dio vuole.
    Il Paradiso è - per così dire - il bozzetto del mondo.

    Una tale pianta della costruzione del mondo Dio la consegnò all'uomo, suo impresario, affinché egli, con le proprie mani costruisse la sua felicità.

    L'uomo possedeva la possibilità reale:
    1/ di vivere sempre ed essere immortale;

    2/ di essere felice senza mai soffrire;

    3/ di vivere in armonia con Dio senza mai peccare.
    Non solo ce l'aveva, ma ce l'ha, perché Dio non ha cambiato idea.
    Dio vuole ancora quel Paradiso.
    Tale Paradiso dovrebbe esistere.
    Con la sua descrizione l'autore denuncia il mondo di cui ha esperienza.

    E il lettore, illuminato dalla sua denuncia, si pone la domanda, che è il primo passo verso la 'conversione':
    «Ma perché, allora, il mondo è tutto il contrario di quello che dovrebbe essere?
    Chi è il responsabile?».

    Posto il problema, la risposta sarà data dalla descrizione del «peccato originale».

    5. Chi è il responsabile? Qual è l'origine del male che esiste nel mondo?

    L'autore parla un linguaggio strano per le nostre orecchie, ma molto chiaro e realista per quell'epoca.
    La proibizione:
    «Non mangerai dell'albero del bene e del male» suona arbitraria per noi.
    Ma per loro, l'immagine dell'albero rappresentava la sapienza che guida l'uomo nel corso della vita. (Prov. 3, 18).
    La Sapienza determinava il bene e il male, cioè quello che portava o no alla pienezza della vita, presso Dio.

    Dio stesso aveva dato all'uomo una simile capacità di conoscenza, per mezzo della legge.
    Per cui l'uomo che volesse definire da solo ciò che lo avrebbe portato o no alla vita (bene e male), poteva trovare qualunque cosa, eccetto la vita. Avrebbe trovato la morte.

    La proibizione di mangiare i frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male significa la denuncia di un'umanità che non si cura della legge di Dio e decide di essere lei stessa il criterio unico e assoluto del proprio comportamento morale;
    la vita non è più per l'uomo né dono né impegno, è sua proprietà esclusiva, al di fuori di qualsiasi rapporto di valori.
    Per l'autore, la legge di Dio è strumento di ordine e di progresso.
    La osservanza porta alla conquista della Pace e alla costruzione del Paradiso.

    La radice del disordine stava nel fatto che i suoi contemporanei cominciavano ad abbandonare la legge, che sarebbe come dire la
    «dichiarazione dei diritti e dei doveri degli uomini».

    Il frutto proibito significa l'abuso della libertà contro Dio e perciò contro lo stesso uomo.

    Per quale ragione gli uomini abbandonavano quel progetto di vita?
    Il serpente li attraeva.
    Il serpente simbolizza la religione cananea:
    religione piacevole, con il culto rituale del sesso, libera da qualsiasi impegno etico, esigente soltanto rispetto al rito.
    Costituiva la grande tentazione che lusingava il popolo a rifugiarsi in un rito facile, lontano dalle dure esigenze della legge.
    Era questa, concretamente, al tempo dell'autore, la radice del peccato del popolo.

    Con una simile precisazione l'autore spinge i suoi contemporanei ad una seria revisione di vita.
    Il loro mondo potrebbe essere differente se non andassero dietro al 'serpente'.
    L'autore non pensa tanto a quello che è successo in passato, quanto a ciò che accade intorno a lui e, forse in lui stesso.
    È una confessione pubblica di colpa.

    Adamo e Eva potrebbero chiamarsi: «Un Uomo e una Donna», per dire:
    tutti noi.
    Essi sono lo specchio critico della realtà che aiuta a scoprire in noi l'errore localizzato in Adamo ed Eva.

    È proprio inutile chiedersi:
    «perché dobbiamo soffrire noi per causa di un Uomo e di una' Donna?».
    Non si tratta di scaricare la colpa sugli altri, ma di arrivare a riconoscere:
    «Sono io che faccio questo! lo sono corresponsabile del male che esiste».

    L'Autore non è nostalgico:
    «Anticamente, tutto era così buono! ».

    Egli vuole che tutti si scuotano, si sentano responsabili e aggrediscano il male alla radice, dentro di loro.
    Vincere è sempre possibile, perché Dio lo vuole.
    La descrizione dell' «origine del male» non si conclude con la catastrofe del «peccato originale».
    La deviazione iniziale è appena il primo passo della disgrazia.

    1/ Slegato da Dio, abusando della propria libertà contro Dio stesso, l'uomo si slega anche dal fratello: Caino uccide Abele; Caino rappresenta chiunque maltratta e uccide il fratello.

    2/ La violenza si moltiplica spaventosamente fino a settantasette volte (Gen. 4, 24).

    3/ Separatosi da Dio e dal fratello, l'uomo si mette sulla difensiva e cerca salvezza nella fuga, usando il rito e la magia (Gen. 6, 1-2).

    4/ Finalmente, continuando di questo passo, l'umanità si impenna e si disintegra perché la convivenza e l'agire insieme diventano impossibili. (Torre di Babele).

    Nonostante tutto, però, l'autore spera e predice la vittoria dell'uomo sul male, che viene dal serpente.


    SEGUE..



    Una stretta di [SM=g1902224]




    [Modificato da mlp-plp 09/10/2009 13:36]
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  • Elyy.
    00 01/10/2009 18:42


    Veramente spiegato bene. La lettura è avvincente e spiega bene concetti che , appena uscita dai tdg, mi sembravano fuori dal mondo, come ad esempio l'interpretazione della Bibbia allargando le vedute al mondo contemporaneo degli agiografi.

    Particolarmente interessante questo pezzo:


    Adamo e Eva potrebbero chiamarsi: «Un Uomo e una Donna», per dire:
    tutti noi. Essi sono lo specchio critico della realtà che aiuta a scoprire in noi l'errore localizzato in Adamo ed Eva.
    È proprio inutile chiedersi:
    «perché dobbiamo soffrire noi per causa di un Uomo e di una' Donna?».
    Non si tratta di scaricare la colpa sugli altri, ma di arrivare a riconoscere:
    «Sono io che faccio questo! lo sono corresponsabile del male che esiste»




    Grazie, e aspetto il resto...


    [SM=g6198] Ely





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    [SM=g10400] "Viaggiando" nella BIBBIA... [SM=g10400]


    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. I [SM=g6198] [SM=g6198] (seguito)





    6. Soluzione proposta dall'autore

    Responsabile di tutto è l'uomo. Per questo non gli è permessa la ribellione contro il male (qualunque esso sia) bensì la lotta per sconfiggerlo.
    Ha la missione e la capacità di farlo, perché Dio lo vuole. Il Paradiso esiste e continua a esistere come possibilità reale, dal momento che Dio non l'ha distrutto.
    Ha solo messo un angelo sulla sua porta, perché l'uomo non se ne impadronisca senza averne il diritto (Gen. 3, 24)., Il futuro resta aperto.

    L'autore afferma che Dio non ha abbandonato l'uomo, perché:
    «Dio fece loro un vestito» (Gen. 3,21), protesse Caino (Gen. 4, 15), salvò Noè dal diluvio, causato dal male dell'uomo (Gen. 6, 9-9.17). Infine, quando la disintegrazione dell'umanità rese impossibile l'agire insieme, chiamò Abramo per raggiungere in lui tutti gli altri (Gen. 12, 1-2).

    Comincia allora la cosiddetta «Storia della Salvezza».
    Il gruppo di uomini che cominciò con Abramo è - per così dire ~ il «partito di Dio» nel mondo, per cui è possibile credere di eliminare il male con la forza di Dio, portare a termine la trasformazione e costruire il paradiso, la pace totale.

    Questo gruppo nasce da una radice autentica:
    vive con Dio (Gen. 17 , 1-2), la fa finita con la discordia e forma un popolo, il «popolo di Dio» (Es. 6, 7); condanna ogni forma di magia e di ritualismo (Es. 20, 1-7), non vuole dominare e non si difende per dominare, ma serve (Es. 19, 6) sul significato di regno, di sacerdote e di nazione consacrata).
    I lettori cui si rivolge l'autore fanno parte di questo 'popolo'.
    Egli vuole che sappiano che significa appartenere al «popolo di Dio».
    Devono formare un gruppo attivo in mezzo al mondo, un gruppo che ha preso coscienza della situazione, che conosce il senso della vita e lo porta avanti, resistendo e trasformando.
    Tiene viva la speranza, garantita dalla volontà di Dio che vuole il bene.

    Con la venuta di Gesù Cristo il progetto di Dio ha preso corpo e il Paradiso è diventato realtà, nella Sua risurrezione. Per questo Paolo dice che Gesù è un «Nuovo Adamo» (Rom. 5, 12-19) e Giovanni
    nell'Apocalisse descrive il futuro che ci attende con immagini prese dal Paradiso Terrestre (Apoc. 21, 4; 22, 2-3).

    7. Risposte alle difficoltà fatte in principio

    Mito o realtà?

    È realtà perché si tratta del destino dell'umanità. L'armonia descritta è una possibilità reale garantita dalla potenza di Dio, che si manifestò nella risurrezione di Gesù Cristo.

    È mito in quanto l'autore si è servito del linguaggio e delle figure mitiche del suo tempo per esprimere e trasmettere questa realtà.

    È storico o soltanto immaginario?

    Non possiamo pensare che il Paradiso sia esistito davvero, così com'è descritto nel Gen. 2, 4-25.
    È esistita ed esiste tuttora la possibilità reale per l'uomo di realizzare la perfetta armonia e pace, quando si lascia guidare dalla luce e dalla forza di Dio.

    È inutile dire:
    «perché Dio non ha dato una seconda possibilità ad Adamo ed Eva?».
    La sta dando tutti i giorni a noi, fino ad oggi. Il problema non è di Dio e neppure di Adamo ed Eva, è nostro. Il Paradiso esisterà e diventerà storico' se noi lo vorremo e lavoreremo per costruirlo. L'unica spedizione che arriverà a scoprire il Paradiso è quella che cammina sempre verso il futuro.

    Sull'evoluzione la Bibbia non fa parola, né a favore, né contro. Tratta solo il problema umano.
    Ci dà la visione di Dio sulla vita. Non c'è né contraddizione né concordanza tra Gen. 1, 26 (l'uomo creato per ultimo) e Gen. 2, 7 (l'uomo creato per primo).
    Sono due racconti differenti.
    Ciascuno ha il suo obbiettivo proprio.
    Quanto all'unica fonte che alimenta i quattro più grandi fiumi di quel tempo (Gen. 2, 10-14) si tratta di una figura letteraria per idealizzare la fertilità della terra.

    L'uomo fatto col fango è un'immagine per dire che l'uomo nella mano di Dio è come un vaso di terra nella mano del vasaio: dipende totalmente da lui e, per se stesso, è molto fragile (Ger. 18-6).
    La formazione della donna dalla costola dell'uomo è la rappresentazione drammatica e concreta del detto popolare:
    «osso degli ossi miei» (Gen. 2,23) che spiega al tempo stesso l'origine divina della misteriosa attrazione dei sessi.
    L'uomo non ne abusi.

    Il serpente è il diavolo in concreto: ne parla il libro della Sap. 2, 24. La deviazione originale dell'uomo significa l'abuso della libertà o la disobbedienza alla legge di Dio espressa nei 10 comandamenti. Questi, a loro volta, esprimono ciò che ogni uomo sente essere il suo diritto e il suo dovere, quando vive con autenticità.

    Come successe e quale fu la forma concreta del primo peccato?
    Nessuno lo sa, né la Bibbia lo dice. La Bibbia dice solo che al tempo in cui l'autore scriveva la radice del male risiedeva concretamente nella deviazione verso la religione falsa dei Cananei.

    Tocca a noi, oggi, esaminare la nostra realtà, così come l'autore ha fatto per quella del suo tempo, per scoprire qual sia, oggi, la forma concreta del «peccato originale» e qual sia, oggi, il 'serpente' che ci spinge ad essere infedeli a Dio e all'uomo.

    Se l'autore vivesse oggi, descriverebbe le cose in un altro modo:
    avrebbe esaminato attentamente la nostra situazione, avrebbe cercato l'origine del male, forse avrebbe descritto il mondo ideale così: un popolo sviluppato, tutti hanno un salario più che sufficiente, tutti sanno leggere e scrivere, la settimana lavorativa è di 40 ore, la casa è in proprio e c'è la partecipazione al lucro; lo scopo non sarebbe il guadagno ma il benessere individuale e sociale dell'uomo; non ci sarebbe né sfruttamento né violenza, né dominazione straniera; strade larghe, senza incroci; nessun incidente stradale né eccesso di vèlocità; sicurezza garantita per tutti, di modo che non ci sarebbe bisogno né di polizia né di esercito; niente baracche né miseria, nessun conflitto di generazioni, né difficoltà nell'educazione, ecc.
    in una parola, la perfetta armonia, completamente l'opposto 'di quello che viviamo nel mondo.
    Un Paradiso simile dovrebbe diventare realtà. È possibile costruire un simile futuro?

    Ci ripetiamo allora la stessa domanda, molto più difficile di tutte quelle che ci siamo fatte all'inizio:
    «Perché il mondo non è così?
    Che cos'è che gli impedisce di marciare verso il futuro?
    Chi ne è responsabile?
    Dove sta la causa?
    Che cosa fare per trasformare il mondo, dal momento che non è come dovrebbe essere?».
    La Bibbia, cioè l'autore del racconto del Paradiso vuole portarci a formulare domande del genere, molto più serie e impegnative di tutte le domande della storia.

    8. Conclusione

    La descrizione del Paradiso terrestre è una confessione pubblica, un manifesto di resistenza, un grido di speranza, un invito alla trasformazione del mondo.

    L'autore non dà «le prove» dell'esistenza di un «peccato originale». Verifica soltanto e cerca di determinare quale forma prese la deviazione al tempo suo.
    Non gli importa di elaborare una teoria del come entrò il male nel mondo, ma cerca una strategia per cacciarlo dal mondo.

    La dottrina del peccato originale è stata spiegata ulteriormente, a partire da Paolo (Rom. 5, 12-19; I Cor. 15, 21-22). Il peccato attacca l'uomo alla radice, ma non annulla la sua capacità di fare il bene. Nella misura in cui il peccato personale cresce, facciamo esperienze del 'peccato' originale: «mordiamo la mela», facendo crescere in tutti coloro che vengono dopo di noi i mali di cui l'umanità è 'colpevole'.

    Il Battesimo dà all'uomo la capacità di misurarsi col male. Lo impegna col gruppo che crede nel progetto di Dio e che cerca di realizzarlo nella storia, sperandone aiuto da Dio, per mezzo di Gesù Cristo.




    SEGUE...




    Una stretta di [SM=g1902224]




    Pierino




    [Modificato da mlp-plp 22/10/2009 23:08]
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    Ha solo messo un angelo sulla sua porta, perché l'uomo non se ne impadronisca senza averne il diritto (Gen. 3, 24)., Il futuro resta aperto.
    L'autore afferma che Dio non ha abbandonato l'uomo, perché:
    «Dio fece loro un vestito» (Gen. 3,21), protesse Caino (Gen. 4, 15), salvò Noè dal diluvio, causato dal male dell'uomo (Gen. 6, 9-9.17). Infine, quando la disintegrazione dell'umanità rese impossibile l'agire insieme, chiamò Abramo per raggiungere in lui tutti gli altri (Gen. 12, 1-2). Comincia allora la cosiddetta «Storia della Salvezza».



