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ANALISI DEL LIBRO" GESU' NON E' MAI ESISTITO" di Emilio Bossi - Analisi oggettiva del contenuto di tale libro.

Ultimo Aggiornamento: 27/09/2010 20:23
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I soli autori profani del suo tempo che fecero il suo nome — Flavio Giuseppe, Tacito, Svetonio
e Plinio — o furono interpolati e falsificati, come i primi due, o, come gli altri due, parlarono di
Cristo soltanto etimologicamente, per designare la superstizione che dal suo prese il nome ed i seguaci
della medesima; ed in ogni caso scrissero senza averlo conosciuto e senza rendersi garanti
della sua esistenza, molto tempo dopo e in cenni fuggevoli che, come dimostreremo, stanno a provare
piuttosto ch'egli non è mai esistito

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Forse il nostro caro Bossi dimentica di citare oltre ai “profani” da lui evidenziati anche..
Giustino Martire nacque verso il 70 dc morto nel 165
Talmud metà del II secolo
Tertulliano 150 fino al 220
Eusebio di Cesarea (scritto ad Adriano) 265 morì nel 340
Marco Aurelio (imperatore) 121 morì nel 180
Plubio Lentulo contemporaneo di Gesù
Petronio 14 morì suicida nel 66
Arriano 95 morì nel 175
Galeno 129 al 216
Luciano di Samostata 120 morì nel 186
Celso, tramite Origene II secolo
Origene 185 morì nel 254
Lo stesso discorso lo possiamo girare nei confronti di Socrate(visto che è stato citato inizialmente), quali basi abbiamo per credere nell’autenticità degli scritti dei suoi discepoli?, anche gli storici contemporanei fanno citazioni di personaggi mai conosciuti, appoggiandosi sulle documentazioni più vicine al personaggio, anche in questo passaggio il Bossi è stato un Tautologo, se gli scrittori posteriori agli avvenimenti non possono garantire la veridicità dell’esistenza come possono i loro scritti dimostrare che non è mai esistito?.





Tutti quelli da te citati, come si vede dalle date da te inserite, sono nati ben dopo lo svolgersi dei fatti, quindi non sono certamente testimoni "oculari", ma dei "passaparola".



Gli unici due meritevoli di attenzione: del primo si dice la lettera in questione è chiaramente un falso, del secondo non sono riuscito a trovare dove e come parli di Gesù, se mi puoi aiutare te ne sarò grato.




Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
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La Lettera di Publio Lentulo è un apocrifo del Nuovo Testamento scritto probabilmente in greco ma pervenutoci in latino e verosimilmente in epoca medievale. È attribuita a un certo (e inesistente) Publio Lentulo "governatore della Giudea" e predecessore di Ponzio Pilato.

Rappresenta un rapporto che il governatore avrebbe inviato all'imperatore Tiberio. In essa si parla diffusamente di Gesù Cristo, lodandone la sapienza e i miracoli e descrivendone anche l'aspetto fisico.

Critica [modifica]
Secondo il parere di tutti gli storici si tratta di un falso di epoca posteriore. Il testo infatti non è credibile per diversi motivi:

Non è mai esistito un Publio Lentulo che abbia governato la Giudea. Per altro, secondo il Vangelo di Luca, Ponzio Pilato era già in carica quando Gesù iniziò la sua vita pubblica (Lc 3, 1-2).
Il tono della lettera è esageratamente entusiastico. Inoltre un romano non avrebbe mai utilizzato espressioni come "figli dell'uomo" e "profeta di verità", che appartengono al linguaggio semitico.
Il presunto Lentulo si firma "governatore della Giudea", mentre il titolo corretto era quello di "procuratore".
La data in calce alla lettera ("indizione settima, luna undicesima") non ha alcun senso. L'indizione come metodo di computo degli anni non era in uso prima di Costantino, inoltre essa indica un periodo di 15 anni, per cui Lentulo avrebbe dovuto specificare anche l'anno. Un romano poi non avrebbe mai usato l'espressione "luna undicesima", ma "mese di novembre" (vedi Calendario romano).
La datazione di questa lettera non è certa. Secondo la Catholic Encyclopedia, i primi documenti che la citano sono alcuni scritti tedeschi della fine del XV secolo: viene asserito che la lettera fu ritrovata nel 1421 da un certo Giacomo Colonna, in un documento proveniente da Costantinopoli. Essa era scritta in latino, ma probabilmente tradotta da un originale greco. Lo storico ottocentesco Friederich Münter ritiene che possa risalire all'epoca di Diocleziano (circa l'anno 300), ma la maggioranza degli storici non lo ammette: in genere si suppone che la sua origine sia medievale.

