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"Viaggiando" nella Bibbia..cosa si "Scopre"?..cosa dicono gli Esegeti?

Ultimo Aggiornamento: 27/06/2013 17:09
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[SM=g6198] [SM=g6198] CAP. IX (seconda parte) [SM=g6198] [SM=g6198]


un prologo al libro di Giobbe:
il dramma di tutti noi





3. Il problema esistenziale che ha provocato il libro di Giobbe e che in esso si esprime.


Per molto tempo questa fu la situazione culturale del popolo:
viveva nella struttura tribale, in cui tutto era di tutti, in cui ciascuno partecipava al destino dell'altro, in cui tutti erano o poveri o ricchi, in cui non esisteva nessuna differenza, ma un grande senso di solidarietà sia nel bene come nel male.

A questo livello di cultura, era la cosa più naturale del mondo che uno soffrisse per il male commesso dall'altro (cf. Gios. 7, 1-26).

C'era anche un proverbio che diceva:
«i genitori hanno mangiato erbe amare, ma i denti dei figli si sono infiammati» (Ez.18, 2).

Inoltre, a quel tempo, non sapevano ancora niente sul futuro.. Credevano che, dopo la morte, il destino dei buoni e dei cattivi fosse identico (Eccle. 9, 1-2);
sarebbero sopravvissuti in un luogo detto Sheol, che, a loro modo di vedere, stava sottoterra.

Impregnato di questa cultura, il popolo tentò di dare una espressione alla sua fede in un Dio personale e giusto, che castiga i cattivi e premia i buoni; tutto il male del mondo deve essere considerato un castigo mandato da Dio.

Se tu stai soffrendo e sei giusto, la tua sofferenza è il castigo dei peccati e delle disobbedienze fatte da altri.

Se tu stai bene, la tua felicità è il premio di Dio per la giustizia tua e di altri.

Non arrivavano a pensare ad un premio o ad un castigo, dopo la morte.

Queste spiegazioni soddisfacevano il popolo e risolvevano il problema della sofferenza del giusto.

Si trattava di una spiegazione naturale, d'accordo con la cultura del tempo, l'unica da cui potevano ricevere l'idea della giustizia di Dio.

Ma quando il popolo nomade diventò agricoltore, si ebbero profondi cambiamenti.
La coscienza individuale crebbe.

Abitando in borgate ed in città, coltivando ciascuno il suo campicello, partecipando attivamente al commercio, superarono l'antico concetto della solidarietà nel bene e nel male.

Capirono che ciascuno riceve quello che ha piantato.
Il frutto del suo lavoro.
Non accettano più di soffrire per il male commesso da un altro;

il profeta Ezechiele cerca di esprimere la giustizia di Dio all'altezza dei nuovi concetti culturali (Ez. 18, 2 seg.);

Non si può più dire che Dio castiga i figli per i peccati dei genitori; ciascuno riceve da Dio quello che si è meritato.
Altrimenti, Dio sarebbe ingiusto.

Ma che succede?
Si cerca di esprimere nuovi concetti, usando il criterio di prima: il male è castigo di Dio.

Se tu soffri, e non soffri a causa dei peccati degli altri, resta una sola spiegazione:
tu soffri perché tu sei peccatore.

La ricchezza e la felicità sono segni della ricompensa divina:
il ricco è l'uomo giusto.

La povertà e la disgrazia sono segni del castigo divino:
il povero è il peccatore.

In questo modo la teologia cercò di salvare i dati della tradizione circa la giustizia divina.

Giobbe aveva ragione:
per difendere Dio, inventavano un sacco di bugie sulla vita umana (Giob. 13, 7-8).

Da tutto questo nacque il problema esistenziale che provocò il libro di Giobbe e che in esso si esprime.

Il libro traduce l'angoscia di un uomo che soffre.