    A me è piaciuta moltissimo questa parte, il commento scorre tutto in modo chiaro. Molto bello!


  • Elyy.
    00 02/10/2009 11:56

    E' tutto molto interessante e soprattutto mi preme sottolineare questo pezzo:


    È storico o soltanto immaginario?

    Non possiamo pensare che il Paradiso sia esistito davvero, così com'è descritto nel Gen. 2, 4-25.
    È esistita ed esiste tuttora la possibilità reale per l'uomo di realizzare la perfetta armonia e pace, quando si lascia guidare dalla luce e dalla forza di Dio.

    È inutile dire:
    «perché Dio non ha dato una seconda possibilità ad Adamo ed Eva?».
    La sta dando tutti i giorni a noi, fino ad oggi. Il problema non è di Dio e neppure di Adamo ed Eva, è nostro. Il Paradiso esisterà e diventerà storico' se noi lo vorremo e lavoreremo per costruirlo. L'unica spedizione che arriverà a scoprire il Paradiso è quella che cammina sempre verso il futuro.

    Sull'evoluzione la Bibbia non fa parola, né a favore, né contro. Tratta solo il problema umano.
    Ci dà la visione di Dio sulla vita. Non c'è né contraddizione né concordanza tra Gen. 1, 26 (l'uomo creato per ultimo) e Gen. 2, 7 (l'uomo creato per primo).
    Sono due racconti differenti.
    Ciascuno ha il suo obbiettivo proprio.
    Quanto all'unica fonte che alimenta i quattro più grandi fiumi di quel tempo (Gen. 2, 10-14) si tratta di una figura letteraria per idealizzare la fertilità della terra.

    L'uomo fatto col fango è un'immagine per dire che l'uomo nella mano di Dio è come un vaso di terra nella mano del vasaio: dipende totalmente da lui e, per se stesso, è molto fragile (Ger. 18-6).
    La formazione della donna dalla costola dell'uomo è la rappresentazione drammatica e concreta del detto popolare:
    «osso degli ossi miei» (Gen. 2,23) che spiega al tempo stesso l'origine divina della misteriosa attrazione dei sessi.
    L'uomo non ne abusi.




    Molto chiara e scorrevole la descrizione dell'allegoria biblica e del significato intrinseco delle Scritture, aspettiamo il seguito.


    [SM=g8861]Ely





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    [SM=g1916242] "Viaggiando" nella BIBBIA...






    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. II [SM=g6198] [SM=g6198]

    Abramo: un uomo in cerca di assoluto.


    1. Difficoltà sorte circa la figura di Abramo

    Di Abramo si parla nel Gen. 12-25.
    La sua vita non era facile ma lui godeva il vantaggio di avere Dio vicino a sé. Dio interviene, parla con lui ed orienta la sua vita.

    E oggi?
    Dove sta questo Dio?
    Dio è cambiato, o noi siamo diventati più cattivi?
    Se la storia di Abramo serve appena come esempio su cui riflettere per tirare qualche conclusione sulla mia vita, oggi, francamente preferisco pensare a Giovanni XXIII, a Luther King o a Gandhi. Uomini che hanno vissuto più da vicino la nostra vita di oggi.

    Abramo ha vissuto una situazione del tutto differente.
    Insomma, Cristo è già venuto, Abramo ha preparato la sua venuta.
    A che serve esaminare ciò che è vecchio, dal momento che il nuovo sta sotto i nostri occhi?

    Quando la casa è pronta, le impalcature si tirano via.
    Continuare a discutere per sapere come era la vita di Abramo potrebbe essere una buona scusa:
    «mi interesso di religione, quindi sono a posto e compio il mio dovere». Di fatto, però, non fa quello che dovrebbe per aiutare il mondo a diventare migliore.

    Problemi del genere sono seri e mettono in dubbio la figura di Abramo rispetto a noi, oggi. Stando così le cose, come possono aiutarci testi antichi a risolvere i nostri problemi e a scoprire Dio nella nostra realtà?
    Vale anche in questo caso quello che abbiamo già detto rispetto al Paradiso:
    la nostra maniera di interpretare la figura di Abramo non corrisponde allo scopo dell'autore.



    2. Il punto di vista della Bibbia rispetto alla figura di Abramo

    Un esempio: celebriamo la presa di Roma commemorando il grido di Garibaldi: «O Roma, o morte».
    Ci sono tante maniere di commemorare questo fatto:
    1/i libri di storia adottati nelle scuole;
    2/ il monumento di Garibaldi sul Gianicolo;
    3/ la festa del XX Settembre;
    4/ il proclama di Pio IX che nel 1870 si rinchiuse in Vaticano.
    Maniere differenti di commemorare lo stesso fatto.
    E se le analizziamo tutte attentamente, nessuna delle quattro è capace di darci una versione esatta del fatto in sé.

    La storia è molto complessa; le interpretazioni sono spesso contraddittorie.
    I libri di storia danno una versione del fatto in sé, e neppure la più oggettiva.

    Il monumento di porta Pia, a Roma, ostenta l'importanza dell'avvenimento, così come lo sentirono coloro che l'hanno costruito.
    La celebrazione del XX Settembre rivela un modo di interpretare il fatto; il proclama del Papa prigioniero ne rivela un altro.
    Con la presa di Roma, ebbe inizio un processo, ancora in germe nel 1870, oggi molto importante per tutti noi;
    la fine del potere temporale dei Papi.

    I ricordi e le commemorazioni non si preoccupano del fatto in sé, quanto del significato che esso riveste per la vita.
    Figuriamoci come sarebbe un monumento costruito a pezzi e bocconi: 1870.... 1970: Crispi - Mussolini - Saragat.
    Ne risulterebbe un monumento sconnesso ed eterogeneo.
    Ogni statista vi scolpirebbe un tratto corrispondente alla sua ideologia sulla libertà e sulla indipendenza.

    I racconti della Bibbia rispetto ad Abramo compongono un monumento del genere.
    Abramo visse verso l'anno 1800-1700 prima di Cristo.
    In quel tempo lontano cominciò a nascere qualcosa, di per sé insignificante, ma molto amato dal popolo.

    I discendenti di Abramo celebravano il fatto in sé, dandogli però il significato che assumeva per la loro vita.

    In epoche successive (sec. X, sec. IX, sec. VI) si elaborarono nuove descrizioni corrispondenti alla mentalità del tempo;
    finché, nel V sec., qualcuno stese la redazione definitiva, che è quella della nostra Bibbia.

    È una mescolanza delle quattro descrizioni precedenti. Lo ha scoperto la ricerca scientifica degli ultimi 50 anni.
    I racconti di Abramo somigliano a un monumento sconnesso ed eterogeneo.
    Per cui è molto difficile sapere esattamente come andarono le cose, tanto più che la Bibbia non si preoccupa di dircelo.

    L'interesse della Bibbia consiste nel presentare al popolo del suo tempo la figura di Abramo in modo tale che i contemporanei possano impararvi come scoprire la presenza di Dio e come camminare con lui nella vita. Camminare è indispensabile.

    Ma tutto questo non è falsificare la storia?
    Di un Tizio posso fare una fotografia o una radiografia.
    Una è completamente differente dall'altra.
    I libri di storia fanno la fotografia dei fatti.
    La Bibbia li vede ai raggi X.

    In tutt'e due i casi, i risultati sono reali, ma molto differenti. Inoltre, è quasi impossibile percepire tutta l'importanza e il senso di un fatto, nel momento in cui si svolge.
    Ci riusciamo soltanto guardandolo da lontano.

    Quando imbocchiamo una curva molto larga non ce ne accorgiamo neppure.
    Ma chi guarda la strada da lontano è in grado di distinguere nitidamente l'inizio della curva.

    Quando Abramo entrò nella «curva» che modificò il corso della sua vita, lui stesso, forse, non se ne rese conto.
    Ma guardando il fatto a grande distanza, il popolo dice:
    «la nostra vita con Dio cominciò lì, con Abramo».

    La Bibbia racconta il fatto non già come lo visse Abramo, ma come lo vide il popolo a distanza di anni, attraverso il prisma dei problemi avvicendatisi nelle epoche successive della sua storia.

    3. Com'era la vita di Abramo?

    Da tutto quanto è stato detto, nasce una curiosità:
    ma insomma, com'era la vita di Abramo?
    Come avvenne quell'ingresso storico di Dio nella vita degli uomini?
    Quale fu il fatto concreto in cui riconobbero l'inizio dell'azione di Dio?

    Saperlo, ci aiuterà a vedere la nostra vita ai raggi X e a scoprire, là dentro, i segni della venuta e della presenza di Dio.
    Abramo visse nei secoli XIX - XVII prima di Cristo.
    Uscì dalla terra di Ur dei Caldei (oggi Irak, sul golfo persico), risalì l'Assiria (oggi Siria) fino alla città di Haran.
    Di là, scese nella Palestina, entrò in Egitto, ritornò nella Palestina, dove morì nella città di Hebron.

    Fece tutto per ordine di Dio, stava in contatto con lui.
    Basta leggere la Bibbia (Gen. 12-25).
    A questo punto bisogna notare' due elementi che illuminano il fatto dal punto di vista storico.

    1/ In quel tempo esisteva un movimento emigratorio che, dalla regione del Golfo persico, attraversava la Siria e scendeva giù, lungo la Palestina, fino all'Egitto.
    Abramo era uno dei tanti.
    Non si distingueva dagli altri.

    2/ Tutte le tribù che lasciavano le proprie terre in cerca di terre migliori, avevano i loro dèi. Erano gli «dèi della famiglia». Qualunque cosa facessero, era per ordine degli dei.

    Conclusione:
    ma allora Abramo era come tutti gli altri?
    Non aveva niente di differente che lo distinguesse, neppure la sua fede?
    Era uno dei tanti che si perdevano nella massa anonima?
    Cosi sembra, guardando i fatti dall'esterno.

    Che volevano significare quei popoli antichi quando parlavano di «Dio»? Che tipo di Dio era il loro?
    il Dio della Bibbia o un altro, del tutto differente?

    La religione comune a tutti i popoli che vivevano nel deserto, nacque, in parte, nella maniera seguente.
    Succede sempre che la vita è il risultato di un'armonia fra la natura e l'universo:
    piogge di primavera, greggi che svernano a valle, avvicendarsi delle stagioni, inondazioni che irrigano i campi, il sole che sorge ogni mattina, il giorno, la notte, i mesi e gli anni che si succedono.
    Finché durerà tale armonia, la vita sarà al sicuro, perché la terra avrà di che germinare e l'uomo di che vivere.

    Ma sappiamo che la vita è costantemente minacciata da forze imprevedibili:
    terremoti, bufere, malattie, inondazioni disastrose ecc.
    Ci sentiamo impotenti ad intervenire nelle forze dell'armonia e del disordine.
    Sono più grandi di noi e non riusciamo neppure a spiegarle.
    Si pensa che siano forze ultraterrene o divine. Per poter continuare a vivere, l'uomo deve farsele amiche.

    Perciò comincia ad adorarle e così nasce la religione.

    E, così, ogni popolo o gruppo umano si crea il suo dio protettore (patrono).

    In quel lontano tempo, per vivere bene, in modo degno di un uomo, per garantirsi e preservarsi la vita, bisognava adorare gli dèi.
    Guai a chi non lo avesse fatto!
    Avrebbe messo e repentaglio la vita sua e quella degli altri, perché il Dio poteva irritarsi e non curarsi più di mantenere in equilibrio le forze della natura.

    «Dèi» del genere non erano affatto Dio.
    Erano espressione dei desideri e della paura degli uomini, della loro volontà di vivere.

    Il culto dato agli dèi esprimeva la volontà dell'uomo di vivere con sicurezza.

    In questo senso Abramo, al tempo suo, fu un uomo sincero, cercava di vivere bene, adorando quel Dio che aveva ereditato da suo padre.

    Al giorno d'oggi la scienza ha demolito l'antica teoria dell'armonia e del disordine dell'universo.
    Non provengono da forze divine. Per esempio:
    il sole non sorge perché Dio lo spinge.
    Le scoperte scientifiche hanno cambiato tutto.

    Non è cambiata soltanto la volontà eterna dell'uomo di vivere una vita sicura, di riuscire ad essere fedele, di poter conservare la vita, di fare liberamente quello che gli dice la sua coscienza.

    Al tempo di Abramo gli uomini riuscivano a farlo adorando le divinità e esercitando culti di magia.
    Anche oggi c'è tanta gente che fa lo stesso, cercando di dare senso e valore alla vita.

    Abramo cercava l'ideale della vita, il valore assoluto, cioè il valore più alto che, per se stesso, dà valore a tutto il resto.
    Anche oggi c'è tanta gente che cerca il valore della vita e il valore assoluto, con una religiosità simile a quella di Abramo.
    Alcuni lo fanno senza pensare alla religiosità, né a Dio né alla divinità, come per esempio nel lavoro per la famiglia, nello sforzo di costruire un mondo più giusto, più umano, più fraterno, nella professione di medico, di avvocato ecc.

    Tutti pensiamo di realizzare la nostra vita umana e di cogliere nel segno.

    In fondo, la preoccupazione di tutti è la stessa, benché le forme concrete di viverla siano molto diverse.
    In quel tempo tutti vivevano il senso verticale della 'divinità'!
    Oggi molti preferiscono il senso orizzontale dell"umanità' (lavorare per gli altri dare il mio contributo per il bene di tutti).



    SEGUE..


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    Pierino









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    Bhe lo sto rileggendo, e devo ritirare tutto quello che ho detto l altra volta....

    e veramente un capolavoro, ti da il giusto indirizzo per "guardare" il vecchio testamento (per ora questo)

    [SM=g7321]

    --------------------------------------------------
    AVER PAURA DEL DIAVOLO E' UNO DEI MODI DI DUBITARE DI DIO ...
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    [SM=g1916242] "Viaggiando" nella BIBBIA...

    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. II [SM=g6198] [SM=g6198] (seguito)



    4. Dio come entrò nella vita di Abramo e come entra nella nostra?


    La Bibbia, narrando come Dio entrò nella vita di Abramo, lancia un raggio X molto potente sulla nostra esistenza e ci rivela per quale breccia Dio entra nella vita dell'uomo facendosi incontrare da lui nel momento esatto in cui l'uomo si sforza di essere uomo, cioè quando lotta per realizzare l'ideale che si è proposto.

    È questa la porta per cui Dio entrò nella vita di Abramo.
    È un'entrata quasi impercettibile, all'inizio.

    Sconosciuto, Dio entra nell'autobus dell'umanità, compra il biglietto, si mette a parlare con i passeggeri, si siede accanto ad Abramo, e quando questo si decide a dargli confidenza, Dio è già al volante.

    Dio non entra presentandosi con un biglietto da visita:
    «Io sono il Creatore, Signore di tutte le cose! Tu mi devi ubbidienza».

    Dio entra alla chetichella, come un amico, per la porta di servizio, sempre aperta, prendendo posto nella vita dell'uomo e lasciando che l'uomo scopra da sé chi Lui sia.

    Infatti quelle divinità erano proiezioni dell'uomo, espressioni delle sue più profonde aspirazioni.
    In tutte queste maniere concrete di vivere la vita umana, si scoprono, poco a poco, i lineamenti del volto di 'qualcuno'.
    Abramo e il suo popolo sentono una «Presenza attiva» (al di là delle apparenze con cui essa non si identifica) che si impone per l'evidenza.

