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"Viaggiando" nella Bibbia..cosa si "Scopre"?..cosa dicono gli Esegeti?

Ultimo Aggiornamento: 27/06/2013 17:09
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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. VIII (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


Sapienza:

Ansia di vivere..
Necessità di morire..




3. Messaggio dei libri sapienziali

A chi legge i libri della sapienza, soprattutto quelli che contengono materiale più antico (Proverbi ed Ecclesiastico) viene spontaneo un'osservazione:
parlano poco di Dio e quasi soltanto parlano della vita.

E ancora:
la maggior parte di quello che vi è scritto poteva molto bene essere scoperto da chiunque si fosse messo a pensare un po' sulla vita.

Sembra proprio che non dicano niente di straordinario.
Trattano solo delle cose comuni e della vita quotidiana.

Perché si trovano nella Bibbia?
Perché Dio si dette pena di ispirare tali cose?

Nei libri sapienziali dell'Egitto e della Babilonia si leggono molte cose del genere, spesso anche più belle di quelle raccontate nella Bibbia.

Che senso ha tutto questo?

Il clima sapienziale determinava la mentalità e il modo di pensare del popolo, come ogni giorno accade alla mentalità scientifica.

Proprio in questa terra lavorata dalla sapienza, fu piantato il seme della Parola di Dio e germogliò l'albero della Rivelazione.

Passò molto tempo prima che i sapienti si accorgessero del valore della rivelazione, rispetto alla stessa sapienza.
E non per questo cessarono di essere uomini di fede.

Ma la fede non influiva affatto sulle fonti e sugli schemi della ricerca che la sapienza faceva circa il senso della vita.

Oggi un antropologo può essere un uomo di molta fede, ma la sua convinzione religiosa non influisce affatto sui principi della sua scienza.

A poco a poco però, a misura che la Sapienza prendeva coscienza dei limiti delle soluzioni da lei proposte ai problemi umani, si apriva sempre più alla Parola della Rivelazione, trasmessa dai profeti e dai sacerdoti e contenuta nei libri profetici e storici.

I sapienti incominciavano, così, ad accorgersi del valore della Rivelazione per la loro ricerca sulla vita e cominciavano a prendere la Parola di Dio come fattore e strumento per la scoperta della Sapienza.

Senza sacrificare i suoi principi logici, la Sapienza recepì una influenza molto profonda per opera dei profeti e dei sacerdoti che la aiutò ad orientare la riflessione sulla sua origine e sulla direzione da prendere.

Arrivò a scoprire in Dio l'origine e il fine ultimo di tutta la sapienza che governa la vita umana.

Non si trattava di un Dio qualunque, ma del Dio di Abramo, del Dio dei suoi padri che fin dall'inizio, aveva orientato la storia del popolo.

Lo stesso Dio che stava alla origine delle leggi e dei valori che regolano la vita.
Allora, tutto diventò trasparente.

La legge si identificava con la Sapienza.
Lo dice il salmo 118.
Il campo delle ricerche si allarga.

Non solo la vita presente, con i suoi problemi, merita di essere analizzata, ma anche la storia del passato, dove questo Dio ha lasciato le impronte della sua Sapienza.

Nei libri dell'Ecclesiastico (cap. 44-50) e della Sapienza (cap. 10-19) affiorano considerazioni sulla storia.

La storia, vista non già con gli occhi del profeta e del sacerdote, ma con gli occhi propri del popolo, che sono gli occhi segnati dalla mentalità della Sapienza.

Giovanni ne fa la sintesi nel prologo del suo Vangelo, dove dimostra che la Parola creatrice, all'origine della vita, è la stessa parola salvatrice, che guida la storia.
Tutte due hanno la stessa radice in Dio e trovano la loro espressione concreta in Gesù Cristo «parola incarnata» (Gv. 1, 1-14).

La scoperta di Dio origine e fine della Sapienza, illuminò di luce nuova gli antichi proverbi.
Ci appaiono come il primo gradino umile e semplice della lunga scala che dalla vita sale fino a Dio.

Perciò i libri sapienziali, contenuti nella Bibbia, testimoniano una visione ottimistica della vita:
per chi ha occhi per vedere, la vita e tutta la realtà possono diventare specchio di Dio.