La tradizione:
cioè tutta la struttura della vita organizzata, tutta la mentalità operante, lui stesso Giobbe, in quanto formato in questa mentalità, diceva:
sei un peccatore, sei un essere rigettato da Dio; la grandezza della tua sofferenza rivela la grandezza del tuo peccato.

Allo stesso tempo però la coscienza gli diceva:
io sono innocente (Giob. 6, 29):
Dio è crudele, trattandomi così (Giob. 31, 21).

Fa soffrire molto sentirsi rigettato da Qualcuno, che amavo tanto e che mi sono impegnato a servire con tutto il cuore (Giob. 16, 17).

Sembrava che Dio si fosse allontanato da Giobbe, perché era peccatore, mentre in realtà, Giobbe, scandagliando il suo cuore e facendo l'esame di coscienza, non trovava niente che potesse avere offeso Dio (Giob. 27, 5-6; 31, 1-40).

Perché Dio lo trattava così?
«Le freccie dell'Onnipotente mi hanno crivellato» (Giob. 6,4).

Nel suo cuore scoppia una rivolta contro Dio (Giob.23, 2).

E d'altra parte Giobbe crede nella giustizia di Dio.

Dio è giusto, più giusto dell'uomo.

Ci doveva essere, dunque, un motivo per cui Dio lo castigava così, trattandolo come un nemico (Giob. 19, 11).
Ma la coscienza gli diceva il contrario.

Chi aveva ragione:
Dio, così come la tradizione e lo stesso Giobbe lo concepivano, o la coscienza?

Qui stava la soluzione del problema che il libro di Giobbe si propone:
come fare per essere fedele alla coscienza e a Dio contemporaneamente?

Nell'esperienza dell'autore del libro di Giobbe la crisi collettiva del popolo, che si andava allargando e provocava in tutti una sensazione di malessere, scoppiò in una crisi personale.

Giobbe esprime con parole quello che, in modo vago, stava nel cuore di tutti.

Proprio per questo il libro possedeva una immensa forza di coscientizzazione.





4. La tecnica del dramma: far partecipare gli altri e portarli a scoprire


Il dramma ha la sua tecnica:
Giobbe e i suoi amici ignoravano quello che il pubblico già sapeva, perché non avevano ascoltato il prologo.

Il pubblico ha in mano il criterio per accompagnare e giudicare con esattezza gli argomenti usati dai personaggi del dramma, nell'impressionante ricerca del perché del dolore.

Nella discussione che ne seguì, Giobbe rappresenta la coscienza nuova che nasce, gli amici rappresentano la tradizione, che si preoccupa di difendere il valore ricevuto dagli antenati.

Il pubblico riconosce l'eco dei suoi desideri, sia in Giobbe che nei tre amici.

Giobbe rappresenta il pubblico, quando è tentato di ribellarsi alla situazione.

Gli amici rappresentano il pubblico, in quanto tutti vorrebbero andare dietro a quello che gli altri pensano, per non crearsi nuovi problemi.

Giobbe è amico del pubblico quando minaccia di smascherare uno schema di sicurezza tradizionale, che garantiva una certa pace, anche se fittizia; smaschera la falsità dietro cui l'uomo si nasconde.

Gli amici di Giobbe sono amici del pubblico in quanto rappresentano il dominio sulle coscienze, che ne impedisce la crescita; in quanto sono capaci, in nome di Dio e della tradizione, di «mettere all'asta l'orfano e vendere un amico» (Giob. 6, 27).

La discussione fra Giobbe e i tre amici è lenta e rivela l'uomo così com'è: fragile e orgoglioso, debole e superbo, ignorante e cosciente, indifeso e sicuro.

La riflessione del dramma cresce e va avanti; poi ritorna al punto di partenza.

Proprio come la discussione della vita:
lenta, dolorosa, va avanti e indietro, fino a che, là in fondo all'orizzonte, si accende una lucina, quanto basta per ravvivare la fiamma della speranza di un uomo come Giobbe, che soffre, disperato, perché secondo
la credenza dell'epoca, si considerava condannato da Dio, castigato per i suoi innumerevoli peccati, di cui però non aveva memoria né coscienza.