    Non si tratta più di quella divinità che, in fondo in fondo, dipendeva dall'uomo, ma di qualcuno da cui l'uomo dipende, capace di trasformare lentamente tutta la sua vita.

    Incomincia, qui, quella curva larga e definitiva di cui il popolo percepirà pienamente il valore solo molto tempo dopo.
    Nell'antica maniera di adorare le forze impersonali della divinità si vanno delineando, poco a poco, i tratti del volto del vero Dio.
    Come il fiore che rompe il boccio, facendone cadere le prime foglie.

    Il grande messaggio che ne deriva è la risposta sicura alla domanda:
    «dove è Dio?»
    «Dove lo posso incontrare?»
    Dio si fa incontrare ed entra nella vita, là dove l’uomo cerca di essere sincero con se stesso e con gli altri, là dove scopre e vive l'assoluto.

    Là dobbiamo cercare, tutt’oggi, i tratti del volto di ‘qualcuno’ in cui crediamo.
    Non dobbiamo cercarli anzitutto nel culto.
    Il nostro culto ha senso soltanto se esprime ciò che viviamo, giorno per giorno.

    Abramo accettò questa presenza e si lasciò trasformare.
    Guardando dal di fuori, niente sembra cambiato ma, di dentro, comincia a brillare una luce che lanciò i suoi raggi all'intorno, fino agli ultimi confini dell'universo e portò gli uomini a scoprire che questo ‘qualcuno' è Dio, creatore del cielo e della terra.

    Per questo la figura di Abramo era così importante ed aveva tanto valore per quelli che vennero dopo di lui.

    Ma se tutto passò così inosservato, come si spiega allora il dialogo costante fra Dio ed Abramo che la Bibbia racconta?
    Dialogo vuol dire comunicazione fra due persone.
    Ci sono mille maniere di dialogare.

    Quando il marito parte per un viaggio, le mille e una cosa che porta con sé, gli ricordano la moglie.
    È un dialogo, è una 'presenza' della sposa nella sua vita.
    Presenza che lui solo sa, ama, e scopre continuamente, perché vive insieme a lei l'amicizia e l'amore.
    Chi ama una persona, in ogni cosa la rivede e la sente presente.

    I dialoghi formulati con parole umane rendono concreto ciò che il popolo ha scoperto di Dio, perché vive in amicizia con lui.
    Quando una persona accoglie la presenza di Dio nella sua vita e crede in Lui, si stabilisce un dialogo tutto particolare, incomprensibile per chi ne sta al di fuori, ma perfettamente comprensibile per chi vive la 'presenza'.

    Leggendo la storia di Abramo, ci incontriamo con un uomo come noi, che cerca di cogliere nel segno della vita e, in questo sforzo, arriva a incontrarsi col vero Dio.
    Dio non stava né più vicino né più lontano da Abramo di quanto non lo sia oggi da noi.

    Perché, dunque, oggi, non ci incontriamo con Dio?
    Forse perché la nostra vista non è buona.
    Siamo così preoccupati con una determinata immagine di Dio, che finiamo col pensare che 'quello' non è Dio!

    Il nostro apparecchio ricevente non entra in sintonia con la frequenza di onda degli appelli di Dio.
    Quel Dio che si rivelò ad Abramo ed è il nostro Dio, è il «Dio degli uomini>>, che non teme di restare nascosto.

    Non si accorge della farfalla chi va a caccia di aquile.
    Non vede il fiore chi cerca alberi.
    Dio è veramente presente e si rivela, per esempio, nell'abnegazione della mamma per la sua famiglia, nel lavoro dell'operaio per mantenere i figli, nella lotta dei giovani per, un mondo più umano, nella gioia sincera d'incontrare un amico, nella comprensione che ci viene dall'altro e ci consola.
    Qui sta il volto di Dio, e lo scopriamo poco a poco, un tratto alla volta.


    5. Alcune conclusioni importanti

    L'entrata di Dio nella vita degli uomini è silenziosa.
    Egli si rivela via via e s'impone non nel chiasso ma nel silenzio e nella calma, a chi ha occhi per vedere.
    Quando l'uomo arriva ad interessarsi della sua presenza, Dio già stava lì da tanto tempo.

    Perché allora la Bibbia ci dice che Dio entrò nella vita di Abramo in modo brusco e quasi violento? (Gen. 12, 1-4).
    Solo da lontano si vede meglio dove comincia la 'curva', dove comincia la trasformazione.

    Anche se entra inosservato, Dio esige una 'conversione' totale, una vera rottura, una trasformazione della vita.
    Dio si presenta come il futuro di Abramo:
    «lo sarò il tuo Dio» (gen. 17, 7).
    In altre parole:
    «Affida a me tutto quel mondo di cose che vai mendicando agli dèi. lo sono il tuo Dio! te lo giuro!».

    Così, l'entrata di Dio mette l'uomo di fronte ad una scelta radicale:
    o scegliere questo Dio o ritornare alle divinità del passato.

    Il Dio che entra è esigente:
    « Voglio essere 'lo' il tuo Dio!» Non permette, quindi, che Abramo vada dietro ad altri dèi (monoteismo).
    Se Abramo accetta di seguirlo, deve tenere il passo che lui vuole (aspetto etico della religione rivelata) e il suo futuro sarà garantito dalla fedeltà e dalla potenza di questo Dio (speranza nel futuro-messianismo).

    Il difficile sta nell'accettare le condizioni che Dio gli pone e camminare nella fede:
    Abramo è il prototipo dell'uomo che cammina nella fede, cioè che ha accettato le esigenze di Dio nella sua vita.

    Deve uscire dalla sua terra per avere una terra, ma quando muore possiede solo un lotto dove seppellire le sue ossa.

    Deve abbandonare la famiglia e il popolo per diventare padre di un popolo ma, al momento della sua morte, ha solo un figlio.

    Quando Dio gli parlò e gli promise una numerosa posterità, Abramo non aveva figli e neppure poteva averne.
    Era duro credere nella parola, perché non dava garanzie.
    Nacque Isacco, e Dio gli ordinò di sacrificarlo.

    Era lo stesso che uccidere l'unica speranza di essere il padre di un popolo.

    Eppure Abramo fu pronto a distruggere l'unica garanzia e ad appoggiarsi unicamente sulla parola di Dio (Gen. 22, 1-18; Ebr. 2, 18).

    Dio, a volte, è contraddizione.
    Promette numerosa discendenza e ordina di uccidere il figlio.

    Promette una terra e vuole che abbandoni la terra e, durante tutta la vita, Abramo non ebbe nessuna terra.

    Eppure, per la sua fede, per la sua fiducia in Dio, Abramo fu così amico di Dio da diventare il suo confidente (Gen. 18, 17-19).

    Un simile Abramo non corrisponde alla storia concreta della vita di Abramo, ma all'ideale di fede, proprio del tempo dell'autore.
    Così avrebbero dovuto vivere i suoi contemporanei per essere degni di far parte del popolo, nato con Abramo.


    6. Risposte alle difficoltà sorte in principio

    La prima domanda o difficoltà ha già trovato la sua risposta nell'esposizione precedente.
    La storia di Abramo risponde esattamente alla domanda:
    «dove sei Dio?».

    La storia non serve solo per trarne conclusioni sulla nostra vita di oggi (anche per questo).
    Suo scopo è invitare il lettore ad essere lui stesso un Abramo nella sua vita:
    uno che cerca di fare il punto sulla vita, che è sincero con se stesso e con gli altri, per scoprire, così, la presenza di Dio nella sua vita.

    Cristo è già venuto.
    È vero.
    Ma per molti è come se non fosse venuto.
    Forse, anche per noi.

    Nessuno riesce a vivere perfettamente integrato con Cristo.
    L'importante è che anche oggi lo uomo arrivi a scoprire come deve camminare per incontrare la sua piena realizzazione in Cristo.

    La storia di Abramo ci dice proprio questo:
    il primo passo della marcia verso Cristo è la sincerità della vita, l'amore della verità, la ricerca sincera dell'assoluto.

    «Chi ama la verità, ascolta la mia voce». (Gv. 18, 37; 3, 17-21; 8, 44-45). Chi si mette su questa strada, scoprirà il volto di Dio nella vita.

    Analizzare la vita di Abramo soltanto per sapere come visse e fermarsi lì, non rispecchia l'intenzione della Bibbia.

    La risposta alle difficoltà di ordine storico ha suscitato nuove domande e nuove difficoltà, ancora più gravi e compromettenti delle prime:
    «Cerco Dio dove lui si fa incontrare, o preferisco cercarlo là dove molto difficilmente si incontra?
    Cerco Dio dentro o fuori della vita?
    Se gli altri non sanno niente di Dio, la colpa non sarà proprio di noi cristiani, perché la nostra vita non rivela il volto di Dio?».



    SEGUE..



    Una stretta di [SM=g1902224]



    Pierino



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    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. III [SM=g6198] [SM=g6198]

    esodo: Dio nella storia di liberazione degli uomini

    1. Alcune difficoltà relative alla storia dell'Esodo


    La storia dell'Esodo è tutta un miracolo dal principio (vocazione di Mosè) alla fine (passaggio del Giordano dopo quaranta anni di cammino nel deserto).

    Non possiamo negare il miracolo, ma è strano che oggi non si ripeta per tanti popoli che anelano ad una liberazione identica.
    Dio è cambiato?
    oppure noi siamo diventati più cattivi?
    Dov'è il miracolo?
    Crediamo in un Dio liberatore. Ma dov'è oggi questo Dio?

    La libertà sta morendo nel cuore degli uomini, siano essi ricchi o poveri, per colpa di tanti fattori che noi stessi abbiamo creato.
    Dov'è il nostro Dio e la libertà che ci porta?

    Molti si sono stancati di aspettare la libertà e sono passati all'azione liberatrice: Cecoslovacchia, Vietnam, Negri dell'America del Nord ecc.
    In tutto il mondo si formano i cosiddetti «Fronti di Liberazione Nazionale», operai ed emarginati prendono coscienza e passano all'azione.

    Che rapporto c'è fra tutto questo e il nostro Dio?
    In genere questa gente che lotta prescinde da Dio.
    Neppure ci pensano e non ne sentono il bisogno.
    È frequente l'accusa ai cristiani:
    «Vi dite liberi, ma vivete incatenati dalle leggi e dai precetti che vi impone il Dio-Liberatore.

    Parlano di libertà ma nella loro vita la libertà non si vede.
    Sono come il mendicante che si vantava di essere discendente dell'imperatore di Roma!

    Liberi davvero siamo noi, che ci siamo sbarazzati di questo Dio!
    A che serve in pratica per la nostra vita credere nel Dio-Liberatore?
    Sono difficoltà serie che mettono in crisi tutto quanto la Bibbia ci dice sulla liberazione dell'Esodo.
    Sembra che il nostro modo di vedere la Bibbia e la religione ci porti a una interpretazione del tutto sbagliata.


    2. L'ottica della Bibbia nella descrizione dell'Esodo

    Molte sono le descrizioni dell'Esodo contenute nella Bibbia:
    nei libri dell'Esodo e dei Numeri;
    nel Deuteronomio;
    nel libro della Sapienza (capp. 10-19);
    nei Salmi 77, 104, 105, 133;
    nei libri profetici, specialmente Isaia (40-55).

    L'avvenimento dell'Esodo quindi è raccontato da persone differenti in libri elaborati durante epoche differenti e le descrizioni corrispondono alle più disparate forme letterarie:
    prosa e poesia, storia e profezia, inno e narrazione, liturgia e detti sapienziali.
    Si tratta evidentemente di un fatto importantissimo per la vita del popolo:
    tutti ne parlano e i commenti durano per tutto un secolo.
    Qual è la causa di un così grande interesse del popolo per l'Esodo?

    Lo scopriamo esaminando il loro modo di parlarne.
    Nella descrizione dell'avvenimento ci imbattiamo in alcuni particolari che esigono spiegazioni:

    1/ frequenti ripetizioni nel libro dell'Esodo (due volte la storia della manna, delle quaglie, dell'acqua che sgorga dalla roccia, della vocazione di Mosè, della consegna del decalogo ecc.);

    2/ evidenti esagerazioni, come per esempio nella poesia dell'Es. 15 e nel libro della Sap.) là dove si descrivono le piaghe d'Egitto;

    3/ sconcertanti incertezze:
    il Sal. 77 enumera 7 piaghe, il Sal. 104 parla di 8 mentre il libro dell'Es. ne conta lO;
    ma è noto che il libro dell'Es. si compone di tre tradizioni precedenti: la 'jahvista' del sec. X con 7 piaghe,
    l' 'eloista' del sec. IX-VIII con 5 piaghe,
    e la «sacerdotale» del secolo V o VI con cinque piaghe differenti dalle 5 della tradizione «eloista»;

    4/ la progressiva accentuazione del miracoloso:
    la tradizione 'jahvista' dice che soltanto l'acqua presa dal Nilo diventò sangue (Es. 4, 9);

    quella 'eloista' dice che tutta l'acqua del Nilo si trasformò in sangue (Es. 7, 20) ;

    quella 'sacerdotale' dice che tutta l'acqua dell'Egitto si trasformò in sangue (Es. 7, 19);

    nel libro della Sap. del sec. I a.c. si raccontano cose"'addirittura fantastiche a rispetto delle piaghe.
    Insomma quante sono state le piaghe?
    Si ha l'impressione che l'ultimo autore dell'Esodo ne formulò 1O pensando che era un buon numero.

    Cosa accadde in realtà?
    Come avvenne la piaga dell'acqua cambiata in sangue?
    Si può sapere come andarono davvero le cose?
    Le caratteristiche letterarie di cui abbiamo parlato, messe in evidenza dall'esegesi moderna, rivelano la preoccupazione e l'ottica di chi scrive.

    1/ L'autore non si preoccupa di raccontare soltanto una storia, né di fare una «cronaca giornalistica» degli avvenimenti dell'Esodo;
    vuole anzitutto tramandare che senso abbia la storia della vita in continua evoluzione.
    Non descrive, ma interpreta il fatto storico.
    Pertanto non lo possiamo prendere alla lettera.
    La Bibbia ci farebbe cadere in contraddizione.
    Essa stessa non si lega al fatto materiale, né prende tutto alla lettera: ripete, esagera, travisa, suscita incertezze.

    2/ L'interesse fondamentale della Bibbia, ovvero il senso che la Bibbia scopre nei fatti dell'Esodo, mette in evidenza che là Dio si rivelò al popolo imponendosi come il «suo Dio».
    Dallo incontro con Dio il popolo prese coscienza di un impegno che doveva essere osservato:
    l'alleanza.
    Nel modo di raccontare il fatto la Bibbia si propone di mettere in evidenza l'iniziativa di Dio presente e attuante negli avvenimenti.

    Si spiega allora perché il numero delle piaghe e il loro aspetto miracoloso siano in continuo aumento:
    era l'unica risorsa perché il lettore di quel tempo si accorgesse che i fatti avevano una dimensione divina.

    Un paragone può aiutarci a capire:
    la fotografia e i raggi X.
    I libri di storia sono fotografie:
    descrivono quello che si vede a occhio nudo.
    Perciò è impossibile toccare e vedere la presenza di Dio (cf. Gv. 1, 18).

    Ma il raggio X della fede denuncia e rivela la sua presenza.
    C'è differenza tra il modo di vedere le cose dello storico comune e il modo di vedere le cose della Bibbia.