Questi libri sono la testimonianza eterna che il luogo di incontro dell'uomo con Dio è nella vita, nel povero quotidiano, nelle cose che scaturiscono dalla più profonda esperienza umana.

Rivelano che il più grande valore di ogni uomo è possedere la vita che vive.

Sono un invito a non cercare Dio fuori della vita:
né nella candela,
né nella promessa,
né nel pellegrinaggio,
né nel rito o nella cerimonia,
ma anzitutto nella vita.

A partire dalla vita vissuta così, il rito, la cerimonia, la promessa e il pellegrinaggio possono acquistare un senso reale.
Sono sempre un appello a non lasciarsi mai vincere dalle contraddizioni della vita;
sono gli incroci lungo il cammino, che può portare fino a Dio.

Il senso è sempre lo stesso:
quel popolo crebbe, riflettendo sul significato della vita, e ne scoprì valori e non valori.

Li sintetizzò in proverbi e li comunicò agli altri, i quali, a loro volta, approfondirono le origini di questa esperienza e così, poco a poco, arrivarono fino a Dio, autore di tutto quello 'che avevano e che vivevano.

Per questo i libri posteriori sono più profondi e parlano di Dio più dei primi.
In tutti, però, si sente la stessa aderenza costante alla vita.

Come i libri storici e profetici registrano la marcia verso Dio, attraverso la storia, così i libri sapienziali registrano la marcia verso Dio, attraverso un progressivo approfondimento della vita.

Un cammino non si fa senza l'altro, si completano a vicenda.

Insomma, benché la sapienza degli Ebrei fosse sotto molti aspetti uguale a quella degli altri popoli, nella misura in cui cresceva la riflessione sulle loro origini, sorgevano le distanze.

La Parola, venuta dal di fuori, orientava la ricerca della Parola, nata dal di dentro.
Si spiega così l'originalità della Sapienza di questo popolo.
Non degenerò nel fatalismo e nel dualismo caratteristico dei sapienti degli altri popoli.

In breve, possiamo dire così:
nei libri della Sapienza parla la voce del popolo.
Il popolo che riflette sulla sua esperienza di vita.
Il popolo esprime il suo gusto di sapere e di vivere e rifiuta di essere sconfitto dalla vita.
Il popolo rivela tutta la sua smisurata ricchezza, la sua ricerca di Dio, il suo incontro con la verità.

Nel cammino della Sapienza, la Rivelazione divina non si realizza, per' così dire, dall'alto in basso, ma dal basso in alto.

Partendo dalle radici della vita, gli uomini sono risaliti, hanno scoperto il loro creatore e lo hanno adorato.

Lo stesso cammino potrebbe essere ripetuto, oggi, perché già una volta ha avuto successo far pensare il popolo, farlo riflettere, farlo parlare e dire quello che sente;

far partecipare il popolo in modo che trovi il suo cammino verso la Verità, verso Dio;
non imporre, ma orientare e «educare», lasciandolo scoprire da sé, la sua ricchezza, e la sua esperienza di vita.

Mettere il motore in moto e non trascinarlo a rimorchio, come si fa con chi non ha arbitrio né opinione propria.
Ricordare sempre che la sintesi finale nella storia della salvezza, contenuta nei libri dell'Ecclesiastico e in quello della Sapienza, fu fatta non con i criteri del clero, ma della Sapienza, cioè del popolo.

Con questa visione della storia della salvezza fu varcata la soglia del Nuovo Testamento.

Oggi diremmo:
fondere la verità rivelata con le categorie usate dal popolo e con le quali il popolo orienta e governa la sua vita, e non con le categorie del clero.
Sarebbe questa la più alta funzione del clero in mezzo al popolo.





4. Ansia di vivere - necessità di morire

Da quanto abbiamo potuto verificare fin qui, la caratteristica degli autori dei libri della Sapienza è data dalla loro riflessione sulla vita.

L'accento cade sul buon senso e sul realismo.
Per cui si capisce bene come il problema della morte (che mette fine alla vita) e della sofferenza (che rende difficile la vita) occupassero gran parte della riflessione dei sapienti.

Affrontano la morte con una mentalità realista.

Da principio l'ideale di vita era:
vivere tanti anni, avere tanti figli, vedere i nipoti.
La morte tranquilla del vecchio realizzato era il coronamento della esistenza.