Il pubblico ha già capito che, nel caso di Giobbe, non si può applicare l'opinione tradizionale.

Ma Giobbe non lo sa affatto, e neppure i suoi tre amici; come Giobbe, tanta gente si trova nelle stesse condizioni.

Forse è proprio il caso di uno o di un altro che sta nella sala, assistendo allo spettacolo.

Applicare in questo modo, matematicamente, il criterio della tradizione, sarebbe partecipare alla più nera delle ingiustizie e delle menzogne.

Ma come confutare gli argomenti della tradizione?

Se lo propone l'autore del dramma, mettendo in scena Giobbe e i suoi tre amici.

La lotta di Giobbe consiste nello sfatare gli argomenti della tradizione, basandosi sulla testimonianza della sua coscienza;
Giobbe non ha chi lo difenda;
né la struttura, né la società.

Ha solo la testimonianza e la voce della sua coscienza.
Nient'altro.

Cionostante, man mano che la discussione cresce, la coscienza acquista vantaggio sulla tradizione e riduce gli argomenti presentati dai tre amici a «sentenze di cenere» (Giob. 13, 12) «gettate al vento» (Giob. 16, 3) «ingannatrici» (Giob. 6, 18).

«Dimostratemi che ho sbagliato e io mi azzittirò» (Giob. 6, 24).
« Voi siete gente molto furba.
Ma, proprio voi, ucciderete la Sapienza!
Anch'io ho una testa per pensare, come voi pensate.

Non sono affatto inferiore a voi.
Chi ignora quello che voi sapete?» (Giob. 12, 2-3).






5. Il fondo del problema: l'idea sbagliata che gli uomini hanno di Dio


L'autore non si limita a sfatare gli argomenti della tradizione.
Il problema è ben più profondo.

Non si tratta di dire solo quello che non è.
Bisogna trovare una via d'uscita, che ancora non si trova, con la semplice confutazione degli argomenti dell'altro.

Il vero problema si colloca ad un altro livello.

Il vero conflitto di Giobbe non è tanto con i tre amici o con la tradizione, ma è proprio con Dio!

«Quello che sapete voi lo so anche io, non sono inferiore a voi.
Ma io vorrei parlare coll'Onnipotente; vorrei discutere con Dio» (Giob. 13, 2-3).
« Voi non siete altro che impostori, medici che non servono a niente.

Almeno se stessero zitti, potrei scambiarli per sapienti... Per difendere Dio, dite un sacco di bugie.

Possibile che per difendere Dio sia indispensabile ingannare?

Voi avete su Dio idee preconcette.

Fate silenzio!
Lasciatemi in pace!
Voglio parlare anch'io!
Succeda quello che succeda.. Metto la mia vita nelle mie mani.

Se Dio vuole uccidermi non mi resta altra speranza, ma anche così voglio difendere la mia causa davanti a Lui.

Facendo questo sono già salvo, perché un empio non sarebbe ammesso alla sua presenza» (Giob. 13, 4-5, 7-8, 13-16).

Subito dopo, Giobbe si mette a discutere con Dio:
«allontana da me la tua mano, metti fine alla paura che ho della tua ira.

Chiamami e io ti risponderò; oppure lasciami parlare e tu mi risponderai.

Quali sono i peccati e gli sbagli che ho commesso?» (Giob. 13, 21-23).

Prima di incominciare a parlare, Giobbe aveva detto:
«Sono pronto a difendere la mia causa, perché so bene che la ragione è mia» (Giob. 13-18).

Il dramma è una specie di tribunale mascherato.
Imbastisce un processo, in cui compaiono Dio e l'uomo per misurare la loro ragione e risolvere il conflitto che li divide.

Giobbe vuole aprire un processo contro Dio, esporre le sue ragioni e difendere la sua causa (Giob. 23, 4), sicuro di essere assolto una volta per tutte (Giob. 23, 7).