    Non usano lo stesso metro.
    Non hanno gli stessi occhi. Per cui i risultati dell'analisi dell'uno non possono essere uguali ai risultati dell'analisi dell'altro, anche se non si contraddicono: sono aspetti diversi di un'unica realtà.

    La descrizione biblica vuol presentarci i fatti in modo tale che il lettore possa cogliere la dimensione divina del passato, per imparare a cogliere la stessa dimensione divina in ciò che succede a lui e intorno a lui mentre legge la Bibbia.
    Condizione indispensabile per cogliere il messaggio della Bibbia è cercare di avere gli stessi occhi dell'autore che la scrisse.


    3. L'ottica della scienza moderna contrasta con l'ottica della Bibbia?

    Niente ci impedisce di adottare lo stesso punto di vista dello storico né di applicare alla Bibbia i criteri della scienza moderna per arrivare a una più esatta comprensione storica degli avvenimenti.
    Così si è fatto. I risultati sono stati i seguenti:
    le piaghe erano fenomeni naturali, soliti a realizzarsi nella regione del Nilo;
    il passaggio del Mar Rosso era ben possibile durante la bassa marea;
    il vento impetuoso (cf. Es. 14, 21) fece ritirare le acque di un guado (dove pertanto era già possibile passare);
    la manna era una sostanza resinosa commestibile.
    Si tratta di conclusioni irrefutabili.
    Anche oggi tutto questo succede in Egitto.

    La scienza è arrivata a spiegare gli avvenimenti dell'Esodo in maniera naturale e può concludere:
    non accadde nulla di straordinario.
    Fu soltanto un felice tentativo umano di liberazione come molti altri, prima e dopo Mosè.

    A prima vista una conclusione del genere disorienta.
    Ma il risultato di questa ricerca storica è come una fotografia che la Bibbia non smentisce, ma suppone, per poi mostrare l'altro lato della medaglia ai raggi X: in tutto ciò Dio era presente.

    La scienza a sua volta non può negare le conclusioni della Bibbia, perché andrebbe al di là delle sue premesse e della capacità dei suoi strumenti di analisi.
    Gli strumenti di cui la scienza dispone non potranno mai registrare l'azione di Dio.
    La sua presenza la scopre solo chi a Dio si apre con fede.
    Dio sta al di qua e al di là della ricerca scientifica.

    Per questo si nota nella Bibbia una certa indifferenza per l'aspetto storico concreto, dal momento che gli autori cadono in inutili ripetizioni, in esagerazioni e perfino in contraddizioni:
    ingrandiscono e minimizzano, interpretano e travisano la prospettiva dei fatti. Tutto ciò non ha importanza.

    Importa comunicare il messaggio profondo dell'avvenimento:
    Dio era presente e agiva dentro il tentativo felice degli uomini di liberarsi.
    La Bibbia vuole aprirci gli occhi su quello che succede oggi, intorno a noi. Si moltiplicano dappertutto i tentativi di liberazione.
    Attenzione a non pensare che tutto ciò succeda indipendentemente da Dio e che a Dio non importi.

    Ad occhio nudo non vedo il microbo, ma ne costato gli effetti (le malattie);
    con lo strumento adatto riesco a vedere anche i microbi.
    Soltanto con la ragione, non vedo la presenza di Dio né nell'Esodo né nel mondo di oggi;
    ne registro soltanto i risultati:
    un popolo più libero, più umano, più responsabile, più cosciente; ma con lo strumento appropriato - che è la fede mi accorgo che sono proprio questi i segni della presenza di Dio.

    Successe in quel tempo quello che succede oggi e succederà sempre.
    In tutti gli avvenimenti esiste una terza dimensione che non si distingue a occhio nudo.
    E chi si lascia prendere troppo da un solo punto di vista perde la sensibilità per gli altri aspetti della realtà.
    Chi vuol solo vedere il lato 'scientifico' delle cose diventa incapace di scoprirne il senso recondito a cui si ispirano l'arte, la poesia, il canto, la filosofia e la pittura.

    Quando l'uomo si rinchiude dentro il suo 'io' e si limita alle sue scoperte scientifiche atrofizza la sua capacità di aprirsi a Dio e arriva a non dare più nessuna importanza alla dimensione divina che la fede scopre nelle cose.
    Quante volte però la colpa non è della scienza, ma di coloro che professano la fede:
    la loro vita quotidiana dimostra che la fede, di fatto, non contribuisce al progresso né allo sviluppo dell'uomo.

    Sotto questo aspetto la Bibbia può essere una luce che ci aiuta a scoprire una dimensione nuova e occulta della vita. In particolare il racconto dell'Esodo può rivelarci la presenza attiva di Dio in certi campi della vita umana proprio là dove di solito non la cerchiamo.



    4. Il fatto storico dell'Esodo e la sua dimensione divina scoperta alla luce della fede.

    Tutto sommato chi osserva e studia il fatto dell'Esodo con criteri puramente umani lo riconosce come felice tentativo di liberazione dal giogo oppressore imposto da un uomo: il Faraone.
    Cercarono la libertà e l'indipendenza.
    Molti gruppi prima e dopo Mosè avevano tentato la stessa cosa.

    Gli uomini continuano a tentare fino al giorno d'oggi perché il bisogno di libertà è sempre il più forte.
    Illuminando tutta questa realtà con la luce della fede, la Bibbia lancia un messaggio che suona così:
    quando si raccontano i fatti storici dell'Esodo e si insiste non tanto sull'aspetto materiale degli avvenimenti stessi ma soprattutto sull'esperienza viva e concreta fatta dagli uomini e sulla loro convinzione chiara e irremovibile che Dio è presente in ogni tentativo umano di liberazione, la Bibbia interpreta tale sforzo di liberazione come manifestazione della presenza di Dio tra gli uomini, inaugurando la strada che porta a Cristo e alla Risurrezione.

    Con i suoi racconti la Bibbia ci trasmette il messaggio che ci aiuta ad accorgerci della (dimensione divina racchiusa nei fatti della nostra storia:
    dovunque c'è uno sforzo sincero di liberazione, sia individuale che collettivo, là possiamo sempre riconoscere la voce amica del nostro Dio liberatore che chiama e interpella;
    proprio di lì passa anche oggi la strada che porta gli uomini a Cristo e alla Risurrezione.

    A questo punto ci troviamo di fronte a una difficoltà.
    Può darsi che la maniera con cui la Bibbia vede la liberazione del popolo ebreo dall'Egitto sia stata il risultato di un'autosuggestione collettiva?
    Certamente è possibile, ma allora come spiegarne gli effetti?

    Sono libero di negare la presenza dei microbi, purché però trovi il modo di spiegarne le conseguenze (malattie).
    I risultati documentati dalla storia sono tali che non possono avere nessun'altra spiegazione valida all'infuori di quella data loro dalla Bibbia.
    Per cui l'impotenza della scienza storica a trovare una causa specifica adeguata alle conseguenze depone a favore dell'autenticità
    dell'interpretazione data dal popolo circa i fatti accaduti proprio a lui, durante la fuga di liberazione dall'Egitto.

    La storia arriva a questa conclusione attraverso la constatazione dei fatti che non riesce a spiegare.
    Mano a mano che il popolo camminava, diventava più libero, più responsabile, più sensibile ai problemi umani, più cosciente più fraterno più forte e più coraggioso di fronte alle difficoltà della vita, capace di rialzarsi dalle cadute che segnarono la fine di tanti altri.

    Tutto ciò è documentato dalla Bibbia e la ricerca storica lo conferma.
    La vita del popolo lo mette in evidenza e lo stesso popolo attribuisce i risultati liberatori dell'Esodo all'azione di Dio.
    La progressiva umanizzazione della vita riuscì ad imporsi, perché l'orizzonte che l'Esodo squarciò sul futuro del popolo superò la semplice vista umana e raggiunse l'incontro con Dio.

    Un'ottica del genere così benefica all'uomo, là dove altre maniere di concepire la vita si rivelarono impotenti, merita senz'altro tutta la fiducia e non permette di giudicare autosuggestione collettiva quella esperienza di Dio che sta all'origine del popolo e che lo portò a conquistarsi la libertà.


    5. L'Esodo: principio di una lunga storia di liberazione

    Due sono i movimenti paralleli nella storia del popolo eletto.
    Da una parte la coscienza progressiva dell'oppressione:
    non è possibile liberare chi non ha coscienza dell'oppressione in cui vive e non sa cosa sia la libertà, né può riceverla dal di fuori.

    D'altra parte la liberazione progressiva cammina parallela alla progressiva coscienza di oppressione: una volta coscientizzato della situazione in cui vive, il popolo si sveglia e assume la liberazione come suo compito esclusivo.

    La Bibbia ci dice che sia l'uno che l'altro processo hanno a che fare con Dio.

    In questo senso l'Esodo fu solo un principio e non un punto di arrivo.
    La presa di coscienza incominciò là dove l'oppressione si faceva sentire di più:
    oppressione politico-culturale.
    Dopo l'Esodo continuò l'azione coscientizzatrice di Dio attraverso i condottieri scelti da lui fino ad attingere la radice di ogni oppressione, che è l'egoismo:
    il ripiegarsi dell'uomo su se stesso che lo porta a creare strutture di oppressione in tutti i campi del1a vita.
    D'altra parte il compito della liberazione non si limita all'uscita dall'Egitto; anzi ne fu solo l'inizio.

    Il processo continuò persistente fino a strappare la radice dell'oppressione per l'amore liberatore di Cristo.
    La vera libertà che Dio propone agli uomini nasce dall'amore a Dio e al prossimo.
    L'Esodo incominciato da Mosè si conclude con Gesù Cristo risuscitato dalla morte alla vita vera.
    Si riassume nelle parole del Vangelo: perdere la vita per amore, per poterla possedere pienamente (Mc. 8, 35).

    Dio non ha bisogno della nostra libertà e neppure gli importa di darcela in dono. Dio è libero.
    A contatto con Dio l'uomo si libera e riceve il germe della vera libertà.

    II germe della libertà entrò nel cuore del popolo ebreo in occasione dell'Esodo e cominciò a mettere radici.
    Il popolo viveva in Egitto da 430 anni (Es. 12, 40) senza alcuna coscienza di subire una oppressione.
    Quando questa passò il limite della sopportazione, allora la coscienza del popolo si svegliò al desiderio di libertà espresso nella preghiera (Es. 1, 1-2, 25).
    Dio rispose alla preghiera del popolo chiamando Mosè perché' realizzasse la liberazione (Es. 3, 7-10; 6, 2-8).

    Nonostante tutta l'esaltazione dell'opera di Dio che la forza di una fede già più illuminata descrive nell'Esodo, sono evidenti nel testo le astuzie di Mosè per raggiungere il suo scopo.

    La fuga doveva essere mascherata dal pretesto di un pellegrinaggio di tre giorni attraverso il deserto (Es. 5, 1-3; 7,16; 9, 1; 8,25-27).
    Per evitare scontri pericolosi con l'esercito di Faraone, Mosè fece uscire il popolo per la strada del sud verso il Mar Rosso (Es. 13, 17-18).

    Riuscì ad attraversare il mare grazie ad un vento forte e secco che fece ritirare le acque (Es. 14, 21) e suscitò una tempesta di sabbia nel deserto che impedì agli Egiziani la visibilità (Es. 14, 19-20).
    Ma lo sforzo e il calcolo dell'uomo non sono la cosa più importante. Importante per loro e per noi fu la nuova fede sbocciata in mezzo al popolo dall'esperienza vissuta:
    fede in Dio che camminava con loro e fede nella parola di Mosè interprete di Dio (Es. 14, 31).

    La descrizione dell'Esodo si propone di suscitare nei lettori la stessa fede, lo stesso sforzo di liberazione per arrivare a celebrare tra di loro la presenza del Dio liberatore.
    «Cantate inni al Signore, perché ha fatto risplendere la sua gloria» (Es. 15, 1).
    In questo senso la descrizione dell'Esodo spiega un cammino che cominciò là nell'Egitto e che continua ancora... È il cammino di tutti noi verso la terra promessa dove regna la libertà piena che viene da Dio.

    Se guardiamo la vita con questi occhi, siamo capaci di accorgerci e di percepire in modo nuovo il vero valore dei fatti che oggi succedono. Quando gli uomini vivono lo sforzo di liberazione e si impegnano a por tarlo avanti, Dio si fa incontrare anche oggi da loro come si fece incontrare dal popolo eletto, perché tutti arrivino a Cristo.

    Molti e svariati sono oggi gli aspetti di questo sforzo:
    superare i limiti dell'ignoranza con lo studio;
    vincere il vizio che deprime;
    fare la psicanalisi per liberarsi da complessi e condizionamenti;
    fare medicina per liberare gli altri dall'oppressione dei mali fisici; contribuire ad eliminare l'analfabetismo;
    insegnare l'igiene e a coltivare un orto; popoli che si sforzano di liberarsi dal colonialismo e dall'imperialismo;
    cercare di vincere le distanze che sono una forma di oppressione;
    operai che si uniscono per difendere i loro diritti calpestati;
    popoli che elaborano insieme la dichiarazione dei diritti dell'uomo; vincere soprattutto ogni forma di egoismo;
    denunciare le ingiustizie e le torture che offendono la persona umana; promuovere lo sviluppo del popolo.
    Sono infinite le forme che assume lo sforzo gigantesco di liberazione.

    L'umanità cammina faticosamente attraverso tutto questo, facendo il suo Esodo nel dolore fino alla conquista della libertà totale.
    Ciascun uomo fa il cammino dell'esodo:
    la crescita naturale del bambino che diventa adulto è una maniera di vincere le limitazioni e di affermarsi nella vita;
    ogni gruppo, ogni popolo ha il suo Esodo.
    L'umanità intera è coinvolta nell'Esodo o come dice il Concilio è radicalmente impegnata nel «mistero pasquale» di Cristo.
    In tutto questo groviglio di cose Dio apre le sue braccia, entra, si fa presente, agisce a vantaggio degli uomini e lì si fa incontrare.

    Chi guarda dal di fuori non vede niente, non si accorge di niente, ma gli occhi della fede arrivano a scoprire là dentro (per averne fatto l'esperienza nel dolore) la presenza nascosta di Dio.

    Bisogna allora concludere che tutte le azioni compiute in nome della libertà sono approvate da Dio?
    Andremmo al di là delle premesse. Esistono movimenti di liberazione che invece di portare alla libertà portano ad una oppressione ancora maggiore, 'perché portano all'odio ed alla chiusura all'interno di un gruppo.
    Come si fa a distinguerli?


    6. La storia dell'Esodo criterio di discernimento

    Mosè fu educato alla corte del Faraone (Es. 2, 5-10).
    Era costume del tempo educare i ragazzi dei paesi occupati per farne poi strumenti a vantaggio dell'Egitto.
    Mosè però non fece carriera perché la voce del sangue gridò più forte.
    Si rivoltò contro la situazione umiliante del suo popolo e uccise un soldato (Es. 2, 11-12).
    È probabile che il fatto si riferisca ad un tentativo fallito per raggiungere la libertà. Dovette fuggire (Es. 2, 11-12).

    Nell'esilio Dio lo raggiunge di nuovo e gli ordina di ritornare per liberare il suo popolo (Es. 2, 23 - 4, 18).
    Dopo lunga resistenza Mosè obbedisce e accetta la missione.
    La libertà per la quale adesso si impegna a lottare non ha più carattere negativo (liberarsi dall'oppressione politica del Faraone) ma acquista contenuto positivo.