Non c'era nessun altro problema.
La morte era accettata tranquillamente, come un dato che faceva parte della vita.
Diveniva interrogativo angoscioso quando appariva prematura e violenta, e stroncava la vita e lasciava incompiuta l'esistenza.
Questo accadeva spesso.

I Caino uccidevano gli Abele.
Perché?

Nel capitolo sul Paradiso terrestre abbiamo visto come l'autore, che faceva parte dei circoli dei sapienti, risolse il problema:
la morte violenta è entrata nel mondo, l'uomo uccide il fratello perché, prima di farlo, si era già separato da Dio.

Ma poco a poco, il problema riguarda la morte in se stessa, la morte che esige una spiegazione.
Perché l'uomo deve morire se in lui arde la volontà indomita di vivere e di vivere sempre?

Il motivo di questa nuova problematica deriva dal fatto che, coscientizzato dalla lunga e secolare riflessione sulla vita, ìl sapiente comincia ad assumere un atteggiamento critico di fronte alla realtà, e non è più disposto ad accettare le cose con la facilità di prima.

Inoltre, la riflessione sulla realtà della vita ha dimostrato che neppure una morte tranquilla, dopo una vita lunga e felice, può essere considerata naturale e non è la suprema realizzazione dell'uomo.

Il libro dell'Ecclesiaste} soprattutto, dette un passo enorme nella storia di questa riflessione.

Davanti allo spettacolo del presente, l'autore finì col non credere più a tutto ciò che si diceva nel passato (più o meno come oggi).
Niente più valeva la pena.
Tutto era «vanità», e vanità della vanità «cioè, in termini popolari la vita è una grande sciocchezza che non vale la pena di essere vissuta» ( Eccle. 1, 2).

Per lui la vita era un tormento, proprio a causa della morte.
A che serve lavorare tanto e ammazzarsi di stanchezza, se poi un giorno si deve morire e lasciare agli altri quello che avevi messo insieme; senza sapere che cosa faranno di quello che tu hai conquistato con tanta fatica? (Eccle. 2, 18-19).

«È uscito nudo dal ventre di sua madre, nudo, come è venuto, uscirà pure da questa vita e non porterà con sé nessuna ricompensa del suo lavoro» (Eccle. 5, 14).

Tutte le possibili soluzioni date al problema della vita vengono sottoposte ad una critica serrata.

In questo modo niente vale la pena, e, dopo la morte, non t'importa più di niente, «perché il destino degli uomini è come quello degli animali; li aspetta uno stesso fine.

La morte di uno è la morte dell'altro.
Tutti e due ricevettero lo stesso soffio di vita e il vantaggio dell'uomo sull'animale è nullo, perché tutto è vanità (sciocchezza).

Tutti camminano verso uno stesso destino; tutti escono dalla polvere e ritornano alla polvere.

Chi sa dire se il soffio della vita degli uomini sale verso l'alto e il soffio della vita dei bruti scende verso la terra? (Eccle.3, 19,21).

Nessuno sa quello che succederà dopo la vita, al momento della morte.
Con questa riflessione l'autore del libro Ecclesiaste si risvegliò all'ipotesi di un futuro dopo la morte.

Oh se esistesse davvero! Ma con la sua scettica ironia egli stesso uccise, subito dopo, la speranza di incontrare qualche cosa nell'Aldilà.
L'ansia di vivere è messa a faccia a faccia con la barriera di una vita senza senso e di una morte che le ruba ogni speranza.

A questo punto la Sapienza scopre i suoi limiti, sbarra in un problema senza soluzione.
Guidata solo dai risultati delle sue conclusioni empiriche, arriva necessariamente alla costatazione dell'assurdo.

Ma la disperazione dell'assurdo, provocata dall'Ecclesiaste, svegliò nell'uomo il bisogno di sapere di più sulla morte e sulla vita.

L'Ecclesiaste ha creato problemi, là dove, prima di lui, nessuno li incontrava (più o meno come i nostri contadini del Sud e delle isole; una volta coscientizzati sui problemi della loro vita, incominciano a vedere la realtà della loro situazione con altri occhi, e non l'accettano più come prima).





SEGUE..


una stretta di [SM=g1902224]


Pierino




contatto skype: missoltino 1
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