Non bastano i pareri degli amici, né a favore né contro; Dio stesso dovrà pronunciare il giudizio fra Dio e gli uomini (Giob. 16, 21).

Con questo proposito Giobbe si allontana dagli amici, dalla società e da tutto ciò che prima determinava la sua vita.

Va per un cammino nuovo, temerario, un cammino solitario.
Si mette in marcia.

Per nessuna cosa al mondo lascerebbe insoluto il problema che lo affligge e che, essendo il problema di un uomo, diventa il problema della presenza di Dio nella vita degli uomini.

E Dio accetta la proposta di Giobbe.
La voce di Dio si fa udire in un lungo discorso sulla Sapienza divina, che riempie l'immensità della terra (Giob. cap. 38-41);
Giobbe ha interrogato Dio e gli ha esposto il problema della sua vita.
Adesso è Dio che interroga Giobbe:
«Cingiti i fianchi come un uomo, voglio interrogarti e tu mi risponderai» (Giob.
38, 3).

Segue la descrizione delle meraviglie dell'universo, pieno di tanti misteri, che Giobbe non conosce e non sa spiegare, ma che hanno tutti un senso e un fulcro comune, governato dalla Sapienza divina.

Alla fine del discorso, Giobbe trae questa conclusione:
«I miei orecchi avevano sentito parlare di Te, ma ora i miei occhi Ti hanno visto.
Per questo mi ritratto e mi pento, nella polvere e nella cenere» (Giob. 42, 5-6).

L'immagine di Dio, ricevuta dal passato, per aver sentito parlare di Dio, si frantuma in mille pezzi.

Nella mente di Giobbe nacque una nuova immagine di Dio, a partire dalla sua esperienza personale.

Giobbe vide una luce sull'orizzonte della vita.
La pace e la tranquillità ritornarono.

Il problema della vita non veniva da Dio, ma da una immagine falsa di Dio, che si era andata formando nella testa di Giobbe, per sentir parlare di Dio.

Abbattuta l'immagine falsa che gli veniva dal passato e dalla tradizione, Giobbe si ritrovò con Dio e squarciò un orizzonte nuovo di vita, per sé e per gli altri.

L'autore non dice chiaramente quale sia stata la soluzione trovata da Giobbe, ma offre al lettore e al pubblico tutti gli elementi perché essi stessi possano dedurre la conclusione a cui arrivò Giobbe.

Questa è la tecnica del dramma, la tecnica propria dei sapienti:
non si curano di dare una soluzione astratta; l'importante è che il lettore partecipi alla ricerca e arrivi, da sé, a scoprire la verità.

Il pubblico, il lettore sono chiamati a pensare e a riflettere, per vedere se riescono ad identificarsi con Giobbe e a scoprire, Ciascuno per conto suo, la soluzione che Giobbe scoperse.

Il dramma è finito.

Cala la tela.

Riappare il presentatore e pronuncia la sentenza:
gli amici di Giobbe hanno perduto la discussione.

Interpretando il pensiero di Dio, egli dice agli amici di Giobbe:
«voi non avete parlato bène di me, come il mio serve Giobbe» (Giob. 42, 7).

Difendendo con vecchi argomenti una posizione già superata, si sono resi colpevoli, e adesso devono chiedere perdono a Giobbe, che ha avuto il coraggio di affrontare Dio, la realtà, la tradizione, appoggiandosi solo alla testimonianza della sua coscienza (Giob. 42, 7-9).

Il presentatore conclude dicendo che Giobbe tornò ad essere felice, esprimendo così la pace interiore che ritorna quando ci si ritrova con Dio (Giob. 42, 10-17).






6. Conclusione


Il dramma rappresentato nel libro di Giobbe è la storia di una vita, è il risultato di un'esperienza e di una ricerca.

Ci viene offerto dall'autore come esempio di un cammino possibile a molti altri uomini, chiamati ad affrontare, come Giobbe, il mistero del dolore, abbattendo gli antichi preconcetti, che non reggono più al confronto con la realtà e al crescere di una coscienza nuova.