    Chi lotta solo per liberarsi 'da' qualche cosa ha solo coscienza di ciò che non vuole e cammina all'indietro verso il futuro;
    gli manca il criterio per orientare i suoi passi in avanti.
    La libertà che Mosè intravede all'orizzonte fa parte di un progetto che Dio vuole attuare:
    liberare il popolo dall'Egitto per fare di lui il «suo popolo» ed essere lui il «Dio del suo popolo» (Es. 6, 6-8).
    Il popolo deve liberarsi 'per' diventare popolo di Dio; sa quèllo che rifiuta perché ha coscienza di quello che cerca nella vita; adesso sì, possiede i criteri necessari per dirigere i suoi passi in avanti.

    Mosè e il popolo hanno chiaro l'obiettivo verso cui dirigere l'azione che tesserà tutta una storia, dando contenuto e senso alla libertà che cercano.
    Tutto quello che non serve al fine non serve neppure alla loro liberazione.

    È più che evidente che l'entrata di Dio nella vita degli uomini è luce che orienta e corregge allo stesso tempo.
    La prima correzione o conversione si ebbe nel cervello di Mosè:
    da assassino diventa coscientizzatore.

    Non sempre tutto ciò che si fa in nome della libertà porta a quella libertà che Dio vuole per il suo popolo. Come pure non sempre lo sforzo di liberazione può essere pacifico e senza violenza.
    Certamente la missione di Mosè provocò a prima vista una recrudescenza dell'oppressione del Faraone (Es. 5, 1-18) e quindi una rivolta del popolo ebreo contro Mosè il liberatore per aver eccitato l'odio del Faraone e per aver aizzato gli Egiziani ad uccidere gli ebrei (Es. 5, 19-21).

    Invece della libertà si ebbe una oppressione ancora maggiore.
    Mosè si lamenta (Es. 5, 22-6, 1), il Faraone si indurisce ancora di più e resiste alle esortazioni ricevute (Es. 7, 13.22; 8, 15-19; 9, 7.12; 1O, 20.27).
    Toccava a Mosè vincere la paura e l'apatia del popolo.
    Doveva convincere il popolo che, se Faraone si era indurito, Dio agiva in lui e preparava così la liberazione' (Es. 7, 3-5; 9, 35; 1O, 10.27).

    Tutto lo sforzo di Mosè consisteva fondamentalmente nel far sì che il popolo prendesse coscienza dell'oppressione in cui viveva e si decidesse a far di tutto per liberarsi, perché Dio glielo ordinava.
    Interpretava i fatti come segni e appelli di Dio, in favore del suo popolo. Faceva parlare i fatti.

    Finalmente il Faraone cedette e il popolo partì (Es. 12, 37).
    Cominciò la marcia della libertà, la marcia che Dio voleva dal popolo suo. Ma era una marcia soggetta alla critica e ambigua.
    Alla soglia della libertà tutto sembrava fallire.
    Imbottigliato tra il mare e l'esercito egiziano, il popolo si disperò e si ribellò contro Mosè (Es.14, 11-12).

    Mosè allora fece ricorso alla fede, il popolo perseverò, nacque la libertà (Es. 14, 30). È evidente la fede del condottiero nella causa che difende e che lui stesso guida.
    Crede che sarà certamente vittorioso. Non è stato Mosè a provocare la violenza. La colpa fu del Faraone che non voleva far partire il popolo alla conquista della sua libertà.
    Trovava molto più comodo conservare al suo servizio un popolo di schiavi.


    7. Celebrare la libertà che viene da Dio

    Il popolo fece la sua grande esperienza:
    ci ha liberati Iddio!
    Siamo il suo popolo (Es. 19, 4-6).
    Di conseguenza tutti gli avvenimenti passati erano visti alla luce di questa fede fondamentale.
    In tutto' Dio era presente guidando tutto al bene del suo popolo.

    Sotto questo aspetto Dio era presente anche nell'astuzia umana, che portò il popolo a scegliere un cammino meno pericoloso dirigendosi verso il Mar Rosso (Es. 13, 17-18).
    Si riconobbe il dito di Dio nel vento impetuoso che soffiò tutta la notte alzando una nuvola spessa di sabbia (Es. 14, 20-21) e che facilitò la fuga perché la marea era bassa e la tempesta formava una cortina oscura che proteggeva la ritirata.

    Le piaghe naturali che erano solite verificarsi in Egitto aiutarono a creare un clima generale di confusione che favorì la fuga di liberazione. Viste alla luce dei raggi X della fede, esse divennero per Mosè e per gli ebrei la rivelazione dell'azione liberatrice di Dio.
    Il popolo e il suo condottiero seppero interpretare i «segni dei tempi» e corrispondervi fedelmente ricorrendo perfino ad artifici e astuzie, strategiche per portare a termine il piano di Dio.

    Era la notte di Pasqua. La Pasqua era la festa pastorizia della primavera:
    si usava tingere le porte delle case col sangue di un agnello per difendersi dall'influenza degli spiriti cattivi.
    Per celebrare la festa del deserto uscirono dall'Egitto.

    Fu così che da allora In poi la Pasqua non fu più una festa contro gli spiriti cattivi ma il 'memoriale' della liberazione:
    ricordava quello che Dio aveva fatto, offriva al popolo un'occasione sempre nuova di impegnarsi un anno dopo l'altro nel progetto di liberazione in atto, e manteneva viva nel popolo la speranza di una liberazione totale nel futuro.
    Per questo la vita di chi crede in Dio e nella sua promessa vuole chiamarsi «vita pasquale», cioè vita che passa successivamente dall'oppressione alla liberazione.

    La Pasqua di Cristo fu la vera Pasqua, perché lui passò dalla morte alla vita vera, che dura sempre presso Dio.
    Il contatto con Dio genera la vera libertà.
    La storia del popolo ebreo è caratterizzata dallo sforzo di liberazione e dalla preoccupazione di celebrarne la vittoria.



    SEGUE..



    una stretta di [SM=g1902224]


    Pierino





    [Modificato da mlp-plp 09/10/2009 13:41]
    contatto skype: missoltino 1
    I nostri amici





  • Elyy.
    00 05/10/2009 20:26
    Riguardo la storia di Abramo, trovo interessanti queste parole:


    La Bibbia racconta il fatto non già come lo visse Abramo, ma come lo vide il popolo a distanza di anni, attraverso il prisma dei problemi avvicendatisi nelle epoche successive della sua storia.



    e anche queste:


    Il grande messaggio che ne deriva è la risposta sicura alla domanda:
    «dove è Dio?»
    «Dove lo posso incontrare?»
    Dio si fa incontrare ed entra nella vita, là dove l’uomo cerca di essere sincero con se stesso e con gli altri, là dove scopre e vive l'assoluto.

    Là dobbiamo cercare, tutt’oggi, i tratti del volto di ‘qualcuno’ in cui crediamo.
    Non dobbiamo cercarli anzitutto nel culto.
    Il nostro culto ha senso soltanto se esprime ciò che viviamo, giorno per giorno.

    Abramo accettò questa presenza e si lasciò trasformare.
    Guardando dal di fuori, niente sembra cambiato ma, di dentro, comincia a brillare una luce che lanciò i suoi raggi all'intorno, fino agli ultimi confini dell'universo e portò gli uomini a scoprire che questo ‘qualcuno' è Dio, creatore del cielo e della terra.




    oltre ovviamente a tutto l resto!

    Si legge molto scorrevolmente ed è un piacere essere trasportati nell'esegesi biblica, solitamente un tantino ostica.




    X FLABOT:

    Capisco la tua curiosità riguardo al Nuovo Testamento, ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensi dell'esegesi esposta fin'ora, ti sembra accettabile?


    Ciao, Ely





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    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. IV [SM=g6198] [SM=g6198]

    Sansone e Dalila: folclore o qualcosa di più?


    1. Alcune difficoltà relative alla storia di Sansone e Dalila

    La storia di Sansone e Dalila occupa uno spazio relativamente grande nel libro dei Giudici:
    dal cap. 13 al cap. 16, quasi la quinta parte del libro.

    Racconta la nascita di Sansone (cap. 13) il suo matrimonio (cap. 14) le sue liti e le sue gesta contro i Filistei (cap. 15) e la sua morte tragica e gloriosa ad un tempo (cap. 16).
    È una di quelle storie bibliche di cui non si sa che pensare.

    Il comportamento di Sansone non va d'accordo con i principi della morale e dell'etica.
    Anzi non segue addirittura nessuna legge.
    Va solo dietro ai suoi impulsi.

    Gli piacevano le donne. La Bibbia ne nomina tre.
    Uccideva senza scrupoli.
    Dava noia a tutti, ai nemici e agli amici, con le sue gesta e le sue contese quasi sempre provocate da un fatto di amore.
    Fa quello che gli pare e come gli pare.

    Come può la Bibbia riconoscere in tutto questo l'azione vivificante dello Spirito di Dio?
    Che pensare di una simile storia?
    Sarebbe solo il copione di un film scabroso?

    Non è certo possibile imitarlo: sarebbe pericoloso e sconveniente.
    Eppure la Chiesa fino ad oggi continua a leggere questa storia.
    A che serve?
    Quale utilità ha per noi?


    2. L'ottica dell'autore che scrive la storia di Sansone

    Il libro dei Giudici, scritto molti anni dopo gli avvenimenti che racconta, somiglia a un tappeto fatto di ritagli.
    Con mattoni vecchi l'autore ha costruito una casa nuova.
    Visse nel secolo VII a.C.

    Tutti dicono che la vita nazionale ha bisogno di riforme profonde, altrimenti sarà il caos.

    Il re Ezechia (716-687) aveva tentato di riformare la vita della nazione, ma fu un fallimento e le cose andarono di male in peggio sotto il regno di Manasse (687 -642) e di Amon (642-640).
    Nel 640 il governo passò nelle mani di un giovane, il re Giosia che godeva il favore del popolo.

    Era un condottiero risoluto a portare avanti il lavoro (diverse volte interrotto) della riforma urgente della nazione.
    Era appoggiato da tutti.

    Inoltre la decadenza dell'Assiria rendeva meno tesa la situazione internazionale.
    Sorse così un movimento nazionalista composto dal governo, dal clero e dai profeti é appoggiato dalla simpatia popolare.

    Si proponeva una riforma profonda basata sulla costituzione, che era la legge di Dio riveduta e corretta nel libro del Deuteronomio, la cui data risale a quel tempo o a poco prima.

    Durante la revisione generale e collettiva un uomo ebbe una idea geniale: approfittare di tutte le tradizioni popolari del passato a favore del movimento riformista.
    La sua tesi era: chi riforma la vita, o almeno vi contribuisce, prepara ed assicura un futuro migliore.

    Era dell'opinione che la situazione di malessere generale fosse causata dalla negligenza con cui si osservavano i diritti e i doveri contenuti nella legge di Dio.
    Il popolo doveva prenderne coscienza.
    A tal fine scrisse il libro dei Giudici che include la storia di Sansone.

    L'autore raccoglie tutte le antiche tradizioni del tempo dei Giudici e le riordina secondo un tema fisso che esprime la sua tesi e il suo messaggio fondamentale:

    1/ quando il popolo al tempo remoto dei Giudici tralasciava di seguire la legge di Dio perdeva la libertà e cadeva sotto il dominio straniero (Giud. 2, 1-3.11-15; 3, 7-8.12-14; 4, 1-2; 10, 6-8; 13, 1);

    2/ quando poi si pentiva convertendosi a Dio e riformando la vita, Dio suscitava sempre un condottiero su cui scendeva la forza dello Spirito di Dio per liberare il suo popolo (Giud. 3, 9-10.15; 4, 3 seg.; 6, 7 seg.; l0, 10 seg.);

    3/ ne risultava un periodo di pace e tranquillità perché il popolo era libero (Giud. 3, 11.30; 5, 31;
    8, 28; 15, 32);

    4/ in seguito abbandonata di nuovo la legge di Dio, tornava l'oppressione e ricominciava lo stesso processo.

    Così l'autore interpretava la storia dei Giudici.
    I Giudici erano i condottieri carismatici suscitati da Dio in risposta alla buona volontà del popolo.

    Il ripetersi costante ed infallibile dell'intervento liberatore di Dio in risposta alla 'conversione' o alla riforma del popolo dava al lettore la garanzia che lo stesso intervento era possibile anche al tempo suo.
    Bastava prepararlo e provocarlo con una profonda riforma della vita nazionale, giacché Dio non è cambiato da allora ad ora.

    La forza dello Spirito di Dio avrebbe garantito anche adesso il felice esito della riforma tentata dal popolo.
    Sotto questa luce il tempo remoto dei Giudici riviveva per l'autore e per i suoi lettori e acquistava dimensioni di attualità; se volevano che la situazione cambiasse in meglio dovevano fare come i loro antenati.

    L'autore del libro dei Giudici inserisce la storia già esistente di Sansone in questo contesto generale.
    Per metterla in armonia con la prospettiva e l'obbiettivo globale del libro vi aggiunse una breve introduzione:
    «Israele cominciò a fare ciò che non piaceva a Dio;
    e Dio permise che cadesse nelle mani dei Filistei...» (Giud. 13, 1) e conclude così: «Sansone governò Israele per 20 anni» (Giud. 15, 20; 16, 31).

    Ecco in qual modo una storia vecchia, senza perdere in nulla il suo carattere popolare, cominciò ad avere una funzione di grande attualità: diventò un esempio per chi affronta le situazioni col realismo della fede preparando così la manifestazione della forza di Dio.

    L'esempio suscitava la domanda:
    «Chi è oggi il nostro Sansone che merita il nostro appoggio e nel quale la forza di Dio si manifesta?».
    La risposta che l'autore lascia sospesa è evidente: «il giovane re Giosia».



    3. Note al margine della storia di Sansone .

    Rimane aperta la domanda:
    ma la storia di Sansone è proprio successa?
    È proprio vero che Dio approvò tutte quelle cose?
    A che servono tanti racconti scabrosi e poco verosimili di amore e morte? Qual è la verità?
    E possibile saperla?

    Occorre anzitutto tener presenti due cose:
    si tratta di letteratura ben popolare; i fatti successero in particolari circostanze di oppressione da parte dei Filistei.

    Evidentemente la letteratura popolare non osserva le leggi di una cronaca giornalistica e neppure si preoccupa di dare una versione fotografica dei fatti; si lascia influenzare dai pettegolezzi che gonfiano i fatti secondo l'interesse del momento.

    Inoltre una letteratura sorta durante l'oppressione esprimeva necessariamente le profonde aspirazioni del popolo:
    sconfiggere i Filistei e riconquistare la libertà.

    La letteratura registra esempi del genere durante l'ultima guerra mondiale. Sotto l'oppressione nazista il movimento della resistenza faceva saltare un ponticello.

    Il popolo faceva i suoi commenti e il fatto passava di bocca in bocca.
    Ci godevano a raccontarlo.
    Serviva ad attutire la tensione e a mantenere viva la speranza.
    Voleva dire che esistevano forze attive a favore della libertà da tutti sperata.

    Mano a mano però che la storia passava di bocca in bocca, le dimensioni del ponte aumentavano fino a diventare fantastiche.
    I Filistei avevano invaso tutto Israele e il popolo soffriva.
    Si formò un movimento di resistenza per riconquistare la libertà.