Non si sa se esista ancora la lettera originale; alcuni siti internet affermano che essa sia attualmente in possesso di certi "signori Cesarini di Roma", ma non risulta che sia mai stata esaminata dagli storici.

La descrizione fisica di Gesù contenuta nella lettera corrisponde all'iconografia tradizionale: Gesù sarebbe stato di statura media, con la barba e i capelli lunghi. La lettera aggiunge che il volto di Gesù sarebbe stato di particolare bellezza e i suoi capelli del colore "della nocciola matura".

PETRONIO

L'identità dello scrittore [modifica]
Tacito, nei suoi Annali XVI, 18-19, parla diffusamente di un certo C. Petronius, senza per altro fare alcun riferimento a lui come autore del Satyricon.

« Soleva egli trascorrere il giorno dormendo, la notte negli affari o negli svaghi; la vita sfaccendata gli aveva dato fama, come ad altri l'acquista un'operosità solerte; e lo si giudicava non un gaudente e uno scialacquatore, come la maggior parte di coloro che dilapidano il loro patrimonio, ma un uomo di lusso raffinato. Le sue parole e le sue azioni, quanto più erano libere da convenzioni e ostentavano una certa sprezzatura, tanto maggior simpatia acquistavano con la loro parvenza di naturalezza. Come proconsole in Bitinia tuttavia, e poi come console, egli seppe mostrarsi energico e all'altezza dei suoi compiti. Tornato poi alle sue viziose abitudini (o erano forse simulazione di vizi?) venne accolto tra i pochi intimi di Nerone, come maestro di raffinatezze, nulla stimando Nerone divertente o voluttoso, nello sfarzo della sua corte, se non avesse prima ottenuto l'approvazione di Petronio. Di qui l'odio di Tigellino, che in Petronio vedeva un rivale a lui anteposto per la consumata esperienza dei piaceri. Egli si volge quindi a eccitare la crudeltà del principe, di fronte alla quale ogni altra passione cedeva; accusa Petronio di amicizia con Scevino, dopo aver indotto con denaro un servo a denunciarlo, e avergli tolto ogni mezzo di difesa col trarre in arresto la maggior parte dei suoi schiavi »


Segue la descrizione della sua morte:

« In quei giorni Nerone si era spinto in Campania, e Petronio, spintosi fino a Cuma, venne qui trattenuto. Egli non sopportò di restare oltre sospeso tra la speranza e il timore; non volle tuttavia rinunciare precipitosamente alla vita; si tagliò le vene e poi le fasciò, come il capriccio gli suggeriva, aprendosele poi nuovamente e intrattenendo gli amici su temi non certo severi o tali che potessero acquistargli fama di rigida fermezza. A sua volta li ascoltava dire non teorie sull'immortalità dell'anima o massime di filosofi, ma poesie leggere e versi d'amore. Quanto agli schiavi, ad alcuni fece distribuire doni, ad altri frustate. Andò a pranzo e si assopì, volendo che la sua morte, pur imposta, avesse l'apparenza di un fortuito trapasso. Al testamento non aggiunse, come la maggior parte dei condannati, codicilli adulatori per Nerone o Tigellino e alcun altro potente; fece invece una particolareggiata narrazione delle scandalose nefandezze del principe, citando i nomi dei suoi amanti, delle sue donnacce e la singolarità delle sue perversioni: poi, sigillatolo, lo inviò a Nerone. Spezzò quindi il sigillo, per evitare che servisse a rovinare altre persone »
(Traduzione di A. Rindi, Milano 1965)

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