Giobbe e i suoi amici sono tutta l'umanità che cammina per la strada dolorosa della vita, discutendo insieme, curvi e umiliati, sotto il peso enorme della sofferenza.

Conflitto permanente tra rivelazione e realtà;
rivelazione, così come la intende la cultura umana;
realtà, così come si presenta in ogni epoca alla coscienza degli uomini, mettendo in discussione tutto quello che viene dal passato.

Anche oggi, la forza della coscienza sale sul palco della storia, su un monte di sterco, emarginata in mille modi, discute con i tre amici che difendono la posizione tradizionale e che usufruiscono del potere.

Il pubblico assiste al dramma, attraverso i giornali e la televisione.
La discussione procede lentamente, va avanti e indietro, ma nel complesso guadagna terreno:
la coscienza è più forte.

Alla fine, chi difendeva e conservava il vero valore della tradizione non erano i tre amici, ma lo stesso Giobbe, che inaugurò il cammino per un nuovo incontro con Dio, sbarrato dagli schemi della tradizione incarnata dai tre amici.

Il libro di Giobbe ha fatto cambiare tutta una teologia, ha fatto piazza pulita.

Ma non ha risolto il problema definitivamente.
Neppure pretendeva di farlo.

Voleva solo rimuovere una grossa pietra, che ostruiva il cammino.
E ci è riuscito.

I tre amici sono rimasti con le pive nel sacco.
Giobbe ha scoperto ed ha conservato il midollo della tradizione.

Il libro di Giobbe rivela e mostra quanto bisogno abbia il popolo di Dio di essere davvero criticato e contestato.

Giobbe non ebbe paura di battersi, quando si accorse che la coscienza non poteva accettare e assimilare la posizione tradizionale.

Escludere la possibilità della contestazione e della critica, o volerla incamminare e orientare, sarebbe come scavare la fossa alla posizione che si vuole difendere contro la critica.

Là dove la coscienza non è libera di esprimersi, lo si deve esigere, mettendo a tacere gli altri:
«Zitti tutti! Lasciatemi libero!
Voglio parlare!
Quello che voi sapete lo so anch'io.
Non sono affatto inferiore a Voi!» (Giob. 13.2).

I tre amici di oggi devono ricordarsi sempre che Dio, alla fine, dette ragione a Giobbe, perché aveva parlato bene di Dio, anche se tutti pensavano che avesse sbagliato.

Il libro di Giobbe rappresenta una grande apertura umana.

L'autore del libro, membro del popolo eletto, nasconde la sua esperienza col Dio del suo popolo dietro la figura leggendaria di Giobbe, che non apparteneva al popolo, ma era una figura internazionale.

Come quando un cristiano descrive la sua esperienza con Cristo, nascondendola sotto la figura ormai leggendaria di Gandhi.

Il libro di Giobbe esprime l'atteggiamento proprio della vita dei saggi.

La loro riflessione partiva dalla coscienza, dalla decisione di non farsi vincere dalla vita; il tema è sempre la vita e i suoi problemi.

L'obbiettivo e il metodo sono:
Non imporre, ma far pensare, far scoprire un cammino.
Nuova caratteristica è il realismo.
L'ambiente in cui si discute è il circolo di amici.

Sul palco, 5 persone: Giobbe, i tre amici e più tardi Eliù, il quarto amico giovane.

Una riunione di sapienti, una di quelle riunioni che si facevano sempre e dappertutto, per discutere i problemi della vita.

È difficile capire il libro di Giobbe, perché il linguaggio letterario è complicato e insolito alle nostre orecchie; ma il problema messo in discussione è così vicino a noi e così vissuto oggi che, nonostante la difficoltà di comunicazione causata dal linguaggio, la vita è più forte e rende possibile la vera comunicazione.





SEGUE..




una stretta di [SM=g1902224]


Pierino



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