    Non mancarono gli eroi.
    Uno di essi fu Sansone che dette il nome al secolo. Uomo forte e coraggioso, con la sua audacia brutale riuscì a tener viva la speranza del popolo preparando la scalata al potere di David, che molti anni più tardi sconfisse definitivamente i Filistei.

    Come la storia del ponticello, Sansone entrò nella leggenda.
    La sua storia cresceva mano a mano che passava di bocca in bocca.
    Oggi non è più possibile sapere che cosa esattamente egli abbia fatto, come non è più possibile sapere le dimensioni esatte del ponte.

    La favola costruita intorno alla persona di Sansone, benché abbia un sicuro fondamento storico non nacque con lo scopo di essere una cronaca dei fatti accaduti. La fonte fu un'altra e un altro fu lo scopo.

    Nacque come mezzo per esprimere una speranza e per alimentarla;
    funzionava come valvola di sicurezza per aiutare il popolo a respirare.

    Era come se il popolo dicesse:
    «vogliamo vivere, non vogliamo morire da un momento all'altro!
    possiamo ancora sperare, farci coraggio, resistere, perché abbiamo con noi la forza dello 'Spirito di Dio».

    Questo obbiettivo concreto provocò un crescendo nella dimensione favolosa e fantastica dei fatti e ci dimostra che la speranza del popolo non conosce limiti. Si tratta di un racconto più patriottico che storico; somiglia piuttosto al monumento di Porta Pia che al grido storico di Garibaldi.
    Fu il mezzo che fece crescere la coscienza del popolo e lo mantenne all'erta. Il popolo non poteva adattarsi.



    4. La storia di Sansone a fumetti

    Nascita di Sansone (Cap. 13). Tutto fa pensare che il bambino diventerà un grande uomo;
    il padre si chiama Manoach che vuol dire 'tranquillo'.
    La madre è sterile (Giud. 13, 2).
    E con tutto ciò nasce un bambino 'terribile'.

    Se ne deduce che dietro alle quinte c'è Dio.
    Perciò si racconta che la nascita fu annunziata da un "angelo di Dio" il quale chiese di consacrarlo interamente a Dio.
    Perciò sua madre deve osservare certe prescrizioni (Giud. 13, 4) e il bambino non si dovrà mai tagliare i capelli (Giud. 13, 5).

    Già si prevede il destino di Sansone e la fonte della sua forza:
    proviene dalla sua totale consacrazione a Dio che in lui vuole manifestare la forza dello Spirito.
    In tutta la Bibbia l'annuncio anticipato della nascita fa parte dello schema secondo il quale il bambino che nascerà è investito di una specialissima missione che realizza il piano di Dio: Giacobbe (Gen. 25, 21-26) Samuele (1 Sam. 1, 1-28) Giovanni Battista (Lc. 1, 5-25) Gesù Cristo (Lc. l, 25-37).

    Matrimonio di Sansone (cap. 14). Sansone andò contro tutte le regole.
    Si innamorò di una fìlistea nemica del popolo e la sposò.
    Nessuno riuscì a dissuaderlo (Giud. 14, 1-3).
    Molto tempo dopo il popolo riconobbe in questo fatto la mano misteriosa di Dio che tutto disponeva per il suo bene, perché da questo matrimonio venne la vittoria sui Filistei (Giud. 14, 4).

    In altri termini «Dio scrive diritto su righe storte».
    I versetti 5-20 sono evidentemente una favola leggendaria intorno ad un fatto che oramai è impossibile dimostrare: uccise un leone all'insaputa dei genitori.

    Durante la festa nuziale propose un rebus e perse la scommessa a causa dell'insistenza di sua moglie; dovendo pagare il prezzo di 50 tuniche, entrò in una città filistea, uccise 50 uomini, strappò loro le tuniche e pagò il debito.

    E la Bibbia dice che mentre ammazzava «lo Spirito di Jahvè irruppe su di lui» <14, 19). Alla fine dei conti Sansone ritornò furibondo a casa di suo padre. Il suocero aveva dato la figlia ad un altro.

    Litiga con i Filistei (cap. 15). Quando Sansone dopo molto tempo andò a trovare sua moglie seppe che il suocero l'aveva ingannato dando la figlia ad un altro. Dalla rabbia prese 300 volpi, le legò due a due sulle code insieme a una torcia accesa e le spinse nei campi di cereali. Bruciò tutto (Giud. 15, 4-5).

    I Filistei si vendicarono bruciando vivi la moglie e il suocero.

    Sansone rispose per le rime uccidendo un numero «grande di Filistei» e poi si andò a nascondere in una grotta (Giud. 15, 6-8).
    L'avvenimento fu causa della rivolta dei Filistei contro gli Ebrei.
    I familiari di Sansone, per evitare mali maggiori, mandarono un plotone di 3000 uomini a prendere Sansone e a consegnarlo ai Filistei.
    Non volevano seccature.

    Sansone si lasciò prendere e consegnare ai nemici della sua nazione.
    Ma al momento della consegna lo Spirito Santo si impossessò di lui (Giud.
    15, 14); Sansone spezzò le corde, prese una mascella di somaro e uccise 1000 Filistei.

    Stanco e assetato dopo questa avventura, chiese a Dio che gli mandasse dell'acqua e una roccia si spaccò e ne scaturì l'acqua. Aveva appena finito di ammazzare 1000 uomini e Dio lo ricompensava con un miracolo!

    Fine tragica e gloriosa di Sansone (cap. 16).
    Sansone andò a Gaza, città dei Filistei, e entrò in una casa di prostituzione. I Filistei pensarono di averlo preso in trappola.
    Chiusero le porte della città.

    Ma Sansone esce, scardina le porte delle mura e se le carica in spalla fino nei pressi dell'Ebron. Un viaggio di molte miglia (Giud. 16, 1-3). Poi si innamora di Dalila, anch'essa Filistea.
    I Filistei fecero un piano per ucciderlo. Dalila era la persona-chiave.

    Doveva scoprire il segreto della forza di Sansone. Sansone la ingannò per tre volte (Giud. 16, 4-14).
    La quarta volta Sansone capitolò e rivelò che il segreto si nascondeva nei lunghi capelli: sette lunghe trecce che non erano mai state tagliate, segno della sua consacrazione a Dio.

    Mentre dormiva gli tagliarono i capelli, lo presero e lui non ebbe più la forza di resistere. Gli cavarono gli occhi e lo gettarono in prigione.

    Quando un uomo permette che un altro si intrometta tra lui e Dio, deviandolo da Dio, perde la forza e il coraggio e diventa zimbello della malizia umana.

    Organizzarono allora una grande festa al dio Dagon.

    Nel frattempo i capelli di Sansone crebbero ancora di nuovo e la sua forza tornò. Durante la festa Sansone fa crollare il tempio e uccide più Filistei di quanti ne aveva uccisi in tutta la sua vita (Giud. 16, 30).


    5. Sansone e Dalila: folclore o qualche cosa di più?

    Chi legge questa storia non può fare a meno di provare ripugnanza e ammirazione: ripugnanza per i delitti commessi; che la Bibbia non si preoccupa di nascondere né di giustificare.

    ammirazione per l'audacia e l'autenticità di Sansone; non mentisce, è sincero, è del tutto libero; sfida le convenzioni; sconfigge i traditori (suoi familiari) che volevano farlo prendere; non sopporta doppiezza né compromesso.

    La Bibbia non approva i delitti e le debolezze di Sansone, si limita soltanto a descrivere quello che il popolo diceva di lui e indica il cammino che dall'oppressione portò alla libertà.

    Tuttavia sottolinea il carattere che distingue il cammino dal principio alla fine: sincerità e amore alla libertà.

    Mette pure in évidenza un consiglio sempre attuale:
    non lasciarsi trasportare dalle parole della donna leggera, perché ne derivano soltanto noie, e perfino un uomo forte come Sansone può uscirne sconfitto.

    Sono racconti popolari di un popolo riconoscente che non ignora la colpa, ma che sa perdonare. Sansone fu un bandito, ma viveva e incarnava un ideale che era l'ideale del popolo, ideale sacro: l'amore alla libertà.

    Egli contribuì alla piena riconquista della libertà al tempo di David.
    Per questo il popolo, guardando i fatti ad una certa distanza, riconosce la mano di Dio in quella storia incomprensibile e si convince che Dio può scrivere diritto su righe storte.

    Gran parte della storia di Sansone e Dalila è folclore. Ma non per questo la sua importanza è minore. Il valore sta precisamente nel folclore esuberante che mette in evidenza l'interesse e il giudizio del popolo in tutti quegli avvenimenti:

    1/ esprime la speranza di un popolo che cammina verso il futuro appoggiandosi alla potenza di Dio;

    2/ esprime l'amore alla libertà e alla sincerità;

    3/ esprime la fede incrollabile che Dio cammina con il popolo in tutte le circostanze;

    4/ condanna coloro che preferiscono i compromessi e che perciò tentano di togliere di mezzo l'uomo veramente libero.



    6. Altre conclusioni


    La riflessione sulla storia di Sansone e Dalila ci apre uno spiraglio per capire come nacque la Bibbia e come fu composta.
    Non certo da un giorno all'altro.

    Nacque per un lento processo che accompagnò il lento formarsi della coscienza del popolo, che alla luce di Dio percepiva sempre più chiaramente la sua responsabilità.

    Per questo incontriamo nella Bibbia (e anche solo in uno dei suoi libri) diverse stratificazioni che si riferiscono a epoche differenti.

    Nel nostro caso la storia di Sansone è vista da un lato con gli occhi dello scrittore che viveva al tempo del re Giosia;
    dall'altro con gli occhi del popolo che visse centinaia di anni prima sotto l'oppressione dei Filistei.

    Il libro dei Giudici sembra una costruzione nuova fatta con mattoni vecchi. Lo studio di questo libro della Bibbia prova che l'interesse della Bibbia non è soltanto conservare la storia dei tempi antichi, ma conservarla in modo che dia al popolo una visione di fede d'accordo con quello che il popolo vive al momento presente.

    Scopo della Bibbia è mantenere il popolo sveglio e consapevole della sua responsabilità.

    La storia di Sansone inoltre rivela la sincerità con cui il popolo raccontava il suo passato: non nasconde nulla.
    Senza approvare gli sbagli commessi, si accorge anche del bene che essi contengono.

    In questo la Bibbia anche oggi ha ragione.

    Basta dare uno sguardo alla storia umana: ogni azione umana è ambivalente, è un misto di bene e di male.
    Spesso il male sta alla radice dell'agire mentre le apparenze sono buone.

    Gesù ha chiamato 'farisaico' un comportamento del genere quando l'esterno non riflette l'interno.
    A volte il male affiora alla superficie mentre la radice è buona.

    Dio preferisce questo secondo comportamento, per cui accoglie i peccatori, i pubblicani e le prostitute.

    Sansone era un uomo il cui comportamento era molto cattivo, ma nell'intimo egli era molto buono: sincerità, autenticità, amore alla libertà.
    Del resto anche la storia della Chiesa è un miscuglio di bene e di male.

    In nome di Dio si fecero cose orribili:
    certi fatti delle crociate, dell'Inquisizione, della persecuzione agli eterodossi all'inizio del nostro secolo... Non abbiamo diritto di condannare le azioni di Sansone.

    Al contrario esse ci chiedono un esame di coscienza.
    In fondo ciascuno, esaminando la sua vita e la concatenazione dei suoi gesti, si accorge che il bene e il male si mescolano in modo da formare un tutto inseparabile.
    Non per ciò Dio è assente dalla nostra vita.

    A questo punto la Bibbia getta la maschera e dice chiaramente: «Ecco chi siamo noi!» Non nasconde né giustifica, ma riconosce e confessa tentando di 'riformare' e 'convertire'.

    Al mondo non piacciono gli uomini liberi che non vanno dietro alla legge della maggioranza, che sfidano tutti e scomodano amici e nemici, come faceva Sansone. Però il più delle volte proprio loro preparano un futuro migliore.

    Possono fare molti sbagli, come Sansone e come tanti che anche oggi si battono per un futuro migliore.

    Ma non riconoscere ciò che vi è di positivo e l'appello di Dio che sta in loro, sia ieri che oggi, è «peccare contro lo Spirito Santo», come dice Gesù.

    Di lui dissero che aveva il demonio in corpo perché scomodava e impediva a molti di stare tranquilli. Per giustificarsi attribuivano al più grande avversario di Dio quello che Dio stava operando in Gesù Cristo per liberare gli uomini (cf. Mc. 3, 23-30).

    Per un peccato del genere non c'è perdono, perché ostruisce la sorgente dell'acqua che potrebbe lavare e purificare il male della nostra vita. Sarebbe come se tagliassimo alla radice qualunque tentativo di 'riforma' proprio col pretesto di voler fare riforme e innovazioni.




    SEGUE..


    [SM=g1916242] con una stretta di [SM=g1902224]


    Pierino








    [Modificato da mlp-plp 09/10/2009 13:42]
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    Grazie!

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    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. V (prima parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

    I Profeti: Dov’è quel dio in cui crediamo?


    1. Domande e notizie preliminari sui Profeti


    Come fa un profeta a sapere che Dio gli ordina di dire questo o quello? Come nasce la vocazione di un profeta?
    Come distinguere il profeta vero dal falso, se tutti e due affermano di parlare in nome di Dio?

    Qual è la missione di un profeta?
    Come fa a realizzarla?
    Che cosa ci insegna su Dio?
    Al giorno d'oggi ci sono ancora i profeti?
    Sono queste le domande che affiorano dalla lettura dei libri dei profeti.

    I libri dell'Antico Testamento attribuiti ai profeti sono 16, di cui quattro sono detti «maggiori» (Isaia, Geremia - insieme alle lamentazioni e a Baruc - Ezechiele e Daniele) e gli altri 12 sono detti «minori» (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia).

    La distinzione fra «maggiori» e «minori» è dovuta al numero dei libri che hanno scritto o che sono loro attribuiti.
    Nella Bibbia si parla anche di altri profeti dei quali non abbiamo nessuno scritto, per esempio Elia ed Eliseo.

    Molti profeti sono per noi soltanto nomi senza significato.
    Non è più possibile sapere chi furono come vissero e perché lottarono. Tuttavia lo studio critico dei loro scritti e della storia, dentro e fuori della Bibbia, permette oggi di costruire la trama complicata delle situazioni umane in cui alcuni di loro furono costretti a vivere ed a portare avanti la loro missione.

    «Profeta» e «profezia» sono parole che indicano la previsione del futuro. In realtà però profeta vuol dire «uno che parla in nome di».
    Sono uomini che parlano in nome di Dio e che sanno di farlo. .



    2. Come nasce la vocazione di un profeta?

    È sempre difficile entrare nell'intimità di un altro e alzare il velo del mistero della vita che si svolge fra lui e Dio.

    La vocazione di profeta rientra nella sfera del mistero impenetrabile della vita. Riflettendo però sulle piste che essi stessi ci hanno lasciato nelle loro profezie possiamo arrivare a farci un'idea di come nasce la vocazione di un profeta.

    Consideriamo due esempi.

    Il profeta Amos era un uomo semplice, un uomo del popolo, contadino e pastore (Am. 7, 14). Viveva in un'epoca di progresso economico promosso dal re Geroboamo (783-743) ma che di fatto era il risultato dell'egoismo collettivo di un gruppo.

    Ne derivava un'ingiusta divisione di classi che opprimeva gran parte del popolo (Am. 5, 7; 2, 6-7; 3, l0). Quel popolo che Dio aveva liberato era ridiventato schiavo e questa volta dei suoi propri fratelli.
    Amos viveva profondamente integrato nella vita del popolo e per questo la sua fede e il suo buon senso gli dicevano che un simile stato di cose era contrario alla volontà di Dio.

    Era un paradosso e per lui diventò un problema assillante che non gli permetteva di pensare ad altro.

    Tutto gli parlava dell'ingiustizia installatasi nella sua terra e gli faceva prevedere imminente il castigo di Dio:
    un muratore che lisciava l'intonaco gli ricorda che Dio livellerà il suo popolo; un cesto di frutta matura gli fa pensare che è maturo il tempo del castigo; il fuoco nella steppa gli dice che Dio incenerisce l'ingiustizia. (cf.Am. 7, 7-9; 8, 1-3; 7, 4-6).

    I fatti cominciano a parlare.
    Tutto diventa un appello.
    In Amos a poco a poco cresce una coscienza.

    Finché si decide: Dio vuole che io parli!
    «Il leone rugge: chi non ha paura?
    Dio ordina: chi non parlerà in suo nome?» (Am. 3, 8).
    Lascia tutto e si dirige diritto verso il suo fine (Am. 7, 10-17).

    Del profeta Osea sta scritto:
    «la missione profetica di Osea, ebbe inizio quando il Signore gli disse: va e sposa una prostituta...» (Os. 1, 2).

    L'interpretazione più probabile è questa; Osea si sposò, e benché da parte sua fosse felice, la moglie lo lasciò e si dette alla prostituzione.

    Osea continuò ad amarla. L'amore fedele e disinteressato di Osea fece capire alla donna il bene che aveva perduto e tornò ad essere sua sposa. Cosi Osea scopri che aveva in mano la forza dell'amore che trasforma.

    Poiché viveva integrato nella vita del popolo scopri nella sua esperienza dolorosa, ma ricca, un significato più vasto.
    Il popolo abbandonava Dio, considerato «lo sposo del popolo», e si prostituiva ad altri dèi.

    Qui si innesta l'esperienza personale di Osea, che illumina la condotta di Dio: Dio continua ad amare il popolo con amore fedele e disinteressato, capace di rigenerarlo e farlo ritornare ad essere il «popolo di Dio», la «sposa fedele di Jahvé».

    La coscienza della sua missione si illumina:
    annunciare al popolo l'amore gratuito di Dio per provocare una conversione sincera. Per questo le sue profezie sono cos1 violente, cos1 come la gelosia è la più violenta passione dell'uomo.

    Gli esempi mostrano che il profeta era un uomo la cui coscienza personale e individuale costituiva il momento alto della coscienza del popolo di Dio. Uno che ascoltava la chiamata di Dio dentro la sua situazione personale perfettamente integrata in quella del popolo.

    La percezione chiara dell'esigenza di Dio lo portava anche a percepire come avrebbe dovuto essere la vita del popolo.
    Uomo di Dio e uomo del popolo allo stesso tempo.
    Vive l'impegno con Dio e con il popolo e sente che non deve più tacere.

    Parla con autorità perché parla in nome di Dio, della coscienza e della tradizione secolare del popolo.
    La sua vocazione sboccia dal confronto fra la situazione reale e la situazione ideale. Severi castighi aspettano chi pretende parlare in nome di Dio senza essere inviato da lui (Dt. 18, 20).

    Per provare l'autenticità della sua missione il profeta predice il futuro. 'Profezie' imminenti.
    Le previsioni si avverano e dimostrano che Dio è con lui (Dt. 18, 21-22; Ger. 28, 9; Ez. 33, 33). Cosi si distingue il falso dal vero profeta.



    3. Missione e prassi del Profeta: ciò che dice di Dio

    La missione e la prassi del profeta sono sempre condizionate dalla situazione concreta del popolo al quale dirige il suo messaggio.
    Per ciò che riguarda Iddio, egli è strumento nella sua mano, è inviato al popolo per spingerlo a camminare verso la meta per la quale si è impegnato con Dio nell'alleanza.

    Il profeta è per così dire l'uomo che esige dal popolo l'adempimento dell'impegno liberamente assunto con Dio e con se stesso.
    Per comprendere quindi la missione e la prassi del profeta è indispensabile descrivere quella parte della vita del popolo che condizionava ]a sua attività e provocava la sua reazione in nome di Dio.

    Con l'Esodo il gruppo che uscì dall'Egitto prese coscienza di essere il «popolo di Dio» impegnandosi a realizzare con Dio il progetto di liberazione.

    La coscienza di «popolo di Dio» dinamizza il gruppo e lo spinge a camminare sempre, a non fermarsi mai, aprendo la strada del futuro che la forza e la fedeltà di Dio garantiscono.

    La convinzione che è alla base del coraggio, della fede della speranza del dono di sé e dell'amore affonda le sue radici nell'esperienza e nella certezza assoluta:
    «Dio è con noi come colui che ci chiama momento per momento.
    Siamo impegnati con lui e lui è impegnato con noi».

    Questa coscienza o esperienza di amicizia profonda, detta pure Alleanza, suscita comportamenti e gesti:
    legge, culto, istituzioni, feste, celebrazioni, costumi, come per esempio i pellegrinaggi al tempio, tradizioni che conservano e tramandano il passato e diventano la memoria che influisce sul presente;

    immagini e simboli, come per esempio l'arca dell'alleanza e il vitello d'oro; profetismo, sacerdozio, monarchia, orazioni, sapienza popolare ecc.

    Lungo questo scenario scorreva la vita intensa del popolo e la coscienza di essere, il popolo di Dio si tramandava di generazione in generazione insieme all'appello di Dio ad essere fedeli.

    Comportamenti e strutture scaturivano dalla grande fede che il popolo aveva in Dio.
    Erano mezzi per mantenere viva la fede, la speranza, il dono di sé.

    Non erano fini a se stessi, erano solo mezzi per raggiungere il fine da cui ricevevano orientamento e critica.

    Il giorno in cui per una ragione qualsiasi l'uno o l'altro comportamento non fosse più espressione dell'approfondimento della vita e per ciò non servisse più a trasmettere il valore che lo aveva generato, quel comportamento passava ad essere corretto, criticato o eliminato.

    Il criterio dell'eliminazione o della correzione era sempre il progetto originale di Dio in funzione del quale Egli creò il popolo.
    I comportamenti e strutture della vita erano creazione dell'uomo, che attraverso di loro esprimeva la sua fede.

    Ma il male dell'uomo fu sempre il suo desiderio giusto e inveterato di sicurezza, sia individuale che nazionale.

    Appena trovò, dopo averla tanto cercata, una forma di vita che esprimesse la sua convinzione, vi si aggrappò come ad una conquista che gli dava sicurezza.

    Poco a poco si verificò un fenomeno:
    questi modi di vivere l'amicizia con Dio, invece di continuare ad essere espressione di una ricerca costante che dinamizzasse e spingesse a camminare sempre verso il futuro, diventavano espressioni di una ricerca di sicurezza umana, perdevano cioè il contatto con la fonte (la coscienza di essere popolo di Dio) e non erano più tramite di vita.

    Diminuiva l'esperienza interiore e continuavano inalterabili la struttura e il comportamento esterno, dando l'impressione che niente fosse cambiato.

    In realtà però tutta l'impalcatura esterna della fede, le strutture e i comportamenti erano già tutti minati alla base perché mancava la vita reale.

    Il comportamento esterno comincia ad essere considerato (da coloro che in esso si rifugiano) come un biglietto d'ingresso che dà diritto all'aiuto di Dio.

    Diventa una convenzione sociale, la facciata di una casa che non esiste, solo per illudersi di stare in pace con Dio mentre in realtà la pianta è tagliata alla radice e non ha più vita.

    Tali convenzioni sociali, fragili per natura, diventano oggetto di una difesa serrata ed accanita contro chiunque osi attaccarle.

    È l'ora dei profeti:
    la loro missione e la loro prassi nascono quasi sempre dal corto circuito tra la vita e il comportamento. Denunciano la falsa sicurezza dietro cui si nasconde il popolo per lo più incosciente. Scuotono il popolo e lo spingono a cercare nuove forme di comportamento che possano di nuovo esprimere e stimolare la vita e la fede.

    Condannano le forme vuote che contribuivano a mantenere il popolo nella sua apatia. La prima reazione è l'insicurezza del popolo, che si vede privato di ciò che gli dava una certa tranquillità di vita e di coscienza.

    Il profeta agisce sempre in nome di Dio.
    Mette in evidenza che l'idea di Dio espressa da certe forme di vita e da certi atteggiamenti del popolo non è quella del vero Dio che si rivelò nel deserto ai padri quando li liberò dall'Egitto.

    I profeti riescono ad avere una visione così chiara che diventano capaci di denunciare ciò che è sbagliato e difettoso perché sono uomini di Dio. Non tanto insegnano chi sia Dio, quanto lo rivelano nella loro vita, provando che Dio è sempre nuovo e molto più grande di quanto il popolo possa pensare.

    Dio non si lascia addomesticare da nessuna cosa, neppure dalla più religiosa.
    Vediamolo questo fenomeno ora nella concretezza degli eventi.



    4. I profeti criticano l'idea di Dio

    Il vitello d'oro:
    quando uscirono dall'Egitto costruirono la statua di un torello per dare al popolo l'immagine concreta della forza con cui Dio lo aveva liberato (cf. Es. 32, 4).

    L'immagine però nascondeva una insidia molto seria:
    identificare Dio con gli altri dèi anch'essi rappresentati in forma di toro;
    confondere Dio con la sua immagine;
    visualizzare e localizzare eccessivamente la forza divina che non può identificarsi con nessun mezzo e con nessuna immagine.

    Più tardi infatti, quando Geroboamo ripristinò l'immagine del toro (I Re 12, 28) per dare carattere religioso alla rivoluzione politica fatta da lui, l'immagine fu causa di apostasia.

    Per questo nella Bibbia l'immagine del vitello d'oro è oggetto delle più violente condanne;
    non può esprimere la fede in Dio (I Re 12, 31-13, 2).

    Luoghi alti:
    entrando nella terra promessa, il popolo incominciò ad adorare Dio nei così detti «luoghi alti», all'ombra di alberi frondosi.
    Si pensava che là si concentrasse di più la forza di Dio dato che Dio faceva crescere alberi così enormi in luoghi deserti.

    Perciò Salomone adorò Iddio nel «luogo alto di Gabaon» (cf. I Re 3, 4) senza causare inconvenienti.

    Ma una simile maniera di adorare Dio nascondeva un pericolo:
    identificare Dio con gli altri dèi adorati nello stesso modo negli stessi luoghi;

    localizzare troppo l'azione di Dio e il luogo dell'incontro con lui.

    Perciò, quando il pericolo diventò realtà, insorsero i profeti a condannare una pietà del genere.

    La chiamarono «prostituzione sotto gli alberi» (cf. Ger. 3, 1-2.7; Is. 1, 29-31; Os. 2, 6-7).

    Invece di esprimere e dinamizzare l'amicizia con Dio, il culto nei luoghi alti portava alla degenerazione della vita. Bisognava criticarlo e condannarlo.

    Re e Monarchia:
    nella persona del re si personalizzò la grande promessa che diceva: «sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio».
    Oggi si direbbe:
    «sarò per lui un padre e lui sarà per me un figlio» (II Sam. 7, 14).

    Il re, diventava così la concretizzazione visibile dell'amicizia di Dio col popolo e lo strumento diretto della volontà di Dio.

    Poco a poco però la presenza del re diventò un pretesto per accomodarsi: «dal momento che in mezzo a noi c'è il re, Dio è obbligato ad aiutarci, perché lui stesso ha promesso di mantenere sempre un re sul trono di David» (I Sam 7, 16).
    Per questo sorgono i profeti:
    il trono di David sarà una casa distrutta (Am. 9, 1); nessuno più della sua stirpe occuperà il trono (Ger. 22, 30), il re d'Israele sparirà per sempre (Os.10.15). Il fatto di avere un re non mette al sicuro nessuno.

    Tempio:
    era il luogo d'incontro del popolo con Dio:
    «come è bella la tua casa Signore!
    Muoio dal desiderio d'incontrarmi con te nel luogo dove abiti» (Sal. 83, 2-3).

    Pellegrinaggi, processioni, salmi, canti, preghiere tutto era legato al tempio, alla casa di Dio.

    «Se abbiamo il tempio, Dio è con noi, coinvolto nei nostri interessi: prendiamoci cura del tempio».

    La preoccupazione del tempio faceva dimenticare l'obbligo più grave di vivere la fede di cui il tempio era solo un'espressione.

    Per questo Geremia attacca frontalmente il tempio (Ger. 7, 1-15) e dice: «rubare, ammazzare, fare ogni sorta di male e poi venire al tempio e dire:
    'ci sentiamo al sicuro', per poi continuare a fare lo stesso.

    Voglio trattare questo tempio come ho trattato il tempio di Silo» (Ger. 7,9-10.14).

    Tutti sapevano che il tempio di Silo era stato totalmente distrutto.
    Il tempio in sé non dà nessuna certezza e non garantisce la protezione di Dio.

    Culto:
    Il culto era il centro della vita della nazione:
    ricordava il passato e lo faceva rivivere nel presente facendo sì che una generazione dopo l'altra si impegnasse nel progetto di Dio e prendesse coscienza dei suoi diritti e dei suoi doveri.

    Ma il culto si materializzò nel rito, e slegato dalla fonte viva che era l'esperienza della presenza di Dio, diventò una cambiale a scadenza fissa per comprare la protezione divina.

    Per questo si dava tanta importanza alle cerimonie e nessuna alla vita.

    Sono i profeti che si accorgono della falsità di questa facciata;
    un culto simile non serve a nulla;
    «che mi importano i vostri innumerevoli sacrifici?

    Non posso più sopportare i vostri olocausti:
    quando venite e stendete le mani per pregare, io volto la faccia dall'altra parte!

    Moltiplicate pure le orazioni, tanto io non vi ascolto! Mani piene di sangue!» (Is. 1, 11.15). Il culto non assicura per se stesso la protezione di Dio.

    Gerusalemme:
    Gerusalemme è la città della Pace cantata in tanti salmi, simbolo della forza e della presenza di Dio che agisce nella vita del popolo (cf. Sal. 121, 136, 147). Era il cuore della nazione, la «Montagna Santa».

    Ma quella gloria non serviva a niente dal momento che non portava il popolo alla pratica della giustizia.
    Perciò Gerusalemme sarà abbandonata da Dio (Ez. 11.22-25).

    Sarà rasa al suolo come una città qualunque (Is. 3, 8-9).
    Abitare in Gerusalemme non dà nessuna sicurezza.

    Terra:
    Abramo si mise in cammino verso la terra promessa,conquistata più tardi da Giosuè.

    La conquista della terra era il segno che Dio manteneva le sue promesse.

    Perciò, abitando la terra, possiamo essere sicuri che Dio è con noi.
    Il popolo trovava lì la sua sicurezza e viveva come se già avesse raggiunto la mèta.

    I profeti annientano e smascherano una simile presunzione come la più vana delle illusioni:
    tutti saranno portati in esilio, dovranno abbandonare la terra (Ger. 13, 15-19) che sarà interamente distrutta (Ger. 4, 23-28).

    Il giorno del Signore:
    si viveva di speranza.
    Un giorno Dio dovrà ben venire a manifestare la sua giustizia: distruggere i cattivi ed esaltare il suo popolo.
    Sarebbe stato un giorno di luce.

    Vivevano in questa dolce e illusoria speranza trascurando il più importante.
    Amos allora dice:
    «guai a quelli che vivono aspettando il giorno di Jahvé!... Sarà per voi giorno di tenebre e non di luce!» (Am. 5, 18-20).

    Neppure il futuro può dare la sicurezza tranquilla di possedere Iddio.



    SEGUE..


    [SM=g1916242] con una stretta di [SM=g1902224]


    Pierino







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    X FLABOT:

    Capisco la tua curiosità riguardo al Nuovo Testamento, ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensi dell'esegesi esposta fin'ora, ti sembra accettabile?


    Ciao, Ely





    Tutte le esegesi che partono dal presupposto che la bibbia è un libro mitologico da interpretare, sono secondo me da considerare "accettabili", certo poi leggendone di varie, si può stilare una, diciamo classifica di preferenza, questa mi sembra davvero buona, comunque non ne esistono di cosi brutte, da non avere niente da insegnare, certo che quelle che si ostinano a voler dimostrare che sono fatti storicamente reali alla fine risultano direi perfino ridicole [SM=g1916242] [SM=g1916242]
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    [SM=g6198] [SM=g6198] CAP. V (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]

    I Profeti: Dov’è quel dio in cui crediamo?




    Popolo eletto:
    l'origine del popolo eletto risale a quando Dio lo fece uscire dall'Egitto e strinse con lui un'alleanza.

    Era come un titolo nobiliare, fonte di ogni dinamismo e di tutta la forza necessaria per andare avanti.

    Ma poco a poco coloro che ne facevano parte se ne valsero per considerarsi privilegiati e confidarono più nel privilegio che nella fedeltà derivante dalla scelta di Dio.

    Allora Amos dice:
    «così parla il Signore: per me voi siete come il popolo della terra dì Kusc. Vi ho tratto dall'Egitto come feci con i Filistei da Caftor e con gli Aramei/Siri da Kir» (Am. 9, 7).

    Nel nostro linguaggio sarebbe come dire:
    «mio figlio Gesù Cristo è morto sia per voi cattolici che per i comunisti e per i castristi.
    Per me voi non siete migliori di loro».

    Gli Aramei/Siri e i Filistei erano i maggiori nemici del popolo di Dio. Dio ha cura di loro come di quelli che credono in lui.

    Il solo fatto di appartenere al popolo eletto non conferisce nessuna speranza, nessuna sicurezza.

    Figli di Abramo:
    Abramo fu il grande amico di Dio e la sua intercessione poteva salvare intere città (cf. Gen. 18, 16-33).

    Poter dire:
    «siamo della stirpe di Abramo!» (Gv. 8,33) era titolo di gloria.
    Ma molti si fermarono al titolo senza fare le opere che fece Abramo.

    Giovanni Battista, l'ultimo profeta dell'Antico Testamento, fece sapere a tutti che davanti a Dio i figli di Abramo valgono quanto le pietre:
    «non venite a dirmi:
    abbiamo Abramo per padre!
    Perché Dio può far nascere dei figli di Abramo anche da queste pietre qui» (Lc. 3, 8).
    Un altro appoggio cadeva.

    La legge di Dio:
    Dio ha dato la legge e chi l'osserva sarà salvo (cf. Ger. 8, 8).
    Perciò fu necessario spiegare bene la legge per sapere con esattezza che cosa ordinava e garantirsi così la salvezza.

    La legge diventò il pretesto per obbligare Iddio.
    Paolo dice che sia il pagano (greco), senza la legge, come il giudeo, con la legge, tutti sono schiavi del peccato (Rom. 3, 9).
    «Nessuno mai sarà salvo per avere osservato la legge» (Rom. 3, 20).

    I profeti abbattono tutti gli appoggi, smante1lano tutti i nascondigli e proiettano la luce della verità in tutti gli angoli oscuri.
    Tagliano tutti i fili del telefono che mettono in comunicazione con Dio, fanno saltare tutti i ponti che legano a Dio.

    Fanno piazza pulita, aprono una voragine e lasciano tutti nella insicurezza quasi assoluta.
    Tutto è abbattuto e criticato come falso, non per se stesso ma in quanto non è più appe1lo di Dio che spinge a camminare verso il futuro della promessa;
    anzi è diventato mezzo di comodismo e perfino di oppressione proprio in nome di Dio.

    Anche oggi, chissà, il profeta direbbe le stesse cose e farebbe la stessa critica a molte forme che consideriamo ancora sante ed intoccabili.
    E come allora neppure oggi il profeta sarebbe riconosciuto come tale ma sarebbe rigettato proprio in nome di Dio.

    Lo stesso Gesù fu rigettato in nome di Dio e della tradizione: «Quest'uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato» (Gv. 9, 16).
    Né messa alla domenica né rosario né rosa di oro né cattedrale maestosa né Pasqua né acqua benedetta né candela né ex voto niente può «per se stesso» costringere Dio.

    Chi si aggrappa a queste cose si aggrappa alla proiezione di se stesso, che certamente non è Dio ma un mito inesistente.
    Non è certo il Dio vivo e vero quello che i profeti conoscono da vicino e adorano. Non esiste su questa terra una leva capace di muovere il cielo.
    Il profeta si limita a criticare perché l'uomo capisca che insistere su tutte queste formalità, come se avessero in se stesse la forza di costringere Iddio, sarebbe come dialogare con l'eco della propria voce.

    Si capisce allora perché il profeta dovette affrontare forti resistenze; egli stava demolendo gli appoggi più radicali della sicurezza umana; basta leggere, per esempio, le considerazioni dell'epistola agli Ebrei sulla sofferenza dei profeti perseguitati (Ebr. 1l, 32-38).

    Tutta la critica fatta dai profeti, apparentemente così negativa, essi la facevano spinti dall'idea che avevano di Dio, profondamente in contrasto con il comportamento e le strutture della vita che il popolo conduceva.

    Non potevano permettere che l'uomo si alienasse dalla realtà della vita né che la religione fuggisse verso le forme mondane del rito, della cerimonia, del culto.
    Significava svuotare il rito, la cerimonia, il culto.

    Se vivessero oggi sarebbero essi stessi i primi a dire che una religione del genere diventa davvero «l'oppio del popolo».
    Per convincersene basta leggere e meditare i loro scritti.
    Ci resta da esaminare quale fu il lato positivo della critica così radicale fatta dai profeti.



    5. Il Dio vivo e vero dei profeti

    In conclusione, secondo il modo di vedere dei profeti, tutto era sbagliato?
    Benché distruggessero tutti i ponti, uno ne costruivano, capace di stabilire un contatto reale fra Dio e gli uomini, che dava agli uomini la garanzia della presenza di Dio: la fede.
    Che significa tutto questo?

    I profeti vivono profondamente la presenza di Dio.
    Sono uomini di Dio. Dio va al di là di tutte le cose.
    Dio non può essere preso al laccio, incanalato;
    soggiogato come bestia da traino al carico dei desideri degli uomini.

    Dio non si addomestica. L'uomo non si può permettere di invertire le parti, e invece di essere lui a servire Dio, costringere Dio a servirlo, strumentalizzando il rito e il culto che in questo caso si ridurrebbero a una stregoneria battezzata.

    Per i profeti Dio è una presenza totalmente gratuita che offre la sua amicizia a chi voglia accettarla.
    Ma egli vuole che la sua amicizia sia rispettata.
    L'amico che offre amicizia vuole che l'altro abbia fiducia in lui e non che cerchi di garantirsi i beni dell'amicizia con astuzie e raggiri.

    Sarebbe come mancare di fiducia e sarebbe motivo sufficiente per negargli l'amicizia per il futuro.
    Con il tuo amico non puoi mai riferirti ai regali che gli hai fatto, ai benefici che gli hai elargito per ricevere in cambio l'appoggio dell'amicizia;

    basta il fatto di essere amici:
    «Senti, caro, tu dici di essere mio amico.
    Sta bene.
    Se così è, mi arrischio a questa o a quella impresa che interessa pure a te e sono certo che tu mi aiuterai».

    Ci si appella all'amicizia in sé e per sé e all'impegno che l'altro ha preso con se stesso in forza dell'amicizia.

    Lo stesso succede con Dio.
    Si è impegnato con gli uomini offrendo loro la sua amicizia.

    Vuole che sia rispettata.
    Esige fede e fiducia come condizioni elementari e iniziali per qualunque altro accordo. La sua presenza in mezzo agli uomini è garantita e sicura perché lo ha detto lui.

    Ma lui è così forte che può benissimo sottrarsi a qualsiasi incontro indebito (quando cioè mancano fede e fiducia):
    vitello d'oro, luogo alto, re, tempio, culto, Gerusalemme, terra, legge, popolo eletto, figli di Abramo, giorno di Jahvé, rosario, candela, ex-voto, processione, precetto domenicale, Pasqua, primi venerdì del mese, preghiera a Santa Rita, cattedrale, tutto è relativo.

    Questi elementi non hanno per se stessi nessun potere di garanzia e il giorno in cui diventano mezzi per «comprare il cielo» e per garantirmi la salvezza a mio uso e consumo meritano la critica e la condanna dei profeti anche al giorno d'oggi.

    Non che siano cattivi in sé. Possono anche essere cose utili buone e perfino necessarie, quando usate come espressioni di quella fede e di quella fiducia che sono condizione fondamentale per qualsiasi incontro con Dio.

    Sono appena frecce indicative che orientano a Dio.
    Ma Dio sta sempre al di là di tutto quello che possiamo pensare di lui ed è sempre più vicino a noi di quanto direbbero tutte le possibili espressioni di amicizia, proprio perché è amico.

    Queste forme sono valide come i fili del telefono, ma non sono la persona con cui parlo né possono costringerla a parlarmi.
    Essa può benissimo attaccare il ricevitore e lasciarmi brontolare con l'eco dei miei desideri.
    Se però le mie parole sono espressioni di fede, certamente arrivano a Dio e Dio non fa il sordo.

    Proprio perché è fedele, Dio rimane in comunicazione con l'uomo dandogli appoggio e aiuto.

    Solo apparentemente i profeti lanciano gli uomini nella più completa incertezza, perché in realtà sono proprio loro a gettare le basi della più incrollabile certezza possibile ad un uomo:
    la certezza assoluta che Dio è presente.

    Non è lontano da noi; è con noi.
    Il suo nome è Emanuele, che vuol dire Dio con noi, forte fedele amico.
    Ma egli ci supera, egli è sempre l'’Altro'. Non possiamo addomesticarlo. Il suo rapporto con l'uomo è così libero e sovrano che può sottrarsi al dominio dell'uomo.

    L'uomo invece è debole e non riesce a sottrarsi al dominio che un altro uomo gli impone. L'atteggiamento di Dio, allo stesso tempo così vicino e così lontano, è una sfida e una accusa.

    Ricorda all'uomo i suoi limiti:
    Uno almeno riesce sempre a fuggire alle sue brame di dominio.
    Il comportamento di Dio critica il rapporto di dominio che un uomo esercita su un altro uomo e risveglia in coloro che sono dominati la volontà di fare rispettare la loro dignità.

    Dio assume rispetto agli uomini lo stesso atteggiamento che gli uomini devono assumere rispetto agli altri:
    l'unico mezzo capace di rendere una persona coerente con se stessa è la fede, la fiducia, l'amore disinteressato.

    Quando l'uomo sa mettersi al suo posto davanti a Dio, Dio si sente in dovere di aiutarlo.
    Dice il salmo:
    «Lo proteggerò perché ha riconosciuto il mio Nome» (Sal.
    90, 14).

    In altre parole:
    «Sono costretto ad aiutarlo perché lui fa sul serio ».
    Ma per far questo l'uomo deve buttarsi nel buio, dargli fiducia, assumere un atteggiamento di fede che crede nella parola dell'altro.
    Ossia lasciare che l'altro sia se stesso;
    lasciare che nella sua vita Dio sia Dio.

    Questo ci insegnano i profeti a rispetto di Dio.
    La sintesi è contenuta nel nome che Dio stesso si scelse:
    «Jahweh» che vuol dire: «io sarò presente».

    È pure l'abbreviazione dell'altro:
    «io sono colui che sono» (Es. 3, 14) e vuol dire: «certissimamente io sarò sempre presente e ti aiuterò;
    ma 'come' e 'quando' ti aiuterò lo decido io.
    Conta su di me».

    Il nome è un appello alla fede.
    Dio dette prova della sua presenza liberatrice:
    la prima grande prova fu l'Esodo;
    l'ultima prova ancora in corso è la venuta di Gesù Cristo, Emanuele, Dio con noi (Mt. 1, 23).

    Questo Dio riconosciuto e vissuto così nella vita concreta è il nucleo da cui parte tutta l'azione profetica.
    Ed è allo stesso tempo una nuova maniera di vedere l'uomo.

    Ecco perché i profeti, anche in mezzo alle più grandi disgrazie molte volte da loro stessi preannunziate, non perdono mai la speranza.
    Per quanto critico possa sembrare il loro intervento nella vita del popolo, il loro messaggio in fondo è sempre di speranza.

    La critica entra quando la forma concreta del vivere minaccia di rendere la vita così meschina da soffocare la speranza nel cuore del popolo e soprattutto nel cuore dei poveri.



    6. Al giorno d'oggi ci sono ancora i profeti?

    I profeti generalmente non 'si servono di un'etichetta né scrivono il loro nome di profeti sul biglietto da visita.


    Oggi il movimento profetico nella Chiesa e nel mondo è molto forte.
    La critica delle strutture e degli atteggiamenti anacronistici, che ormai non dicono più nulla, è in corso e chi le aprì le porte fu proprio il Concilio Vaticano II.

    Come al tempo della Bibbia, il movimento profetico oltre ad essere un movimento di fede all'interno del popolo eletto, era allo stesso tempo una corrente culturale che assunse dentro la Chiesa una dimensione di fede tutta particolare.

    Non sono soltanto i cristiani che criticano i comportamenti e le strutture oggigiorno incapaci di esprimere la vita che scaturisce e che incomincia.

    I cristiani stanno dentro a tutto questo e ne fanno parte orientandosi con la fede in Dio.

    Nella Chiesa di oggi troviamo gente che cerca di neutralizzare l'alienazione in cui si adagiano tanti cristiani, smarriti tra pratiche e osservanze che non sono più espressione di amicizia con Dio ma soltanto espressione di una ricerca ansiosa di sicurezza umana.

    Se si mantiene rigidamente la situazione di compromesso sia nella Chiesa che nella società, la colpa non è soltanto del popolo ma anche di quelli che esercitano l'autorità.
    Perciò la critica dei profeti ieri come oggi raggiunge chi ha nelle mani il potere.

    Anche Gesù fece lo stesso:
    criticò i farisei e i capi religiosi.
    Del popolo ebbe compassione come di pecore senza pastore.

    Per questo la missione profetica è una missione pericolosa, affatto piacevole per chi ne prende coscienza, come il profeta Amos ed Osea. Prima di parlare ci penserà due volte.

    Come Mosè (Es. 11-4, 13) e Geremia (Ger. 1, 6) cercherà ragioni e pretesti per sottrarsi a un compito così arduo.

    Ma ieri, come oggi, nonostante le proibizioni, i profeti continuano a parlare:
    «Dio lo vuole: chi potrà non parlare in nome di Lui? » (Am. 3, 8).



    SEGUE..


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    Pierino




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